Saggio
Il valore di liquidazione alla luce delle prime pronunce di merito*
Alessandro Turchi, Dottore Commercialista in Milano
11 Dicembre 2023
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Sommario:
Il requisito previsto dalla lettera c) della predetta disposizione costituisce il fulcro del piano concordatario, poiché il valore di liquidazione del patrimonio in ipotesi di liquidazione giudiziale, da determinarsi alla data della domanda di concordato, oltre a rappresentare il parametro di base per verificare che il soddisfacimento dei creditori non sia inferiore a quello realizzabile in caso di liquidazione giudiziale[1], delimita, in ipotesi di continuità aziendale, il perimetro applicativo della regola della priorità assoluta nella distribuzione dell’attivo[2], ai sensi dell’art. 84, comma 6, CCII[3]. Il valore di liquidazione, inoltre, offre al singolo creditore il diritto individuale di sindacare un potenziale pregiudizio del proprio credito, mediante l’opposizione all’omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale[4].
Sebbene il valore di liquidazione rappresenti lo snodo fondamentale per una corretta utilizzazione dello strumento concordatario, il Codice della crisi non ne ha fornito una chiara definizione. La ragionevole necessità di una specifica definizione di valore di liquidazione si rinviene non solo nella centralità assunta da tale nozione nel sistema delle regole distributive, ma anche nel rischio che l’utilizzo di espressioni simili in altre disposizioni del Codice della crisi possa generare dubbi ed incertezze applicative. Si pensi, a titolo esemplificativo, al concetto di “valore generato dal piano”, di cui all’art. 64 bis CCII dettato in materia di piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, oppure al “valore risultante dalla ristrutturazione” contenuto nell’art. 120 quater CCII in tema di trattamento da riservare ai soci.
Si consideri, infine, che il valore di liquidazione indicato dal debitore nel piano non deve necessariamente basarsi, in considerazione del dato letterale dell’art. 87 CCII, su una relazione attestativa ad hoc. Ne discende che la correttezza con cui sia stato calcolato il valore di liquidazione rappresenta uno degli aspetti su cui sarà tenuto ad esprimersi il professionista attestatore con la propria relazione attestativa di fattibilità, salva ovviamente la facoltà del debitore di integrarla con una collaterale relazione redatta da un altro esperto stimatore avente specificatamente ad oggetto l’identificazione del valore di liquidazione. La quantificazione del valore di liquidazione effettuata dal debitore o da un terzo estimatore sarà poi sottoposta al vaglio del commissario giudiziale[5].
Il raffronto tra la misura di soddisfacimento prevista nella proposta concordataria e quella ricavabile nell’alternativo scenario dell’apertura della liquidazione giudiziale presuppone l’identificazione e determinazione della somma ripartibile a favore di ciascun creditore sulla base dell’attivo ottenibile in tale scenario liquidatorio, che corrisponde al valore di liquidazione da indicarsi nel piano ai sensi dell’art. 87, comma 1, lt. c) CCII. Da ciò discende la funzione comparativa assunta dal valore di liquidazione ex art. 87, comma 1, lt. c) CCII[10].
L’art. 84, comma 6, CCII puntualizza che nel “concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione”. Pertanto, il valore di liquidazione costituisce il perimetro applicativo della regola della priorità assoluta nella distribuzione dell’attivo. Come opportunamente osservato[13], per “valore di liquidazione” deve intendersi il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale, da indicarsi nel piano, ai sensi dell’art. 87, comma 1, lt. c) CCII. Tale identificazione, infatti, non pare dubitabile non soltanto per la corrispondenza terminologica, bensì anche per la coerenza della disposizione con il principio sancito dal primo comma dell’art. 84, secondo cui il trattamento dei creditori non può essere inferiore a quello realizzabile nella liquidazione giudiziale[14].
Sebbene il legislatore non specifichi espressamente le modalità di distribuzione del valore di liquidazione nell’ambito del concordato liquidatorio, è ragionevole ritenere che il criterio applicativo rimanga quello della absolute priority rule. Ciò si desume indirettamente dall’art. 84, comma 4, CCII, il quale, in relazione al concordato con cessione dei beni, ammette come unica deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c., quindi alla graduazione secondo la regola della priorità assoluta, la distribuzione da effettuare con le “risorse esterne” provenienti dai soci[15], purché sia rispettato il requisito del 20% del soddisfacimento dei creditori chirografari e dei creditori privilegiati degradati per incapienza[16]. Ne discende che soltanto le risorse esterne possono essere distribuite in deroga alla regola della priorità assoluta, mentre le altre risorse devono essere distribuite secondo il rigido rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione.
L’art. 84, comma 6, non soltanto definisce le regole di distribuzione del valore di liquidazione, bensì anche quelle afferenti al “valore eccedente quello di liquidazione”. Come noto, la distinzione tra i due valori è rilevante ai fini delle regole di distribuzione: sino alla concorrenza del valore di liquidazione la distribuzione dovrà avvenire nel rispetto della regola della priorità assoluta, mentre per l’eccedenza potrà trovare applicazione la relative priroty rule[17]. Infatti, con riferimento al valore eccedete quelle di liquidazione, il legislatore attribuisce al debitore che presenta una domanda di concordato in continuità aziendale la facoltà (e non l’obbligo) di distribuzione secondo la regola della priorità relativa, per cui “è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”.
