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Saggio

Insolvenza, crisi e pre-crisi nel Codice della crisi, a valle della emanazione del Decreto Attuativo della Direttiva Insolvency*

Ermanno La Marca, Associato di diritto commerciale nell'Università degli Studi della Tuscia

22 Agosto 2022

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il lavoro si concentra sulla nozione di crisi. Si pone in luce, innanzitutto, la sua funzione di definire il passaggio ad un diverso modo della gestione, segnalandosi, però, l’incertezza delle regole che si richiede di osservare una volta superato quel confine, per una certa sovrabbondanza di previsione d’ordine generale. Quanto alla fattispecie, se ne individua infine il formante nella probabilità di insolvenza, intesa come prevalenza probabilistica degli scenari che conducono all’insolvenza, pur in presenza di alternativi e non irragionevoli scenari. Sono quindi esplorate le conseguenze applicative di tale affermazione, da cui anche discende la necessità di riconoscere come esistente uno spazio di apprezzamento discrezionale ineliminabile, e per ciò insindacabile, nella valutazione dell’andamento dell’impresa e della sua evoluzione. La riflessione conduce inoltre a non premiare la tesi che voglia identificare la “pre-crisi” come ulteriore fattispecie distinta dalla crisi, le esigenze dell’allerta potendo essere appagate da una disciplina volta a stimolare la tempestiva individuazione della situazione di crisi.
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1 . La “crisi” quale confine tra diversi modi d’essere della gestione
La nozione di “crisi” riempie di contenuto precettivo l’art. 2086 c.c.: la sua rilevazione tempestiva costituisce “la”, o almeno una delle principali funzioni degli assetti che è fatto obbligo agli amministratori di istituire. Si tratta, quindi, di nozione divenuta centrale anche nel diritto societario[2]. Per essa, infatti, si definisce quanto inclinato e quindi vincolato sia il piano della gestione precettata o, se si vuole, proceduralizzata (comunque sempre meno discrezionale[3]) cui devono conformarsi gli amministratori e i sindaci almeno a partire dal momento in cui (nelle intenzioni, il più possibilmente anticipato) la situazione di crisi sia stata (o, comunque, avrebbe dovuto essere) rilevata.
Pare abbastanza intuibile, quindi, che il momento nel quale la crisi non può non essere rilevata definisce un confine tra modi d’essere diversi della gestione. Quel genere di confine che si è da più tempo abituati a tracciare, per esempio, con il verificarsi di una causa di scioglimento (qualunque essa sia), allorquando dalla gestione in continuità occorre passare alla gestione conservativa. Per quanto nient’affatto identiche siano le conseguenze, la rilevazione della crisi definisce in qualche maniera un analogo confine, nel senso di determinare un mutamento negli strumenti e nella finalità della gestione.
Va detto che dalla nozione di crisi risulta condizionato non solo il regime della gestione dopo la sua rilevazione, ma anche la definizione dei doveri degli amministratori e sindaci quando ancora quel confine non è stato varcato.
Del resto, gli assetti organizzativi (attraverso i quali si governa l’impresa nella sua fisiologica fase) devono costantemente misurare la distanza tra il cammino percorso dall’impresa e l’ombra della crisi[4][5]. Gli artt. 2086 c.c. e 3, comma 2, del Codice della crisi indicano insomma una certa funzione dell’organizzazione, probabilmente non l’unica (almeno non nell’art. 2086 c.c.), ma l’unica certamente legittima. Per questa via, si è scelto come paradigma della tutela degli interessi degli stakeholder una certa maggiore esposizione dei gestori a responsabilità. Trattandosi di gestori di cose altrui, si incoraggia la prudenza, a discapito dell’attitudine a coltivare il rischio d’impresa[6]: la continuità d’impresa si preserva, tuttavia, continuando a correre dei rischi[7]. Non si vuole, comunque, qui tornare sui problemi della produttività ed efficacia di questo percorso (in termini di capacità di consentire il superamento delle crisi anche soltanto incipiente), nonché sull’impatto sulla business judgment rule[8], con i quali già ci si è confrontati[9].
Vale piuttosto soffermarsi su alcune incertezze che emergono nella disamina delle generali previsioni poste a presidio e governo della situazione di crisi e sugli strumenti che il legislatore mette a disposizione per tracciare questa nozione di confine.
2 . Abbondanza dei “principi” posti a governo dell’impresa in crisi e conseguente incertezza della sua particolare regolazione
Nella situazione di crisi, il punto è ormai ben acclarato, gli amministratori devono attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione “di uno” degli strumenti previsti dall’ordinamento per il suo superamento[10].
Il mutato status è caratterizzato da una molteplicità di previsioni, le quali, rispetto all’art. 2086 c.c., contengono a volte disposizioni ulteriori, altre volte disposizioni ripetitive, altre volte ancora disposizioni che alla prima fanno riferimento. Fra tutte, si veda, l’art. 3 del Codice della crisi, ove tutti tali contenuti sono presenti.
Alcune di queste non presentano un significato chiarissimo.
Per esempio, l’art. 9, comma 1, del D.L. 118/2021, ha stabilito che «L’imprenditore in stato di crisi gestisce l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività». La disposizione è stata confermata dal D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 (il “Decreto Attuativo” della Direttiva Insolvency), e trova ora posto all’art. 21, comma 1, del Codice della crisi. La previsione (di origine unionale[11]) lambisce l’ovvio sino quasi a consentire ciò che (molto probabilmente) vorrebbe impedire, ossia consentire che nulla cambi nel regime della gestione dopo la rilevazione della crisi. D’altro canto, agire[12] per consolidare il futuro dell’impresa e la sua sostenibilità costituisce proposito che l’imprenditore (e quindi ogni gestore dell’impresa) si pone anche quando l’impresa naviga in buone acque. Anzi, è certamente nei momenti in cui l’andamento dell’impresa è florido che il costo della sostenibilità può, e allora, secondo diligenza, deve essere sostenuto.
Si avverte, come anche si noterà qui in avanti, una certa ridondanza di proposizioni generali, la cui naturale vocazione all’ampiezza dovrebbe invece indurre ad un uso più parsimonioso.
