La liquidazione controllata: una procedura opportuna, su cui è necessario (ancora) intervenire.
Come è noto, il Legislatore del codice della crisi e dell’insolvenza ha previsto un nuovo istituto, quello della liquidazione controllata, con il quale intende regolare il sovraindebitamento del consumatore, del professionista, delle imprese agricole e delle start-up innovative sulle ceneri della liquidazione del patrimonio ex art. 14 ter, L. 3/2012.Attraverso la liquidazione controllata il Legislatore ha voluto trovare una “casa” anche alle imprese sottosoglia, ossia quelle che un tempo non fallivano. Sul fatto che sia corretto che anche dette imprese possano beneficiare ed al tempo stesso subire, per quello che diremo, le regole che disciplinano la crisi e l’insolvenza siamo tutti d’accordo. Tuttavia, appare evidente che tale accostamento non regga. Non si tratta dell’opinione personale dell’Autore di questi scritti, ma regolare con il medesimo istituto il fenomeno del sovraindebitamento del consumatore e quello dell’insolvenza delle imprese minori, non funziona perché è un fatto che stia causando un “ambaradan” di interpretazioni, fornite soprattutto dai giudici di merito, sulla spinta delle eterogenee situazioni concrete da regolare. In primo luogo, occorre tener presente che attraverso la liquidazione controllata si intende disciplinare lo squilibrio economico-finanziario, secondo un’accezione lata del concetto, di tre categorie molto diverse tra loro, ossia i consumatori, i professionisti e le imprese minori. L'art. 268, comma I CCII stabilisce che il debitore in stato di sovraindebitamento può presentare una domanda per l’apertura della procedura di liquidazione dei beni. È chiaro che qui si intende principalmente il consumatore, perché la definizione di sovraindebitamento di cui all’art. 2 lett. c) CCII allude a tale categoria di soggetti, anche se però poi include, impropriamente, le imprese minori. Infatti, è innegabile che sia il consumatore, secondo convenzione lessicale, che si indebiti, ossia contragga debiti per far fronte alle spese famigliari, che ad un certo punto potrebbe non essere più in grado di assolvere; mentre, seguendo la definizione del codice, l’imprenditore cade in insolvenza il cui concetto è senza alcun dubbio più complesso, racchiuso nella definizione di cui all’art. 2 lett. b) CCII, perché le cause sono più articolate. Ora, il secondo comma del citato art. 268 CCII stabilisce che, quando il debitore è in stato d’insolvenza, la domanda può essere presentata da un creditore; il secondo capoverso del comma in questione, laddove afferma che non si fa luogo all’apertura della liquidazione controllata se i debiti scaduti e non pagati sono inferiori ad euro cinquantamila, fa comprendere che il legislatore abbia voluto assimilare la previsione a quella analoga di cui all’art. 49 CCII prevista per la liquidazione giudiziale. Dunque, è facile notare che nel primo comma si utilizza il concetto di “sovraindebitamento”, il quale si riconduce alla presentazione in proprio della domanda di liquidazione controllata; mentre, nel secondo comma si evoca l’espressione “insolvenza”, a cui si associa la possibilità che anche il creditore possa presentare la predetta domanda di liquidazione controllata. Ebbene, non si comprende il motivo per cui nei due commi indicati il Legislatore abbia voluto utilizzare due concetti diversi, sebbene si riconducano allo stesso fenomeno di squilibrio economico-finanziario, con la differenza che il sovraindebitamento è più propriamente del consumatore, mentre l’insolvenza, per tradizione, è ricondotta all’impresa.Tale distinguo avrebbe un senso, solo ove si ammettesse che il consumatore sia il solo legittimato a chiedere l’apertura della liquidazione controllata; mentre, l’imprenditore minore sia soggetto anche all’azione del creditore equiparandolo, quindi, all’imprenditore sopra soglia. L’assunto che il consumatore non sia soggetto all’azione del creditore, che molti non condividono, viene confermato nella misura in cui ai sensi dell’art. 73 CCII in caso di revoca dell’omologazione della ristrutturazione dei debiti del consumatore per atti in frode od a causa di inadempimento l’istanza di liquidazione controllata può essere chiesta dai creditori e dal pubblico ministero. Ciò sta a significare che, di regola, solo il consumatore possa presentare la domanda di liquidazione controllata, altrimenti la previsione di cui sopra non avrebbe senso.Ove così fosse, si rispetterebbe lo spirito della L. 3/2012, che intendeva dotare il consumatore sovraindebitato di uno strumento di difesa e non il creditore di un’azione in più che, in ogni caso, può far valere i propri diritti secondo i canoni tradizionali dell’azione