In tema di determinazione di tale valore e del conseguente sistema delle regole distributive, è difficilmente opinabile, quantomeno in applicazione di un criterio logico, ritenere che il valore eccedente quello di liquidazione sia rappresentato da quanto realizzabile nel concordato dopo la presentazione della relativa domanda per effetto della prosecuzione dell’attività, al netto degli oneri e costi inerenti a tale attività. Si tratta, in altre parole, del c.d. surplus da continuità, che si aggiunge al patrimonio concordatario del debitore staticamente fotografato alla data della domanda di concordato. Discussa, invece, è la questione se nella determinazione del valore eccedente quello di liquidazione debba essere incluso tutto ciò che è ritraibile dalla continuità diretta, comprese le (eventuali) maggiori somme, rispetto al valore di realizzo loro attribuito in sede di determinazione del valore di liquidazione, conseguite dalla vendita di beni non funzionali. Si tratta, in altri termini, di definire se gli esiti della liquidazione di specifici beni dovrebbero o meno risultare rilevanti rispetto alla preventiva determinazione del valore di liquidazione, con la conseguenza di una diversa applicazione delle regole di distribuzione su tale maggiore valore[18]. Come osservato da autorevole dottrina, stante l’identità del realizzo del cespite anche in caso di liquidazione giudiziale[19], lo stesso rimarrà governato dall’absolute priority rule, senza che possa influire l’eventuale maggiore flusso rispetto al valore di liquidazione preventivamente stimato[20]. Ne discende che il maggior ricavato degli attivi aziendali da liquidare deve essere distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione affinché le aspettative dei creditori non subiscano un pregiudizio in conseguenza dell’omologazione della proposta concordataria. Ciò in quanto, in caso di liquidazione giudiziale, che rappresenta il parametro di riferimento ai fini del giudizio di convenienza della proposta, i creditori avrebbe avuto diritto ad una distribuzione integrale del ricavato[21].
Una questione altrettanto complessa concerne l’eventuale eccedenza dei flussi di cassa effettivamente prodotti dal debitore in esecuzione del piano rispetto al valore determinato in sede di predisposizione della proposta concordataria. Si tratta, in altre parole, di definire (i) se i maggiori flussi di cassa siano vincolati, e quindi oggetto di distribuzione, a favore dei creditori e (ii), in caso di risposta affermativa, se siano distribuibili secondo la regola della priorità relativa. Da un lato, è ragionevole ritenere che con la proposta di concordato il debitore non abbia assunto dei vincoli distributivi su tali maggiori flussi di cassa. Dall’altro lato, tuttavia, il legislatore non parla di valore eccedente la liquidazione prevista nel piano di concordato, bensì di valore eccedente la liquidazione tout court. Considerando, inoltre, che il debitore risponde delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, ne discende che, secondo il dato letterale della norma, non è da escludere che vi siano vincoli distributivi anche sui flussi di cassa eccedenti. Come osservato da autorevole dottrina[22], il valore dell’azienda in continuità è quello determinato nel piano di concordato, ossia quello stimato dal debitore e, pertanto, in base ad esso sarà formulata la proposta e assunto il vincolo proprio della promessa concordataria, essendo irrilevanti eventuali differenze tra la stima e il valore riscontrato nel concreto (sottostime e sovrastime del valore della continuità), purché non venga leso il canone del “miglior soddisfacimento”, inteso nell’accezione della Direttiva UE 2019/1023[23]. L’eventuale differenza rilevata nel flusso di continuità potrebbe, infatti, essere anche frutto di investimenti futuri, non previsti nel piano, oltre che di risultati più satisfattivi, ferma l’invarianza degli investimenti originariamente previsti. Come opportunamente osservato in dottrina, il tema è ulteriormente complicato dalla circostanza che tale plusvalore, se non viene distribuito ai creditori, finisce quasi sempre per avvantaggiare i soci, incrociando le disposizioni di cui all’art. 120 quater CCII. Sebbene la norma disciplini l’ipotesi in cui il piano preveda di riservare ai soci il valore risultante dalla distribuzione e non, come nel caso di flussi di cassa eccedenti, un valore in origine non previsto, non si può escludere a priori, anche in applicazione dei principi che governano la responsabilità patrimoniale del debitore, che i creditori anteriori non possano vantare pretese su tale plusvalore imprevisto generato dal debitore, che ha proseguito la propria attività anche grazie al parziale sacrificio delle ragioni di tali stessi creditori[24].