Per quanto per genericità e ovvietà la previsione ora considerata a stento risulta confinabile all’interno del c.d. diritto societario della crisi, essa parrebbe, inoltre, voler riguardare la sola gestione dell’impresa in pendenza delle trattative della composizione negoziata, non essendo ripetuta fra quelli che pure dovrebbero costituire i «Principi generali» della materia, al Capo II della Parte Prima, Titolo I, del Codice della crisi, quali in particolare espressi all’art. 4.
Il Decreto Attuativo ha solo in parte risolto un ulteriore problema di coordinamento tra detti “principi generali” e disciplina della gestione dell’impresa in pendenza delle trattative funzionali alla composizione negoziata.
Secondo l’art. 4, comma 2, lett. c), del Codice della crisi, per come ipotizzato nel c.d. “Schema di Decreto Attuativo” (approvato dal Consiglio dei ministri il 17 marzo 2022), durante i procedimenti conseguenti all’accesso ai «quadri di ristrutturazione» – dal cui perimetro avrebbe dovuto escludersi la composizione negoziata (così, espressamente, all’art. 2, lett. m-bis, del testo di Codice della crisi definito in detto schema) – l’impresa, avrebbe dovuto essere gestita nell’interesse «prioritario» dei creditori[13]. Nel caso invece dell’impresa che avesse avviato le trattative per la composizione negoziata, la necessità della gestione dell’impresa nel «prevalente»[14] interesse dei creditori era subordinata al caso (art. 21, comma 1, seconda parte) di emersione dell’insolvenza (e, ma si sarebbe trattato di conseguenza probabilmente paradossale, per quanto consentita dal dato letterale, solo nel caso di sussistenza di concrete prospettive di risanamento).
L’art. 4 del Codice della crisi, entrato in vigore con le modifiche apportate dal Decreto Attuativo, indirizza oggi espressamente i suoi principi anche a disciplina della composizione negoziata. Si noti, però, che l’art. 4, comma 2, lett. c), nell’affermare il principio della gestione nell’interesse prioritario dei creditori precisa ora doversi considerare «fermo» quanto (allora anche diversamente) previsto, fra l’altro, all’art. 21, così (involontariamente, si presume) rafforzando l’ipotesi che l’accesso alla composizione negoziata consente di posporre quel mutamento nella gerarchia degli interessi tra soci e creditori che dovrebbe caratterizzare la gestione dell’impresa in crisi, sino a quando non emerga l’insolvenza.
Allora delle due l’una.
Si può assumere che la condizione dell’impresa che acceda agli strumenti di regolazione della crisi non sia sovrapponibile o confondibile con la condizione dell’impresa che può accedere alla composizione negoziata, e allora potranno darsi due diversi status e diverse regole di generale condotta.
Se invece, come pare debba ammettersi alla luce della attuale disciplina, vi sono ampie sovrapposizioni tra le due condizioni, determinate (fra l’altro) dal fatto che si accede alla composizione negoziata anche nella situazione di crisi ed in essa si può rimanere anche quando sopravvenga l’insolvenza, allora due differenti status non si giustificano e le regole di condotta che gravano sugli organi di gestione e controllo, per non aggiungere incertezza all’incertezza determinata dalla situazione dell’impresa, devono essere identiche, o quanto meno fra loro coordinabili e, quando diverse, razionalmente spiegabili. Ad un tale risultato, pare urgente addivenire attraverso appositi ritocchi al Codice della crisi, volti in particolare a sfoltire e coordinare le regole di carattere generale.
3 . Richiami alla evoluzione del concetto di crisi sino alla attuazione della Direttiva Insolvency
Veniamo agli strumenti che il legislatore mette a disposizione per tracciare il confine costituito dalla condizione di crisi. A questo fine gli interrogativi si devono concentrare sulla relativa nozione, rispetto alla quale vale brevemente richiamare la sua evoluzione, tenendo conto anche dei ripensamenti del legislatore e, quindi, anche delle norme mai entrate in vigore.
Guardando all’art. 2086 c.c. emerge un primo interrogativo in ordine ai rapporti tra “crisi” e “perdita della continuità aziendale”.
Gli assetti organizzativi devono poter tempestivamente rilevare la crisi e la perdita della continuità aziendale. Salvo pensare si tratti di una ripetizione, in questa sua prima parte la disposizione induce a ritenere che i due concetti siano diversi, per modo che almeno uno possa darsi, anche quando l’altro non ricorra. E se una tale distinzione deve darsi, non pare potersi ipotizzare una perdita della continuità aziendale senza crisi, mentre invece non vale il contrario.
Nello stesso tempo, però, l’ultima parte del comma 2 dell’art. 2086 c.c. induce a pensare che il superamento della crisi non possa darsi se non anche con il recupero della continuità aziendale, con ciò confortando una diversa, non necessariamente contrapposta, opzione interpretativa, per la quale se, per un verso, la crisi può ricorrere anche quando la continuità aziendale non sia persa, per l’altro, il superamento della prima impone di recuperare stabilmente la continuità se del caso (e, allora, non definitivamente[15]) perduta.
Si tratta di conclusione che pare ora confermata dalle norme del Codice della crisi, tenuto conto della nozione infine offerta con il Decreto Attuativo.
Può qui, ovviamente, darsi per ampiamente noto l’assetto della legge fallimentare, che da un lato, ci offriva la definizione di insolvenza come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni e, dall’altro, si limitava a menzionare la crisi solo per indicare trattarsi di condizione più ampia rispetto all’insolvenza, a significare che l’impresa che avrebbe richiesto di accedere, per esempio, alla procedura di concordato preventivo non sarebbe stata necessariamente insolvente[16]. Allo stesso modo, può assumersi come noto l’intento del legislatore del Codice della crisi del 2019 di mutare la prospettiva, facendo del concetto di crisi uno strumento non più solo per legittimare, quanto piuttosto per imporre il ricorso tempestivo, anticipato rispetto all’insolvenza, a quelle misure e procedure funzionali al recupero della continuità aziendale[17].