esecutiva individuale, la quale è più logica nel contesto in esame rispetto alla più articolata forma collettiva che caratterizza le liquidazioni concorsuali, controllata o giudiziale che fossero. Come abbiamo visto, l’imprenditore dell’impresa, individuale o collettiva, può essere assoggettato alla procedura in esame anche su domanda del creditore e ciò perché lo prevede espressamente il citato art. 268, comma II CCII.A creare dei dubbi, tuttavia, sovviene l'art. 268, comma III CCII il quale stabilisce che, quando la domanda è proposta da un creditore nei confronti del debitore persona fisica, non si fa luogo all’apertura della liquidazione controllata se l’OCC, su richiesta del debitore, attesta che non è possibile distribuire attivo tra i creditori.L’ipotesi si riferisce solo alla domanda proposta dal creditore, quindi, non è inibita la domanda di liquidazione controllata proposta in proprio dal debitore anche se, in questo caso, sarebbe più utile lo strumento dell’esdebitazione del sovraindebitato incapiente. Tuttavia, il dato da registrare riguarda il fatto che non si comprende a quale categoria si riferisca, ossia al consumatore od all’imprenditore dell’impresa individuale minore oppure ad ambedue. Secondo la costruzione logico giuridica che si sta delineando con questi scritti la norma si dovrebbe applicare solo al debitore dell’impresa minore, unico soggetto della domanda del creditore, il cui titolare sia una persona fisica, e ciò in analogia della previsione di insufficiente realizzo ex art. 209 CCII prevista per la liquidazione giudiziale. Tuttavia, il motivo per il quale siano state escluse le imprese minori collettive non è dato sapere. Sennonché, sussiste molta confusione intorno alla liquidazione controllata perché si è voluto mischiare due obiettivi molto diversi tra loro. Infatti, se per il consumatore la liquidazione controllata è vista, a torto o ragione, quale strumento per ottenere l’esdebitazione dei debiti, per l’impresa minore l’interesse tutelato dalla norma è più vicino a quello dei creditori, i quali sono stati dotati di uno strumento esecutivo in più attraverso il quale mirano al soddisfacimento dei propri crediti. Concorre ad ingenerare detta confusione anche il diverso approccio al fenomeno dei gestori della crisi da sovraindebitamento caratterizzato da due scuole di pensiero, quelli appunto che vedono la liquidazione controllata come un’opportunità per il consumatore, al fine di ottenere l’esdebitazione, quando non sia possibile, in assenza dei presupposti, la realizzazione di un piano di ristrutturazione dei debiti, e quelli, invece, che possiamo definire “fallimentaristi”, il cui punto di vista non è dissimile da quello che avevano nel fallimento ed oggi nella liquidazione giudiziale onde ne assumono frequentemente la funzione di curatore. Al riguardo non dobbiamo dimenticare che la liquidazione controllata è pur sempre una procedura di liquidazione dei beni piuttosto invasiva le cui conseguenze devono essere attentamente vagliate prima di attuarla, in particolare, per il consumatore.Sul piano della gestione della procedura liquidatoria le divergenze riemergono in tutta la loro evidenza.Il primo interrogativo a cui rispondere è se una volta aperta la procedura di liquidazione controllata il professionista (ma questo vale per l’artigiano, il rappresentante di commercio, ecc.) o l’impresa minore possano o meno continuare ad esercitare la propria attività. Il dubbio si pone per associazione di idee ove, come è noto, nel caso del consumatore, ove svolga un’attività di lavoro, questa non cessi ed anzi diventa fonte sopraggiunta di proventi da distribuire ai creditori. Posto che appare piuttosto chiaro che nel caso dell’impresa minore per la quale sia stato accertato lo stato d’insolvenza, secondo il citato secondo comma dell’art. 268 CCII, l’attività d’impresa non possa essere proseguita, salvo l’applicazione per analogia dell’esercizio provvisorio, vediamo cosa succede invece al professionista ed alle altre figure affini.In quest’ultima ipotesi molto dipende dalla causa della crisi. Nel senso che, se essa dipende dal sovraindebitamento del professionista per debiti di consumo, l’attività potrà proseguire perché sarà il mezzo per il proprio sostentamento e per ottenere il surplus da destinare ai creditori. Viceversa, se la causa che ha portato alla liquidazione controllata dipende da uno stato di vera e propria insolvenza dell’attività professionale esercitata, in questo caso è chiaro che detta attività debba essere cessata anche per non consentire che si maturi altro debito, peraltro prededucibile, e comunque non trattabile con la esdebitazione che riguarda solo i debiti maturati anteriormente alla presentazione della