Il tema della qualificazione del valore eccedente quello di liquidazione assume caratteristiche peculiari nell’ambito delle proposte di concordato in continuità aziendale indiretta. È pacificamente riconosciuto che la continuità indiretta, sul piano concettuale, costituisce una fattispecie di carattere liquidatorio; altrettanto condiviso è l’assunto per cui la sua collocazione, sul piano della disciplina, nel versante della continuità assolve all’esigenza di evitare l’imposizione del soddisfacimento dei creditori chirografari e di quelli privilegiati degradati per incapienza dell’attivo nella misura minima del 20%. Premesso ciò, secondo autorevole dottrina, nell’ambito della continuità indiretta, il valore eccedente è rappresentato dai canoni di affitto dell’azienda o dal corrispettivo della sua alienazione in going concern[25]. A parere dello scrivente, in caso di continuità indiretta, il valore eccedente (sul quale si può applicare la regola della priorità relativa) è costituito unicamente dall’eventuale maggior valore ritraibile dalla vendita dell’azienda in esercizio rispetto a quello ritraibile dalla vendita in sede di liquidazione giudiziale ed esercizio provvisorio (sul quale quindi si applica la regola della priorità assoluta), come opportunamente calcolato (v. paragrafo 5). Allo stesso modo, con riferimento agli eventuali canoni di affitto dell’azienda, il valore eccedente comprende unicamente i canoni di affitto che potrebbero essere ulteriormente realizzati dal debitore rispetto ad un ipotetico curatore nell’ipotesi di apertura della liquidazione giudiziale. L’aspetto dirimente di una siffatta conclusione concerne la dimostrazione della creazione di un plusvalore derivante dalla vendita dell’azienda in esercizio rispetto a quello ritraibile dalla vendita in sede di liquidazione giudiziale ed esercizio provvisorio; si tratta di un esercizio tutt’altro che agevole, ma che deve essere condotto in modo assai rigoroso al fine di evitare possibili abusi. Si potrebbe riscontrare, a titolo esemplificativo, una proposta di concordato in continuità aziendale nella quale il debitore prima della domanda di concordato e in funzione della stessa abbia concesso in affitto l’azienda ad un terzo per un periodo pari a tre anni, con contestuale impegno all’acquisto alla conclusione del contratto, condizionatamente all’omologazione del concordato, ad un prezzo di cessione maggiore rispetto al valore di liquidazione stimato. In tal caso, ai fini delle regole distributive del patrimonio si pongono due questioni: (i) il prezzo di cessione offerto, che è maggiore rispetto al valore di liquidazione stimato e (ii) i canoni di affitto incassati dal debitore per l’intera durata del contratto. Quanto al punto sub (i), a parere dello scrivente, affinché si possa ritenere che il maggior valore tra il prezzo di cessione offerto e il valore di liquidazione sia distribuibile in applicazione della regola della priorità relativa occorre che il debitore dimostri in modo rigoroso le ragioni per le quali la prosecuzione dell’attività d’impresa (ad opera di un terzo) consenta di generare un plusvalore rispetto alla alternativa della liquidazione giudiziale. Il valore eccedente, infatti, tiene conto della maggiore valorizzazione delle poste attive nella loro dinamicità e nell’ottica di prosecuzione dei rapporti commerciali, ancorché da parte di un terzo, il quale apporterà le proprie azioni strategiche volte a migliorare il risultato operativo. Diversamente, si ritiene che il valore che debba essere necessariamente assunto a riferimento ai fini dell’applicazione della regola più rigida della priorità assoluta sia il (maggiore) prezzo offerto dal terzo. Allo stesso modo, quanto al punto sub (ii) al fine di qualificare l’attivo derivante dai canoni di affitto d’azienda, al netto dei costi che continuano a gravare sulla società, che possa essere utilizzato dal debitore secondo la regola della priorità relativa, occorre stimare nell’ipotesi di liquidazione giudiziale, nell’ambito della quale la curatela decida ragionevolmente di proseguire il contratto di affitto, i tempi di cessione dell’azienda e, conseguentemente, i canoni che la procedura potrebbe incassare sino all’aggiudicazione definitiva. Soltanto la differenza dell’attivo derivante dai canoni di affitto previsti nella proposta del debitore e la stima degli stessi nello scenario liquidatorio ipotizzando una prosecuzione del contratto d’affitto da parte della curatela, rappresenta, a parere dello scrivente, un valore eccedente quello di liquidazione e, come tale, distribuibile secondo la regola della priorità relativa; i canoni che, invece, potrebbero ragionevolmente costituire attivo anche nell’ipotesi alternativa della liquidazione giudiziale, con prosecuzione del contratto di affitto sino alla aggiudicazione dell’azienda, devono essere qualificati come valore di liquidazione e, in quanto tali, distribuiti secondo la regola della priorità assoluta.
Pare ragionevole ritenere che ai fini della determinazione del valore di liquidazione in ipotesi di proposta concordataria avanzata da una società di persone, si debba comprendere anche il valore del patrimonio dei soci illimitatamente responsabili poiché, dovendo determinare il valore in caso di liquidazione giudiziale, si deve tenere conto delle specifiche disposizioni dettate per tale tipologia di società.
La soluzione opposta, che esclude dal valore di liquidazione sociale il valore del patrimonio dei soci illimitatamente responsabili, potrebbe consentire l’esdebitazione, ai sensi dell’art. 117, comma 2, CCII[26], anche qualora la proposta offrisse ai creditori chirografari un trattamento non deteriore rispetto alla ipotesi di liquidazione giudiziale del solo patrimonio sociale, pur a fronte di una consistenza patrimoniale dei soci idonea a soddisfare in misura integrale, o comunque maggiore, i creditori.
A seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 83/2022 si è posta la questione se la “finanza esterna” nella accezione di “apporto neutrale del terzo”, come definita dalla S.C. nelle pronunce nell’ambito della previgente legge fallimentare, possa ritenersi di libera distribuzione, ovvero se tali valori debbano comunque essere computati al fine di verificare il rispetto complessivo della regola di priorità relativa nel concordato in continuità aziendale. Ciò in quanto la nozione di finanza esterna emersa dall’orientamento consolidato della S. Corte è stata travasata nel Codice della crisi espressamente solo con riferimento al concordato liquidatorio. Il Codice della crisi, infatti, fornisce una definizione di risorse esterne soltanto con riferimento al concordato liquidatorio, disciplinato dall’art. 84, comma 4, CCII. Ai sensi di quest’ultimo, “Si considerano esterne le risorse apportate a qualunque titolo dai soci senza obbligo di restituzione o con vincolo di postergazione, di cui il piano prevede la diretta destinazione a vantaggio dei creditori concorsuali” e, in quanto tali, una volta rispettata la soglia del 20%, possono essere distribuite anche in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c. Nel concordato in continuità aziendale, invece, non si rinviene alcuna definizione di risorse esterne[29], facendo così emergere il dubbio se tali valori debbano essere computati al fine di verificare il rispetto complessivo della regola di priorità relativa nel concordato in continuità aziendale, ovvero se possano essere utilizzati liberamente.
Come osservato da autorevole dottrina, la circostanza che le risorse esterne siano state espressamente contemplate dal legislatore soltanto nel concordato liquidatorio, non significa che esse costituiscano un asset estraneo al concordato in continuità aziendale e neppure che in tale tipologia concordataria esse non siano liberamente distribuibili in deroga ai principi della responsabilità patrimoniale del debitore[30]. Infatti, la nozione di risorse esterne è di origine giurisprudenziale ed è stata travasata espressamente nel solo concordato liquidatorio in quanto è soltanto in tale tipologia concordataria che l’apporto di risorse esterne non è solo un evento accidentale, bensì rappresenta sempre un requisito indefettibile di ammissibilità. Nel concordato in continuità aziendale, invece, l’apporto di risorse esterne non è un fattore determinante e neppure un elemento necessario ed indefettibile ai fini dell’ammissibilità. Ne discende che le risorse esterne, nel concordato in continuità, possono esservi o mancare e, quando presenti, possono essere distribuite interamente in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c.[31].
Ai fini della determinazione del valore di liquidazione si rende necessario determinare il valore dei beni del debitore sulla base di criteri che sarebbero adottabili nell’ipotesi (alternativa) della liquidazione giudiziale. Ne discende la necessità di identificare il più probabile valore di realizzo dei singoli beni nella prospettiva della liquidazione atomistica o il più probabile valore di realizzo dell’azienda (o di singoli rami) sia in una prospettiva dinamica di prosecuzione (meramente conservativa e transitoria) dell’attività da parte del curatore mediante l’esercizio provvisorio ex art. 211 CCII[32] sia, qualora quest’ultima non sia praticabile, in una prospettiva statica.
Come autorevolmente osservato, poiché nella liquidazione giudiziale è prevista anche una provvisoria continuazione dell’esercizio dell’impresa, va preferita l’interpretazione secondo la quale nel valore di liquidazione debba essere compreso anche il risultato netto (patrimonio dinamico) di un possibile esercizio provvisorio[33]. Ne discende, pertanto, che il valore di liquidazione giudiziale dovrebbe essere determinato avuto riguardo all’azienda quale universitas e non ai singoli beni di cui si compone[34], sebbene la Direttiva UE 2019/1023 menzioni i due criteri come alternativi[35]. Tuttavia, la scelta preferenziale dell’art. 214, primo comma, CCII induce ad optare per una considerazione unitaria e non atomistica dei beni. Ciò, tuttavia, non significa che il valore in esercizio provvisorio deve necessariamente rappresentare il parametro di riferimento ai fini del calcolo del valore di liquidazione giudiziale poiché costituisce una evenienza scarsamente ricorrente nella prassi e non può, pertanto, divenire criterio di applicazione generale[36].
In termini pratici, ai fini della determinazione del valore di liquidazione occorre calarsi nel ruolo di curatore della relativa liquidazione giudiziale, aperta ipoteticamente alla medesima data di presentazione del concordato, abbandonare lo scenario concordatario e i relativi benefici evidenziati nel piano in continuità, con le relative azioni strategiche finalizzate ad ottenere un incremento dei ricavi o una riduzione dei costi e, più in generale, una maggiore valorizzazione delle poste attive derivanti dalla prospettiva di continuità resa possibile dalla prosecuzione dei rapporti commerciali, grazie anche all’intervento di soci o terzi finanziatori. Pertanto, la determinazione del valore di liquidazione deve fondarsi su una prospettiva dinamica, che privilegi l’ipotesi di vendita unitaria dell’azienda nello stato di fatto in cui si trova e, pertanto, in assenza di interventi di ristrutturazione. Inoltre, le valutazioni dovrebbero essere uniformate non già ai principi di redazione del bilancio di cui all’art. 2423 bis c.c., che prevedono che siano effettuate nell’ottica della continuazione dell’attività (c.d. going concern), ma a criteri di liquidazione, Ciò in quanto la procedura di liquidazione giudiziale è finalizzata a liquidare l’attivo (seppure con la preferenza a salvaguardare l’organismo produttivo) e, pertanto, l’impresa (in esercizio provvisorio) non potrebbe comunque essere considerata alla stregua di un’entità in funzionamento in grado di operare per un prevedibile arco temporale futuro[37].
