Poiché si prospetta come assai probabile che nel futuro i piani concordatari saranno redatti con la tecnica della continuità, diventerà fondamentale la comprensione da parte del tribunale del meccanismo, tutt’altro che agile, disegnato nell’art. 120-quater CCII per assicurare anche ai soci una partecipazione alla distribuzione del valore.
Sino all’entrata in vigore del Codice della crisi si poteva (forse) postulare che nei concordati fondati su piani di continuità diretta vi fosse uno spazio per non destinare tutto il patrimonio del debitore ai creditori, ma sappiamo bene che il dogma espresso dall’art. 2740 c.c. in tema di responsabilità patrimoniale era assai arduo da scardinare
[203]. Nella giurisprudenza di merito vi erano stati alcuni tentativi di riconoscere che il valore generato dalla prosecuzione dell’attività d’impresa potesse essere reputato un valore estraneo al perimetro del patrimonio del debitore e come tale distribuibile senza dover rispettare la cascata dei pagamenti quale prevista nell’art. 111 L. fall. e nelle disposizioni del Codice civile in materia di ordine delle cause di prelazione
[204], ma è ben noto che la maggioranza della dottrina si era espressa in modo contrario e che, più in generale, il giudice di legittimità aveva abbracciato la tesi della vigenza nel nostro ordinamento della regola della c.d. priorità assoluta (più nota nella sua terminologia anglosassone “
absolute priority rule” e nel suo corrispondente acronimo APR)
[205].
Una volta che si fosse ritenuto che l’intero patrimonio dovesse essere assegnato ai creditori, per logica conseguenza il socio non poteva aspirare a ricevere alcunché dalla liquidazione se non, proprio, quando dal ricavato della liquidazione si fossero ricavate risorse adeguate per soddisfare completamente i creditori e sì, in tal caso, i soci avrebbero rivestito il ruolo di
residual claimants, quali creditori di ultimo rango
[206].
Non solo. Ai soci nulla poteva essere attribuito, ma parimenti marginale era il loro ruolo sull’assetto corporativo; difatti, se è ben vero che per oltre sessant’anni ci siamo, tutti, concentrati sul principio della neutralità organizzativa societaria in caso di apertura della procedura concorsuale
[207], i poteri dei soci, formalmente non pregiudicati, erano drasticamente compressi dal fatto che tutte le deliberazioni societarie - ad eccezione di quella relativa alla formulazione della proposta di concordato fallimentare (quando ciò fosse stato stabilito in sede di statuto societario) - potevano assumere efficacia soltanto se non incidevano sugli sviluppi delle procedure e sulle determinazioni degli organi. In tal senso se è vero che nulla impediva, durante la procedura di fallimento, che i soci deliberassero una operazione straordinaria, tuttavia, nessun effetto di questa poteva sovrapporsi alla gestione della procedura e così l’esperienza pratica non ci ha consegnato vicende societarie di questo tenore
[208].
La situazione è certamente mutata nel 2005 quando l’innovazione inserita nell’art. 160 L. fall., relativa alla possibilità di pianificare il concordato preventivo (ed in verità, anche quello fallimentare) mediante qualunque forma, anche comprensiva di operazioni societarie straordinarie
[209], ha avvicinato il diritto societario al diritto della crisi. Ciò nondimeno, se è vero che a poco a poco i soci hanno iniziato ad assumere un ruolo maggiormente partecipativo nelle operazioni di ristrutturazione, i rigori della legge non consentivano eccessivi passi avanti nell’affermazione dei loro diritti e poteri. Che fosse giunto il momento di superare il paradigma della neutralità organizzativa rispetto agli scenari di crisi era una ipotesi auspicabile
[210] ed il legislatore l’ha percorsa persino nella liquidazione giudiziale (basti leggere l’art. 264 CCII)
[211].
