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Saggio

Qualità della legislazione e Codice della crisi: considerazioni critiche e qualche puntualizzazione in tema di strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società*

Alessandro Nigro, Emerito di Diritto commerciale nell’Università di Roma Sapienza

28 Novembre 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Scritto destinato agli Studi per Vittorio Santoro.
L’A. svolge una riflessione critica ad ampio spettro sulla tecnica legislativa e sulla qualità delle regole che articolano la nuova disciplina della crisi e dell’insolvenza.
Riproduzione riservata
1 . Premessa
In un corposo saggio di recentissima pubblicazione, il prof. Angel Rojo, illustre esponente della dottrina commercialistica spagnola, ha trattato, con le consuete competenza ed acutezza, il fenomeno sintetizzato dalla espressione “las malas leyes”, cioè le “cattive leggi”[1], per tali intendendosi i complessi normativi (ma anche, eventualmente, singole norme) tecnicamente mal fatte[2]. Il saggio riguarda ovviamente l’ordinamento spagnolo: ma tutto quanto il prof. Rojo ha scritto vale puntualmente anche per l’ordinamento italiano. Anche questo ordinamento – nonostante che fin dal tempo della emanazione della Costituzione fosse emersa l’importanza di avere «leggi chiare, stabili e oneste»[3]; nonostante il proliferare di strumenti volti ad assicurare una quanto meno dignitosa qualità della produzione normativa, sia a livello nazionale[4] e sia a livello regionale[5]; nonostante i richiami ai legislatori da parte della Corte costituzionale[6] – è rimasto ricco di “cattive leggi”[7]. Anzi, si ha l’impressione che in questi ultimissimi tempi, la qualità delle leggi sia andata addirittura ulteriormente peggiorando. 
La vicenda del Codice della crisi e dell’insolvenza è in qualche misura emblematica. La sua gestazione è stata lunga e faticosa: è iniziata nel lontano 2015 e si è “conclusa”, dopo fasi di inspiegabile stasi e fasi di altrettanto inspiegabili accelerazioni, con l’entrata in vigore, nel 2022, di un d. lgs. emanato nel 2019, contenente appunto il Codice, e oggetto di ben tre correttivi, l’ultimo dei quali è del settembre 2024. Il prof. Rojo ha scrupolosamente individuato i caratteri che portano a qualificare una legge come (tecnicamente) “cattiva”[8]; orbene, questi caratteri si ritrovano tutti nel Codice della crisi: dall’instabilità al mancato rispetto dei criteri di delega o delle previsioni di direttive comunitarie o di disposizioni costituzionali, dalle imprecisioni agli autentici errori, dalle ridondanze alla mancanza di coordinamento sul piano sistematico, dalle contraddizioni alle lacune[9]. 
Non è sfuggita a questo, si direbbe inesorabile, destino una delle porzioni più nuove – e al tempo stesso più innovative - del Codice, quella costituita originariamente dalla Sezione VI-bis del capo III del tit. IV del Codice, recante la rubrica “Degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società”, introdotta dal secondo decreto correttivo, il D.Lgs. n. 83/2022, e oggetto di interventi da parte del terzo correttivo, il D.Lgs. n. 136/2024, che tale porzione ha anche ricollocato come Capo III – bis (ritoccandone altresì la rubrica)[10]. 
E lo si constaterà nelle pagine che seguono. 
2 . I. Il mancato rispetto di previsioni della direttiva UE n. 2019/1023 e di disposizioni costituzionali
Ricordato che, con l’introduzione della Sezione in questione il legislatore del 2022 aveva inteso dare attuazione alla direttiva 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva, si può iniziare il discorso partendo dall’art. 120 bis, come riformulato dal terzo correttivo, per il quale «L'accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza …è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori o dai liquidatori, i quali determinano anche il contenuto della proposta e le condizioni del piano» (comma 1), «Ai fini del buon esito della ristrutturazione il piano …può prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni» (comma 2). 
A. Diremo appresso del problema della individuazione del perimetro soggettivo e di quello oggettivo di applicazione delle nuove regole[11]: già però il riferimento generico, contenuto nell’incipit dell’art. 120 bis, agli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, quali offerti dal sistema italiano, nessuno dei quali ha come presupposto oggettivo il solo stato di “crisi”, fa sorgere più di qualche dubbio in punto di compatibilità del complesso di tali regole con la direttiva. 
Il legislatore comunitario ha richiesto la predisposizione di meccanismi di ristrutturazione destinati a prevenire l’insolvenza. Sul punto l’art. 1, § 1, lett. a) della direttiva è inequivocabile: vi si precisa, infatti, che essa direttiva stabilisce norme in materia di «quadri di ristrutturazione preventiva per il debitore che versa in difficoltà finanziarie e per il quale sussiste una probabilità di insolvenza, al fine di impedire l'insolvenza e di garantire la sostenibilità economica del debitore»); meccanismi, uno o più, deputati esclusivamente alla ristrutturazione preventiva (anche su questo il testo delle norme comunitarie, in particolare dell’art. 4[12], sembrerebbe inequivocabile) Il legislatore italiano ha invece “offerto” una articolata panoplia di meccanismi “ibridi”, accessibili anche dal debitore già insolvente ed utilizzabili anche in chiave puramente liquidatoria[13]. 
Di qui il dubbio di compatibilità[14]. 
C’è un’unica (minima) scusante: ed è che altri legislatori nazionali hanno effettuato una analoga scelta. Questo è accaduto per esempio nell’ordinamento spagnolo, dove si è attuata la direttiva introducendo la nuova figura del plan de reestructuración, avente come presupposto oggettivo sia la probabilità di insolvenza, sia l’insolvenza imminente o attuale (art. 584); con il che – come è stato giustamente osservato, in chiave critica, da attenta dottrina[15] – il plan de reestructuración, concepito in principio (dalla direttiva) come procedimiento preconcursal, viene a configurarsi simultaneamente, in quell’ordinamento, come procedimiento paraconcursal. 
B. L’art. 120 bis detta una disciplina destinata a trovare applicazione, alla stregua della indicazione generica contenuta nella rubrica del Capo, a tutte le società, siano esse società di capitali o società di persone o società cooperative. Anche sotto questo profilo si nota un vistoso scostamento rispetto alla direttiva. Le disposizioni della medesima riguardanti, da un lato, la posizione fatta ai soci e, dall’altro, le modificazioni statutarie e l’intervento dell’assemblea in ordine alle stesse sono chiarissime nell’assumere come punto di riferimento solo le società di capitali: le prime, infatti, parlano costantemente di «detentori di strumenti di capitale» (art. 2, § 1, n. 2; art. 12, §§ 1 e 2; ecc. ); le seconde richiamano la disciplina contenuta in direttive aventi ad oggetto la disciplina di società di capitali (così l’art. 32, che richiama le disposizioni della direttiva n. 2017/1132, riguardanti – come è noto - lo stabilimento ed il funzionamento di società di capitali e la fusione e la scissione di società di capitali). 
L’aspetto paradossale della vicenda è che le regole poste dagli artt. 120 bis e ss. sono state poi formulate pensando solo alla figura delle società di capitali (anzi, più specificamente, delle società per azioni): basta guardare al comma 2 dell’art. 120 bis dove si trovano le espressioni «aumenti o riduzione di capitale anche con limitazione con esclusione del diritto di opzione» o «modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci», che evocano fattispecie tipiche della disciplina delle società di capitali. Con il risultato di rendere quanto meno “disagevole” l’applicazione del complesso di norme che qui interessano a figure diverse dalle società di capitali (sul punto, comunque, si tornerà più avanti[16]). 
C. Lo “scostamento” rispetto alla direttiva risulta nettissimo anche con riguardo ad un ulteriore profilo, sempre con riguardo al perimetro soggettivo. Il terzo decreto correttivo ha integrato l’art. 120 bis, comma 1, inserendo a fianco degli amministratori i liquidatori, trascurando completamente di considerare, da un lato, che nell’ambito della liquidazione la ripartizione di poteri fra  “gestori” e assemblea segue regole particolari, che vedono attribuite addirittura all’assemblea straordinaria le determinazioni in ordine alla gestione; e, dall’altro, che, in quell’ambito, operazioni straordinarie sono certo ammissibili, ma solo ove finalizzate direttamente alla liquidazione non certo alla ristrutturazione. 
Nella relazione illustrativa al decreto del 2024 si cerca di giustificare l’innovazione invocando ragioni di “completezza”: ma nella specie, proprio per rispettare la direttiva, si doveva distinguere e non accomunare figure e situazioni assolutamente diverse fra di loro. 
D. L’art. 120 bis, là dove attribuisce agli amministratori la competenza esclusiva ed inderogabile in materia di contenuto della proposta e del piano, sembrerebbe, in s considerato, poter essere ritenuto – almeno per quanto riguarda le società di capitali - una norma speciale e non già eccezionale: da un lato, il sistema già prevedeva come regola di default (nelle società di capitali) appunto l’attribuzione agli amministratori del potere di decidere in ordine alla proposta e al piano del concordato preventivo; dall’altro, si potrebbe collegare questa nuova regola alla competenza esclusiva attribuita agli amministratori in materia di assetti adeguati alla rilevazione delle crisi ed alla individuazione delle misure per superarle[17]. D’altra parte, anche le modificazioni statutarie prendono l’avvio, normalmente, da proposte degli amministratori. 
Il fatto è, però, che questa regola si connette strettamente con quella posta dall’art. 120 quinquies, la quale – traendo ispirazione da un ben preciso orientamento dottrinale[18] - stabilisce che, nell’ipotesi in cui il piano preveda modificazioni statutarie, è il provvedimento di omologazione del tribunale che “determina” le modificazioni in questione, in sostituzione quindi dell’assemblea. L’assetto che deriva dalla combinazione di queste regole è caratterizzato, dunque, dall’instaurazione di un rapporto diretto fra amministratori e tribunale, con un completo e drastico esautoramento dei soci. Il che concreta un regime che è sicuramente eccezionale e che – come chi scrive ha rilevato in altra occasione[19] – solleva molte perplessità. 
a. Per cominciare, tale assetto non sembra affatto in linea con le previsioni della direttiva n. 2019/1023 che il legislatore del 2022 avrebbe inteso attuare. 