A favore della conclusione per cui nella determinazione del valore di liquidazione si debba tenere conto della possibilità di disporre l’esercizio provvisorio, milita anche la considerazione per cui il debitore, approcciandosi ad un concordato in continuità aziendale, si presume che abbia ancora a disposizione un’azienda o un ramo di essa in grado di funzionare e produrre valore; pertanto, se si ritiene che sussista una qualche utilità alla prosecuzione dell’attività nell’ambito concordatario, sarebbe illogico non valorizzare il complesso aziendale in esercizio. D’altronde, l’esercizio provvisorio è istituto poco utilizzato anche per la difficoltà del tribunale e del curatore di valutare, con l’indispensabile rapidità, se vi siano i presupposti per darvi corso. Tuttavia, se alla liquidazione giudiziale si giunge in esito ad una proposta di concordato in continuità che non abbia avuto esito positivo, tali difficoltà dovrebbero essere decisamente attenuate. Da qui la conclusione per cui nella determinazione del valore di liquidazione si deve tenere conto della possibilità di disporre l’esercizio provvisorio, quantomeno in via potenziale, potendo essere escluso soltanto se, con motivato e convincente assunto, si dimostri che tale istituto non possa essere proficuamente attuato[38]. E questo, a maggior ragione, qualora siano state formulate offerte di acquisto dell’azienda funzionante.
Infine, un aspetto dirimente nella definizione delle modalità di calcolo del valore di liquidazione è rappresentato dal computo o meno dei potenziali crediti derivanti dall’esercizio di azioni risarcitorie e recuperatorie, nonché di azioni di inefficacia e revocatorie ex artt. 163 e seguenti CCII. Tema che si pone considerando altresì che il legislatore ha formalmente tenuto distinto dal valore di liquidazione, menzionato alla lettera c) dell’art. 87 CCII, le azioni risarcitorie e recuperatorie, nonché quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, richiamate invece nella lettera h) della medesima disposizione[39]. Sul tema appare condiviso che nel valore di liquidazione debbano essere compresi anche i crediti, al netto dei costi di realizzo, derivanti da azioni risarcitorie e recuperatorie, tenendo conto del potenziale successo e realizzo delle stesse, come opportunamente richiesto dal legislatore. Dibattuta, invece, appare l’inclusione nel valore di liquidazione delle azioni proponibili solo nel caso di apertura della liquidazione giudiziale. Secondo un filone dottrinale, tali azioni, non essendo esercitabili nell’ambito del concordato preventivo, non costituiscono un asset concordatario e, pertanto, non sarebbero da includere nel valore di liquidazione. L’indicazione delle azioni revocatorie e delle altre azioni esercitabili solo nella liquidazione giudiziale assolverebbe unicamente una funzione di supporto alla valutazione di convenienza del concordato, mentre il valore di liquidazione dovrebbe essere destinato a misurare unicamente il valore degli asset ricompresi nell’attivo patrimoniale distribuibile ai creditori concordatari, al netto dell’eventuale surplus da continuità e da eventuali apporti gratuiti provenienti da terzi[40]. Secondo altro filone dottrinale, farebbero parte del valore di liquidazione anche gli attivi che potrebbero derivare da azioni revocatorie, poiché l’art. 84, comma 1, CCII chiarisce che con il concordato è necessario garantire il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile nella liquidazione giudiziale. Pertanto, se la comparazione deve essere fatta con tale ipotesi alternativa, sarebbe pacifico che anche il ricavato dalle potenziali azioni revocatorie sia incluso nel concetto di valore di liquidazione[41].
Anche su questo ultimo tema, alcuni spunti possono essere colti dall’esame delle prime pronunce giurisprudenziali che si sono sviluppate a seguito dell’entrata in vigore del Codice della crisi.
Il caso in esame si connota per una proposta di concordato in continuità indiretta, nella quale, a seguito del deposito della domanda di concordato da parte del debitore, il Tribunale formula una serie di rilevi con riferimento al vaglio di ritualità di cui all’art. 47, comma 1, CCII e assegna al debitore il termine di quindici giorni per apportare integrazioni al piano e alla attestazione. Tra i rilievi sollevati dal Tribunale si rinviene anche la modalità di determinazione del valore di liquidazione. Infatti, con la memoria integrativa il debitore precisa che “il valore di liquidazione del patrimonio previsto quale contenuto del piano ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. c), CCII, si riferisce al valore dei rami d’azienda e non ai singoli beni considerati atomisticamente e che, dunque, il valore totale indicato nella proposta e nel piano deve intendersi come valore di cessione dell’azienda, frutto della somma del valore dei singoli rami d’azienda in esercizio risultante dall’abbattimento dovuto allo scenario liquidatorio”.