Il salto di qualità sul ruolo dei soci deriva dalla scelta del legislatore domestico di sposare una regola distributiva (all’italiana, o ibrida)
[212] che premia più categorie di creditori e, infine, i soci: le regole di distribuzione “obliqua” del valore, ossia una distribuzione verticale solo sul valore di liquidazione e poi una distribuzione degradante ma in misura non rigidamente verticale sul valore eccedente
[213].
Quando si pensa al tema della distribuzione del valore viene a galla la novità costituita dalla previsione della proposta concorrente dei soci che, al fondo, non sono quindi espropriati totalmente (del potere di governare la crisi) potendo, in caso di disaccordo con l’organo amministrativo, deliberare la presentazione di una proposta diversa che li possa meglio tutelare
[214]. È chiaro che una proposta che provenga dai soci sarà ragionevolmente fondata proprio sulla previsione nel piano di concordato di attribuzioni di valore ai soci maggiori di quanto previste nella proposta della società
[215].
Proprio la previsione delle classi dei soci e in un qualche modo la riconduzione del loro ruolo su un piano parallelo a quello dei creditori
[216] induce a ritenere che vi sia un sostanziale assorbimento della società nell’impresa; è, come dire, che la società (con tutti i diritti corporativi) diviene un valore dell’impresa
[217], e così i soci sono visti più come investitori/finanziatori che come proprietari
[218].
La contesa sul valore dell’impresa generato dalla ristrutturazione concordataria si rivela essere la luce che illumina l’idea sul ruolo dei soci, in quanto proprio l’art. 120
quater mostra emblematicamente che i soci possono beneficiare del (o meglio, possono partecipare al) risultato della ristrutturazione
[219].
Abbiamo, così, posto sommariamente le basi sulle quali innestare la discussione sul valore della ristrutturazione cui i soci possono ambire e ciò senza mettere in campo il tema del valore da intendersi come qualcosa di diverso dallo
shareholders value e cioè il valore dettato dalla collocazione dell’impresa nella società
[220].
Il tribunale è chiamato a porsi il problema della distribuzione del valore ai soci non per tutti i tipi di concordato preventivo
[221] [222]; infatti, il principio espresso nell’art. 120
quater presuppone che vi sia una cascata dei pagamenti secondo il criterio della
relative priority rule[223] il che comporta che non possa trovare applicazione la norma in questione né al concordato preventivo con piano di liquidazione
[224] (né al concordato preventivo transtipico, né al concordato semplificato perché in ognuno di questi casi vale, solo, la regola dell’ordine di distribuzione verticale delle risorse, posto che non si può attribuire alcunché ad un creditore sino a che non è stato interamente soddisfatto il creditore di rango o di livello più elevato). Ne consegue che l’art. 120
quater ha uno spazio di applicazione limitato al concordato preventivo che si fondi su un piano di continuità dell’attività aziendale
[225].
A questo punto si tratta di verificare se non ricorra una ulteriore frammentazione e cioè se la disposizione resti utilizzabile solo quando la continuità prescinda da una diversa allocazione dei complessi aziendali. Più precisamente, dobbiamo verificare se sia possibile ipotizzare che un valore venga attribuito ai soci nel caso della c.d. continuità indiretta.
L’art. 84 CCII fornisce una descrizione dei possibili piani concordatari e specifica che la continuità può essere tanto diretta quanto indiretta (cfr., comma 2). Questa distinzione, tanto concettuale che pragmatica e operativa tende a dissolversi perché in linea di massima il regime disciplinare è omogeneo e, in particolare, le norme di favore sembrano potersi invocare anche per la continuità indiretta
[226]. Pertanto, da un punto di vista formale l’art. 120-
quater potrebbe riferirsi anche alla continuità indiretta, ma questa potenziale conclusione va subito revocata in dubbio
[227] posto che è necessario valutare in concreto se sia realizzabile una continuità indiretta a supporto di una proposta che conservi una quota di valore in capo ai soci e la risposta sarà tendenzialmente negativa
[228], salvo qualche sporadico caso pratico.