Tale direttiva infatti, per un verso, stabilisce che i legislatori nazionali, ove non contemplino la collocazione degli azionisti in una apposita classe, debbano adottare altre misure per evitare che essi possano irragionevolmente impedire l’adozione o l’attuazione di un piano di ristrutturazione: art. 12, §§ 1 e 2[20], dai quali deriva che, nell’ottica del legislatore comunitario, il classamento dei soci è la “misura” di per sé sufficiente a neutralizzare l’ostruzionismo dei soci. E, per altro verso, consente sì ai legislatori nazionali, con l’art. 32, di derogare alla regola dell’intervento dell’assemblea ma con riferimento a talune specifiche operazioni, precisamente a quelle di aumento e di riduzione del capitale (il richiamato art. 32 elenca scrupolosamente le relative norme della direttiva n. 2017/1132), con una deroga, oltretutto, limitata nel tempo. 
Orbene, in relazione alle previsioni dell’art. 12 della direttiva, da un lato, la disciplina che stiamo considerando prevede proprio la obbligatoria collocazione in apposita classe dei soci interessati dalle modifiche statutarie previste nel piano (art. 120 ter)[21]; il che fa venire automaticamente meno l’esigenza di “altre” misure particolari a carico dei medesimi soci[22]. E, dall’altro, la formulazione di quelle previsioni evoca non già meccanismi di diretta attribuzione del potere decisionale ad organi diversi dall’assemblea o a soggetti esterni in chiave di prevenzione della possibilità stessa di comportamenti ostruzionistici da parte dei soci (con una evidentissima sproporzione, allora, fra il mezzo e il fine), bensì meccanismi “sanzionatori” di comportamenti ostruzionistici che risultino in concreto irragionevoli alla luce di una equilibrata considerazione di tutti gli interessi in gioco, compresi quelli degli stessi soci. 
In relazione, poi, al disposto dell’art. 32, il nostro legislatore ha ritenuto di estendere la deroga a tutte le modificazioni statutarie e specificamente alle operazioni di fusione e di scissione, trascurando di considerare che l’art. 32 non menziona gli artt. 93 e 139, in materia rispettivamente di fusione e di scissione, fra le disposizioni della direttiva n. 2017/1132 a cui i legislatori nazionali possono derogare[23]. 
Sembra corretto, infine, il rilievo secondo il quale le previsioni in questione contrastano con il “diritto europeo vivente” quale espresso dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, la quale sembro essersi ormai nettamente orientata nel senso che i principi fondamentali del diritto societario consacrati nelle direttive unionali in punto di poteri deliberativi dei soci precludono ai legislatori nazionali, salvi casi eccezionali, la possibilità di sottrarre tali poteri ai soci per attribuirli ad entità esterne[24]. 
b. Nel nostro ordinamento l’attribuzione all’assemblea della competenza a decidere le modifiche statutarie, e più in generale le operazioni straordinarie, che incidano sui diritti partecipativi dei soci costituisce un vero e proprio principio di sistema. La regola di cui stiamo trattando concreta una deroga a tale principio tanto vistosa quanto priva di qualsiasi giustificazione. Da un lato, è una regola che sembra muovere dall’idea che l’insorgere della crisi, di per sé, abbia l’effetto di produrre una divaricazione assoluta fra amministratori e soci: un’idea, allora, destituita di qualsiasi fondamento; dall’altro, è una regola connotata dalla sicura “eccessività” rispetto all’obiettivo da cui sembrerebbe essere ispirata, quello cioè di evitare comportamenti ostruzionistici dei soci. 
La sua irragionevolezza parrebbe indiscutibile. 
c. Nel nuovo assetto, come si è visto, la modifica statutaria è determinata non dalla decisione degli amministratori, ma dal provvedimento di omologazione: è il tribunale, cioè, che propriamente si “sostituisce” all’assemblea nei compiti propri di quest’ultima. Ora, in materia societaria, non è infrequente l’attribuzione all’autorità giudiziaria della competenza ad adottare misure in sostituzione dell’assemblea: si pensi alla previsione dell’art. 2487, comma 2 c.c., per la quale, ove l’assemblea convocata dagli amministratori per la nomina dei liquidatori, non si riunisca o non deliberi, il tribunale adotta con decreto le deliberazioni previste. Ma, come evidenzia l’esempio fatto, ciò avviene quando sia necessario sostituire un organo rimasto inerte. Nel nostro caso, la sostituzione è disposta per supplire ad un organo che la legge stessa ha privato delle sue funzioni, con una dislocazione di poteri, allora, che appare assai simile ad una espropriazione, anche se limitata nel tempo[25]. 
d. Alla luce di quanto fin qui visto sembra a chi scrive da confermare il convincimento in ordine ai dubbi di incostituzionalità delle disposizioni che stiamo considerando: 
- per un verso, sotto il profilo del mancato rispetto della direttiva e quindi per violazione dell’art. 76 Cost.; 
- per altro verso, sotto il profilo della irragionevolezza, e quindi per la violazione dell’art. 3 Cost.; 
- -e, per altro verso ancora, sotto il profilo della violazione dell’art. 42 Cost. 
E. Un problema di rispetto della direttiva si pone anche con riguardo all’art. 120 ter, che disciplina il “classamento” dei soci[26]. 
Come già ricordato[27] la direttiva include fra le “parti” che possono essere “interessate” o “non interessate” dal procedimento di ristrutturazione preventiva, salvo che la legge nazionale espressamente li escluda (v. art. 9, § 3, lett. a), anche i detentori di strumenti di capitale, cioè i soci di società di capitali, i quali, in tal modo, vengono assimilati ai creditori. Vale anche per i soci il criterio fissato dall’art. 2, § 1, n. 2: essi sono parti “interessate” ove sui loro diritti o interessi il piano di ristrutturazione incida direttamente: in questo caso, essi hanno diritto di voto e a tal fine debbono essere inseriti in una o più apposite classi. 
Orbene, nell’art. 120 ter si è previsto che il “classamento” dei soci sia, in principio, facoltativo, diventando obbligatorio quando il piano preveda modificazioni che incidono direttamente sui loro diritti di partecipazione (oltre che nel caso di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). Il nostro legislatore, cioè, ha dimenticato che la direttiva lascia sì agli Stati membri la libertà di scegliere se “classare” o meno i soci; ma, una volta che si sia stabilito di “classarli”, debbono valere per i soci le stesse regole poste per i creditori, con la conseguenza che il loro “classamento” è possibile solo per i soci che siano “interessati” dal piano[28]. 
Ancora una volta, dunque, una normativa di recepimento sicuramente non conforme né alla lettera né allo spirito della direttiva, con tutto ciò che allora può derivarne in termini di illegittimità costituzionale. 
F. Problemi di legittimità costituzionale si pongono, infine, anche con riguardo all’art. 120 quater. 
Questa disposizione, recante la rubrica «Condizioni di omologazione del concordato con attribuzioni ai soci», prevede espressamente, al comma 1, che il piano, in un concordato in continuità aziendale[29], possa contemplare l’attribuzione anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda del «valore risultante dalla ristrutturazione»; precisa (al comma 2, come ritoccato dal terzo correttivo) che cosa debba intendersi per «valore riservato ai soci»[30]; fissa, per questa ipotesi, particolari condizioni per l’omologazione[31]; e stabilisce, al comma 4, che le disposizioni dell’articolo, compreso allora anche il co. 1, si applicano, in quanto compatibili, all’omologazione del concordato in continuità aziendale presentato dagli imprenditori individuali e collettivi diversi dalle società e dai professionisti. 
La formulazione delle norme non è impeccabile e si tornerà successivamente sul punto[32]. Comunque, sembrerebbe possibile (se non addirittura doveroso) leggerle in collegamento con l’art. 84, comma 6, per il quale «Nel concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; per il valore eccedente quella liquidazione è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore»[33]; e da questa lettura congiunta derivare che la “scomposizione” prevista nell’art. 84, comma 6, fra il valore di liquidazione ed il (plus)valore di ristrutturazione valga anche per il profilo che qui interessa: nel senso che quanto al primo vada in ogni caso rispettato, fra gli altri, il principio posto dall’art. 2740 c.c.; quanto al secondo invece che a tale principio si possa derogare, attribuendo una porzione del medesimo anche al debitore o, nel caso di società, appunto ai soci[34], nel rispetto della posizione poziore comunque assicurata ai creditori[35]. 
L’art. 120 quater, dunque, consente appunto tali attribuzioni (conformandosi, in questo, ad indicazioni ricavabili dalla direttiva unionale[36]), ma ne subordina l’ammissibilità, ove la proposta non sia stata approvata all’unanimità delle classi, a determinate condizioni, che si aggiungono – è il caso di sottolinearlo – alle condizioni contemplate per la c. d. ristrutturazione trasversale dall’art. 112 Codice. 
La norma distingue a seconda che vi siano o no classi assenzienti di rango pari o inferiore a quello delle classi dissenzienti: 
 se sì, occorre verificare se risulterebbe rispettata la regola della priorità relativa anche se a quelle classi assenzienti venisse assegnato il valore complessivamente destinato ai soci; 
- se no, occorre verificare se il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alle classi dissenzienti è superiore a quello complessivamente destinato ai soci. 
Questa articolata disciplina[37] solleva molte perplessità. 
Le solleva, innanzi tutto, la previsione stessa di due regole radicalmente diverse. 
