Ricordato che, con l’introduzione della Sezione in questione il legislatore del 2022 aveva inteso dare attuazione alla direttiva 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva, si può iniziare il discorso partendo dall’art. 120 bis, come riformulato dal terzo correttivo, per il quale «L'accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza …è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori o dai liquidatori, i quali determinano anche il contenuto della proposta e le condizioni del piano» (comma 1), «Ai fini del buon esito della ristrutturazione il piano …può prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni» (comma 2).
A. Diremo appresso del problema della individuazione del perimetro soggettivo e di quello oggettivo di applicazione delle nuove regole[11]: già però il riferimento generico, contenuto nell’incipit dell’art. 120 bis, agli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, quali offerti dal sistema italiano, nessuno dei quali ha come presupposto oggettivo il solo stato di “crisi”, fa sorgere più di qualche dubbio in punto di compatibilità del complesso di tali regole con la direttiva.
Il legislatore comunitario ha richiesto la predisposizione di meccanismi di ristrutturazione destinati a prevenire l’insolvenza. Sul punto l’art. 1, § 1, lett. a) della direttiva è inequivocabile: vi si precisa, infatti, che essa direttiva stabilisce norme in materia di «quadri di ristrutturazione preventiva per il debitore che versa in difficoltà finanziarie e per il quale sussiste una probabilità di insolvenza, al fine di impedire l'insolvenza e di garantire la sostenibilità economica del debitore»); meccanismi, uno o più, deputati esclusivamente alla ristrutturazione preventiva (anche su questo il testo delle norme comunitarie, in particolare dell’art. 4[12], sembrerebbe inequivocabile) Il legislatore italiano ha invece “offerto” una articolata panoplia di meccanismi “ibridi”, accessibili anche dal debitore già insolvente ed utilizzabili anche in chiave puramente liquidatoria[13].
Di qui il dubbio di compatibilità[14].
C’è un’unica (minima) scusante: ed è che altri legislatori nazionali hanno effettuato una analoga scelta. Questo è accaduto per esempio nell’ordinamento spagnolo, dove si è attuata la direttiva introducendo la nuova figura del plan de reestructuración, avente come presupposto oggettivo sia la probabilità di insolvenza, sia l’insolvenza imminente o attuale (art. 584); con il che – come è stato giustamente osservato, in chiave critica, da attenta dottrina[15] – il plan de reestructuración, concepito in principio (dalla direttiva) come procedimiento preconcursal, viene a configurarsi simultaneamente, in quell’ordinamento, come procedimiento paraconcursal.
B. L’art. 120 bis detta una disciplina destinata a trovare applicazione, alla stregua della indicazione generica contenuta nella rubrica del Capo, a tutte le società, siano esse società di capitali o società di persone o società cooperative. Anche sotto questo profilo si nota un vistoso scostamento rispetto alla direttiva. Le disposizioni della medesima riguardanti, da un lato, la posizione fatta ai soci e, dall’altro, le modificazioni statutarie e l’intervento dell’assemblea in ordine alle stesse sono chiarissime nell’assumere come punto di riferimento solo le società di capitali: le prime, infatti, parlano costantemente di «detentori di strumenti di capitale» (art. 2, § 1, n. 2; art. 12, §§ 1 e 2; ecc. ); le seconde richiamano la disciplina contenuta in direttive aventi ad oggetto la disciplina di società di capitali (così l’art. 32, che richiama le disposizioni della direttiva n. 2017/1132, riguardanti – come è noto - lo stabilimento ed il funzionamento di società di capitali e la fusione e la scissione di società di capitali).
L’aspetto paradossale della vicenda è che le regole poste dagli artt. 120 bis e ss. sono state poi formulate pensando solo alla figura delle società di capitali (anzi, più specificamente, delle società per azioni): basta guardare al comma 2 dell’art. 120 bis dove si trovano le espressioni «aumenti o riduzione di capitale anche con limitazione con esclusione del diritto di opzione» o «modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci», che evocano fattispecie tipiche della disciplina delle società di capitali. Con il risultato di rendere quanto meno “disagevole” l’applicazione del complesso di norme che qui interessano a figure diverse dalle società di capitali (sul punto, comunque, si tornerà più avanti[16]).
