Assegnarmi un tema così vasto e nello stesso tempo così stimolante è certamente una provocazione ed un invito a ricostruire quelli che sono gli orizzonti tendenziali di sviluppo della riforma della legge fallimentare, tenendo presente che la legge stessa, per essere attuale ed efficace, deve essere caratterizzata da una esigenza di adeguamento e modifica costante e il pensare che il testo unico della riforma che entrerà in vigore il 15 luglio 2022 possa essere un punto fermo per decine di anni come nel 1942 è una pia, quanto ingenua, illusione.
La mia convinzione si basa sulla considerazione preliminare che il legame tra la legge fallimentare e l’economia, nel 1942 non così direttamente constatabile e reale, è ora innegabile e assolutamente inscindibile, cosicché alla stabilità naturale e tendenziale del diritto si è finito per sostituire un cantiere in perenne costruzione che tenta di adeguarsi e rincorrere la mutevolezza dei fenomeni economici, tutto ciò in un Paese di civil law, dove tale “ rincorsa” è vieppiù innaturale e disagevole perché tende ad astrarre dai principi organizzativi tradizionali e sistematici dell’ordinamento.
La legge 267/1942, promulgata dopo che l’Italia, gravemente colpita dalla crisi finanziaria del 1929, aveva creato l’istituto Nazionale per la Ricostruzione Industriale, strumento attraverso il quale lo Stato si ingeriva direttamente nell’economia attuandone il controllo con la individuazione di politiche industriali predeterminate, era una legge caratterizzata da un’aperta scelta in favore dell’efficienza a discapito della garanzia in particolar modo verso il debitore.
Una legge che tendeva ad espungere dal mercato le imprese non funzionanti, ritenendole un pericolo per le altre, che puntava ad eliminare attraverso una liquidazione atomistica, realizzata dal fallimento appunto.
Probabilmente la sua funzionalità, non è entrata in crisi per lungo tempo, sia perché ottimamente redatta da grandi giuristi, sia perché l’Italia ha attraversato, dopo il secondo conflitto mondiale, il cosiddetto miracolo economico, favorito in tutta evidenza dalle iniezioni di liquidità e dai contributi del piano Marshall.
Anche la situazione geografica dell’Italia nell’ambito della guerra fredda ha favorito imponenti investimenti da parte degli Stati Uniti per evitare che la nazione potesse entrare nell’orbita dell’avversario storico, l’Unione Sovietica. Solo sul finire degli anni 70, in connessione con la crisi petrolifera, l’inflazione, la crisi occupazionale, la contestazione studentesca, l’incertezza politica, i disordini sociali e l’incapacità economica dello Stato di effettuare interventi di sostegno mirati ed efficaci ( non riuscendo a superare la politica dei finanziamenti a pioggia) , si è iniziato ad avvertire gli effetti di una crisi grave[1].
In conseguenza di ciò si sono avvertite necessità di implementazione della legge come ad esempio per l’amministrazione controllata, ove, guarda caso, la durata si estende sino al biennio[2] nel corso di quel decennio, se vi sono comprovate possibilità di risanamento (una esigenza di cui anche oggi si discute come condizione per l’accesso a procedure chiave come la composizione concordata che, anche essa postula una crisi o una insolvenza reversibile). La necessità si avverte anche per le grandi imprese, che divengono terreno di intervento del Mise e sono regolamentate poi dalla legge Prodi[3]) , che sottraggono le imprese di grandi dimensioni al controllo giurisdizionale (tendenza che permane ed ha determinato la sottrazione della riforma della Prodi Bis alla Commissione Rordorf anche nell’ambito dei lavori che hanno portato al Codice della Crisi).
Negli anni ‘80 la riforma istituzionale che ha interessato anche la Banca d’Italia, staccandola dal controllo Statale, ha cercato di porre freno all’inflazione (fenomeno di cui si ricomincia in modo preoccupante a parlare in connessione agli effetti della Pandemia a dimostrazione che molti dei problemi sono gli stessi), ma la ripresa che si è prodotta era di fatto legata ad un trend di spesa pubblica così elevato che, all’introduzione dei principi di Maastricht nel 1992, non ha potuto essere mantenuto, volendo far parte della Comunità Europea. Anche qui non è difficile avvertire un parallelo con la situazione post pandemia in cui lo Stato si è assunto oneri rilevantissimi per sostenere l’economia anche se in parte è coadiuvato dai contributi europei.