Le solleva, poi, la prima regola. Da un lato, come è stato giustamente rilevato[38], essa si traduce in un autentico rompicapo, che obbliga a compiere simulazioni particolarmente difficili, le cui regole neppure sono completamente chiare (per esempio: non si capisce secondo quali criteri debba procedersi alla distribuzione del valore fra le classi interessate). Dall’altro, a ben considerare, non si comprende il senso stesso della regola: con essa, come è stato notato, si vuole assicurare che il valore “riservato” ai soci venga sottratto alle classi assenzienti di rango inferiore a quello delle classi dissenzienti[39]; ma perché questo rileverebbe ai fini della attribuzione di valori ai soci[40]? 
Perplessità solleva, infine, anche la seconda regola. Da un lato, essa introduce un parametro di comparazione assolutamente nuovo rispetto a quello usato, in generale, ai fini della verifica del rispetto della regola della priorità relativa: quest’ultimo consiste nel confronto delle percentuali di soddisfacimento dei creditori previste per le diverse classi; mentre nel nostro caso si mettono a confronto valori assoluti. Dall’altro, un limite quantitativo alle attribuzioni ai soci legato alla mera entità del soddisfacimento previsto per una singola classe non sembrerebbe poter avere, di per sé, molto senso: si è parlato al riguardo, giustamente, di “sistema di distribuzione affidato quasi al caso” e di regola dalla” razionalità sfuggente”[41]. 
Al fondo, dunque, entrambe le regole risultano intrise di irragionevolezza
Il problema che il legislatore doveva risolvere era quello di consentire una distribuzione equilibrata del plusvalore di ristrutturazione fra creditori e soci: un problema certo non semplice, ma che il nostro legislatore ha risolto, pare di poter dire, nel modo più irrazionale che si potesse immaginare. 
Di qui il serio dubbio di incostituzionalità della disposizione in questione, ancora una volta per violazione dell’art. 3 Cost.
3 . II. La cattiva redazione di molte delle disposizioni
Il tasso di chiarezza e precisione di molte delle disposizioni che compongono la sezione che qui interessa è decisamente basso. 
A. Cominciando, al solito, dall’art. 120 bis almeno due sono i punti particolarmente “critici”: l’ambito oggettivo di applicazione; il trattamento delle proposte concorrenti dei soci. 
a. Si è già sottolineato come la disposizione che stiamo considerando individui il suo perimetro di applicazione attraverso il riferimento generico agli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”: una categoria che è sì oggetto di una apposita definizione (quella contenuta nell’art. 2, lett. m-bis[42]) la quale, però, ha, a sua volta, una forte carica di ambiguità; l’aveva nella formulazione originaria[43]; e l’ha conservata anche dopo la (più che opportuna) espressa esclusione, da parte del legislatore del 2024, delle procedure di liquidazione giudiziale e di liquidazione controllata dal novero degli “strumenti”[44] . Questa sommatoria di genericità e di ambiguità sta producendo – e non era difficile prevederlo – esiti interpretativi assai variegati in ordine al perimetro oggettivo di applicazione delle nuove regole. Si va da chi, concentrando l’attenzione sul solo art. 120 bis e prescindendo completamente dalle altre disposizioni, è arrivato ad affermare che la regola in questione si applicherebbe a tutti i meccanismi. procedimenti e procedure disciplinati come “strumenti” dal Codice della crisi, a partire dal piano attestato di risanamento[45] ed arrivando addirittura alla composizione negoziata[46], a chi, tutto all’opposto, sostiene, valorizzando proprio le disposizioni successive all’art. 120 bis, che quest’ultimo si applicherebbe soltanto al concordato preventivo ed al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione[47]. 
Ad avviso di chi scrive, la soluzione del problema va trovata nella disciplina generale della fase dell’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza contenuta nel capo IV del tit. III del Codice: a partire dall’art. 40 – la cui rubrica, sottolineo, recita «Domanda di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale», che, al comma 2, precisa espressamente che «Per le società la domanda di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è approvata e sottoscritta a norma dell’art. 120-bis» e arrivando all’art. 44, comma 1, lett. a) che individua nel concordato preventivo, nel procedimento di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti e nel procedimento di omologazione del PRO gli specifici strumenti di regolazione ai quali la specifica disciplina della fase dell’accesso è destinata ad applicarsi. Se a tutto questo si aggiunge che il suddetto tit. III, anche nella parte che qui interessa, è applicabile, nei limiti della compatibilità, alle procedure di sovraindebitamento, in virtù del comma 2 dell’art. 65, il quadro risulta completo: gli strumenti di regolazione ai quali è destinato ad applicarsi (un tempo la sezione VI-bis; oggi) il Capo III-bis, ed in primo luogo, l’art. 120 bis, sono il concordato preventivo, il procedimento di omologazione degli accordi di ristrutturazione, il PRO ed il concordato minore[48] [49]. 
Questo significa che il legislatore del 2022 è stato accorto nell’inserire nell’art. 40 l’espresso riferimento all’art. 120 bis; non lo è stato invece nel non inserire nell’art. 120 bis un richiamo al procedimento unitario di accesso. Se lo avesse fatto, avrebbe indirizzato la lettura della disposizione in questione su binari certi, evitando il prodursi di quella autentica “babele” di interpretazioni di cui si è detto prima. 
b. La previsione relativa alle «modificazioni statutarie che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci», contenuta nell’art. 120 bis, comma 2 – e ripetuta sia nell’art. 120 ter, comma 2, e sia nell’art. 120 quinquies, comma 1 (come riscritto dal terzo decreto correttivo) con una piccola variazione lessicale[50]- è stata giudicata da subito «problematica»[51] e suscettibile di «plurime interpretazioni» e quindi in grado di creare gravi incertezze[52]. 
In effetti, innanzi tutto, la formulazione stessa di quella previsione appare decisamente bizzarra: si muove da figure “tipiche” (aumenti e riduzione del capitale) per passare alla figura generale (altre modificazioni) e terminare con altre figure “tipiche” (fusioni, scissioni e trasformazioni), ingenerando allora il dubbio che queste ultime appartengano ad un genus diverso da tutte le altre. Un dubbio che va ovviamente respinto in radice: ma dà di per sé la misura dell’approssimazione (per non dire sciatteria) con cui è stata redatta la disposizione. 
In secondo luogo e soprattutto. Il legislatore della riforma ha ritenuto di utilizzare l’espressione impiegata nell’art. 2437, comma 1, lett. g) c.c. per individuare una delle cause inderogabili di recesso del socio: ha però completamente trascurato di considerare che la disposizione codicistica aveva originato e continua ad originare perplessità e dubbi, destinati ovviamente a riproporsi nell’interpretazione delle disposizioni del Codice di cui qui ci stiamo occupando. In particolare, sono destinate a riprodursi le incertezze sull’ampiezza da assegnare all’espressione “diritti di partecipazione” dei soci, in termini peraltro non esattamente coincidenti. Nella disposizione del codice civile almeno un dato è chiaro: il diritto di voto non è incluso nei diritti di partecipazione; quindi il problema, in quel contesto, è se i diritti di partecipazione comprendano o meno i diritti amministrativi diversi dal diritto di voto[53]. La disposizione del Codice della crisi non ripropone la distinzione fra diritto di voto e diritti di partecipazione: quindi il problema è (semplicemente) se, in quel contesto, i diritti di partecipazione dei soci comprendano solo i diritti patrimoniali o includano anche i diritti amministrativi (tutti i diritti amministrativi, compreso il diritto di voto). Un problema, allora, che il legislatore ben avrebbe potuto e dovuto risolvere agevolmente, facendo seguire all’espressione “diritti di partecipazione” le opportune specificazioni
Ad avviso di chi scrive, si deve condividere l’opinione di chi propone una interpretazione ampia della locuzione in questione, da ritenere allora riferibile a tutti i cambiamenti nello statuto normativo dei soci, con riguardo sia ai profili di ordine patrimoniale, sia ai profili di ordine amministrativo[54]. Ma si tratta di un’opinione dottrinale, non cero idonea a “integrare” la carente volontà della legge. 
c. Il comma 5 dell’art. 120 bis stabilisce che «I soci che rappresentano almeno il dieci per cento del capitale sono legittimati alla presentazione di proposte concorrenti ai sensi dell’art. 90». La proposta concorrente dei soci è dunque governata dalla disciplina generale apprestata appunto dall’art. 90 e può, pertanto, contenere, ai sensi del co. 6 di tale disposizione, anche la previsione di modifiche statutarie, in particolare di aumenti di capitale con limitazione o esclusione del diritto di opzione. Non è chiaro però se, nell’ipotesi in cui una simile proposta venga prescelta dai creditori, sia destinato ad operare il meccanismo previsto dal primo co. dell’art. 120 quinquies o se invece debba entrare in gioco solo l’art. 118, comma 6, in effetti strettamente legato alla previsione dell’art. 90, comma 6. 
Questa seconda sembrerebbe la soluzione preferibile[55]: ma il punto resta obiettivamente incerto ed una precisazione da parte del legislatore non avrebbe certo guastato. 
B. L’ultimo comma dell’art. 120 quater – che disciplina, ricordiamo, le condizioni di omologazione del concordato in continuità aziendale che preveda attribuzioni ai soci – stabilisce: «Le disposizioni di questo articolo si applicano, in quanto compatibili, all’omologazione del concordato in continuità aziendale presentato dagli imprenditori individuali o collettivi diversi dalle società e dai professionisti». 
a. Risulta subito evidente l’equivocità della formulazione adottata: non è chiaro, infatti se l’espressione “e dai professionisti” sia retta dal termine “presentato” o dal termine “diversi”. Sul punto, dovrebbe soccorrere la relazione di accompagnamento al D.Lgs. n. 83/2022, nella quale si chiarisce[56] che con tale previsione si è voluto dare attuazione all’art. 2, § 1, n. 9) della direttiva - nonché, si sarebbe dovuto più esattamente dire, all’art. 1, § 2, lett. h) - «che consente l’accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva a tutti gli ‘imprenditori’, per tali tuttavia intendendosi tutte le persone fisiche che esercitano ‘un’attività commerciale, imprenditoriale, artigianale o professionale’». Il fatto è, però, che, così intesa, la previsione relativa ai professionisti risulta inapplicabile, quindi inutile: e ciò per la semplice ragione che la legittimazione alla presentazione della domanda di concordato preventivo spetta, ai sensi dell’art. 121 Codice, richiamato dall’art. 84, comma 1, agli imprenditori commerciali, restando allora esclusi i professionisti. 