domanda di apertura della liquidazione controllata.L’ultima annotazione prima di passare alla soluzione che chiuderà il percorso affrontato con il presente contributo riguarda l’istituto dell’esdebitazione, particolarmente sentito nella liquidazione controllata perché come abbiamo detto interessa in particolar modo il consumatore. Come è noto, l’esdebitazione consiste nella liberazione dai debiti e comporta la inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura di liquidazione giudiziale o di liquidazione controllata. Come espressamente prevede l’art. 278, comma III CCII, nell’ambito delle procedure di liquidazione giudiziale e della liquidazione controllata, possono accedere tutti i debitori, anche quelli collettivi in forma societaria.In particolare, vi è una certa confusione in relazione alla durata della liquidazione controllata del consumatore perché taluni ritengono che essa duri tre anni, ossia il tempo al maturare del quale dalla apertura della liquidazione opera l’esdebitazione. L’equivoco sorge per il fatto che spesso il consumatore svolge attività di lavoro dipendente e, quindi, i flussi stipendiali entrino nelle casse della procedura di liquidazione controllata limitatamente entro il suddetto periodo temporale; equivoco che è aumentato con la modifica apportata dal decreto correttivo ter all’art. 272, comma III CCII che espressamente si richiama al citato triennio. Questo però non significa che la procedura in questione si concluda entro tale termine, ma solo che cessino di essere acquisiti i beni sopraggiunti al debitore e tra di essi le retribuzioni, ma la procedura prosegue il proprio corso senza essere in alcun modo condizionata dal decreto del tribunale che, in costanza della procedura medesima, su istanza del consumatore, abbia dichiarato l’esdebitazione.Siamo giunti quindi alla conclusione di questi scritti e dai quali possiamo trarre la soluzione al problema da cui siamo partiti e cioè che il consumatore e le imprese minori non possono coesistere nella medesima procedura. Quindi, la conclusione è molto semplice ed a portata di mano. Sarebbe sufficiente eliminare il concetto di impresa minore e ricomprendere l’impresa sottosoglia nella liquidazione giudiziale. Come è noto, la previsione è sorta con la Riforma del 2006 della legge fallimentare con lo scopo di alleggerire il carico dei tribunali di procedure di modeste dimensioni. Come sappiamo, però, la ratio della norma è stata tradita nella misura in cui è un fatto che, in realtà, la maggioranza delle liquidazioni giudiziali siano fatte da siffatte imprese e ciò per il sistema processuale, ripreso nel procedimento unitario, il quale sottende al fatto che non spetti al giudice accertare il livello dimensionale dell’impresa, ma che esso debba rappresentare, ai sensi dell’art. 121 CCII, apposita eccezione del debitore che però spesso non compare in udienza o non si costituisce nel giudizio preconcorsuale. Eppure, il Legislatore del codice della crisi sembrava volesse concedere al giudice del procedimento unitario la verifica delle soglie dimensionali dell’impresa laddove all’art. 42 CCII demanda alla cancelleria l’acquisizione d’ufficio mediante collegamento telematico diretto alle banche dati dell’Agenzia delle entrate, dell’Istituto nazionale di previdenza sociale e del Registro delle imprese i dati e i documenti del debitore. D’altra parte, al giudice già compete la verifica delle soglie dimensionali dell’impresa in ordine all’ammissibilità sia della proposta di concordato preventivo (art. 84, comma I CCII) che della domanda di liquidazione controllata (art. 270, comma I CCII) .In sostanza, si sta difendendo un principio che, invero, non si è mai realizzato ed allora sarebbe sufficiente prendere atto della realtà e fare quel passo in più per armonizzare il sistema inserendo nei rispettivi panieri le mele e le pere e, quindi, condurre le imprese sottosoglia nell’alveo della liquidazione giudiziale.Si potrebbe obiettare che le imprese minori in quanto tali siano beneficiarie di alcuni privilegi quali la facoltà di presentare la domanda di composizione della crisi e dell’insolvenza attraverso un OCC e, per quanto riguarda il concordato minore, la modalità di favore del calcolo della maggioranza, includendo nel voto favorevole i creditori che non si sono espressi sulla proposta concordataria. Si tratta tuttavia di aspetti che potrebbero essere mantenuti prevedendoli nella norma che regola l’istituto di riferimento a quel punto valido per tutte le categorie di imprenditori a prescindere dalla soglia dimensionale con il vantaggio di ridurre il numero degli strumenti che, senza alcun dubbio, contribuiscono ad ingenerare confusione che, di certo, non aiuta gli operatori del settore.