C. Lo “scostamento” rispetto alla direttiva risulta nettissimo anche con riguardo ad un ulteriore profilo, sempre con riguardo al perimetro soggettivo. Il terzo decreto correttivo ha integrato l’art. 120 bis, comma 1, inserendo a fianco degli amministratori i liquidatori, trascurando completamente di considerare, da un lato, che nell’ambito della liquidazione la ripartizione di poteri fra “gestori” e assemblea segue regole particolari, che vedono attribuite addirittura all’assemblea straordinaria le determinazioni in ordine alla gestione; e, dall’altro, che, in quell’ambito, operazioni straordinarie sono certo ammissibili, ma solo ove finalizzate direttamente alla liquidazione non certo alla ristrutturazione.
Nella relazione illustrativa al decreto del 2024 si cerca di giustificare l’innovazione invocando ragioni di “completezza”: ma nella specie, proprio per rispettare la direttiva, si doveva distinguere e non accomunare figure e situazioni assolutamente diverse fra di loro.
D. L’art. 120 bis, là dove attribuisce agli amministratori la competenza esclusiva ed inderogabile in materia di contenuto della proposta e del piano, sembrerebbe, in s considerato, poter essere ritenuto – almeno per quanto riguarda le società di capitali - una norma speciale e non già eccezionale: da un lato, il sistema già prevedeva come regola di default (nelle società di capitali) appunto l’attribuzione agli amministratori del potere di decidere in ordine alla proposta e al piano del concordato preventivo; dall’altro, si potrebbe collegare questa nuova regola alla competenza esclusiva attribuita agli amministratori in materia di assetti adeguati alla rilevazione delle crisi ed alla individuazione delle misure per superarle[17]. D’altra parte, anche le modificazioni statutarie prendono l’avvio, normalmente, da proposte degli amministratori.
Il fatto è, però, che questa regola si connette strettamente con quella posta dall’art. 120 quinquies, la quale – traendo ispirazione da un ben preciso orientamento dottrinale[18] - stabilisce che, nell’ipotesi in cui il piano preveda modificazioni statutarie, è il provvedimento di omologazione del tribunale che “determina” le modificazioni in questione, in sostituzione quindi dell’assemblea. L’assetto che deriva dalla combinazione di queste regole è caratterizzato, dunque, dall’instaurazione di un rapporto diretto fra amministratori e tribunale, con un completo e drastico esautoramento dei soci. Il che concreta un regime che è sicuramente eccezionale e che – come chi scrive ha rilevato in altra occasione[19] – solleva molte perplessità.
a. Per cominciare, tale assetto non sembra affatto in linea con le previsioni della direttiva n. 2019/1023 che il legislatore del 2022 avrebbe inteso attuare.
Tale direttiva infatti, per un verso, stabilisce che i legislatori nazionali, ove non contemplino la collocazione degli azionisti in una apposita classe, debbano adottare altre misure per evitare che essi possano irragionevolmente impedire l’adozione o l’attuazione di un piano di ristrutturazione: art. 12, §§ 1 e 2[20], dai quali deriva che, nell’ottica del legislatore comunitario, il classamento dei soci è la “misura” di per sé sufficiente a neutralizzare l’ostruzionismo dei soci. E, per altro verso, consente sì ai legislatori nazionali, con l’art. 32, di derogare alla regola dell’intervento dell’assemblea ma con riferimento a talune specifiche operazioni, precisamente a quelle di aumento e di riduzione del capitale (il richiamato art. 32 elenca scrupolosamente le relative norme della direttiva n. 2017/1132), con una deroga, oltretutto, limitata nel tempo.
Orbene, in relazione alle previsioni dell’art. 12 della direttiva, da un lato, la disciplina che stiamo considerando prevede proprio la obbligatoria collocazione in apposita classe dei soci interessati dalle modifiche statutarie previste nel piano (art. 120 ter)[21]; il che fa venire automaticamente meno l’esigenza di “altre” misure particolari a carico dei medesimi soci[22]. E, dall’altro, la formulazione di quelle previsioni evoca non già meccanismi di diretta attribuzione del potere decisionale ad organi diversi dall’assemblea o a soggetti esterni in chiave di prevenzione della possibilità stessa di comportamenti ostruzionistici da parte dei soci (con una evidentissima sproporzione, allora, fra il mezzo e il fine), bensì meccanismi “sanzionatori” di comportamenti ostruzionistici che risultino in concreto irragionevoli alla luce di una equilibrata considerazione di tutti gli interessi in gioco, compresi quelli degli stessi soci.
In relazione, poi, al disposto dell’art. 32, il nostro legislatore ha ritenuto di estendere la deroga a tutte le modificazioni statutarie e specificamente alle operazioni di fusione e di scissione, trascurando di considerare che l’art. 32 non menziona gli artt. 93 e 139, in materia rispettivamente di fusione e di scissione, fra le disposizioni della direttiva n. 2017/1132 a cui i legislatori nazionali possono derogare[23].
