Al netto delle summenzionate criticità che si pongono con riguardo all’interpretazione teleologica del primo comma, le novità più consistenti riguardano proprio i contenuti del piano concordatario e le condizioni previste dal legislatore affinché il debitore possa godere dei benefici che discendono dalla qualificazione del concordato come “in continuità”.
Innanzitutto, il primo comma non classifica più le tipologie di piano in base al dualismo liquidatorio- in continuità, recuperando il principio di libertà delle forme che vigeva in materia concordataria già dalla riforma del 2006. L’obiettivo del soddisfacimento dei creditori può pertanto essere perseguito mediante: (i) la continuità aziendale, diretta se il piano prevede la prosecuzione soggettiva dell’impresa, o indiretta nel caso in cui preveda a qualsiasi titolo il mutamento del soggetto preposto al suo esercizio; (ii) la liquidazione del patrimonio; (iii) l’assunzione delle attività da parte di un terzo, forma negoziale di ristrutturazione del debito in virtù della quale un terzo si obbliga direttamente nei confronti dei creditori ad adempiere le obbligazioni concordatarie, a fronte della cessione in suo favore di tutto il patrimonio[24]; (iv) qualsiasi altra forma, come ad esempio l’effettuazione di operazioni straordinarie o sul capitale sociale, operazioni che permettano l’ingresso in società da parte di terzi o prevedano l’assegnazione di strumenti finanziari partecipativi.
Viene quindi (re)introdotta la figura dell’assuntore, il quale si obbliga, sostituendosi al debitore, ad assolvere gli adempimenti che scaturiscono dal concordato proposto: a seguito dell’omologa l’assuntore (figura in cui possono essere ricompresi i creditori o società da questi partecipate) si surroga nella titolarità dei beni costituenti l’attivo dell’impresa e nel passivo concordatario. Non essendovi in tal caso la cessione di un’azienda o di beni ad un soggetto terzo, non è necessaria una procedura competitiva. Simile, ma non uguale, è la figura dell’accollante ex art. 1273 c.c.: l’accollo in tal caso sarà ragionevolmente privativo, con la liberazione del debitore (con criticità in tema di crediti fiscali,[25] oltre che dei lavoratori): il passivo concordatario in essere al momento dell’omologazione definitiva del concordato viene “trasferito” in capo all’accollante, che si assume – in via esclusiva – l’impegno di adempiere all’integrale pagamento “liberando”, al contempo, il debitore originario laddove intervenga l’adesione e l’espressa dichiarazione dei creditori in tal senso, per il tramite del voto favorevole da esprimere in sede di adunanza dei creditori.[26] L’effetto di esdebitamento dell’originaria società debitrice sarà usualmente accompagnato dalla cessione della totalità del capitale sociale all’accollante. La possibilità di predisporre un piano in “qualsiasi altra forma” consente inoltre i piani incentrati sull'ingresso nel capitale di nuovi soggetti e quelli che prevedono l’assegnazione di strumenti finanziari partecipativi.
Come anticipato, lo statuto normativo del concordato in continuità si contraddistingue per un marcato favor nei confronti dell’imprenditore in crisi e per la previsione di condizioni diverse (seppur meno gravose) da quelle che limitano l’accesso al concordato liquidatorio: si pensi, su tutte, all’assenza del vincolo della percentuale minima da assicurare al credito in chirografo, nonché all’inapplicabilità delle soglie riguardanti gli apporti esterni. E questa divaricazione di disciplina è risultata del resto ancora più accentuata in esito all’adozione del D.Lgs. n. 83/2022: per quanto concerne gli “incentivi” offerti al debitore (per la continuità) si consideri la possibilità di derogare al principio della absolute priority rule in sede di distribuzione delle risorse generate dalla continuità (art. 84, comma 6), così come la possibilità di modulare la durata della moratoria per il pagamento dei prelatizi, laddove invece prima si prevedeva un tetto massimo biennale (art. 86 CCI)[27]. Di contraltare, è fatto obbligo al debitore, pena l’inammissibilità della domanda, di allegare il piano industriale con l’indicazione degli effetti sul piano finanziario e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria (art. 86, comma 1, lett. e) nonché di provvedere necessariamente al classamento dei creditori secondo posizioni giuridiche omogenee (art. 85, comma 3)[28].
I maggiori problemi emergono nel momento in cui si chieda all’interprete di tracciare una linea di confine tra ciò che è continuità e ciò che non lo è, perché dall’applicazione dell’una o dell’altra disciplina derivano dei vantaggi particolarmente significativi per il debitore e degli obblighi distinti da quelli che gravano sul proponente un concordato liquidatorio.
Invero vi sono diverse forme nelle quali la legge declina il concetto di continuità aziendale, nozione che del resto sembra essere, per le ragioni di cui si dirà, non esattamente coincidente con il presupposto aziendalistico del going concern, la cui sussistenza deve essere vagliata ai fini della redazione del bilancio e della sua revisione[29].
Non si pongono particolari criticità con riferimento alla continuità diretta, ravvisabile solo nel caso in cui il piano non preveda l’avvicendamento di un altro soggetto alla guida dell’impresa ristrutturata. Il piano in tale ipotesi dovrà però prevedere (art. 87, comma 1, lett f) l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura, tenendo conto anche dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente.