Si potrebbe ritenere che la disposizione riguardi solo il concordato minore in continuità, al quale possono in effetti accedere anche i professionisti: ma, in questo modo, perderebbe di senso il riferimento alla direttiva. 
In conclusione: nella migliore delle ipotesi la disposizione, nella parte relativa ai professionisti, risulta quanto meno confusa; nella peggiore, inutile. 
b. Correttamente, il legislatore del 2022 ha ritenuto di occuparsi del tema del valore eventualmente riservato, nel concordato in continuità, al debitore come tale. Se ne è occupato però, sempre con l’ultimo co. dell’art. 120 quater, in modo “obliquo”: logica avrebbe voluto, infatti, che si dettassero prima le regole da applicare, in generale, in quella ipotesi per dettare poi le regole da applicare, in particolare, al valore riservato ai soci[57]. 
Questa inversione logica ha naturalmente dei costi. Già i meccanismi disciplinati dal comma 1 dell’art. 120 quater prospettano le rilevanti criticità di cui si è detto in precedenza[58]; le difficoltà si accrescono quando si tratti di verificarne la utilizzabilità nell’ipotesi di valori riservati al debitore. Giustamente si è parlato in dottrina, con riferimento alla disposizione di cui stiamo trattando, di «norma criptica» e di «fonte poco meditata di grandi problemi»[59]. 
C. Una certa approssimazione nella formulazione delle disposizioni continua a connotare anche l’art. 120.quinquies, nonostante il comma 1 sia stato interamente riscritto dal legislatore del 2024, 
a. Nella versione originale (del 2022) fondamentale nell’economia della norma risultava la distinzione fra le modificazioni statutarie, i cui termini fossero stati previsti dal piano e le modificazioni statutarie (semplicemente) programmate dal piano: le prime erano direttamente determinate dal tribunale con il provvedimento di omologazione; le seconde avrebbero dovuto essere disposte dagli amministratori su “autorizzazione” del tribunale sempre con il provvedimento di omologazione.  
Tale distinzione era fonte di notevoli incertezze sia per l’estrema vaghezza dei contorni delle due figure, sia per la portata da riconoscere, nei due casi, al provvedimento di omologazione e sia, infine, per lo spazio da attribuire all’intervento del notaio[60]. 
Il legislatore del 2924 è intervenuto sulla disposizione in modo (lodevolmente) drastico. Infatti: 
- è stata soppressa la distinzione fra modificazioni previste e modificazioni soltanto programmate; 
- è stato chiarito che, in ogni caso, è la sentenza di omologazione a determinare la modificazione prevista dal piano; 
- è stato confermato che agli amministratori è demandato soltanto il compimento degli atti esecutivi eventualmente necessari; 
- è stato precisato che il controllo notarile andrà esercitato solo sui suddetti atti esecutivi. 
b. Nonostante sia ormai sicuro che alla sentenza di omologazione debbano attribuirsi effetti costitutivi rispetto alle modifiche statutarie previste nel piano, permangono profili di incertezza
In particolare, non è chiaro, innanzi tutto, perché il legislatore abbia precisato che la sentenza di omologazione «tiene luogo delle deliberazioni» soltanto con riguardo alle operazioni di trasformazione, fusione e scissione: per tutte le modificazioni statutarie, a cominciare dalle operazioni sul capitale, le regole comuni richiedono l’intervento deliberativo dell’assemblea; per tutte queste deliberazioni, dunque, dovrebbe aversi l’effetto sostitutivo della sentenza di omologazione[61]. 
In secondo luogo, mentre è chiaro che il Tribunale debba verificare che le modificazioni previste dal piano siano effettivamente funzionali al buon esito della ristrutturazione (con tale espressione dovendosi intendere non solo e non tanto la ristrutturazione in qualsiasi modo dei debiti, quanto – alla luce della direttiva unionale – il risanamento dell’impresa[62]),  non è chiaro se il tribunale debba verificare, fra le altre cose, anche e proprio la legittimità, alla stregua delle regole comuni, delle suddette modificazioni. Ad avviso di chi scrive, non dovrebbero esservi dubbi al riguardo, la legittimità rilevando ai fini della fattibilità giuridica del piano: ma un legislatore minimamente accorto avrebbe dovuto precisarlo con assoluta nettezza. 
Ancora, non è chiaro come l’effetto costitutivo degli atti esecutivi degli amministratori (si pensi all’atto di fusione o di scissione) possa conciliarsi con l’effetto costitutivo della sentenza di omologazione. 
Infine. Nulla viene precisato in ordine al momento a cui debba essere riferito l’effetto di stabilità dell’operazione. A parere di chi scrive, tale effetto dovrebbe essere riferito (non al momento dell’iscrizione nel registro delle imprese per esempio dell’atto di fusione o di scissione, ma) al momento in cui diventa definitiva la sentenza di omologazione: sul punto entra però in gioco (con riguardo alle operazioni di fusione, scissione e trasformazione) l’art. 118, del quale ci si occuperà più avanti.
4 . III. La cattiva sistematica
La normativa che stiamo considerando si connota anche per un ulteriore non meno grave difetto in termini di qualità: la mancanza di coordinamento con altre previsioni, contenute vuoi nel Codice della crisi, vuoi nel codice civile. Il discorso riguarda, in particolare, i rapporti di tale normativa per un verso con l’art. 116 del Codice della crisi[63] e, per altro verso, con le disposizioni del codice civile in materia di amministrazione nelle società di persone. 
A. Iniziamo dall’art. 116. 
a. Questo articolo è stato pressoché integralmente riscritto dal terzo correttivo: e giustamente dal momento che della versione originaria[64] era chiara solo la ratio (ricondurre all’interno della procedura episodi contenziosi che potrebbero, di tale procedura, rallentare o inceppare lo svolgimento); tutto il resto prospettava molti nodi critici[65]. Ma soprattutto spiccava la assoluta mancanza di raccordo con le disposizioni di cui agli artt. 120 ss. 
Dal che derivavano conseguenze di non scarso rilievo. 
Ad avviso di chi scrive, infatti, non vi era soltanto l’aporia segnalata da G.B. Portale[66], relativa alle operazioni da compiere durante la procedura. Vi è che, nell’ipotesi in cui entrassero in gioco le regole degli artt. 120 bis/120 quinquies, il meccanismo stesso ex art. 116 non poteva trovare applicazione. E ciò per una ragione molto semplice: nel sistema degli artt. 2503 e 2509 novies c.c. le opposizioni dei creditori che ritengano di essere pregiudicati dall’operazione straordinaria investono le deliberazioni e gli atti con cui l’operazione è stata realizzata e mirano a sospenderne l’efficacia; nell’ipotesi che qui interessa, l’operazione straordinaria era destinata a realizzarsi per effetto della sentenza di omologazione e non era tecnicamente possibile che il rimedio previsto dalle norme civilistiche potesse essere utilizzato contro tale sentenza. 
b. Il legislatore del 2024 si è reso conto, almeno in parte, delle criticità della norma e la ha, come detto, riformulata pressoché integralmente[67]. 
In base al nuovo testo i creditori, sia della società debitrice sia delle altre società partecipanti all’operazione, i quali – in relazione alle previsioni del piano e dei progetti dell’operazione deliberati dagli amministratori, l’uno e gli altri iscritti nei rispettivi registri delle imprese – paventino un pregiudizio a loro danno hanno la possibilità di presentare opposizione in base alle disposizioni codicistiche, ma debbono farlo proponendola nell’ambito del procedimento di omologazione ex art. 48 Codice della crisi, quindi entro il termine perentorio di dieci giorni prima della relativa udienza (non invece nel diverso termine previsto dalle disposizioni codicistiche). 
 I creditori della società debitrice conservano naturalmente la possibilità di avvalersi, per la tutela dei propri diritti, dell’ordinario strumento di tutela costituito dall’opposizione all’omologazione ai sensi dell’art. 48 Codice. 
c. In sede di decisione sull’omologazione, il Tribunale dovrà pronunziarsi sulla particolare opposizione di cui stiamo parlando e quindi verificare se sia fondato o meno il pericolo di pregiudizio. Nell’ipotesi in cui lo ritenga infondato, dovrebbe applicare l’art. 2445, ultimo comma, c.c. e pertanto disporre che l’operazione abbia luogo nonostante l’opposizione. Non è ben chiaro, invece, che cosa debba succedere nell’ipotesi che giudichi fondato il pericolo: si dovrebbe derivarne la sospensione del procedimento di omologazione fino a quando tale pericolo non sia stato rimosso. 
d. Nella versione originaria, l’art. 116 prevedeva la possibilità che l’operazione straordinaria trovasse attuazione in pendenza del procedimento di omologazione. 
Il legislatore del terzo correttivo, se da un lato si è premurato di stabilire, perentoriamente, che le operazioni in questione «non possono essere attuate fino a quando il concordato non è omologato con sentenza anche non passata in giudicato», dall’altro, ha cercato – non si capisce perché; e non si capisce perché solo con riguardo alle tre operazioni in questione e non anche con riferimento alle altre operazioni straordinarie - di recuperare proprio la possibilità di una attuazione anticipata di tali operazioni. Lo ha fatto con il particolare e singolarissimo meccanismo contemplato nel comma 3, per il quale il tribunale, «se richiesto» (non si specifica da chi), può, sentito il commissario giudiziale, «autorizzare l’attuazione anticipata» dell’operazione quando ritiene che l’attuazione dopo l’omologazione pregiudicherebbe l’interesse dei creditori della società debitrice e a condizione che risulti il consenso di tutti i creditori delle altre società partecipanti o che queste ultime provvedano al pagamento dei creditori che non abbiano prestato il consenso oppure depositino le somme occorrenti a tal fine. 