Dalla Direttiva 2019/1023 ricaviamo gli spunti per sostenere che può esistere un interesse sostanziale dei soci alla riorganizzazione-ristrutturativa e tale valutazione astratta può trovare una giustificazione concreta le quante volte ci si avveda che una partecipazione pro-attiva dei soci sia l’occasione per riuscire a confezionare una proposta diretta ai creditori migliore di quella prospettabile senza un loro coinvolgimento. Infatti, se anche si può ritenere parzialmente superato il vessillo del miglior soddisfacimento dei creditori
[229], sostituito dal paradigma nuovo della “assenza di pregiudizio”, resta fermo il fatto che l’operazione concordataria ha come destinatari immediati i creditori visto il chiaro enunciato contenuto nell’art. 84 CCII.
Ed allora, proprio per assecondare l’obiettivo di una (non massima ma) adeguata tutela dei creditori può accadere che siano i soci ad offrire un valore aggiunto all’operazione di ristrutturazione: quando vi è un apporto dei soci diviene giustificato il fatto che una porzione del valore additivo della ristrutturazione possa essere anche a loro riconosciuto e proprio l’ipotesi della attribuzione di valore concorre a giustificare l’assenza di una lesione effettiva del diritto primordiale di proprietà
[230]. Abbiamo detto una porzione, però, perché il risultato dell’operazione concordataria non può risolversi in un risanamento patrimoniale e finanziario dell’impresa debitrice accollato interamente sui creditori
[231].
Va, a questo proposito, evidenziata la differente terminologia che il legislatore e la dottrina utilizzano, di volta in volta, per indicare diverse configurazioni di “valore” nel concordato preventivo tra loro concettualmente differenti.
Il valore risultante dalla ristrutturazione cui si riferisce l’art. 120-
quater è una grandezza assoluta che corrisponde al valore effettivo dell’azienda al momento dell’omologazione del concordato, al netto dell’indebitamento concorsuale e operativo. Questo valore non coincide affatto con quello di “valore eccedente il valore di liquidazione”, o “plusvalore da continuità”
[232], assoggettabile alla
relative priority rule, che è invece calcolato come differenza tra i flussi finanziarti netti prodotti dalla gestione nell’arco di piano, a servizio dell’indebitamento concorsuale, e il valore di liquidazione. Quest’ultimo, com’è noto, è rappresentato dal valore astrattamente disponibile per i creditori concorsuali in caso di liquidazione giudiziale e costituisce il punto di riferimento per la soddisfazione dei creditori in base all’APR
[233].
“Valore risultante dalla ristrutturazione” e “valore eccedente il valore di liquidazione” sono pertanto due grandezze concettualmente diverse, e ben potrà applicarsi la disciplina dell’art. 120-quater anche in presenza di un ingente plusvalore da continuità che renda la proposta di concordato molto più conveniente per i creditori rispetto all’alternativa liquidatoria: di queste due grandezze dovrà, dunque, fare “tesoro” il giudice nel verificare il rispetto delle attribuzioni.
Il valore che viene attribuito ai soci deve essere, prima di tutto, proporzionato e cioè da un lato commisurato all’effettivo incremento di valore che deriva dal loro pro-attivismo e dall’altro lato commisurato al fatto che non può essere superiore a quanto viene assegnato ai creditori.
È in questo pertugio, più o meno stretto, che deve innestarsi il tema della individuazione del valore
[234].
Va, ancora, segnalato come la norma contenuta nell’art. 120 quater riguardi esclusivamente i soci originari, possessori di una quota di capitale al momento della presentazione della domanda di concordato, mentre la regola non si applica a coloro che divengano soci in esecuzione del concordato, in occasione della sua omologazione o successivamente ad essa.
Mentre non pare sussistano dubbi sull’ingresso di nuovi soci attraverso aumenti di capitale in denaro o in natura, più incerta è l’ipotesi che i nuovi soci subentrino ai soci originari attraverso l’acquisto delle loro partecipazioni. A quest’ultima fattispecie, sebbene la partecipazione originaria sia trasferita in conformità al piano e in esecuzione del concordato, la disciplina dell’art. 120 quater dovrebbe comunque applicarsi.