Sin dall’iniziale impostazione del Codice della crisi (art. 2, b), ad ogni modo, l’insolvenza ha mantenuto la sua tradizionale definizione di stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore «non è più» in grado di soddisfare «regolarmente» le proprie obbligazioni». In quel “non è più” si esprime certamente il carattere strutturale della condizione, ma l’avverbio “regolarmente” è in grado di dare rilevanza ad una qualche valutazione (almeno minimamente) prospettica, poiché, del resto, non v’è modo di adempiere regolarmente ad obbligazioni già scadute[18].
Veniamo ora alla definizione di “crisi” ed a come è cambiata nella legislazione in itinere e, infine, oggi vigente. In coerenza con le finalità generali della riforma, nella versione del 2019 si intendeva dare rilevanza all’esigenza di anticipata emersione, definendosi la “crisi” come lo «stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate»[19].
L’anticipazione stava certamente nel riferimento alla “probabilità” di insolvenza, ma più di ogni altra cosa nel rilievo accordato anche alla mera “difficoltà” economico-finanziaria. D’altro canto, però, l’indicazione – specifica per le imprese – della probabilità della crisi in termini di inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate rischiava di determinare una qualche sovrapposizione rispetto alla nozione di insolvenza, vieppiù quando questa fosse stata ritenuta da ravvisare (come pare ampiamente preferibile) anche tenendo conto delle obbligazioni non ancora scadute[20].
Hanno prevalso, come noto, le critiche circa l’eccesso di anticipazione determinata da questa nozione, soprattutto per i comprensibili timori legati alla (discussa) originaria disciplina dell’allerta[21]. Da qui l’intervento del “decreto correttivo” (il D.lgs. 147/2020), ove la crisi veniva definita come «lo stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate».
Dalla mera difficoltà si è dunque passati allo squilibrio economico-finanziario, in grado di evocare una situazione molto più grave, strutturalmente, per quanto non definitivamente, compromessa.
All’art. 2, lett. a), del Codice della crisi, come modificato dal Decreto Attuativo, la crisi è definita come «lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi».
Rispetto alla precedente versione, merita segnalare le (per poi spendere qualche riflessione sulle) felici semplificazioni intervenute: la manifestazione dell’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici assume rilievo per ogni genere di debitore, viene cancellato l’avverbio “regolarmente”, viene cancellato l’aggettivo “pianificate”. Infine, l’arco temporale rilevante ai fini della valutazione di adeguatezza dei flussi di cassa viene, in maniera uniforme per ogni genere di debitore e di impresa (a prescindere della natura e dalle dimensioni della sua attività, si deve però constatare), fatto corrispondere ai dodici mesi.
4 . La probabilità di insolvenza come formante del vigente concetto di crisi
Per attribuire un significato alla nuova definizione e provare a comprendere anche il senso dei mutamenti intervenuti, pare necessaria una premessa: il cuore della previsione, in effetti rimasto immutato sin dalla sua prima versione, ma che nella formulazione sfrondata emerge oggi con maggiore evidenza, è costituito dal concetto di probabilità di insolvenza.
Attorno a questo giudizio probabilistico, costituente del resto l’unica specifica indicazione che viene al riguardo fornita dalla Direttiva Insolvency, va ricostruito il significato normativo del precetto; sicché, tutti gli altri elementi della fattispecie dovrebbero porsi in coerenza con il suo formante.
Ebbene, il giudizio probabilistico in tanto può emettersi in quanto vi siano, per quanto non prevalenti, alternative variabili plausibili (non mere vaghe speranze) nella vicenda imprenditoriale in grado di mutare l’esito ed evitare l’insolvenza. Quando l’insolvenza è solo probabile, ossia nella situazione di crisi, vi sono almeno due scenari davanti all’impresa: e, nello scenario che si basa sugli assunti meno probabili, per quanto plausibili, l’insolvenza non costituisce l’esito necessario.
Nel caso dell’insolvenza, che anche sotto questo profilo si conferma ravvisabile anche dinanzi ad obbligazioni non ancora scadute, non vi sono alternativi plausibili scenari: il test dei flussi di cassa, se rigorosamente formulato, può dare un solo esito.
Nel caso della crisi, sono plausibili diversi assunti e, per alcuni di questi, il piano dei flussi di cassa si mostra anche adeguato a far fronte alle obbligazioni dei successivi dodici mesi: gli è, però, che non si tratta degli assunti premiati dal giudizio di maggiore probabilità.
Questo chiarimento consente di distinguere la nozione di crisi dalla nozione di insolvenza (anche prospettica) e di comprendere il rilievo (meramente strumentale) del test dei flussi di cassa prospettici. Nella versione iniziale della disposizione, l’autonomo e specifico rilievo di tale test per le solo imprese faceva perdere un po’, nella struttura sintattica, l’accessorietà della verifica rispetto al concetto di probabilità. Oggi questa smagliatura pare venuta meno.
Sotto altro aspetto, l’eliminazione dell’avverbio “regolarmente” non impone di dare rilevanza a qualsivoglia inadempimento rispetto a singole posizioni, ciò che sarebbe contrario ai principi che regolano il sistema. Per converso, l’eliminazione non determina di per sé una automatica utilità ai fini del superamento test dei flussi di cassa prospettici dei mezzi anormali di pagamento. Nel contempo, però, la cancellazione dell’avverbio “regolarmente” ben potrebbe evitare insidiosi formalismi nel momento in cui, sia pure in via occasionale, una particolare situazione di tensione finanziaria possa essere risolta, per esempio, attraverso la cessione pro solvendo di un credito. Insomma, non è ancora crisi la situazione che vedrà l’impresa probabilmente inciampare e dover far ricorso ad un mezzo anormale di pagamento, ma, con la ragionevolezza delle previsioni, rimettersi in pari nell’arco temporale considerato.
Sempre utilizzando il giudizio probabilistico come formante della disposizione, non pare crei problemi l’eliminazione del riferimento alle obbligazioni “pianificate”. Nonostante l’eliminazione, infatti, non sarebbe corretto dare rilevanza alle obbligazioni frutto di imprevedibile accidente, per definizione estranee ad un piano finanziario[22]. Insomma, sarebbero state in ogni caso da “pianificare” le sole obbligazioni già assunte o di insorgenza probabile. Può allora ritenersi essere stato eliminato un elemento ovvio se non forse, là dove avesse aperto ad una distinzione tra il “pianificato” e il “probabile”, fuorviante.