Il meccanismo assicura la mancanza di un pericolo di pregiudizio per tutti i creditori. Resta, però, che l’operazione anticipata non può fruire del regime di irreversibilità degli effetti di cui al successivo comma 4, che si produce solo con l’omologazione con sentenza anche non passata in giudicato: con la conseguenza che se il tribunale, per qualsivoglia motivo, dovesse successivamente rifiutare l’omologazione, l’intera operazione cadrebbe. 
e. Secondo i principi generali, la definitività degli effetti costitutivi della sentenza di omologazione del concordato dovrebbe conseguire al passaggio in giudicato della medesima. Il co. 4 dell’art. 116 – con una formulazione peraltro contorta e imprecisa[68] - collega, invece, la irreversibilità degli effetti alla sentenza anche non passata in giudicato, restando salvo il diritto degli interessati al risarcimento del danno. La stessa regola vale anche, in base al comma 5, in caso di revoca, risoluzione o annullamento del concordato. 
f. Il terzo correttivo ha mantenuto, nel comma 6, la previsione – introdotta dal secondo correttivo – secondo la quale il diritto di recesso dei soci è sospeso fino all’attuazione delle operazioni in questione (comma 6). Si pone il problema se questa regola possa valere anche per le altre modificazioni statutarie contemplate nell’art. 120 bis: la risposta sembrerebbe dover essere negativa[69], stante la sicura eccezionalità della medesima. 
B. Veniamo al rapporto dell’art. 120 biscon le disposizioni del codice civile in materia di amministrazione nelle società di persone. 
 Il legislatore del 2022, nel formulare l’art. 120 bis e la regola della competenza esclusiva degli amministratori in materia di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza si è palesemente disinteressato dell’“armonizzazione” di tale regola con i vari assetti che la disciplina dei diversi tipi di società consente per l’esercizio della funzione di amministrazione. Il che pone problemi particolarmente delicati nel caso delle società di persone, la cui disciplina prevede, come è noto, due diversi regimi, vale a dire l’amministrazione disgiuntiva, regolata dall’art. 2257 c.c. e l’amministrazione congiuntiva, regolata dall’art. 2258 c.c.: il problema più delicato si pone con riguardo al primo dei due regimi, che è poi quello destinato ad applicarsi nei casi in cui l’atto costitutivo nulla abbia stabilito in materia di amministrazione della società. 
Come si è avuto occasione di evidenziare in precedenza[70], la regola della competenza esclusiva degli amministratori posta dall’art. 120 bis è direttamente collegata alla regola della competenza esclusiva degli amministratori in materia di predisposizione degli assetti adeguati ai sensi dell’art. 2086, comma 2, c.c. e dell’art. 3 Codice. Ora, quest’ultima regola, quanto alle società di persone, è stata inserita dal legislatore della riforma nell’art. 2257, cioè nello stesso articolo che prevede l’amministrazione disgiuntiva: il che sembrerebbe deporre a favore della compatibilità di questo regime con la regola dell’art. 120 bis, con la conseguenza che dovrebbe riconoscersi al singolo socio amministratore il potere di decidere in ordine all’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi, includendo nel piano anche modifiche dell’atto costitutivo. 
Non mancano però argomenti a favore della tesi della incompatibilità. Come è stato rilevato[71], nel sistema di amministrazione disgiuntiva è previsto il potere di opposizione da parte del singolo amministratore rispetto alle scelte di altro amministratore, il cui esercizio provoca l’intervento dei soci non amministratori, ai quali verrebbero così attribuita la possibilità di interloquire in materia a loro sottratta: di qui, appunto, l’asserita incompatibilità[72]. 
Da tutto ciò un’empasse che non è facile sciogliere.
5 . Notazioni conclusive
Nel saggio ricordato all’inizio, Rojo, dopo avere evidenziato i costi del difetto di qualità delle leggi costituiti dalla “distruzione” dell’idea stessa di ordinamento giuridico e, soprattutto, dall’“attentato” alla sicurezza giuridica, in termini di certezza e prevedibilità del diritto, sottolinea con forza come tali costi siano difficilmente giustificabili in uno Stato moderno. Io andrei anche oltre e direi che tali costi dovrebbero essere ritenuti intollerabili in uno Stato moderno che voglia rimanere uno Stato civile: un cittadino, qualsiasi cittadino deve (dovrebbe) poter contare su leggi che siano in linea con i precetti costituzionali e che siano chiare, comprensibili, coerenti. 
Di qui la speranza che questi convincimenti si facciano strada nelle menti e nelle coscienze dei nostri conditores legum e l’auspicio – già altre volte espresso[73] – che prima o poi si riesca ad avere, sulla nostra materia, un testo normativo finalmente definitivo, finalmente scritto in italiano dignitoso e tecnicamente appropriato, finalmente frutto di scelte precise e coerenti e finalmente affidato a formulazioni altrettanto precise ed adeguatamente chiare. 

Note:

[1] 
Il saggio, dal titolo, appunto, Las malas leyes, è apparso in Dir. banc., 2024, I, p. 11 ss. 
[2] 
La precisazione è importante, perché quello che interessa qui è la qualità della legge, di qualsiasi legge, sotto il profilo del rispetto dei canoni, appunto, tecnici non sotto il profilo della bontà o meno delle scelte “politiche” di cui la legge (o la norma) possa essere il risultato.
[3] 
Si v. P. Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione, discorso tenuto nella seduta del 4 marzo 1947 dell’Assemblea Costituente, in Scritti e discorsi politici, a cura di Bobbio, II, Firenze, 1966, p. 30. 
[4] 
Fra questi strumenti merita di essere ricordato, per la sua importanza, l’apposito Comitato per la legislazione introdotto, dapprima, presso la Camera dei Deputati e, successivamente, anche presso il Senato, composto da membri delle rispettive Camere ed avente lo specifico compito di assicurare la qualità della legislazione. Su questi organi v. di recente L. Lorello, La qualità della legislazione nel sistema costituzionale: il contributo del comitato per la legislazione della Camera e del Senato, in Nuove autonomie, 2023, p. 33 ss.
[5] 
Per un quadro abbastanza aggiornato delle regole che le regioni hanno adottato, soprattutto nell’ambito dei loro statuti, per assicurare la qualità delle loro leggi v. M. Carli, Qualità della regolazione (1/2021), in Osservatoriosulle fonti.it
[6] 
È sufficiente ricordare qui la sentenza 24 marzo 1988, n. 364, in Foro.it, 1988, I, 1385, con nota di G. Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: «prima lettura» della sentenza n. 364/88, che, pronunciandosi in tema di errore scusabile in materia penale, ha sancito il principio per il quale «il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato e a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento». Sul tema v., di recente, E. Longo, Brevi note sul contributo crescente della Corte costituzionale sulla qualità della legislazione, in Osservatorio sulle fonti, 2022, fasc, 1, p. 405 ss. 
[7] 
La letteratura sulla qualità delle leggi in Italia è, naturalmente, vastissima. Ci si può limitare a ricordare qui, fra i contributi meno recenti F. Bassanini, S. Paparo e G. Tiberi, Qualità della regolazione: una risorsa per competere. Metodologie, tecniche e strumenti per la semplificazione burocratica e la qualità della regolazione, in Astrid Rassegna, 11/2005; e Il drafting legislativo: il linguaggio, le fonti, l’interpretazione. Del modo di fare le leggi e dei suoi effetti, a cura di Perchinunno, Napoli, 2007 (con interventi, fra gli altri, di Costantino, Falzea, Grossi, Lipari, Perlingieri); e, fra i contributi più recenti, M. De Benedetto, M. Martelli e N. Rangone, La qualità delle regole, Bologna, 2011; Aa. Vv, L’Italia e le sue leggi, in Giornale dir. amm., 2018, p. 460 ss.; L. Di Majo, La qualità della legislazione tra regole e garanzie, Napoli, 2019; Italia, L’ombra e la luce nelle leggi, Milano, 2020. 
[8] 
«Una ley es mala cuando los principios o criterios en que se fundamenta no son o han dejado de ser los adecuados, cuando regula mal una determinada instituciȯn o un procedimiento, cuando la sistemática es desacertada: cuando contenga lagunas y quando sea defectuosa en expresiones y terminología»: così Rojo, op. cit., p. 29, che vi aggiunge anche le leggi instabili, quelle cioè che vengono continuamente modificate, le leggi non coordinate con la restante parte dell’ordinamento, le leggi inutili e così via. 
[9] 
Come chi scrive non ha mancato di segnalare: v., da ultimo, A. Nigro e D. Vattermoli, Il diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2023, p.38 s. 