È, poi, necessario rispondere all’interrogativo se in un piano di continuità diretta, ipotizzandone un esito virtuoso con soddisfazione dei creditori nella misura promessa, si possa ammettere che un valore sia assente. Questo interrogativo si allaccia con una sorta di postulato-conseguenza: se valore finale non c’è, non v’è ragione per cui i soci non debbano rimanere i titolari del capitale perché non si approprierebbero di nulla.
Per meglio comprendere il senso di questo discorso è utile far capo al principio espresso nell’art. 117 CCII in base al quale il concordato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori. Con l’omologazione il credito concorsuale viene conformato in base alla proposta concordataria e i creditori possono pretendere solo quanto è stato a loro promesso, con la conseguenza che l’impresa - e per quelle che qui interessa, la società - è esdebitata rispetto ai precedenti debiti per la quota non oggetto della conformazione.
In termini strettamente giuridici, con l’omologazione avremo una società libera dal debito in eccesso, ritornata
in bonis, che starà sul mercato con patrimonio netto positivo
[235] e che tuttavia potrebbe - a fine piano - non trovarsi in equilibrio per effetto delle nuove obbligazioni contratte
post omologazione in quanto rispetto a queste l’equilibrio potrebbe essere conseguito successivamente. In ogni caso, fermo che stiamo dissertando di un esercizio virtuoso del concordato con risanamento dell’impresa, ad un certo punto ci troveremo di fronte ad una società risanata e questa società risanata avrà un patrimonio netto positivo (e, nel caso di società di capitali, superiore al minimo di legge) ed esprimerà un valore economico perché le azioni o le quote di questa società potranno essere oggetto di trasferimento. In termini, ancora una volta giuridici, non riusciamo a comprendere in base a quale ragionamento si possa sostenere che all’esito della ristrutturazione la società risanata possa non avere un valore anche perché, se non vi fosse valore, al rovescio, dovremmo concludere che la società non è stata risanata
[236].
Anche se il capitale economico della società risanata dovrà avere, già al momento dell’omologazione del concordato, un valore positivo
[237] ciò non implica che tale valore debba essere necessariamente riservato ai soci.
Ci si riferisce, in particolare, non tanto al calcolo algebrico previsto dal comma 2 dell’art. 120-quater in ragione della deduzione degli apporti dei soci, di cui si dirà tra poco, quanto alla possibilità che il piano e la proposta prevedano congiuntamente che, attraverso opportune modifiche statutarie, il valore risultante dalla ristrutturazione sia interamente devoluto ai creditori, o a singole classi di essi, attraverso l’azzeramento del capitale e la sua ricostituzione attraverso la conversione in capitale dei loro crediti, o attraverso l’assegnazione ai creditori stessi di azioni o di warrant che ne consentano l’integrale trasferimento, anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione dei soci esistenti e con la loro sostanziale esclusione.
Questa soluzione è oggi molto rara nella prassi ma potrebbe trovare più ampia applicazione in futuro, proprio in forza del combinato disposto degli artt. 120
bis e 120
quater CCII. Appare evidente, peraltro, che la modificazione dei diritti di partecipazione dei soci comporterebbe il necessario classamento dei soci stessi ai sensi dell’art. 120
ter, con le conseguenze e le criticità che ne deriverebbero in termini di articolazione della proposta e di soddisfacimento previsto per ciascuna classe
[238].
L’art. 120
quater CCII al comma 2 prevede che dal valore di quanto viene attribuito ai soci si debba detrarre quale è stato il loro apporto nelle forme più varie. Il significato della disposizione ci appare chiaro: l’uso del termine “eventualmente” deve intendersi nel senso che i soci non sono tenuti a fornire apporti per agevolare la ristrutturazione dei debiti ma, se li forniscono, il valore aziendale a loro riservato dovrà essere valutato al netto degli apporti stessi
[239].
Il valore rilevante ai fini della disciplina ex art. 120 quater potrà quindi ricavarsi come il risultato della somma algebrica del valore del capitale economico dell’azienda a cui andrà sottratto il valore eventualmente apportato dai soci in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto.