Anche il riferimento ai dodici mesi merita di essere inteso come concetto strumentale, asservito al giudizio probabilistico e non burocratico. Diversamente, finirebbe con il contraddire la necessità di tenere sempre in considerazione la concreta impresa di cui si tratta. Si tratta di affermazione sulle cui implicazioni è bene soffermarsi.
Le particolari condizioni nelle quali versa l’impresa e la vicenda che la stessa attraversa possono rendere altamente probabili repentini mutamenti che mutano il quadro e il valore dei dodici mesi che si hanno di fronte.
Nonostante il riferimento ai dodici mesi, serve quindi poter affermare, non burocraticamente, che qualcosa è cambiato nella qualità o nella struttura dell’impresa, dunque nella capacità di porre rimedio alla debitoria accumulata, nei presupposti della redditività dell’azienda o della sua capacità di non consumare inutilmente risorse finanziarie; valutazione questa che non può non risentire della natura e delle dimensioni dell’impresa di cui si tratta. I dodici mesi devono essere in qualche modo rappresentativi di un probabile piano inclinato, o meglio del piano inclinato come quello che con maggiore probabilità si pone davanti all’impresa, non a loro volta un inciampo, una fase contingente.
Di conseguenza, se il cuore della definizione va individuato nel riferimento alla “probabilità di insolvenza”, dovrebbe potersi dare uno spazio per negare l’insorgenza della crisi anche quando, burocraticamente, il piano dei flussi di cassa prospettici segnali l’inadeguatezza degli stessi a far fronte alle obbligazioni dei successivi dodici mesi. In particolare, anche quando i dodici mesi rivelino l’importante difficoltà, ma possa ragionevolmente affermarsi che il periodo considerato non costituisca un arco temporale definitivamente rappresentativo della reale situazione dell’impresa, si dovrebbe dire, insomma, che non si è nella situazione di crisi. Si sarebbe, semmai, in presenza di quegli indizi della crisi cui si riferiva l’art. 14, comma 1, del Codice della crisi nella versione anteriore al Decreto Attuativo (per quanto il successivo comma 2 poteva indurre a considerare definitivamente presente, a seguito della segnalazione dei sindaci, uno stato di crisi da superare[23]); dovrà, perciò, procedersi a sorvegliare con attenzione la situazione, affinché l’attesa sia costantemente giustificata da un verificabile giudizio probabilistico, non legata a speranze vacue.
Una importante conferma di tale lettura si sarebbe potuta ricavare dall’art. 3, comma 3, del Codice della crisi, nel testo ipotizzato nello schema di Decreto Attuativo approvato dal Consiglio dei ministri del 17 marzo 2022. Lo scopo del citato art. 3 (infine entrato in vigore con ritocchi non irrilevanti) è chiarire in dettaglio la funzione degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e anche, quindi, essere di ausilio all’apprezzamento della adeguatezza degli assetti medesimi[24]. Tra le funzioni assegnate agli assetti organizzativi nel testo ipotizzato nel richiamato schema di marzo 2022 v’era la verifica della «assenza» di prospettive di continuità aziendale «per» i dodici mesi successivi. Il tenore testuale della disposizione così ipotizzata (e mai entrata in vigore) evidenziava la necessità non solo che i dodici mesi successivi facessero emergere l’inadeguatezza dei flussi di cassa, ma che nei dodici mesi successivi non vi fossero evenienze prevedibili e probabili in grado di mutare il corso degli eventi. Nella disposizione infine entrata in vigore, secondo cui gli assetti devono consentire di verificare «la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi», quelle conferme testuali sono venute meno. Parrebbe, tuttavia, non persuasiva una lettura del nuovo testo che imponga di considerare irrilevanti le probabilità di autonomo recupero della continuità aziendale in grado di affacciarsi nell’arco dei dodici mesi considerati.
5 . Il problema delle “condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario” nella disciplina di accesso alla composizione negoziata
La nuova definizione di “crisi” segna certamente una qualche maggiore anticipazione della rilevanza della fattispecie rispetto alla precedente ipotesi ancorata sulla nozione di “squilibrio”. La struttura della nuova definizione, pur con tutte le difficoltà del caso (del resto, si maneggiano fenomeni complessi), può fornire coordinate adeguate al fine di tracciare quel confine, che si è visto essere rilevantissimo, ai fini della gestione dell’impresa, prima ancora che ai fini concorsuali. In particolare, in ragione del giudizio probabilistico, consente una distinzione più netta rispetto all’insolvenza (anche quando questa sia valutata avendo riguardo alle obbligazioni imminenti e non scadute), ma soprattutto riconosce uno spazio di apprezzamento discrezionale ineliminabile, e perciò, nei limiti della ragionevolezza, insindacabile, nella valutazione dell’andamento dell’impresa e della sua evoluzione[25].
Ciò detto, non si può sottacere il fatto che il quadro, fin qui probabilmente lineare, torna a complicarsi quando si abbia riguardo a ciò che dovrebbe rimanere dell’allerta e al presupposto della composizione negoziata.
L’art. 25-octies, con il quale inizia il Capo III, del Titolo II, del Codice della crisi (capo che detta norme, fra l’altro, in materia di «Segnalazione per la anticipata emersione della crisi») stabilisce al comma 1 che l’organo di controllo societario segnala, «per iscritto», all’organo amministrativo la sussistenza dei presupposti per la presentazione dell’istanza di cui all’articolo 12, comma 1, ossia i presupposti per la composizione negoziata. Aggiunge inoltre al comma 2 che «La tempestiva segnalazione all’organo amministrativo ai sensi del comma 1» è valutata ai fini della responsabilità prevista dall’art. 2407 c.c.
Sicché, la tempestività della segnalazione in questione è elemento che pesa nella valutazione della responsabilità dell’organo di controllo (e, quindi, implicitamente anche ai fini della valutazione della responsabilità dell’organo amministrativo). Diventa allora importante non tanto (o comunque, non solo) ai fini concorsuali, quanto ai fini dell’assetto delle responsabilità dei gestori e controllori dell’impresa, comprendere quale sia l’oggetto della segnalazione e quando essa diviene esigibile.