[10] 
La letteratura su questa disciplina – naturalmente per come modellata dal secondo correttivo - è nutritissima: a parte le trattazioni in manuali e commentari v., fra gli altri, G.B. Portale, Il codice italiano della crisi d’impresa e dell’insolvenza tra fratture e modernizzazione del diritto societario, in Riv. soc. 2022, p. 1149 ss.: M.S. Spolidoro, I soci dopo l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi, ibidem, p. 1254 ss.; F. Guerrera, L’espansione della regola di competenza esclusiva degli amministratori nel diritto societario della crisi fra dogmatismo del legislatore e criticità operative, ibidem, p. 1271 ss.; M. Maltoni, Spunti di riflessione sulla disciplina delle modifiche statutarie in caso di accesso della società ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ibidem. p. 1293 ss.; N. Michieli, Il ruolo dell’assemblea dei soci  nei processi ristrutturativi dell’impresa in crisi alla luce del d.lgs. n. 83/22, ibidem, p. 847 ss.; A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Le società, 2022, p. 945 ss.; Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione della crisi, in Il fallimento, 2022, p. 1290 ss.; A. Nigro, La nuova disciplina degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società, in Ristrutturazioni aziendali – Il caso.it. 12 ottobre 2022 ed in Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, a cura di Ambrosini, Pisa, 2023, p. 253 ss.; N. de Luca, Il sovrano non ha abdicato, ma è stato deposto. Noterelle sul ruolo dell’assemblea di società in crisi o insolventi, in Luiss Law Revue, n. 2/2022, p. 6 ss.; C. Esposito, Il ridimensionamento delle prerogative e la responsabilità dei soci nell’ambito degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in Giust. civ., 2022, p. 377 ss.; G. Scognamiglio e F. Viola, I soci nella ristrutturazione dell’impresa. Prime riflessioni, in NDS, 2022, p. 1163 ss.; L. Panzani e E. La Marca, Impresa vs. soci nella regolazione della crisi. Osservazioni preliminari su alcune principali novità introdotte con l’attuazione della Direttiva Insolvemcy, ibidem, p. 1469 ss.; M. Perrino, “Relative priority rule” e diritti dei soci nel concordato preventivo in continuità, in ditittodellacrisi.it, 12 dicembre 2022; M. Campobasso, La posizione dei soci nel concordato preventivo di società, in Banca, borsa, tit. cred., 2023, I, p. 166 ss.; G. Ferri jr., Poteri e responsabilità degli amministratori nel concordato preventivo delle società, in Riv. dir. comm., 2023, I, p. 15 ss.; O. Cagnasso, Le modificazioni statutarie funzionali al buon esito delle ristrutturazioni, in Le società, 2023, p. 240 ss.; O. Cagnasso, C.F. Giuliani e G.M. Miceli, L’accesso delle società al concordato preventivo, ibidem, p. 983 ss.; P.M. Sanfilippo, L’accesso delle società agli strumenti di regolazione. Note minime a margine dell’art. 120 -bis del codice della crisi, in Dir. fall., 2023, p. 493 ss.; P. Benazzo, Gli strumenti di regolazione della crisi delle società e i “diritti corporativi”: che ne resta dei soci?, in Dirittodellacrisi.it, dicembre 2023; e gli scritti raccolti nel fascicolo monografico di AGE, 2023, intitolato Crisi d’impresa. Il lato oscuro del diritto societario, fra i quali si segnalano, per l’attinenza ai temi qui trattati, oltre a G.B. Portale, Il codice italiano, cit., p. 5 ss.; L. Stanghellini, Il governo delle società fra codice civile e codice della crisi, p. 19 ss.; G. Ferri jr., Concordato preventivo e modificazioni statutarie, p. 167 ss.; G.D. Mosco e S. Lopreiato, Gli amministratori, il tribunale e il convitato di pietra negli artt. 120-bis e 120-quinquies del codice della crisi, p. 187 ss.; M. Perrino, Il concordato con attribuzioni ai soci, p. 217 ss. 
[11] 
Rispettivamente infra, sub B e C e § 4. 
[12] 
Ai sensi del cui comma 1 «Gli stati membri provvedono affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore abbia accesso ad un quadro di ristrutturazione al fine di impedire l’insolvenza e di assicurare la …  sostenibilità economica». 
[13] 
Per una forte sottolineatura della non corrispondenza, sotto il profilo dei presupposti soggettivi ed oggettivi, fra i procedimenti di ristrutturazione preventiva disegnati dalla direttiva e i procedimenti che il legislatore italiano ha ritenuto di utilizzare come strumenti di attuazione della medesima v. C. Amatucci, Sul recepimento italiano della Direttiva Insolvency e sulla pretermissione del requisito di “impresa sana”, in Giur. comm., 2022, I, p. 47 ss. 
[14] 
Sostenere – come sostiene L. Stanghellini, Il governo, cit., p. 34 – che la direttiva non prevede esplicitamente la possibilità di consentire l’utilizzazione dei quadri di ristrutturazione preventiva da parte di debitori in stato di insolvenza ma neppure lo esclude significa affidarsi ad un puro e semplice sofisma. Utilizzare come quadri di ristrutturazione ai sensi della direttiva – che, in linea con l’impostazione del Regolamento del 2015, si colloca nella logica della netta distinzione fra procedure di ristrutturazione e procedure di insolvenza e su tale distinzione impernia l’intera disciplina in punto di allerta, di misure protettive, di contenuto del piano e di adozione del medesimo – significa tradire nella sostanza gli obiettivi del legislatore unionale, che voleva (e vuole) strumenti di ristrutturazione da un lato chiari ed univoci e dall’altro efficaci. 
[15] 
Á. Rojo , Los problemas de la armonización de la legislación concursal española, in  Revista de derecho mercantil, 2023, p. 1 ss. 
[16] 
V. infra, § 4. 
[17] 
Sul punto v. anche O. Cagnasso, C.F. Giuliani e G.M. Miceli, L’accesso, cit., p. 984. 
[18] 
Ci si riferisce qui agli scritti di G. Ferri jr. (da ultimo e per tutti, Soci e creditori nella struttura finanziaria della società, in Diritto societario e crisi di impresa, a cura di Tombari, Torino, 2014, p. 95 ss.; Ristrutturazioni societarie e competenze organizzative, in Riv. soc., 2019, p. 233 ss.), il quale aveva sostenuto, appunto, che il provvedimento giudiziale di omologazione di un concordato preventivo avrebbe potuto fornire il titolo sufficiente a produrre le modificazioni dell’organizzazione societaria contemplate nella proposta, in sostituzione delle deliberazioni assembleari eventualmente necessarie in base alla disciplina codicistica. 
[19] 
In La nuova disciplina, cit., passim; alla linea là esposta ha aderito N. de Luca, Il sovrano, cit., p. 6 ss. 
Posizioni critiche hanno altresì assunto, in particolare, G.B. Portale, Il codice italiano, cit., 1150 s.; M.S. Spolidoro, I soci, cit., passim; F. Guerrera, L’espansione, cit., passim
[20] 
Queste disposizioni rispettivamente stabiliscono: «Se escludono i detentori di strumenti di capitale dall'applicazione degli articoli da 9 a 11, gli Stati membri provvedono con altri mezzi affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l'adozione e l'omologazione di un piano di ristrutturazione» e «Gli Stati membri provvedono altresì affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l'attuazione di un piano di ristrutturazione». 
[21] 
Sul punto si tornerà più avanti. 
[22] 
Il rilievo è stato giudicato “errato” da parte di L. Stanghellini, Il governo, cit., p. 69, il quale - partendo dall’assunto che sarebbe legittimo un sistema, quello del classamento previsto dagli art. 9-11 della direttiva, «che rende possibile omologare il piano anche in assenza del consenso dei soci o addirittura senza che a loro sia nemmeno attribuito il diritto di voto» – giunge alla conclusione che «se tale sistema (che consente la cancellazione dei soci addirittura senza la loro consultazione) è legittimo, tutto ciò che si colloca all’interno del perimetro di governance che ne risulta è, a fortiori, legittimo. In altre parole, in termini di pura logica giuridica …non è possibile sostenere che dall’art. 12, che disciplina l’alternativa al sistema base del classamento, emerge la necessità di un ricercare un consenso (ragionevole) dei soci dal quale invece il sistema base prescinde completamente». 
Questo ragionamento non convince affatto. In primo luogo, esso muove da una premessa non corretta: le classi, in cui oltre ai creditori possono essere inseriti i soci se così decide il legislatore nazionale, sono classi di voto: quindi il § 3 dell’art. 9 va letto nel senso che il legislatore nazionale può non “classare” i soci anche quando siano parti interessate (ed in ciò consiste la deroga al § 2). 
In secondo luogo, l’idea che il classamento in sé toglierebbe automaticamente ogni spazio a interventi deliberativi dei soci in ordine al contenuto della proposta comprese le modificazioni statutarie in essa eventualmente previste, è frutto di una pura deduzione logica (ed in questa chiave risulta accolta in dottrina: v., fra gli altri, L. Panzani e E. La Marca, Impresa vs. soci, cit., p. 1479), che non trova però alcun sostegno nella direttiva, dalla quale, al contrario, emergono indicazioni di segno opposto: a cominciare da quella derivabile dall’art. 32 (su cui si tornerà più avanti ad altro proposito), il quale, prevedendo la deroga alla regola dell’assemblea in specifici casi, implicitamente conferma che in tutti gli altri casi resta ferma la regola dell’assemblea posta dal diritto societario comune. 
D’altra parte, l’idoneità del classamento dei soci a prevenire comportamenti ostruzionistici degli stessi può trovare fondamento su di un piano diverso da quello della limitazione dei poteri di voice dei medesimi. Nella logica della direttiva, il debitore, prima ancora di predisporre il piano, dovrebbe individuare i gruppi di parti interessate, appunto le classi,  da coinvolgere nella ristrutturazione e negoziare con i medesimi anche e proprio il contenuto del piano (può ricordarsi, al riguardo, che l’intero Capo II della direttiva è dedicato alle «Agevolazioni delle trattative sul piano di ristrutturazione» e che, nel quadro di tali agevolazioni, la nomina di un professionista è prevista appunto  per «assistere il debitore e i creditori nel negoziare e redigere il piano di ristrutturazione»: così l’art. 5, § 3). Classare i soci significa allora coinvolgere gli stessi nel processo di negoziazione ed è questo coinvolgimento diretto, il quale dovrebbe portare anche ad intese con i medesimi, che si può ragionevolmente ritenere fattore idoneo ad evitare i temuti comportamenti ostruzionistici. 