A seguito della identificazione del valore di liquidazione come valore di cessione dell’azienda, i giudici di merito sollevano altresì rilievi in relazione al computo delle azioni risarcitorie e recuperatorie. Nel decreto in commento si legge che con la memoria integrativa il “proponente ha implementato l’indicazione delle azioni risarcitorie e recuperatorie proponibili soltanto nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e ulteriormente specificato la prognosi di solvibilità del soggetto eventualmente chiamato a rispondere nel caso di azione di responsabilità… , oggetto altresì di valutazione integrativa da parte dell’attestatore”.
Il caso in esame si connota per una proposta di concordato in continuità indiretta, nella quale, in primo luogo, il Tribunale affronta il tema dei criteri di determinazione del valore di liquidazione, considerando che nella proposta originariamente avanzata dal debitore quest’ultimo è stato determinato quale “valore ritraibile dai beni atomisticamente considerati”. In seguito ai rilevi evidenziati dal Tribunale, si legge nel provvedimento, che il debitore, anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 84, comma 6, CCII ha rideterminato il valore di liquidazione “in modo convincente” sulla base del “valore tratto dalla vendita dell’azienda … e non il valore ritraibile dai beni atomisticamente considerati, come originariamente divisato”.
In secondo luogo, il Tribunale afferma che la società ricorrente, in modo altrettanto convincente, ha incluso nel valore di liquidazione “il valore delle azioni tipiche suscettibili di essere promosse nel caso di liquidazione giudiziale”.
Infine, i giudici di merito affrontano in modo inequivocabile il tema della nozione di “finanza esterna” nell’ambito del concordato in continuità aziendale. In particolare, il Tribunale qualifica la finanza esterna come “liberamente trasferibile, senza nemmeno seguire le regole della relative priority rule”.
Concludono i giudici di merito stabilendo che il debitore, in modo corretto, ha distribuito il proprio patrimonio come di seguito: (i) valore di liquidazione, secondo la absolute priority rule, (ii) valore eccedente quello di liquidazione, derivante dal surplus concordatario, in applicazione della relative priority rule e, infine, (iii) la finanza esterna, in modo del tutto libero.
Il caso in esame si connota per una proposta di concordato in continuità diretta, con apporto dei soci a mezzo di aumento di capitale scindibile sospensivamente condizionato all’omologa definitiva del concordato.
Quanto ai criteri di determinazione del valore di liquidazione, si legge nel decreto che tale valore è stato oggetto di tre relazioni peritali, “che hanno valutato atomisticamente i beni”. La scelta di determinare il valore di liquidazione in un’ottica atomistica è stata giustificata con il fatto che “l’azienda non è stata stimata unitariamente perché non suscettibile di cessione da parte della Curatela, stante l’antieconomicità dell’esercizio provvisorio per lo specifico business della Società (che produce il 90% dei propri prodotti per conto terzi, con accordo di pagare le forniture all’ordine, applica il metodo di fornitura just in time il cui presupposto è quello di consentire ai clienti di non avere un proprio magazzino ma di ricevere la forniture dopo pochi giorni dalla richiesta)”. Nel caso di specie, pertanto, il debitore ha considerato l’opportunità di determinare il valore di liquidazione in ipotesi di esercizio provvisorio; tuttavia, ha ritenuto che tale evenienza fosse antieconomica per la curatela di una ipotetica liquidazione giudiziale e, conseguentemente, ha ritenuto opportuno fornire una valutazione atomistica dei beni nello scenario dell’apertura della procedura liquidatoria.
In ordine alla nozione di finanza esterna, che nel caso di specie viene elargita mediante un aumento di capitale scindibile, il Tribunale ritiene che “in applicazione dell’art. 84, comma 6, CCII, possano essere distribuite secondo la regola della c.d. Relative Priority Rule tutte le somme eccedenti quelle ricavabili dalla liquidazione dei beni, ivi compresa la finanza endogena, trattandosi in ogni caso di importi esorbitanti rispetto all’ammontare ritraibile dal valore di realizzo dei cespiti della Società, difatti, nel mutato contesto normativo del Codice della Crisi, il dato scriminante della neutralità dell’apporto del terzo rispetto al patrimonio della società debitrice, cruciale per distribuire la somma in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c. sotto la vigenza della legge fallimentare, mantiene rilevanza nel solo concordato liquidatorio, sicché è indifferente ai fini della tenuta del piano presentato la diversa qualificazione operata dalla Società in termini di “finanza esterna” dell’apporto di capitale”. I giudici di merito, pertanto, sposano la tesi per cui, nell’ambito del concordato in continuità aziendale, è indifferente ai fini della tenuta del piano la diversa qualificazione operata dalla ricorrente in termini di “finanza esterna” dell’apporto di capitale, poiché il dato scriminante della neutralità dell’apporto del terzo rispetto al patrimonio per distribuire la somma in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c. rileva nel solo concordato liquidatorio. Conclude, infatti, il Tribunale precisando che “questa esegesi, che agevola la coesistenza di un soddisfacimento trasversale ancorché non integrale dei creditori privilegiati (nei limiti della capienza) e a cascata un soddisfacimento parziale dei chirografari ab origine o degradati, non solo a fronte di “finanza esterna”, ma anche di apporti che transitano per il patrimonio della società, è conforme alla ratio legis di favorire il ricorso a strumenti di regolazione della crisi volti a risanare l’impresa, oltre ad essere suffragata dalla lettera della disposizione (art. 84, comma 6, CCII) e dall’interpretazione logico-sistematica della norma, letta in relazione al comma 4 del medesimo articolo che regola l’apporto di risorse esterne nel concordato liquidatorio”.