Ora, l’oggetto della segnalazione è costituito dai presupposti per la presentazione della composizione negoziata. Il legislatore, in qualche maniera, raccomanda che il tentativo di composizione negoziata preceda l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi (art. 2, lett. m-bis, del Codice della Crisi, come modificato dal Decreto Attuativo) e ne impedisce la presentazione quando pende il procedimento di accesso a detti strumenti (art. 25-quinquies). Si sarebbe perciò indotti a pensare si tratti di uno strumento che vuole dare all’impresa un’occasione di prevenzione della crisi, prima ancora e, piuttosto, che di prevenzione dell’insolvenza. Nella disciplina che ha trovato posto all’art. 12, comma 1, del Codice della crisi, il presupposto dell’accesso alla composizione negoziata è però costituito da «condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza», dovendo, al contempo, risultare «ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa». Si indica, pertanto, quale presupposto e allora oggetto della segnalazione quella condizione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che pure, come sopra ricordato, era stata introdotta nella nozione di “crisi” per definire in termini particolarmente gravi la situazione nella quale l’impresa versava, salvo essere infine, e opportunamente, espunta dal Decreto Attuativo.
Tali condizioni di squilibrio (patrimoniale, come anche economico- finanziarie) definiscono una singolare situazione da cui può, sempre secondo la linea della probabilità, derivare sia la “crisi” sia “l’insolvenza”.
Quindi con una formula che sembra indicare, di principio, una situazione (lo squilibrio) strutturalmente più grave rispetto a quella che in cui dovrebbe sostanziarsi la nozione di “crisi” si definisce una condizione che può determinare la “crisi” e che quindi dovrebbe essere meno grave di questa; ma, al contempo, una condizione che può determinare “l’insolvenza”, quindi almeno tanto grave quanto la crisi.
La nozione si completa con il riferimento alla ragionevole perseguibilità del risanamento dell’impresa. Questo elemento pare debba riguardare l’impresa guardata nella sua dimensione stand alone, al di là di quanto siano disposti a concedere i creditori (elemento, del resto, imponderabile e che spesso si accresce, anziché ridursi, con l’acuirsi della gravità della crisi)[26]. Se così è, il riferimento implica che, al netto della debitoria da ristrutturare e degli oneri che determina, deve potersi apprezzare che l’impresa è in grado di continuare a creare valore o sussistono condizioni ragionevoli perché continui a creare valore. Per tale ragione, la perseguibilità del risanamento dell’impresa è elemento della fattispecie compatibile anche con la situazione di insolvenza che, sebbene non sia inclusa nella condizione che legittima l’ingresso nella composizione, quando emerga successivamente non necessariamente impedisce l’avanzamento della trattativa (se esistono, precisa però l’art. 21, comma 1, del Codice della crisi, quasi a voler cercare elementi diversi dalla astratta ragionevole perseguibilità del risanamento, «concrete» prospettive di risanamento).
Se così è, il riferimento alla ragionevole perseguibilità del risanamento, certamente utile per definire le condizioni in cui l’impresa versa, non pare riesca a rimettere ordine nel rapporto tra i concetti di squilibrio, crisi e insolvenza evocati all’art. 12.
6 . Allerta e probabilità della crisi: un corto circuito logico; non configurabilità della situazione di pre-crisi
Per completare il quadro, pare utile cercare di comprendere se quella situazione di squilibrio di cui all’art. 12 del Codice della crisi oggetto della segnalazione di cui all’art. 25-octies del medesimo appaghi le esigenze imposte dalla Direttiva Insolvency con riguardo alla allerta precoce[27].
Le disposizioni unionali offrono però, a loro volta, un quadro tutt’altro che univoco.
All’art. 3, comma 1, la Direttiva Insolvency impone agli Stati membri di dare ai debitori accesso a uno o più strumenti in grado di individuare situazioni che «potrebbero comportare la probabilità di insolvenza» e di segnalare al debitore la necessità di agire senza indugio.
La situazione che potrebbe comportare la (in ipotesi diversa situazione) di probabilità di insolvenza non pare potersi leggere in termini di mera possibilità della probabilità di insolvenza, poiché diversamente il quadro congetturale diventerebbe eccessivamente ampio. Si tratta, piuttosto, di probabilità della probabilità di insolvenza[28].
Apparentemente si sarebbe chiamati allora a prendere atto di una sorta di probabilità di secondo grado che, rispetto alla crisi, dovrebbe individuare un momento della vicenda dell’impresa ancora più lontano dalla situazione finale dell’insolvenza[29].
L’accesso ai quadri di ristrutturazione è richiesto invece quando sussista «una probabilità di insolvenza» (art. 4); in questo caso, quindi, il rapporto probabilistico rispetto all’insolvenza è diretto, e questo, ancora apparentemente, dovrebbe lasciar supporre una situazione maggiormente prossima all’insolvenza.
Si dovrebbe conseguentemente desumere che, secondo la Direttiva Insolvency, l’allerta può considerarsi precoce sino a quando non sussista ancora la probabilità dell’insolvenza, versandosi in una situazione nella quale è probabile la crisi, mentre non è probabile l’insolvenza. Tuttavia, la crisi è la situazione che rende probabile l’insolvenza. E allora la sensazione è di essere di fronte ad un corto circuito logico. Basti al riguardo considerare che se la situazione “B” rende probabile “C”, la situazione “A” che renda probabile “B” rende probabile anche “C”, essendo “C” il prodotto delle due catene di probabilità. Se la situazione oggetto dell’allerta precoce rendesse probabile altra situazione non in grado, a sua volta, di rendere probabile l’insolvenza, vuol dire che non si tratterebbe di probabilità di crisi.
Se così è, la probabilità della crisi, essendo la crisi probabilità di insolvenza, non pare potersi distinguersi dalla probabilità dell’insolvenza, con il rischio che ci si ingegni a considerare rilevante anche la mera possibilità della crisi, il cui perimetro sarebbe, per definizione, indefinito e sommamente incerto[30].