L’esplicita necessità di un nesso causale tra gli apporti dei soci e la ristrutturazione del debito implica che possano essere certamente computati sia i conferimenti di capitale previsti dal piano ed effettuati in esecuzione del concordato, sia quelli eseguiti in corso di concordato, successivamente alla presentazione del ricorso ex art. 40 CCII.
Più incerta è, invece, la possibilità di dedurre i conferimenti e i versamenti a fondo perduto effettuati anteriormente alla domanda di concordato. Sebbene la norma non preveda un criterio temporale per gli apporti dei soci, appare evidente come conferimenti e finanziamenti a fondo perduto effettuati molto tempo prima della presentazione del ricorso ex art. 40 potrebbero avere un debole legame funzionale, o non averlo affatto, con la ristrutturazione in corso.
Di notevolissima difficoltà appare, peraltro, la valutazione dei conferimenti di prestazioni d’opera e di servizi da parte del socio, in ragione della loro instabilità futura e dell’incertezza sulla loro quantificazione: tali conferimenti sono ipotizzabili solo per società di dimensioni limitate (quelle che presentano un attivo fino a euro cinque milioni, che producono ricavi netti delle vendite e delle prestazioni fino a euro dieci milioni e assorbono un numero medio di dipendenti nell’ultimo esercizio non superiore a cinquanta).
Fatte queste precisazioni di cornice, ci accostiamo al vero tasto bollente, quello della determinazione del valore, perché è su questo che si deve concentrare l’esame del tribunale.
L’art. 120
quater CCII dice con chiarezza che la questione del valore riservato/attribuito ai soci può sorgere in sede di giudizio di omologazione allorquando la proposta del debitore non abbia raccolto il voto unanime delle classi
[240]. In assenza del consenso unanime (per classi) se ricorrono le condizioni per la c.d. ristrutturazione trasversale (art. 112 CCII) il debitore può chiedere l’omologazione quando ricorrono determinate circostanze (comma 2); ma se una parte del valore è attribuito anche ai soci, al tribunale è rimesso il compito di operare quel confronto comparativo che è indicato nell’art. 120
quater e che va ad aggiungersi alle valutazioni di cui all’art. 112
[241].
Benché sia tema da indagare in occasione della omologazione, riteniamo che la questione del valore attribuito ai soci debba essere rappresentato ai creditori sin dalla presentazione della proposta e comunque prima del voto ex art. 107 CCII: ciò, al fine di consentire ai creditori di esprimere un consenso informato. I creditori debbono sapere che il sacrificio che è loro imposto è, anche, accompagnato da una riserva di valore attribuito ai soci e non ai creditori. Costoro ben possono avere interesse a che ciò accada perché la proposta concordataria potrebbe essere notevolmente migliore dell’alternativa liquidatoria; tuttavia, è necessario che i creditori siano in grado di conoscere l’ulteriore sacrificio che è loro imposto nel momento in cui una parte di ciò che potrebbe essere a loro destinato venga, viceversa, dirottato verso i soci. Pertanto, è necessario che la proposta finale ai creditori specifichi quale sia il valore attribuito ai soci. Resta da stabilire, peraltro, a chi spetti la sua valutazione.
Sul punto, pare evidente che sia compito del debitore fornire adeguata evidenza del valore che resterà riservato ai soci. Considerata la complessità della valutazione e gli elementi di inevitabile soggettività che lo caratterizzano
[242], è senz’altro opportuno che tale stima di valore sia affidata a un professionista terzo, dotato di adeguata competenza e indipendenza. Posto che la determinazione del valore riservato ai soci rileverà solo in caso di dissenso di almeno una classe di creditori, non si ritiene invece che sia richiesto alcuno specifico giudizio al professionista indipendente chiamato ad attestare la veridicità dei dati di partenza e la fattibilità del piano concordatario e a formulare un giudizio sulla sua adeguatezza a consentire l’adempimento della proposta concordataria
[243].