Sembra corretto, infine, il rilievo secondo il quale le previsioni in questione contrastano con il “diritto europeo vivente” quale espresso dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, la quale sembro essersi ormai nettamente orientata nel senso che i principi fondamentali del diritto societario consacrati nelle direttive unionali in punto di poteri deliberativi dei soci precludono ai legislatori nazionali, salvi casi eccezionali, la possibilità di sottrarre tali poteri ai soci per attribuirli ad entità esterne[24].
b. Nel nostro ordinamento l’attribuzione all’assemblea della competenza a decidere le modifiche statutarie, e più in generale le operazioni straordinarie, che incidano sui diritti partecipativi dei soci costituisce un vero e proprio principio di sistema. La regola di cui stiamo trattando concreta una deroga a tale principio tanto vistosa quanto priva di qualsiasi giustificazione. Da un lato, è una regola che sembra muovere dall’idea che l’insorgere della crisi, di per sé, abbia l’effetto di produrre una divaricazione assoluta fra amministratori e soci: un’idea, allora, destituita di qualsiasi fondamento; dall’altro, è una regola connotata dalla sicura “eccessività” rispetto all’obiettivo da cui sembrerebbe essere ispirata, quello cioè di evitare comportamenti ostruzionistici dei soci.
La sua irragionevolezza parrebbe indiscutibile.
c. Nel nuovo assetto, come si è visto, la modifica statutaria è determinata non dalla decisione degli amministratori, ma dal provvedimento di omologazione: è il tribunale, cioè, che propriamente si “sostituisce” all’assemblea nei compiti propri di quest’ultima. Ora, in materia societaria, non è infrequente l’attribuzione all’autorità giudiziaria della competenza ad adottare misure in sostituzione dell’assemblea: si pensi alla previsione dell’art. 2487, comma 2 c.c., per la quale, ove l’assemblea convocata dagli amministratori per la nomina dei liquidatori, non si riunisca o non deliberi, il tribunale adotta con decreto le deliberazioni previste. Ma, come evidenzia l’esempio fatto, ciò avviene quando sia necessario sostituire un organo rimasto inerte. Nel nostro caso, la sostituzione è disposta per supplire ad un organo che la legge stessa ha privato delle sue funzioni, con una dislocazione di poteri, allora, che appare assai simile ad una espropriazione, anche se limitata nel tempo[25].
d. Alla luce di quanto fin qui visto sembra a chi scrive da confermare il convincimento in ordine ai dubbi di incostituzionalità delle disposizioni che stiamo considerando:
- per un verso, sotto il profilo del mancato rispetto della direttiva e quindi per violazione dell’art. 76 Cost.;
- per altro verso, sotto il profilo della irragionevolezza, e quindi per la violazione dell’art. 3 Cost.;
- -e, per altro verso ancora, sotto il profilo della violazione dell’art. 42 Cost.
E. Un problema di rispetto della direttiva si pone anche con riguardo all’art. 120 ter, che disciplina il “classamento” dei soci[26].
Come già ricordato[27] la direttiva include fra le “parti” che possono essere “interessate” o “non interessate” dal procedimento di ristrutturazione preventiva, salvo che la legge nazionale espressamente li escluda (v. art. 9, § 3, lett. a), anche i detentori di strumenti di capitale, cioè i soci di società di capitali, i quali, in tal modo, vengono assimilati ai creditori. Vale anche per i soci il criterio fissato dall’art. 2, § 1, n. 2: essi sono parti “interessate” ove sui loro diritti o interessi il piano di ristrutturazione incida direttamente: in questo caso, essi hanno diritto di voto e a tal fine debbono essere inseriti in una o più apposite classi.
Orbene, nell’art. 120 ter si è previsto che il “classamento” dei soci sia, in principio, facoltativo, diventando obbligatorio quando il piano preveda modificazioni che incidono direttamente sui loro diritti di partecipazione (oltre che nel caso di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). Il nostro legislatore, cioè, ha dimenticato che la direttiva lascia sì agli Stati membri la libertà di scegliere se “classare” o meno i soci; ma, una volta che si sia stabilito di “classarli”, debbono valere per i soci le stesse regole poste per i creditori, con la conseguenza che il loro “classamento” è possibile solo per i soci che siano “interessati” dal piano[28].
Ancora una volta, dunque, una normativa di recepimento sicuramente non conforme né alla lettera né allo spirito della direttiva, con tutto ciò che allora può derivarne in termini di illegittimità costituzionale.