Vi è stata una ripresa poi alla fine anni ‘90, inizi 2000, anni nei quali però la legge fallimentare ha iniziato a dimostrare la propria età anagrafica, ma soprattutto il vulnus inesorabile di essere stata pensata per una realtà economica che era ormai anni luce distante da quella attuale (infatti se i problemi sovente sono gli stessi, l’economia colla moderna tecnologia si evolve ad alta velocità). Gli orizzonti della riforma cui si è lavorato incessantemente in quegli anni, con progetti, con la commissione Trevisanato, si sono allontanati più che potevano dalla concezione dirigistica ed interventistica nell’economia della legge 267, optando, in armonia colle scelte europeiste e dei Paesi anglosassoni, per una privatizzazione delle questioni economiche intercorrenti fra debitore e creditori, giungendo ad una riforma parziale, che ha innestato istituti del tutto nuovi ( come il 67, il 182 bis, ) o rinnovati come il concordato preventivo del 160 e ss. in un corpo ben costruito ma decisamente tarato su un altro progetto di realtà economica.
Un debutto, quello del D. Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 , che è stato subito bisognoso di correzioni ed aggiustamenti con il decreto correttivo 12 settembre 2007, n. 169 , nel quale il disegno di privatizzazione è proseguito, inteso come arretramento della posizione del giudice a controllore e non direttore delle operazioni concorsuali, come rivalutazione della figura del curatore quale ideatore delle strategie e amministratore del patrimonio nella procedura di fallimento, come un disegno giuridico nel quale l’accordo con i creditori assume nelle sue varie connotazioni un’importanza fondamentale, accentuando una visione negoziale di alcune procedure come ad esempio il concordato preventivo e creandone altre quasi estranee all’apporto giurisdizionale, inserito solo formalmente in sede di omologa, cui si arriva senza alcuna pastoia giurisdizionale (art. 182 bis) oppure l’art. 67, terzo comma, n. 4, che opera del tutto al di fuori dell’area tradizionale giurisdizionale.
Forse proprio la incompletezza dell’intervento legislativo del 2006 e 2007 ha determinato l’insorgere della abitudine del legislatore di effettuare, da allora in avanti continui tentativi di aggiustamento “della mira”, soprattutto per quanto riguarda le procedure minori ed in particolar modo il concordato preventivo, procedura che doveva essere una fra le molte ma che, per l’incertezza connessa al funzionamento dell’art. 67 L. fall. e dei suoi effetti protettivi modesti ,unita al ritardo nell’assimilazione e utilizzo dell’art. 182 bis, inizialmente troppo scheletrico, ha finito per diventare la procedura principe dopo la riforma, pur non essendo certamente quella preferita dal legislatore del 2006, strenuo sostenitore della privatizzazione delle soluzioni della crisi.
Va comunque detto che il debutto di cui sopra è avvenuto (così come rischiava di accadere per il codice della crisi, causa pandemia) nell’ambito di una crisi finanziaria così grave tra il 2008 ed il 2010 ( quella dei sub prime partita dagli stati Uniti col fallimento di Leeman Brothers) che si è parlato spesso di necessità di evitare il default del Paese, spesso in affanno nel far fronte ai propri titoli del debito pubblico.
Da qui in avanti si sono situati molti interventi legislativi che si annoveravano come modifiche lampo, frammentarie e per lo più incomplete alla legge fallimentare, ai fini di un auspicato effetto di rilancio dell’economia, di favore per la crescita, di sostegno alla competitività ed allo sviluppo[4].
Tutti questi interventi non sono armonici come direzione tra loro, molti spingono verso una privatizzazione sempre più intensa che si riverbera nel riconoscimento di una autonomia e libertà di autodeterminazione del debitore che è stata da alcuni settori dell’economia condivisa, soprattutto dal settore associativo bancario, dalle imprese di dimensioni rilevanti riunite in Confindustria, da parte della dottrina economistica vicina a quelle posizioni.
Uno degli interventi obbligati dal pericolo di una procedura di infrazione europea è quello attuato colla L. n. 3 del 27 gennaio 2012, che ha introdotto l’istituto del sovraindebitamento, subito modificata nel dicembre dello stesso anno da un ennesimo decreto sviluppo bis D.L. 17 dicembre 2012, n. 221, riconoscendo che la lacuna storica del nostro ordinamento relativa al dissesto dei soggetti non fallibili e dei debitori civili andava colmata per porre l’Italia alla pari con altri paesi europei non solo di common law, ma anche di civil law come la Germania.
In conseguenza degli interventi governativi successivi, il Paese, di fatto, dal 2014-2015 sino al 2019 ha vissuto economicamente sull’entità delle proprie esportazioni, ma con un tasso di crescita del PIL bassissimo a livello comparato europeo e talvolta persino nel pericolo di arenarsi nelle acque basse della stagnazione economica .
Nel periodo interessato il legislatore ha ritenuto di avviare i lavori di un’altra definitiva legge delega ( sfociata nella legge 19 ott. 2017 n. 155) e poi di una commissione deputata ad estendere la legge delegata , presieduta da un giurista di grande capacità, Renato Rordorf, che ha dato vita, dopo rilevanti interventi della commissione giustizia e dell’ufficio legislativo del Ministero al D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, meglio noto come codice della crisi e dell’insolvenza, finalmente un testo unico di riforma della materia fallimentare, integralmente sostitutivo della legge 267 del 1942 con oltre 390 articoli.