Il calcolo del valore è esercizio estremamente complesso
[244] in quanto la norma utilizza la locuzione “valore effettivo”
[245], ma questa è del tutto anodina e costringe l’interprete a prendere in esame in modo approfondito i principi delle scienze aziendalistiche.
Il valore effettivo risultante dalla ristrutturazione potrà così essere determinato in base alle metodologie di valutazione più adeguate alla struttura aziendale e al
business di riferimento, che tengano conto delle passività aziendali, ristrutturate anche grazie all’effetto esdebitatorio del concordato, e dei flussi finanziari destinati al loro servizio
[246]. Sebbene non sia possibile individuare
a priori un metodo valutativo universalmente adeguato, è comunque necessario che esso consideri quali criteri-base di valutazione, perlomeno: (a) quale termine di riferimento della valutazione, la (presumibile) data di omologazione del concordato; (b) quali flussi economici e finanziari di riferimento, quelli previsti dal piano di concordato; (c) un adeguato
terminal value, definito come il valore finale che, sinteticamente, rappresenti la capacità dell’azienda di generare flussi di cassa oltre il termine finale del piano
[247]. La tessitura normativa di recente conio ci viene in aiuto perché il valore effettivo è determinato in conformità ai principi contabili applicabili per la determinazione del valore d’uso, sulla base del valore attuale dei flussi finanziari futuri utilizzando i dati risultanti dal piano di cui all’articolo 87 CCII ed estrapolando le proiezioni per gli anni successivi.
V’è da chiedersi, infine, come questo valore effettivo sia contendibile; nell’esperienza nordamericana la contesa sul valore è gestita in modo diverso - ma comunque tale da offrire ai soci le opportunità per “godere” entro certi limiti del nuovo valore generato dalla ristrutturazione
[248] - perché ai soci si attribuisce una
call option sulle azioni della stessa società, opzione da esercitarsi ad un prezzo fisso (
strike price) a partire da un certo momento. L’esercizio dell’opzione si risolve in una sorta di riacquisto da parte del socio della società, ma ad un prezzo calmierato
[249]. Nel sistema che risulta dall’art. 120
quater non vi è questa soluzione in termini formali, ma siamo convinti che ricorra in termini sostanziali, quanto meno ogni volta che almeno una classe risulti dissenziente
[250].
La questione del valore attribuito ai soci può venire in rilievo in diversi momenti della procedura di concordato.
Il primo momento è costituito dalla valutazione affidata al tribunale in occasione della apertura della procedura ai sensi dell’art. 47 CCII.
Il tribunale è chiamato ad esaminare la ritualità della proposta e qualunque latitudine di approfondimento si voglia assegnare alla nozione di ritualità, riteniamo che non vi sia alcuno spazio per predicare che il tribunale possa dichiarare inammissibile la proposta perché non è indicato il valore attribuito ai soci
[251] posto che questo vizio non pertiene né al profilo del soddisfacimento dei creditori né al profilo della conservazione dei valori aziendali
[252]. Parimenti, si può postulare che neppure se ne debba occupare l’attestatore
[253].
Sennonché, il tribunale può far “marciare” il concordato se l’approvazione che viene richiesta ai creditori si possa esprimere su informazioni ampie, dettagliate e trasparenti. In questa prospettiva siamo convinti che, invece, nella nozione di ritualità vada ricompresa la verifica del
set informativo offerto alla valutazione dei creditori perché il debitore deve, sempre, osservare e rispettare i principi fondamentali espressi nell’art. 4, comma 2, lett. a), CCII che evocano, proprio, una condotta trasparente. Sebbene la questione del valore divenga rilevante solo in presenza del dissenso di una o più classi, riteniamo che il commissario giudiziale nella relazione debba esporre quanto sarebbe il valore per i soci
[254] e ciò perché l’ostensione del valore deve precedere la votazione
[255].