Gli interrogativi, storicamente, sono sorti invece sul perimetro della continuità indiretta, sebbene il legislatore della riforma abbia provveduto anche in tal caso ad approntare delle soluzioni chiare su taluni punti che risultavano controversi. Ciò che appare evidente è che la continuità debba essere intesa in senso oggettivo[30], presupponendo unicamente la norma che l’attività di impresa continui anche dopo la conclusione della procedura, a prescindere dall’identità dell’imprenditore: tanto basta per la qualificazione del concordato e l’individuazione della disciplina ad esso applicabile. Con la differenza, rispetto al sistema previgente, che dovranno considerarsi in continuità non solo i piani che assicurino il mantenimento in esercizio dell’impresa ma anche quelli che consentano di dare nuovo e tempestivo impulso ad imprese che abbiano temporaneamente cessato o interrotto le proprie attività. In ciò, forse, sta il punto di maggior allontanamento tra il concetto giuridico di continuità aziendale e quello aziendalistico di going concern, che invece allude sia alla capacità dell’impresa di continuare la propria esistenza operativa per un futuro prevedibile, sia all’assenza di prospettive liquidatorie o che implichino la cessazione delle attività[31].
Il CCII sembra peraltro disinteressarsi delle concrete vicende, dedotte nel piano, che possono portare alla sostituzione del soggetto alla guida dell’impresa ristrutturata: tanto la cessione, quanto l’usufrutto, il conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, e l’affitto[32] sono ipotesi puramente esemplificative dal momento che viene in ogni caso fatta salva la possibilità che il mutamento soggettivo avvenga in forza di un “qualsiasi altro titolo” idoneo[33]. Scompare, peraltro, quella parte del secondo comma che subordinava l’ammissibilità della domanda ad una preventiva verifica circa il mantenimento di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso. Si trattava all’evidenza del tentativo, non certo nuovo al diritto concorsuale, di affidare alle procedure negoziate una qualche funzione sociale e che però si era tradotto nell’imposizione di vincoli non giustificati alla luce dei principi di cui alla L. n. 155/2017[34] (e comunque di difficile applicabilità pratica).
Un limite, a dire il vero, viene unicamente posto con riferimento all’affitto d’azienda stipulato anteriormente alla domanda di accesso al concordato (c.d. “ponte”), poiché si prevede che debba essere in ogni caso funzionale alla presentazione del ricorso. Vengono così recepite le tesi condivise da quella giurisprudenza che, ancor prima dell’adozione del CCII, ritenevano riconducibile entro il raggio di applicazione dell’art. 186 bis L. fall. anche piani concordatari strutturati sulla base di un contratto di affitto già concluso e non per forza preordinato alla successiva cessione del compendio aziendale. In merito la Cassazione[35] aveva di recente superato le perplessità espresse da taluna parte della dottrina, le quali si appuntavano essenzialmente sulla permanenza in capo al proponente della qualità di “imprenditore”, vista l’insussistenza, in capo al debitore ed ai creditori, di alcun rischio connaturato all’esercizio dell’attività imprenditoriale[36]. A tali obiezioni la Corte, infatti, replicava con l’osservazione per cui, tanto l’affitto “ponte” quanto l’affitto “puro”, a prescindere dal momento temporale della loro stipulazione, costituirebbero dei semplici strumenti atti a preservare i valori intrinseci dell’attività economica, per ciò solo compatibili con la ratio sottesa alla disciplina del concordato in continuità aziendale.
All’atto pratico il precetto sembra dunque destinato a comportare la necessità che i contraenti l’affitto di azienda esplicitino il fatto che il negozio venga concluso (anche) in vista dell’eventuale presentazione della domanda di concordato (se del caso posto espressamente in alternativa ad altri rimedi), ben potendo non esservi ancora, all’epoca della stipulazione, certezza assoluta circa lo strumento giuridico da utilizzare. Del resto, non è richiesto che fra detto momento e il deposito del ricorso intercorra un lasso di tempo particolarmente breve, atteso che dottrina e giurisprudenza hanno da tempo chiarito che il nesso di strumentalità postula un criterio di tipo logico-funzionale e non già rigidamente cronologico. L’affitto di azienda, quindi, deve essere soltanto funzionale alla presentazione del ricorso, non necessariamente anche finalizzato alla cessione. Ciò detto, la norma, esprimendosi solo sull’ammissibilità in astratto di un piano così confezionato, nulla dice circa i contenuti del contratto di affitto e le modalità secondo le quali debba essere strutturato affinché il debitore possa godere della disciplina di favore. Il dubbio sorge perché nella stessa pronuncia di legittimità che chiuso la diatriba sull’affitto d’azienda, la qualificazione del concordato veniva condizionata alla circostanza che “la prosecuzione dell'attività di impresa da parte dell'affittuario (a prescindere dal momento della stipulazione del contratto di affitto) sia rilevante ai fini del piano, e cioè influenzi la soddisfazione dei creditori concorsuali”[37].
V’è da chiedersi quindi se, nel silenzio del CCII ed alla luce di quanto affermato dalla Suprema Corte, possa dirsi rilevante ai fini della fattibilità del piano anche un contratto che preveda la corresponsione di un canone fisso, in alcun modo parametrato all’andamento aziendale, laddove vi sono dubbi non irragionevoli sulla effettiva permanenza del rischio d’impresa in capo al ricorrente[38]. Invero, tanto la valorizzazione del favor per la continuità quanto l’osservazione per cui anche in tal caso la soddisfazione dei creditori risentirebbe, seppur indirettamente, dei rischi correlati all’adempimento delle obbligazioni in capo al conduttore, indurrebbero ad abbracciare la soluzione maggiormente permissiva[39].