In particolare, la ricorrente sostiene che nel valore di liquidazione non debbano considerarsi le utilità ritraibili nella liquidazione giudiziale a seguito dell’esperimento positivo di azioni revocatorie ex art. 166 CCII. Ciò in ragione del fatto che, ai fini della determinazione del valore di liquidazione e delle regole distributive, dovrebbe considerarsi solo l’attivo ricavabile da azioni esperibili anche in ambito concordatario e quindi non anche quanto ricavabile da eventuali azioni revocatorie ex art. 166 CCII, in quanto proponibili solo dal curatore dopo l’apertura della liquidazione giudiziale. Il Tribunale ritiene non condivisibile tale affermazione sulla base, oltre che della posizione consolidata della Suprema Corte nell’ambito del previgente art. 160, secondo comma, L. fall., della disciplina dettata dal Codice della crisi. In particolare, i giudici di merito ritengono che, poiché l’art. 87, comma 1, lt. c) CCII stabilisce espressamente che il valore di liquidazione vada determinato avuto riguardo a quanto ricavabile nella liquidazione giudiziale, devono essere comprese anche le azioni revocatorie in quanto esperibili in tale scenario.
Il caso in esame si connota per una proposta di concordato in continuità indiretta, nella quale è prevista la prosecuzione dell’attività caratteristica in capo ad una società terza tramite un contratto di affitto e la successiva cessione della stessa, oltre alla liquidazione di beni immobili non strategici.
In ordine ai criteri di determinazione del valore di liquidazione, i giudici di merito statuiscono chiaramente che tale nozione debba “assumere una natura dinamica”. In particolare, il Tribunale sancisce che il valore di liquidazione debba essere determinato “secondo la possibile declinazione della vendita della azienda aggregata da parte della liquidazione giudiziale, previa prosecuzione dell’affitto in corso”, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, che assume “come parametro solo la liquidazione dei beni aziendali disaggregati”. Infatti, nulla impedisce alla futura liquidazione giudiziale di non risolvere il contratto di affitto pendente e procedere alla vendita competitiva dell’azienda, non risultando che alcuna clausola contrattuale nel contratto di affitto osti a tale possibilità. Ciò, a maggior ragione, considerando che è ragionevole ipotizzare che l’affittuaria, la quale ha sostenuto ingenti investimenti per gestire l’azienda, sia disponibile ad acquistare il bene partecipando alla vendita competitiva in sede di liquidazione giudiziale. Inoltre, evidenziano i giudici di merito, il tempo del contratto di affitto, quantificato in tre anni, è ampiamente compatibile con la vendita dell’azienda aggregata in sede di liquidazione giudiziale. Diversamente, invece, la ricorrente prospetta la vendita dei beni disaggregati nell’ambito della liquidazione giudiziale, “senza tenere in nessun conto la possibilità, ed anzi doverosità per il curatore ex art. 215 CCII, di proseguire nel contratto di affitto per poi porre in vendita la azienda aggregata con forme ovviamente competitive”.
Il caso in esame si connota per una proposta di concordato in continuità indiretta, nella quale è prevista la prosecuzione di taluni rami aziendali in capo ad una società terza tramite un contratto di affitto, la successiva cessione degli stessi, la cessione di partecipazione e di altri asset aziendali.
Nel caso di specie, la ricorrente ha ricevuto offerte irrevocabili di acquisto per le partecipazioni societarie e per i crediti ad un prezzo superiore rispetto ai valori di perizia indicati e aveva originariamente ritenuto che tale eccedenza potesse essere considerata come un valore eccedente quello della liquidazione nei termini di cui all’art. 84, comma 6, CCII. Il Tribunale, tuttavia, non condivide tale prospettazione, poiché ritiene che l’offerta ricevuta per l’acquisto di un bene costituisca essa stessa il valore di liquidazione di quel bene. Pertanto, convenendo con l’impostazione dei giudici milanesi, la società ricorrente ha raccolto la disponibilità di quegli stessi soggetti interessati all’acquisto ad offrire (i) una somma pari al valore di perizia e (ii) ad impegnarsi a versare l’eccedenza al fine, comunque, di raggiungere le somme originariamente promesse, anche a seguito della necessaria vendita competitiva di quegli stessi assets. Evidentemente, si rende poi necessario procedere alla raccolta di offerte concorrenti per l’acquisto delle partecipazioni e dei crediti della società, secondo la disciplina di cui all’art. 91 CCII, e nell’ipotesi in cui le partecipazioni e i crediti fossero allocati sul mercato ad un prezzo superiore a quello indicato in perizia, “il piano potrebbe subire ulteriori modifiche in quanto aumenterebbe il valore che dovrebbe essere distribuito secondo la regola della absolute priority rule”. I Giudici, pertanto statuiscono che l’eventuale maggiore flusso rispetto al valore di liquidazione preventivamente stimato, rimarrà governato dall’absolute priority rule.