Di certo, il tribunale è chiamato ad esprimersi sulla questione al momento della omologazione ma in questa fase occorre suggerire alcune distinzioni. Se tutte le classi hanno espresso il consenso a favore della proposta il tribunale non può sindacare quanto pesano le attribuzioni riservate ai soci rispetto alla misura del soddisfacimento dei creditori e tuttavia, poiché è opinione del tutto condivisa che in sede di omologazione possano essere replicati tutti i controlli che il tribunale effettua in occasione della apertura (v., supra), nulla impedirebbe al giudice di sindacare i difetti di informazione e di trasparenza che vengono prima della approvazione unanime perché, appunto, inquinano la valenza del voto espresso.
Quando, invece, vi sia anche una sola classe dissenziente, si introduce un meccanismo di sindacato sulla dimensione della proposta e sulla distribuzione del valore tra creditori e soci.
La regola fissata nell’art. 120
quater CCII non è, proprio, adamantina
[256] ed è necessario distinguere a seconda che il dissenso si sviluppi tra le classi intermedie oppure rispetto all’ultima classe prima di quella dei soci.
Nella prima ipotesi, e cioè nel dissenso di una (o più) classe intermedia(e), per verificare che non vi sia un ingiusto pregiudizio il tribunale deve attribuire virtualmente alle classi di rango subordinato rispetto a quella dissenziente l’intero valore attribuito ai soci; se pur attribuendo tale valore il trattamento della classe dissenziente resta più soddisfacente non si crea il pregiudizio rilevante. Questo vuol dire che il valore attribuito ai soci viene “ceduto”
[257] virtualmente dalla classe di livello inferiore a quella che ha espresso il dissenso.
Ci si consenta un esempio numerico, per meglio comprendere il complesso meccanismo di calcolo previsto dalla norma.
Si ipotizzi che il valore riservato ai soci ammonti a 50 mila euro.
Si ipotizzi altresì che la classe dissenziente A1 comprenda creditori per un ammontare complessivo di 100 mila euro, che la proposta concordataria ipotizza di soddisfare nella misura del 12%.
Si ipotizzi infine che la classe consenziente B1, di rango immediatamente inferiore alla classe A1, comprenda creditori per un ammontare complessivo di 2 milioni di euro, che la proposta concordataria ipotizza di soddisfare nella misura dell’8%. I flussi destinati alla classe B1, secondo la proposta, ammontano quindi ad euro 160 mila, pari all’8% di 2 milioni di euro.
In base al meccanismo di calcolo proposto dal comma 2 dell’art. 120 quater, il valore riservato ai soci (50 mila euro) andrebbe computato alla classe B1 alla quale andrebbe quindi virtualmente destinato un pagamento complessivo di euro (50.000+160.000) = 210.000 che corrisponderebbe a un grado di soddisfazione, per la medesima classe B1, del 10,50% (210.000/2.000.000). La percentuale di soddisfacimento della classe B1, così ricalcolata, sarebbe comunque inferiore al grado di soddisfazione della classe dissenziente A1 (12%). A un risultato completamente diverso porterebbe invece il medesimo calcolo qualora l’ammontare dei crediti inclusi nella classe B1, a parità di trattamento percentuale, fosse minore: ad esempio, pari a un milione di euro. In questo caso, risparmiandoci lo sviluppo del calcolo, il grado di soddisfacimento della classe B1 sarebbe del 13% risultando così superiore a quello della classe dissenziente A1 e impedendo così l’omologazione del concordato.
Analoghe modalità di calcolo andrebbero adottate qualora, nell’esempio che precede, le classi A1 e B1 fossero di pari rango con l’ovvia constatazione che, in presenza di un valore riservato ai soci, in nessun caso sarà possibile l’omologazione del concordato quando la classe dissenziente riceva ab origine un trattamento pari o inferiore a quello delle classi di pari rango.
La situazione si complica se il dissenso è stato espresso da più classi con intermedie classi consenzienti, posto che in questo caso la comparazione si effettua sul quoziente proporzionale di ripartizione
[258].