La situazione di pre-crisi, apparentemente inseguita dalla disciplina unionale, non pare essersi tradotta in un concetto diverso dalla crisi. E questo, unitamente alla circostanza che la Direttiva Insolvency espressamente rinuncia alla definizione di insolvenza e di probabilità di insolvenza, rimettendola alle discipline nazionali (art. 2, § 2, lett. a)[31], consente di non ravvisare discrepanze tra la disciplina interna e disciplina unionale, nonostante il riferimento del Codice della crisi allo stato di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario.
7 . Conclusioni: l’allerta come disciplina di sola aggravata verifica della sussistenza della crisi
Quanto sopra osservato a proposito della vana ricerca dell’anticipazione perseguita nella Direttiva Insolvency, dovrebbe costituire allerta dei rischi di arbitrio che si corrono a considerare come rilevante una situazione che addirittura precede la crisi.
Sotto il profilo interpretativo, le conseguenze non paiono di poco momento, dovendo l’allerta precoce essere considerata come disciplina volta a determinare le condizioni per avvedersi della crisi il prima possibile, non per segnalare una situazione intermedia tra crisi e non crisi[32].
Su questo fronte, qualche correttivo al Codice della crisi parrebbe ancora necessario, teso almeno a distinguere alcuni problemi.
Una cosa è, comprensibilmente, consentire l’accesso alla composizione negoziata anche quando la situazione di crisi non sia stata esattamente rilevata precocemente (purché il risanamento dell’impresa risulti ragionevolmente perseguibile). Ad altra logica[33] dovrebbe corrispondere la definizione delle condizioni dell’allerta precoce. I due meccanismi, insomma, non dovrebbero sovrapporsi, facendo coincidere l’oggetto dell’allerta con la situazione (a dir poco ampia) che legittima l’accesso alla composizione negoziata.
Sotto altro profilo, vale ricordare che la Direttiva Insolvency non impone di far gravare un dovere di segnalazione in capo ai sindaci (né ovviamente lo impedisce). Il monitoraggio sull’andamento dell’impresa è già parte integrante dei doveri dei sindaci e non richiederebbe, stante fra l’altro l’art. 2086 c.c., l’affermazione di un obbligo specifico. Sicché, per determinare concorrenti condizioni anche esterne per avvedersi della crisi il prima possibile, e per scoraggiare tesi volte a dare rilevanza ad una situazione di pre-crisi, potrebbe essere sufficiente (come si propongono di fare, a prescindere qui dal merito delle relative condizioni[34], gli artt. 25-novies e 25-decies) portare all’attenzione dei gestori e dei controllori dell’impresa alcuni selezionati inadempimenti o specifiche situazioni nei rapporti in corso con alcuni qualificati creditori, lasciando poi alla valutazione degli organi del debitore (sindaci inclusi) l’apprezzamento della ricorrenza della situazione di crisi e, quindi, della opportunità o necessità di ricorrere alla composizione negoziata o agli strumenti di regolazione della crisi (in questo senso, depone anche il Considerando 22 della Direttiva Insolvency).


*Queste brevi note costituiscono rielaborazione, corredata dagli essenziali riferimenti bibliografici, della relazione tenuta al convegno “L’adeguamento alla Direttiva Insolvency tra norme in vigore e riforma in itinere”, organizzato dall’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo e tenutosi il 13 maggio 2021.

Note:

[2] 
Fra gli interventi più recenti, F. Macario, La riforma dell’art. 2086 c.c. nel contesto del codice della crisi e dell’insolvenza e i suoi riflessi sul sistema della responsabilità degli organi sociali, 26 maggio 2022, in www.dirittodellacrisi.it; V. Pinto, Diritto delle società e procedure concorsuali nel codice della crisi, in Riv. dir. comm., 2021, I, p. 265; L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in RDS, 2020, pp. 302 e 308 ss., ove ulteriori riferimenti. V., però almeno anche, M.S. Spolidoro, Note critiche sulla «gestione dell’impresa» nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, pp. 253 ss.
[3] 
Più di recente, M. Arato, Il ruolo di soci e amministratori nei quadri di ristrutturazione preventiva, 10 maggio 2022, in dirittodellacrisi.it, p. 2.
[4] 
In questo senso, la disposizione non introduce un “nuovo” dovere della gestione, ma – probabilmente – fa chiarezza in ordine alla costante necessità di valutare la sussistenza (necessariamente prospettica) della continuità aziendale (cfr., sul punto, P. Benazzo, Il controllo nelle società di capitali tra diritto ‘comune’ e codice della crisi d’impresa, in Riv. soc., 2020, pp. 1575 e 1577, ove ulteriori riferimenti).
[5] 
Trattandosi di strumenti della gestione, gli assetti organizzativi dovrebbero essere asserviti alla generale finalità economica dell’impresa. Nella regola, però, la funzione di tali assetti è (è «anche» all’art. 2086 c.c., ma la congiunzione scompare all’art. 3, comma 2, del Codice della crisi) di consentire all’imprenditore di tempestivamente rilevare lo stato di crisi e assumere idonee iniziative: un sistema di allarme, non strumenti per rendere più efficiente la gestione e più produttiva e redditizia l’impresa. Si dirà che detti assetti certamente assolvono anche a questa funzione, ma l’interprete e gli operatori constatano che la regola ha scelto di dare esplicita evidenza della sola necessità di rilevare tempestivamente la crisi (che, peraltro, è anche cosa diversa, più burocratica, di un’azione volta a prevenire la crisi). E difatti, la dottrina avverte la necessità di valutare se il nuovo art. 2086 c.c. non abbia in qualche modo modificato l’art. 2247 c.c., nel quale viene ancora esplicitato lo scopo di lucro (P. Benazzo, Il controllo nelle società, cit., p. 1553, nt. 6); scopo di lucro che, del resto, in certi accenti del diritto societario europeo in via di formazione tende ad essere considerato come una ragione della crisi, piuttosto che un’arma per contrastarla. Il riferimento è alla corrente di pensiero, cui aderisce il recente decisore europeo (e v. la comunicazione n. 97 dell’8 marzo 2018, con cui la Commissione europea ha varato un “Piano d’azione per finanziare la crescita sostenibile”; v., altresì, la risoluzione “sul governo societario sostenibile” adottata il 17 dicembre 2020 dal Parlamento Europeo) che individua nella ricerca del profitto a c.d. breve termine la mozione che rende le imprese avversarie dell’esigenza di dare soluzione ai molti e gravi problemi sociali, a cominciare dalla salvaguardia dell’ambiente (sull’argomento, fra gli altri, con accenti anche diversi, U. Tombari, Corporate purpose e diritto societario: dalla “supremazia degli interessi dei soci” alla libertà di scelta dello “scopo sociale”?, in Riv. soc., 2021, p. 1; M. Stella Richter jr., Long-Termism, ibidem, 2021, p. 16.)