[23] 
A questo rilievo si è replicato – da parte di L. Stanghellini, Il governo, cit., p. 67 – sostenendo che il legislatore italiano si sarebbe attenuto a quanto specificato nel Considerando 96 della direttiva, che attribuirebbe agli Stati membri un margine di discrezionalità nel valutare quali ulteriori (rispetto a quella prevista nell’art. 32) deroghe al diritto societario nazionale sono necessarie al fine di attuare la direttiva. La replica non coglie nel segno per la semplicissima ragione che i Considerando delle direttive o dei regolamenti non contengono enunciati di carattere normativo (così, fra le altre, Cass., 7 marzo 2022, n. 7280, in Judicium.it, 2022/08), quindi non hanno alcun valore vincolante e non possono essere invocati né per derogare alle disposizione dell’atto di cui costituiscono il preambolo né per interpretare queste disposizioni in un senso manifestamente contrario al loro tenore letterale (così, fra le altre, Corte di Giustizia UE, sez. V, 25 novembre 2020, causa C 303/19, punto 26). 
Sempre allo stesso rilievo si è replicato – da parte di G. Ferri jr., Poteri e responsabilità, cit., p. 30 e da parte di  L. Stanghellini, Il governo, cit., loc. cit., che ha giudicato il rilievo medesimo, per ciò, “non comprensibile”– sostenendo anche che la scelta del legislatore italiano sarebbe giustificata alla luce della considerazione che già l’art. 87 della direttiva n. 2017/1132, con riferimento alla fusione, richiamato dall’art. 135, § 4 a proposito della scissione, legittima la disapplicazione dell’intera disciplina corrispondente alle società oggetto, fra l’altro, di concordato preventivo e di “altre procedure affini”. Anche questa replica non coglie nel segno ed anche qui per una ragione semplicissima: perché le disposizioni in questione vanno intese, non già nel senso che i legislatori nazionali possano, nel caso di società oggetto di procedure concorsuali, derogare a questa o quella parte della disciplina unionale, bensì nel senso che quei legislatori possono escludere che tali società possano partecipare ad operazioni di fusione e scissione (che – come è noto – era il regime vigente in Italia anteriormente alla riforma del diritto societario). 
[24] 
Per questo rilievo v. N. De Luca, Il sovrano, cit., p. 17 ss., ove tutti i necessari riferimenti. 
[25] 
Peraltro, non è neppure sicuro il termine finale. Dall’art. 120-bis sembrerebbe che questo termine debba individuarsi nell’omologazione; ma c’è chi ha sostenuto che esso andrebbe fissato nel completamento dell’attuazione del piano (M. Maltoni, Spunti di riflessione, cit., p. 1296). 
[26] 
Anche questo tema è già stato toccato in A. Nigro, La nuova disciplina, cit., passim
[27] 
Retro, nt. 22. 
[28] 
In realtà, il legislatore italiano ha mostrato di non aver neppure compreso il significato e la portata della distinzione, fondamentale nella direttiva, fra parti “interessate” e parti “non interessate” dalla ristrutturazione. Sul tema v. A. Nigro, La distinzione fra parti “interessate” e parti “non interessate” nella direttiva UE 2019/1023 e nella normativa italiana di recepimento, in Dir. banc., 2024, I, p. 159 ss. 
[29] 
Per la verità, il comma 1 non specifica che si debba trattare di un concordato in continuità: ma, da un lato, il riferimento in esso al valore risultante dalla ristrutturazione evoca quella figura di concordato; dall’altro, a questa figura di concordato fa espresso riferimento il comma 4. 
[30] 
«Per valore riservato ai soci si intende il valore effettivo, conseguente all'omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese aventi i requisiti dimensionali di cui all'articolo 85, comma 3, terzo periodo, anche in altra forma. Il valore effettivo è determinato in conformità ai principi contabili applicabili per la determinazione del valore d'uso, sulla base del valore attuale dei flussi finanziari futuri utilizzando i dati risultanti dal piano di cui all'articolo 87 ed estrapolando le proiezioni per gli anni successivi». 
[31] 
In base al comma 1, «il concordato, in caso di dissenso di una o più classi di creditori, può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci. Se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci». 
[32] 
Infra, § 3. 
[33] 
La prima delle due proposizioni esprime la regola della priorità assoluta, in base alla quale i creditori di una classe di rango superiore debbono essere soddisfatti integralmente prima che i creditori di una classe di rango inferiore possano ricevere alcunché; la seconda esprime la regola della priorità relativa, in base alla quale è sufficiente che i creditori di una classe di rango superiore ricevano di più dei creditori di una classe di rango inferiore (su queste due regole, in generale, v. G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule, in Il fall., 2020, p. 1072 ss.; M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., p. 7 ss., ove anche la ricostruzione della genesi, di matrice statunitense, delle medesime; sul tema v. altresì D. Vattermoli, Concordato in continuità aziendale, Absolute Priority Rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm., 2014, II, p. 331 ss.). 
[34] 
Per questa lettura v. anche G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza3, Torino, 2024, p. 176; M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., p. 33; in senso diverso v. G. Scognamiglio e F. Viola, I soci, cit., p. 1199 s.; dubbi esprime D’Orsi, Art. 120-quater, in Il Codice della crisi. Commentario, a cura di Valensise, Di Cecco e Spagnuolo, Torino, 2024, p. 719. 
[35] 
Rispetto che dovrebbe essere garantito dalle particolari condizioni di cui si tratterà subito appresso. 
[36] 
V. il Considerando 56, ove si collega la possibilità di derogare alla regola della priorità assoluta alla scelta di consentire che i detentori di strumenti di capitale mantengano interessi ai sensi del piano nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti. 
[37] 
Che non trova, va notato, alcun supporto nella direttiva. 
[38] 
V., fra gli altri, A. Rossi, I soci, cit., p. 950. 
[39] 
Così M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., p. 29; D. Vattermoli, Ristrutturazione trasversale dei debiti, in Giur. comm., 2023, I, p. 818. 
[40] 
In altre parole: con quel meccanismo ci si assicura che la regola della priorità relativa venga rispettata nel rapporto fra classi di creditori: ma con riferimento alle attribuzioni ai soci il problema è (sarebbe) quello di assicurare il rispetto della suddetta regola nel rapporto fra (classi di) creditori e soci. Ricordo che la regola della priorità relativa è stata inventata proprio per consentire, in particolare, attribuzioni ai soci che la regola della priorità assoluta non consentirebbe, se non nel caso linite in cui tutti i creditori siano integralmente soddisfatti (v. in argomento M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., p. 40; ma anche il sopra ricordato Considerando 56 della direttiva): è paradossale, allora, che proprio là dove dovrebbe assolvere alla sua specifica funzione la regola della priorità relativa in concreto non operi rispetto ai soci. 
[41] 
V. ancora A. Rossi, I soci, cit., p. 951. 
Per M. Perrino, Il concordato, cit., p. 242 s. la regola di cui stiamo trattando potrebbe trovare giustificazione nella esigenza di evitare che venga varato un piano di concordato in continuità nel quale, per u verso, alla classe dei creditori di infimo rango venga assicurato un trattamento pari al valore che essi riceverebbero nell’alternativa liquidatoria, quindi eventualmente pari a zero e, per altro verso si prevedano attribuzioni ai soci. La tesi è ingegnosa. Muove però da un presupposto non corretto, perché nel concordato in continuità non è possibile che si abbia una classe con percentuale di soddisfacimento pari a zero: lo impedisce l’art. 84, comma 3, seconda parte, per il quale «La proposta di concordato prevede per ciascun creditore un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile». 
[42] 
Secondo la quale – nella formulazione ritoccata dal terzo decreto correttivo - per tali strumenti si devono intendere «le misure, gli accordi e le procedure, diversi dalla liquidazione giudiziale e dalla liquidazione controllata, volti al risanamento dell'impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività». 
[43] 
Rispetto alla quale, la carica di ambiguità era stata tanto forte da indurre una parte della dottrina a ritenere compresa nella categoria la liquidazione giudiziale (v., per esempio, G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza2, Torino, 2022 p. 9), nonostante che nel Codice fosse, come tuttora è, rintracciabile una nutritissima serie di norme – art. 2, lett.q); art. 5, co. 3 e 4; art. 5-bis, co. 1; art. 7, rubrica e comma 1; art. 8; art. 11, comma 1 e 2; art. 26, comma 1 e 2; art. 27, comma 1 e 2; art. 28; art. 30; art. 39, rubrica e comma 1; ecc. - in cui la categoria degli “strumenti di regolazione” è espressamente contrapposta alla categoria delle “procedure di insolvenza”, la prima e più importante delle quali è, ovviamente, la liquidazione giudiziale. 
[44] 
Peraltro il legislatore del 2024 è incorso, sul punto, in un vizio di incompletezza, perché avrebbe dovuto menzionare accanto alla liquidazione giudiziale e a quella controllata, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi. 
[45] 
F. Iozzo e C. Scribano, Art. 120-bis, in Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa ed insolvenza7, a cura di Maffei Alberti, Milano, 2023, p. 881. 
[46] 
Così M. Spiotta, Il percorso (“liquido” ma anche “solido”) della CNC: solo andata o anche ritorno?, in Giur. comm., 2024, p. 596. 
[47] 
Così, per esempio, O. Cagnasso, C.F. Giuliani e G.M. Miceli, L’accesso, cit., p. 986. 
[48] 
Il legislatore del terzo correttivo ha modificato l’art. 65 escludendo dall’applicazione del tit. III alle procedure di sovraindebitamento proprio l’art. 44. Resta però applicabile a quelle procedure l’art. 40: e tanto basta. 
[49] 
Naturalmente, nel procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione non potranno trovare applicazione né l’art. 120 ter né l’art. 120 quater, i quali presuppongono la suddivisione dei creditori in classi, che in quel procedimento non può aver luogo. 
[50] 
I due articoli richiamati parlano di “modificazioni”, non di “modificazioni statutarie”. Ma questa differenza è, ad avviso di chi scrive, assolutamente irrilevante: da un lato, il legislatore ha inteso sicuramente riferirsi, con riguardo al classamento dei soci ed alle det6erminazioni del tribunale, alle stesse modificazioni che possono essere oggetto del piano concordatario; d’altra parte, se non si trattasse di modificazioni statutarie non si capirebbe di che tipo di modificazioni si potrebbe trattare. 
[51] 
Così M. Perrino, “Relative priority rule”, cit., p. 42. 
[52] 
A. Rossi, I soci, cit., p. 956. 
[53] 
Su questa problematica v., per tutti, P. Piscitello, Art. 2437, in Le società per azioni, diretto da Abbadessa e Portale, Milano, 2016, t. II, p. 2502, ove ulteriori riferimenti. 
[54] 
Così in particolare G. Ferri jr., Concordato preventivo, cit., p. 177. 
[55] 
In senso analogo M. Maltoni, Spunti di riflessione, cit., p. 1296; G. Ferri jr., Concordato preventivo, cit., p. 180. V. anche M. Campobasso, La posizione, cit., p. 178 e nt. 14. 
[56] 
A p. 32. 
[57] 
V. sul punto A. Nigro, Le ristrutturazioni societarie nel diritto italiano delle crisi: notazioni generali, in Riv. dir. comm., 2019, I, p. 384. 
[58] 
Retro, § 2. 
[59] 
Così A. Rossi, I soci, cit., p. 952. 
[60] 
Su queste problematiche v., per tutti, O. Cagnasso, C.F. Giuliani e G.M. Miceli, L’accesso, cit., p. 990 ss. 
[61] 
Secondo un meccanismo analogo – come è stato giustamente osservato (da I. Pagni e M. Fabiani, Le operazioni straordinarie nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza tra l’art. 116 e gli artt. 120-bis ss. CCII, in Riv. soc., 2022, p. 1315) – a quello contemplato dall’art. 2932 c.c. 
[62] 
In senso conforme v., fra gli altri, G. Ferri jr., Concordato preventivo, cit., p. 169 s.
Questo porta direttamente a ritenere che, ove venga proposto un concordato puramente liquidatorio, dovrà sì applicarsi la regola in ordine alla competenza esclusiva e inderogabile degli amministratori in punto di decisione sulla proposta e sul contenuto del piano, ma non dovrebbe ritenersi consentita la previsione nel piano di operazioni straordinarie, mancando l’obiettivo del risanamento. 
[63] 
È il caso di sottolineare, immediatamente, che non si pone alcun problema di coordinamento fra la normativa che stiamo esaminando e l’art. 265 Codice, che, in materia di accesso al concordato nella liquidazione giudiziale di una società, ha conservato la regola originaria per la quale la proposta e le condizioni del concordato, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo o dello statuto, sono approvate dai soci nelle società di persone e sono  deliberate dagli amministratori nelle società di capitali e nelle società cooperative. La disciplina che stiamo esaminando è caratterizzata da un alto tasso di eccezionalità e trova la sua giustificazione nell’esigenza di favorire processi di risanamento precoce di imprese in difficoltà; coerentemente il legislatore non ne ha esteso l’ambito di applicazione alle procedure propriamente liquidative. Non trova quindi alcuna giustificazione l’idea – adombrata, per esempio, da O. Cagnasso, L’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza: la posizione degli amministratori, in Dirittodellacrisi.it, febbraio 2023, p. 4; in senso contrario v., fra gli altri, M. Sanfilippo, L’accesso, cit., p.  496 s.   – secondo cui l’art. 265 sarebbe da considerare implicitamente abrogato dall’art. 120 bis. A parte che le due disposizioni sono entrate in vigore contemporaneamente (il che precluderebbe in radice l’applicabilità dell’art. 15 delle preleggi, che disciplina il rapporto fra nuove disposizioni e disposizioni precedenti), non è prospettabile alcuna incompatibilità fra la disposizione eccezionale dell’art. 120 bis e quella semplicemente speciale dell’art. 265. 
È il caso di sottolineare anche che nel regime anteriore al terzo correttivo si poneva un problema di coordinamento della normativa che qui interessa con l’art. 118 Codice: un problema da ritenere ormai superato in ragione dei ritocchi apportati dal suddetto correttivo a quella disposizione. 
[64] 
Nella quale si stabiliva: «Se il piano prevede il compimento, durante la procedura oppure dopo la sua omologazione, di operazioni di trasformazione, fusione o scissione della società debitrice, la validità di queste può essere contestata dai creditori solo con l’opposizione all’omologazione» (comma 1); «A questo fine, il tribunale, nel provvedimento di fissazione dell’udienza di cui all’art. 48, dispone che il piano sia pubblicato nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società interessate dalle operazioni di trasformazione, fusione o scissione. Tra la data della pubblicazione e l’udienza devono intercorrere almeno trenta giorni» (co. 2); «Gli effetti delle operazioni di cui al co. 1 in caso di risoluzione o di annullamento del concordato, sono irreversibili, salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi ai sensi degli articoli 2500-bis, comma secondo, 2504-quater, comma secondo, e 2506-ter, comma quinto, del codice civile» (comma 3); «Trovano applicazione, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nel capo X del titolo V del libro V del codice civile» (comma 4); e, infine, «Quando il piano prevede il compimento delle operazioni di cui al comma 1, il diritto di recesso dei soci è sospeso fino all’attuazione del piano» (comma 5, aggiunto dal D.Lgs. n. 83/2022). 
[65] 
In primo luogo, la disposizione parlava di «contestazioni», da parte dei creditori, della validità delle operazioni in questione, con ciò sembrando volersi riferire a rimedi impugnatori: il che ingenerava il dubbio che esso avesse voluto regolare la sorte di strumenti di tutela diversi dalle opposizioni di cui alla normativa civilistica pur richiamata nel co. 4, che, per opinione comune, sono destinati ad incidere non sulla validità ma sull’efficacia delle operazioni in questione. In secondo luogo, ammesso che, alla luce della legge delega, l’espressione usata nella norma dovesse intendersi riferita alle opposizioni di cui alla normativa civilistica, non si comprendeva se le «contestazioni» dei creditori dovessero o no obbligatoriamente assumere la forma dell’opposizione all’omologazione, conservando il contenuto quale governato dalle disposizioni civilistiche. In terzo luogo, non era chiaro come avrebbero dovuto coordinarsi i termini previsti dalla disciplina privatistica con la tempistica del giudizio di opposizione all’omologazione, che ha cadenze molto precise (un coordinamento che sembrava peraltro impossibile per le operazioni da compiersi durante la procedura). Infine, non era affatto chiaro quali fossero gli effetti che l’accoglimento delle «contestazioni» dei creditori avrebbe dovuto produrre (il diniego dell’omologazione o, per esempio, conseguenze solo sul piano risarcitorio?). 
Sulle “criticità” dell’art. 116 vecchia versione v. in particolare I. Pagni e M. Fabiani, Le operazioni straordinarie, cit., p. 1317 ss.; F. Guerrera, L’espansione, cit., p. 1291; M. Campobasso, La posizione, cit., p. 179 ss. 
[66] 
In Il codice italiano, cit., p.1151, nt. 5. 
[67] 
Essa ora recita: «Il piano di concordato che prevede la trasformazione, la fusione o la scissione è depositato per l'iscrizione nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede la società debitrice e le altre società partecipanti, unitamente al progetto di cui agli articoli 2501-ter e 2506-bis del codice civile e agli altri documenti previsti dalla legge» (comma 1); «L'opposizione dei creditori della società debitrice e delle altre società partecipanti nei confronti delle operazioni di cui al comma 1 è proposta nel procedimento di cui all'articolo 48. Tra la data dell'ultima delle iscrizioni di cui al comma 1 e l'udienza fissata dal tribunale ai sensi dell'articolo 48 devono intercorrere almeno quarantacinque giorni». (comma 2); «Le operazioni di cui al comma 1, non possono essere attuate fino a quando il concordato non è omologato con sentenza anche non passata in giudicato. Se richiesto, il tribunale, sentito il commissario giudiziale, può autorizzare l'attuazione anticipata, se ritiene che l'attuazione successiva all'omologazione pregiudicherebbe l'interesse dei creditori della società debitrice, a condizione che risulti il consenso di tutti i creditori delle altre società partecipanti o che le stesse provvedano al pagamento a favore di coloro che non hanno dato il consenso oppure depositino le somme corrispondenti presso una banca» (comma 3); «Intervenuta l'omologazione, anche con sentenza non passata in giudicato, l'invalidità delle deliberazioni previste dal piano di concordato, aventi a oggetto le operazioni di cui al comma 1, non può essere pronunciata e gli effetti delle operazioni sono irreversibili. Resta salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente cagionato dalla invalidità della deliberazione e il credito è soddisfatto come credito prededucibile» (comma 4); «La disciplina di cui al comma 4, trova applicazione anche in caso di revoca, risoluzione o annullamento del concordato» (comma 5); «Quando il piano prevede il compimento delle operazioni di cui al comma 1, il diritto di recesso dei soci è sospeso fino alla loro attuazione» (comma 6).
[68] 
Vi si parla infatti, soltanto di invalidità delle deliberazioni previste dal piano, che porterebbe a riferire la regola della irreversibilità degli effetti soltanto alle società diverse dalla società debitrice, dal momento che, per quest’ultima, è la sentenza di omologazione che sostituisce le deliberazioni previste dalla disciplina generale: in realtà, la regola della stabilità degli effetti riguarda invece anche, e proprio, la sentenza di omologazione. 
[69] 
In senso positivo si è invece espresso, fra gli altri, M. Campobasso, La posizione, cit., p. 182 s. 
[70] 
Retro, § 2. 
[71] 
O. Cagnasso, Le modificazioni, cit., p. 3 (dell’estratto). 
[72] 
Dal che l’idea secondo cui la proposta dovrebbe essere in ogni caso presentata dagli amministratori unitariamente considerati: in questo senso G. Ferri jr., Concordato preventivo, cit., p. 174. 
[73] 
Da ultimo in Dopo il codice della crisi: riflessioni sulle prospettive del diritto della crisi d’impresa, in Riv. dir. comm., 2024, I, p. 

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Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

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