Nell’ipotesi in cui non vi siano classi di creditori pari o inferiori alla classe dissenziente il confronto va operato tra quanto riceve l’ultima classe e quanto ricevono i soci, e l’omologazione può intervenire soltanto se il valore complessivo assegnato ai soci è inferiore al valore complessivo assegnato alla classe contraria. Questo significa che il valore rilevante è un valore assoluto
[259] e non percentuale.
Richiamando l’esempio precedente, qualora non vi siano classi di creditori di rango pari o inferiore alla classe dissenziente A1, il valore destinato al soddisfacimento dei creditori di questa classe, pari ad euro (100.000*12%) = 12.000 sarà inferiore al valore di euro 50.000 complessivamente destinato ai soci impedendo così l’omologazione del concordato.
Il problema che ci pare emergere è dato, proprio, dal valore assoluto; infatti, se è ragionevole presumere che l’ultima classe riceva poco in termini percentuali, ciò non significa affatto che in termini assoluti essa riceva una distribuzione marginale. Pensiamo all’ipotesi, non scolastica, in cui il debitore abbia confezionato un’unica classe di creditori chirografari destinatari di un quoziente distributivo assai ridotto (immaginiamo il 3%) ma estremamente elevato in termini assoluti perché il “monte-crediti” chirografario vale, ad esempio, un miliardo di euro. Il 3% di un miliardo di euro vale pur sempre trenta milioni di euro il che vorrebbe dire che - se dissente l’ultima classe - ai soci può essere attribuito un valore di 29,99 milioni di euro
[260], con l’unica accortezza che la distribuzione potrà riguardare solo il valore differenziale rispetto a quello di liquidazione
[261].
Una proposta di questo tenore appare, dunque, perfettamente omologabile ai sensi dell’art. 120 quater sebbene ciascuno dei creditori possa proporre reclamo lamentando il difetto di convenienza, ma se davvero il valore fosse frutto della continuità e dunque non fosse recuperabile in uno scenario liquidatorio, il test di convenienza sarebbe sfavorevole al creditore reclamante.
Le criticità sopra evidenziate ci spingono a trovare possibili vie di uscita da soluzioni che appaiono sproporzionate. Da una parte è comprensibile che in una operazione ristrutturativa che consente all’impresa di rimanere nel mercato, là dove vi sia una concreta partecipazione dei soci questi possano risultare destinatari di una parte del valore finale. Ma per converso, dobbiamo ricordare che discutiamo di uno scenario di crisi nella quale si concretizzano perdite per i creditori e, anche in una logica di analisi economica del diritto, dobbiamo ricercare soluzioni equilibrate che spingano i soci a favorire la ristrutturazione e non solo ad avvantaggiarsi dell’esdebitazione concordataria.
La soluzione che possiamo prospettare è quella di ragionare proattivamente sul valore della società risanata per individuare quale potrebbe essere il valore differenziale costituito dall’arricchimento patrimoniale generato dalla continuità e non solo dall’effetto esdebitatorio. In tal caso, infatti, i creditori non avrebbero ragione di dolersi perché quel valore differenziale non sarebbe stato altrimenti conseguibile.
Va tuttavia considerato che l’attuale impianto normativo, stanti i differenti presupposti, non consente di disapplicare l’art. 120 quater neppure in presenza di proposte concordatarie manifestamente più convenienti rispetto all’alternativa liquidatoria, essendo ben possibile e legittimo che una classe di creditori risulti dissenziente anche in questa circostanza.
Ciò comporta che la gestione del valore attribuito ai soci rappresenterà in ogni caso una sorta di “Spada di Damocle” sul capo degli amministratori che intendano confezionare un piano e una proposta di concordato in continuità aziendale che riservi una quota del valore finale ai soci, senza avere la certezza a priori che tale proposta possa riscuotere l’unanimità dei consensi.
A bene vedere, allora, le difficoltà di giudizio del tribunale potranno risultare, in parte, assorbite da un utilizzo virtuoso e cioè di bilanciamento di interessi tra creditori e soci ad opera dell’organo amministrativo.