[6] 
L’incertezza è immanente all’attività economica; è proprio la sfida verso il risultato incerto a poter generare il surplus di ricchezza (F.H. Knight, Risk, Uncertainty and profit, London, 1957, ora in Rischio, incertezza e profitto, Firenze, 1960, p. 36, a cura di M. Giorda; W.J. Baumol, Entrepreneurship in Economic Theory, Am. Ec. Review, 1968, vol. 58, n. 2, p. 65 s.; L. Einaudi, Introduzione a R. Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, a cura di S. Cotta e A. Giolitti, Torino, 1974, p. XVII).
[7] 
Sarebbe, al contrario, incongruo, data la natura dell’attività d’impresa, pretendere di declinare la sua gestione secondo una certa metrica della precauzione, che, nel dubbio, imporrebbe di fermarsi. La vigenza del principio di precauzione in certi settori di attività (per esempio, quello ambientale) non ne muta il piano di riferimento, attinente alla legalità dell’azione, non alla legalità della gestione (rispetto alla quale la diligenza imporrà semmai di pensare ad una struttura adeguata nell’intento di scongiurare l’illegalità dell’azione: e v., Buonocore, Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi terzo e quinto, del codice civile, in Giur. comm., 2006, I, 31 ss., spec. 34). Se, invece, si considerasse il principio di precauzione direttamente operante sul piano della legalità della gestione, lo stesso impedirebbe di concludere affari in presenza di rischi, esprimendo un sostanziale rifiuto dell’impresa e cancellando il diritto all’errore dell’amministratore (Alvaro et al., Business judgement rule e mercati finanziari, in Quaderni giuridici Consob, 11, 2016, 31 s.). Il dubbio, del resto, costituisce una costante dell’attività economica. 
[8] 
Sul tema, v., almeno, E. Barcellona, Business judgment rule e interesse sociale nella “crisi”, Milano, 2020, pp. 70 e 73, ove ulteriori riferimenti.
[9] 
Sia consentito quindi rinviare al mio Rischio e libertà nell’impresa azionaria, tra standardizzazione dei processi decisionali, prevenzione della crisi e annunciato superamento dello scopo di lucro, in Riv. soc., 2021, pp. 536 ss.
[10] 
E v., infatti, l’art. 19 della c.d. “Direttiva Insolvency” (la direttiva 20 giugno 2019, n. 2019/1023/UE), ai sensi del quale gli Stati membri sono chiamati a far sì che gli amministratori, qualora sussista una «probabilità di insolvenza», agiscano tenendo conto degli interessi dei creditori, dei soci e degli «altri portatori di interessi», adottando misure «per evitare l’insolvenza» e evitando condotte che «deliberatamente o per grave negligenza, mettono in pericolo la sostenibilità economica dell’impresa». 
[11] 
La terminologia riproduce in qualche modo l’art. 19 della Direttiva Insolvency.
[12] 
Sembra abbastanza evidente che evitare un pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività non corrisponde necessariamente ad una condotta omissiva.
[13] 
Meno rigorosa, per quanto di maggiore ampiezza, la regola espressa all’art. 19 della Direttiva Insolvency, ove si richiede agli Stati membri di provvedere affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, i gestori «tengano debitamente conto come minimo» degli «interessi dei creditori». Gestire tenendo in considerazione un certo interesse è cosa diversa da gestire in funzione di tale interesse. Tale dovere viene, peraltro, affermato a prescindere dall’accesso ad un quadro di ristrutturazione, dipendendo dallo stato in cui versa l’impresa, in termini di probabilità di insolvenza.
[14] 
Termine che – salvo proporsi una a dir poco ardua definizione dei confini tra due disposizioni per vocazione recanti entrambe previsioni d’ordine generale – pare qui essere stato utilizzato con un’accezione non dissimile dall’aggettivo «prioritario» preferito all’art. 4.
[15] 
L’efficacia degli assetti si misura in ragione della loro capacità di mettere in allerta gestori e controllori quando ancora possa darsi «il recupero della continuità aziendale» (2086 c.c.). Condivisibile, quindi, la precisazione di M. Bruno, Il coinvolgimento degli organi di controllo, cit., p. 277, il quale considera la fase in questione «caratterizzata ancora dal “going concern”».
[16] 
Ciò che faceva così sorgere l’esigenza di individuare un limite «interno» alla nozione di crisi, atto a definire i presupposti di accesso alla procedura concordataria (G. Ferri jr., Insolvenza e crisi dell’impresa organizzata in forma societaria, in Riv. dir. comm., 2011, I, p. 425).
[17] 
G. Guerrieri, Il nuovo codice della crisi e dell’insolvenza, in Nuove leggi civ. comm., 2019, p. 811.
[18] 
La tesi tradizionale e prevalente esclude, tuttavia, che l’insolvenza prospettica possa legittimare la dichiarazione di insolvenza (e v., A. Nigro - D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2021, p. 79; in giurisprudenza, nello stesso senso, ma con alcune aperture, Trib. Milano, 3 ottobre 2019, in IlCaso.it; spunti nel senso di cui al testo in B. Inzitari, Crisi, Insolvenza, Insolvenza Prospettica, Allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione, 18 marzo 2021, p. 9, in dirittodellacrisi.it).
[19] 
In argomento, A. Bassi, I presupposti delle procedure concorsuali nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Giur. it., 2019, p. 1951.
[20] 
Per questa via, il concetto di “crisi” avrebbe finito con il tornare a comprendere, similmente alla impostazione della legge fallimentare, anche un certo modo d’essere della situazione di insolvenza.
[21] 
Che dai fondati “indizi di crisi” conduceva in maniera quasi meccanica davanti all’OCRI e da lì alla possibile segnalazione al PM. Sul tema, più di recente, S. Pacchi, Le segnalazioni per la anticipata emersione della crisi. Così è se vi pare, in IlCaso.it, 9 agosto 2022, pp. 3 ss. V., inoltre, G. Bertolotti, Poteri e responsabilità nella gestione di società in crisi, Torino, 2017, p. 71; M. Bruno, Il coinvolgimento degli organi di controllo nella crisi d’impresa alla luce del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, in Riv. dott. comm., 2019, p. 283; M. Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in Nuove leggi civ. comm., 2019, p. 1169 s.; G.M. Buta, Gli obblighi di segnalazione dell’organo di controllo e del revisore nell’allerta sulle crisi d’impresa, in Nuove leggi civ. comm., 2019, pp. 1204-1207; A. Nigro - D. Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 100.
[22] 
Sebbene non necessariamente alla gestione diligente, che impone di individuare i rischi rilevanti anche quando meno che probabili, sebbene non meramente possibili.
[23] 
Trattandosi in ogni caso di “indizi” e di una segnalazione proveniente dai componenti di un organo (e dunque di uno dei possibili punti di vista), si sarebbe, tuttavia, dovuto poter affermare sussistente uno spazio di comune ponderazione, approfondimento e confronto fra gli organi sociali (P. Valensise, Organi di controllo nelle procedure di allerta, in Giur. comm., 2019, I, p. 587; F. Innocenti, Composizione e nuovi poteri/doveri dell’organo di controllo e del revisore nelle s.r.l., tra vecchi e nuovi interrogativi, in Giur. comm., 2021, I, p. 172 s.; P. Benazzo, Il controllo nelle società, cit., p. 1578).
[24] 
Sull’argomento, v. M. Arato, Il ruolo di soci, cit., p. 1 ss.
[25] 
Non dovrebbe potersi dubitare del carattere intrinsecamente gestorio (allora governate dalla business judgment rule) delle valutazioni da compiere circa la sussistenza dello stato di crisi, valutazioni interne al giudizio di probabilità, che si pongono a monte del piano dei flussi di cassa prospettivi e che richiedono, fra l’altro, di apprezzare l’affidabilità dei clienti, la pazienza dei fornitori, la rischiosità di operazioni in corso, l’utilità di operazioni da compiere, il tempo entro il quale produrranno i loro effetti.
[26] 
Una conferma si trae dal Decreto direttoriale 28 settembre 2021, adottato a norma dell’art. 3, comma 2, D.L. n. 118/2021, ove all’esperto chiamato a verificare la sussistenza di concrete prospettive di risanamento si chiede di valutare l’eventuale carattere remoto della reversibilità della probabilità di insolvenza «indipendentemente dalle scelte dei creditori». Sull’argomento, in giurisprudenza, Trib. Viterbo, 14 febbraio 2022, in www.dirittodellacrisi.it.
[27] 
Non si può per inciso non rilevare che la direttiva si compone di ben cento considerando, i quali si propongono di fornire la chiave di lettura di soli trentadue articoli. È vero che ai considerando occorre riconoscere un qualche rilievo interpretativo, ma l’impressione è di un legislatore attualmente impegnato più nella narrativa, che nella costruzione dei precetti. Basti ricordare che la seconda direttiva comunitaria in materia societaria si componeva di cinque considerando e quarantatré articoli. 
[28] 
In questo senso, P. Vella, L’impatto della direttiva Ue 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Fall., 2020, p. 754; L. Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, in www.dirittodellacrisi.it, 25 agosto 2021, p. 10; V. Minervini, La “composizione negoziata” nella prospettiva del recepimento della direttiva “insolvency”. Prime riflessioni, 17 ottobre 2021, in www.ilcaso.it, p. 7; A. Rossi, Composizione negoziata della crisi d’impresa: presupposti e obiettivi, 25 ottobre 2021, in www.dirittodellacrisi.it, p. 2; G. Bilò, Qualche considerazione sulla compatibilità tra D.L. 118/2021 e Direttiva Insolvency, febbraio 2022, in www.osservatorio-oci.org, p. 7.
[29] 
E v., per il rilievo di uno stato di difficoltà del debitore colto in «tempi, davvero, precoci», M. Fabiani, L’avvio del codice della crisi, 5 maggio 2022, in www.dirittodellacrisi.it, p. 15.
[30] 
Come noto, una delle principali linee guida della riforma era ispirata dalla necessità di evitare i c.d. “azzardi morali” dei soci nella twilight zone e tutelare la maggiore esposizione al rischio dei creditori nella fase crepuscolare (M. Fabiani, L’azione di responsabilità dei creditori sociali e le altre azioni sostitutive, Milano, 2015, p. 29). Con il concetto di crisi si è appunto inteso anticipare la disciplina a quella fase (dal crepuscolo al tea-time secondo P. Benazzo, Il controllo nelle società, cit., p. 1576). Sta di fatto che il confine non si riduce mai alla ideale geometrica riga da cui è tracciato, sicché occorre resistere alla tentazione di definire un crepuscolo, una zona grigia, anche rispetto alla “crisi”, ad evitare l’applicazione delle nuove regole ad una fase ancora più arretrata, che sino a pochi anni fa si sarebbe considerata, se non di salute, di ordinaria traversia (cfr., ancora, P. Benazzo, Il controllo nelle società, cit., p. 1578, il quale, nella disciplina del Codice della crisi archiviata senza entrare in vigore, considerava gli organi interni destinatari di uno statuto da applicare già quando «il rischio della discontinuità rimanga nei limiti della fisiologica esistenza ed evoluzione dell’impresa»).
[31] 
E v., al riguardo, i rilievi critici di G. Bilò, Qualche considerazione, cit., p. 1.
[32] 
G. Bilò, Qualche considerazione, cit., p. 7.
[33] 
Cui, nell’avviso di G. Bilò, Qualche considerazione, cit., p. 7, è ispirata la Direttiva Insolvency.
[34] 
Sulle quali v., S. Pacchi, Le segnalazioni, cit., pp. 11 ss., ai cui riferimenti pure si fa rinvio. 

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