F. Problemi di legittimità costituzionale si pongono, infine, anche con riguardo all’art. 120 quater.
Questa disposizione, recante la rubrica «Condizioni di omologazione del concordato con attribuzioni ai soci», prevede espressamente, al comma 1, che il piano, in un concordato in continuità aziendale[29], possa contemplare l’attribuzione anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda del «valore risultante dalla ristrutturazione»; precisa (al comma 2, come ritoccato dal terzo correttivo) che cosa debba intendersi per «valore riservato ai soci»[30]; fissa, per questa ipotesi, particolari condizioni per l’omologazione[31]; e stabilisce, al comma 4, che le disposizioni dell’articolo, compreso allora anche il co. 1, si applicano, in quanto compatibili, all’omologazione del concordato in continuità aziendale presentato dagli imprenditori individuali e collettivi diversi dalle società e dai professionisti.
La formulazione delle norme non è impeccabile e si tornerà successivamente sul punto[32]. Comunque, sembrerebbe possibile (se non addirittura doveroso) leggerle in collegamento con l’art. 84, comma 6, per il quale «Nel concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; per il valore eccedente quella liquidazione è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore»[33]; e da questa lettura congiunta derivare che la “scomposizione” prevista nell’art. 84, comma 6, fra il valore di liquidazione ed il (plus)valore di ristrutturazione valga anche per il profilo che qui interessa: nel senso che quanto al primo vada in ogni caso rispettato, fra gli altri, il principio posto dall’art. 2740 c.c.; quanto al secondo invece che a tale principio si possa derogare, attribuendo una porzione del medesimo anche al debitore o, nel caso di società, appunto ai soci[34], nel rispetto della posizione poziore comunque assicurata ai creditori[35].
L’art. 120 quater, dunque, consente appunto tali attribuzioni (conformandosi, in questo, ad indicazioni ricavabili dalla direttiva unionale[36]), ma ne subordina l’ammissibilità, ove la proposta non sia stata approvata all’unanimità delle classi, a determinate condizioni, che si aggiungono – è il caso di sottolinearlo – alle condizioni contemplate per la c. d. ristrutturazione trasversale dall’art. 112 Codice.
La norma distingue a seconda che vi siano o no classi assenzienti di rango pari o inferiore a quello delle classi dissenzienti:
se sì, occorre verificare se risulterebbe rispettata la regola della priorità relativa anche se a quelle classi assenzienti venisse assegnato il valore complessivamente destinato ai soci;
- se no, occorre verificare se il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alle classi dissenzienti è superiore a quello complessivamente destinato ai soci.
Questa articolata disciplina[37] solleva molte perplessità.
Le solleva, innanzi tutto, la previsione stessa di due regole radicalmente diverse.
Le solleva, poi, la prima regola. Da un lato, come è stato giustamente rilevato[38], essa si traduce in un autentico rompicapo, che obbliga a compiere simulazioni particolarmente difficili, le cui regole neppure sono completamente chiare (per esempio: non si capisce secondo quali criteri debba procedersi alla distribuzione del valore fra le classi interessate). Dall’altro, a ben considerare, non si comprende il senso stesso della regola: con essa, come è stato notato, si vuole assicurare che il valore “riservato” ai soci venga sottratto alle classi assenzienti di rango inferiore a quello delle classi dissenzienti[39]; ma perché questo rileverebbe ai fini della attribuzione di valori ai soci[40]?
Perplessità solleva, infine, anche la seconda regola. Da un lato, essa introduce un parametro di comparazione assolutamente nuovo rispetto a quello usato, in generale, ai fini della verifica del rispetto della regola della priorità relativa: quest’ultimo consiste nel confronto delle percentuali di soddisfacimento dei creditori previste per le diverse classi; mentre nel nostro caso si mettono a confronto valori assoluti. Dall’altro, un limite quantitativo alle attribuzioni ai soci legato alla mera entità del soddisfacimento previsto per una singola classe non sembrerebbe poter avere, di per sé, molto senso: si è parlato al riguardo, giustamente, di “sistema di distribuzione affidato quasi al caso” e di regola dalla” razionalità sfuggente”[41].
Al fondo, dunque, entrambe le regole risultano intrise di irragionevolezza.
Il problema che il legislatore doveva risolvere era quello di consentire una distribuzione equilibrata del plusvalore di ristrutturazione fra creditori e soci: un problema certo non semplice, ma che il nostro legislatore ha risolto, pare di poter dire, nel modo più irrazionale che si potesse immaginare.
Di qui il serio dubbio di incostituzionalità della disposizione in questione, ancora una volta per violazione dell’art. 3 Cost.