Infine, quanto alla nozione di “finanza esterna”, il Tribunale ritiene che la stessa sia “liberamente distribuibile”.
Quanto a quest’ultimo aspetto, i giudici evidenziano che “Nella determinazione di quanto ricavabile nell’alternativo scenario liquidatorio (e, quindi, del valore di liquidazione, rilevate per determinare il limite della falcidia dei creditori privilegiati ai sensi dell’art. 84, comma 5, CCII e il limite della distribuzione secondo la regola dell’absolute priority rule ai sensi dell’art. 84, comma 6, CCII) l’attestatore non ha adeguatamente motivato in ordine alla possibilità di esercitare azioni di responsabilità nei confronti dell’ex amministratore”.
In relazione alla nozione di “finanza esterna” il Tribunale sposa la tesi della possibilità di distribuzione in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c. anche nell’ambito del concordato preventivo in continuità (diretta), come nel caso di specie. Infatti, i giudici di merito concludono che “la finanza terza è distribuibile liberamente (quindi senza il rispetto dell’ordine delle prelazioni, neppure in modo attenuato secondo il criterio della relative priority rule) e potrebbe quindi essere destinata alla soddisfazione (addirittura integrale) dei creditori di grado più basso ed addirittura di rango chirografario, senza che i creditori di grado superiore soddisfatti in minor misura possano eccepire alcunché”.
Il caso in esame si connota per una proposta di concordato in continuità diretta, nella quale non è prevista la cessione di alcun bene aziendale.
Quanto alla stima del valore di liquidazione, il Tribunale statuisce che “deve intendersi quale valore, alla data di deposito della domanda di concordato, che potrebbe trarsi dalla alienazione/realizzo in sede di liquidazione giudiziale dell’intero patrimonio della ricorrente”. Precisano i giudici di merito che “in relazione al valore dell’azienda, questo deve essere determinato con riferimento al presumibile realizzo in sede di esercizio provvisorio disposto dal Tribunale ovvero al valore di liquidazione dei singoli beni aziendali laddove si ravvisi come non prevedibile – perchè non conveniente – l’esercizio provvisorio rispetto alla cessazione dell’azienda e alla vendita atomistica dei suoi beni”. Il valore così determinato coincide con il valore di liquidazione cui fa riferimento l’art. 84, comma 6, CCII a proposito della regola della priorità relativa. Nel caso di specie, la ricorrente ritiene che la stima unitaria dell’azienda non sia ragionevole alla luce della centralità del ruolo assunto dall’imprenditore, la cui presenza verrebbe meno in caso di apertura della liquidazione giudiziale, rendendo ragionevole escludere l’esercizio provvisorio in tale scenario alternativo. Su questo punto, i giudici ritengono che si tratti di una assunzione “non manifestatamente irragionevole”, chiedendo comunque un approfondimento al commissario giudiziale.
In ordine all’esigenza di considerare nel valore di liquidazione anche le utilità rinvenibili dalle azioni di massa, i giudici ritengono che debba includere tutto ciò che potrebbe trarsi dal realizzo in sede di liquidazione giudiziale, comprese “eventuali utilità ritraibili da azioni risarcitorie o revocatorie”. Nel caso di specie, la proposta del debitore non ha previsto l’esercizio di azioni di responsabilità nei confronti dell’organo gestorio, tuttavia, il valore che sarebbe stato ritraibile da tali azioni è stato opportunamente considerato ai fini della determinazione del valore di liquidazione da distribuire secondo la regola della priorità assoluta. Da ciò ne è conseguito che non tutta l’eccedenza generata dai flussi di cassa rispetto al valore di liquidazione possa essere distribuita secondo la regola della priorità relativa, poiché sino alla concorrenza del valore di liquidazione dovrà essere utilizzata nel rispetto della absolute priority rule.
Nelle pagine precedenti sono stati accennati alcuni dei principali punti interrogativi emersi in dottrina attorno al valore di liquidazione: funzione ad esso attribuibile, criteri di determinazione, valutazione atomistica o in ipotesi di ricorso all’esercizio provvisorio, inclusione del valore delle azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili nonché le azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, patrimonio di riferimento in ipotesi di proposta formulata da una società di persone, regole distributive da applicare all’eventuale maggiore valore dei beni non strategici rispetto al valore originariamente stimato, nonché dei flussi di cassa eccedenti le stime effettuate nel piano concordatario.
Alcuni di questi temi sono stati oggetto di disamina da parte delle prime pronunce di merito, lasciando, tuttavia, ancora aperte molte questioni, che inevitabilmente dovranno essere affrontate e risolte nei prossimi sviluppi della normativa.
Note: