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Saggio

L’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società: la posizione degli amministratori*

Oreste Cagnasso, Emerito di diritto commerciale nell’Università di Torino

1 Febbraio 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Lo scritto costituisce una rielaborazione della relazione tenuta dall’A. al XXIX Convegno nazionale di studi dell’Associazione Albese Studi di diritto commerciale, tenutosi ad Alba il 26 novembre 2022, dal titolo “Stagflazione, guerra, pandemia: il Codice della crisi alla prova dei fatti”; è destinato alla raccolta degli atti del medesimo convegno a cura di L. Panzani.
L’A. si sofferma sul nuovo ruolo della governance dell‘impresa in relazione all’accesso agli strumenti di regolazione della crisi, cogliendo il senso e la ratio delle modifiche in termini di competenza e responsabilità.
Riproduzione riservata
1 . Premessa
La legge fallimentare, nella sua versione originaria, demandava ai soci o all’assemblea straordinaria, a seconda dei tipi di società, l’approvazione della proposta e delle condizioni del concordato fallimentare e preventivo, salva delega agli amministratori: infatti l’art. 152, secondo comma, L. fall., disponeva che la proposta e le condizioni del concordato, nelle società in nome collettivo e in accomandita semplice, devono essere approvate dai soci che rappresentano la maggioranza assoluta del capitale e, nelle società di capitali, nonché nelle cooperative, dall’assemblea straordinaria, salvo che tali poteri siano delegati agli amministratori. L’art. 152 L. fall. ora richiamato si applicava al concordato fallimentare; l’art. 161, ultimo comma, L. fall., rinviava a tale disposizione con riferimento al concordato preventivo.
La riforma degli anni 2005 - 2006 ha ribaltato, in parte, il contenuto delle regole illustrate, stabilendo che la proposta e le condizioni del concordato delle società di capitali e cooperative sono deliberate dagli amministratori, mentre nelle società di persone continuava ad essere approvate dai soci che rappresentano la maggioranza del capitale sociale. La disposizione però era derogabile, come fatto palese dall’inciso “salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo o dello statuto” (cfr. artt. 152, secondo comma e 161, quarto comma, L. fall., rispettivamente per il concordato fallimentare e quello preventivo).
Il Codice della crisi, nella sua prima versione, ha riprodotto tali norme negli artt. 265, secondo comma, e 44, quarto comma, rispettivamente in tema di concordato nella liquidazione giudiziale e di concordato preventivo. In ogni caso però l’art. 2086, comma secondo, c.c., introdotto dal Codice della crisi, sancisce il dovere per l’imprenditore societario di attivarsi in caso di crisi e di perdita della continuità aziendale. 
Da ultimo, nella versione entrata in vigore il 15 luglio 2022, il Codice della crisi contiene una nuova sezione, inserita nella disciplina del concordato preventivo, dedicata agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società. L’art. 120 bis, che apre la sezione, nei suoi primi due commi, attribuisce in via esclusiva agli amministratori le decisioni relative: 
- all’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza;
- al contenuto della proposta e alle condizioni del piano;
- alla previsione nel piano di qualsiasi modificazione dello statuto della società al fine del buon esito della ristrutturazione, inclusi aumenti e riduzioni di capitale, anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione, e altre modificazioni che incidano direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni.
A sua volta, l’art. 44 del Codice è stato modificato coerentemente con la norma ora richiamata, senza più prevedere la possibilità di intervento dell’assemblea. Non così l’art. 265, per cui la proposta e le condizioni del concordato nella liquidazione giudiziale delle società, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo o dello statuto, nelle società di persone sono approvate dai soci che rappresentano la maggioranza assoluta del capitale; nelle società di capitali e nelle cooperative sono deliberate dagli amministratori. Si pone quindi il dubbio: si tratta di un semplice difetto di coordinamento oppure è da ritenere che valgano regole diverse da quella prevista nell’art. 120 bis sopra richiamato per il concordato nella liquidazione giudiziale?
In ogni caso, la norma in esame, a parte il suo ambito di applicazione all’interno dei vari strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, ha carattere transtipico e quindi si applica a tutti i tipi di società.
Si pone altresì il problema di individuare esattamente l’area di estensione della competenza esclusiva attribuita agli amministratori in ordine alle modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto, che devono essere funzionali al buon esito della ristrutturazione[1].
Come appare evidente, la norma introduce una profonda modificazione rispetto alle regole di governance delle società. L’attribuzione in via esclusiva agli amministratori del compito di individuare lo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza era già prevista, a mio avviso, come si illustrerà nel paragrafo successivo, dall’art. 2086, comma secondo, c.c. in coerenza con le regole che conferiscono agli amministratori in via esclusiva la predisposizione degli assetti adeguati. Dal momento che questi ultimi hanno in particolare la funzione di consentire di prevenire la crisi, l’obbligo di attivarsi in tal caso sembra strettamente consequenziale. 
Anche la decisione concernente la proposta e il piano era già affidata agli amministratori di società di capitali, sia pure con regola derogabile. Oggi si tratta di norma imperativa. Quale ulteriore profilo innovativo il legislatore conferisce in esclusiva il compito di deliberare su proposta e piano non solo agli amministratori di società di capitali, ma anche a quelli delle società di persone. 
La novità di gran lunga più rilevante consiste nell’ulteriore attribuzione ad essi della possibilità di introdurre nel piano qualsiasi modificazione funzionale a quest’ultimo. Si tratta evidentemente di una sorta di delega ex lege che modifica profondamente la governance societaria sottraendo ai soci delle società di persone o all’assemblea delle società di capitali e delle cooperative una competenza fondamentale, quella di modificare l’atto costitutivo o lo statuto, e nel contempo affidandola all’organo amministrativo. 
La regola presenta altresì un ulteriore profilo innovativo rispetto alle modalità utilizzate dal legislatore per individuare l’area della delega volontaria di competenze dall’assemblea straordinaria agli amministratori. Come è noto, l’art. 2365, secondo comma, prevede la possibilità per lo statuto di s.p.a. di attribuire alla competenza dell’organo amministrativo o del consiglio di sorveglianza o del consiglio di gestione specifiche deliberazioni elencate in tale norma. Per contro, l’art. 120 bis, comma secondo del Codice della crisi, come si è osservato, si riferisce a qualsiasi modificazione circoscrivendone l’ambito attraverso un criterio funzionale: devono infatti essere individuate ai fini del buon esito della ristrutturazione. Pertanto in presenza di una determinata situazione (crisi e accesso ad uno strumento di regolazione), il legislatore prevede il trasferimento di competenze dai soci o dall’assemblea all’organo amministrativo nella prospettiva del superamento della crisi[2].
Evidentemente tale regola, da un lato, è diretta ad impedire manovre ostruzionistiche da parte dei soci o dell’assemblea, così come previsto dalla Direttiva Insolvency, dall’altro, è coerente con la posizione che deve essere assunta dagli amministratori rispetto ai creditori in caso di crisi o di insolvenza. Come efficacemente è stato scritto da Lorenzo Stanghellini[3], il diritto della crisi scava delle vere e proprie “gallerie” all’interno del diritto societario, mutandone profondamente la governance.
In tale prospettiva occorre, in primo luogo, esaminare l’ “impatto” dei primi due commi dell’art. 120 bis sui sistemi di amministrazione e sulla stessa struttura interna dell’organo amministrativo. In secondo luogo, è necessario analizzare gli effetti della regola nei rapporti tra organo amministrativo e soci o assemblea. Infine, occorre verificare se l’attribuzione in esclusiva delle competenze in esame impedisca di estenderle all’organo amministrativo di altre società.
Prima di affrontare tali temi può essere opportuno uno “sguardo” all’art. 2086, secondo comma, c.c. e, in particolare, all’obbligo di attivazione in caso di crisi o insolvenza. Naturalmente oggi tale compito deve essere individuato tenendo conto di quanto previsto dall’art. 120 bis del Codice della crisi.
2 . L’obbligo di attivarsi
Il secondo comma dell’art. 2086 c.c., è appena il caso di ricordarlo, prevede un triplice obbligo che fa a capo all’imprenditore quando opera sia in forma societaria, sia in forma collettiva: il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato; di istituire un assetto in funzione della rilevazione tempestiva della crisi; «di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Come appare evidente, il secondo obbligo non è che una specificazione del primo: quindi i doveri fondamentali introdotti dalla norma sono quelli relativi alla predisposizione degli assetti adeguati ed all’attivazione in caso di crisi. Si tratta di obblighi specifici a contenuto aperto: in particolare, il secondo appare funzionalmente orientato all’obiettivo dell’adozione e dell’attuazione di uno strumento previsto dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.
Stando al dato letterale, il dovere in esame presenta una precisa modalità cronologica espressa con la formula “senza indugio” e sembrerebbe volto all’adozione e all’attuazione non solo di uno strumento previsto dall’ordinamento, ma anche e soprattutto ad uno strumento idoneo per superare la crisi ed il recupero della continuità aziendale.
Occorre scindere, prendendo le mosse dal dato letterale, i tre momenti dell’attivazione, dell’adozione e dell’attuazione di uno degli strumenti per superare la crisi. Si tratta ovviamente di tre fasi cronologicamente distinte, l’una però in funzione dell’altra. 
Presupposto del dovere di attivazione, così si rileva dall’art. 2086 c.c., è una situazione di crisi e di perdita della continuità aziendale. 
Fermo restando il collegamento tra gli assetti adeguati che consentano la rilevazione tempestiva della crisi e l’obbligo di attivarsi per fronteggiarla, non pare che il dato letterale impedisca, da un lato, la possibilità di utilizzare strumenti diversi da quelli previsti dall’ordinamento e, dall’altro, idonei non al superamento della crisi e al recupero della continuità aziendale, bensì volti comunque alla soluzione della crisi attraverso una procedura liquidatoria. E’ evidente che, se non ci sono possibilità per il recupero della continuità aziendale, occorrerà prenderne atto e l’unica via percorribile sarà quella della liquidazione. Non riterrei neppure, data l’ampia discrezionalità nella scelta delle modalità di attivazione, che non può che riferirsi alla singola situazione concreta, che vi sia un obbligo comunque di necessariamente verificare prima la possibilità del superamento della crisi e del recupero della continuità aziendale e, solo in caso di una valutazione negativa, accedere alle soluzioni liquidatorie. 
Anche se il legislatore, come si è già detto, ha fatto riferimento esclusivamente a interventi attraverso strumenti previsti dall’ordinamento e quindi, in particolare, dal Codice della crisi, non si possono certo escludere dal loro ambito quelli di tipo “extraconcorsuale”. Così gli amministratori potrebbero operare con riferimento alle modalità dell’esercizio dell’impresa o dell’organizzazione della società, cercando di espandere l’attività di produzione di beni o servizi ad altri prodotti o mercati oppure di realizzare una maggiore efficienza, con risparmi di costi. In particolare, potrebbero essere promosse attività di ricerca e sviluppo al fine di produrre beni o servizi tecnologicamente più avanzati o anche prodotti o servizi innovativi. E’ possibile poi che una soluzione della crisi possa essere attuata attraverso l’intervento dei soci con vari forme, finanziamenti, versamenti a fondo perduto, aumenti di capitale. E’ ancora ipotizzabile un superamento della crisi attraverso l’intervento di un partner che, ad esempio, sottoscriva un aumento di capitale. In una differente prospettiva potrebbe procedersi alla vendita di asset non strategici o alla chiusura di rami d’azienda in perdita: e ancora, gli amministratori potrebbero farsi promotori di accordi con i creditori diretti ad una ristrutturazione dei debiti con riferimento al loro ammontare o alle loro scadenze. Infine, i soci o la loro assemblea possono assumere la decisione di porre in liquidazione volontaria la società[4]. In effetti la norma che attribuisce all’assemblea il potere di porre in liquidazione la società rimane ovviamente applicabile, anche tenuto conto che tale scelta costituisce espressione della libertà d’impresa, naturalmente sul presupposto che si tratti di società in grado di soddisfare i propri creditori.
L’obbligo di attivazione, così come quello di predisposizione degli assetti adeguati, rientra nell’ambito delle competenze attribuite in esclusiva all’organo amministrativo nei vari tipi di società?  
Si è rilevato al proposito che «è indubbio che la definizione degli assetti organizzativi in tema di rilevazione della crisi e la conseguente reazione diretta ad assicurare la prosecuzione dell’attività di impresa non possono prescindere dall’iniziativa degli amministratori» e che «è altrettanto indubbio che tale iniziativa è doverosa, tanto da potersi configurare un’ipotesi di responsabilità per omissione nel caso in cui gli amministratori non si attivino»[5]. Analogamente si è osservato che «non può essere sottratta agli amministratori la competenza a decidere in merito al ricorso agli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale»[6]. E ancora: «nella scelta tra alternative possibili, l’organo amministrativo non può evidentemente tirare a sorte: pertanto come deve considerare l’alternativa tra più procedure perseguibili in caso di insolvenza conclamata, così deve agire in caso di crisi, vale a dire scegliendo con la necessaria diligenza l’opzione migliore sulla base di un ragionamento in cui i nessi logici saranno controllabili ex post»[7]. 
L’obbligo di attivazione è strettamente collegato con quello di predisposizione degli assetti adeguati e, in particolare, con la creazione di assetti idonei a individuare tempestivamente la presenza di una situazione di crisi. In effetti, si tratta in qualche misura del passaggio immediatamente successivo all’individuazione di sintomi di crisi. 
Mi pare poi che l’obbligo di gestire in modo corretto e, in particolare, di tutelare il patrimonio sociale comprendano anche e necessariamente quello di attivarsi in un momento sicuramente particolarmente difficile per la vita della società. Lo stesso ruolo attribuito agli amministratori con le conseguenti responsabilità induce a tale conclusione. 
Confrontando l’obbligo di attivazione di cui all’art. 2086, secondo comma, c.c., con l’attribuzione agli amministratori della decisione relativa all’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza, si può immediatamente constatare lo stretto collegamento tra di essi, rappresentando il primo in qualche misura l’antecedente del secondo. Anzi potrebbe ritenersi che l’attivazione possa esaurirsi nella stessa decisione di adottare uno strumento. Tuttavia, come si è osservato, il contenuto dell’attivazione appare più ampio, potendo riferirsi sia a strumenti “differenti” da quelli aventi ad oggetto la regolazione della crisi o dell’insolvenza, sia anche ad interventi di carattere extraconcorsuale, volti appunto a superare la crisi. Lo stretto collegamento esistente tra l’attivazione e l’adozione di una decisione relativa agli strumenti di regolazione conferma la tesi per cui, come la seconda appartiene ex lege alla competenza esclusiva degli amministratori, così anche la prima rientra nei compiti spettanti solo ad essi. 
Naturalmente, alla luce dell’art. 120 bis del Codice della crisi, l’adozione di uno strumento di regolazione, prevista nell’art. 2086, secondo comma, c.c., costituisce un compito attribuito esclusivamente agli amministratori, come pure naturalmente l’attuazione dello stesso. 
3 . Effetti sulla governance dell’attribuzione di competenze esclusive agli amministratori
Il carattere esclusivo delle competenze pare incompatibile con un sistema di amministrazione disgiunta, che permetterebbe a ciascun amministratore di decidere da solo e inoltre parrebbe non ammissibile l’opposizione da parte dei soci, che in qualche modo significherebbe consentire agli stessi di interloquire in ordine a scelte a loro sottratte. Riterrei quindi che il sistema di amministrazione disgiunta non possa venire in considerazione, con riferimento alle competenze in esame, sia nell’ambito delle società di persone, sia in quello della società a responsabilità limitata. Non mi sembra, per contro, che vi siano ostacoli nel caso di amministrazione congiunta. Per contro, nella s.r.l. non mi sembrerebbe compatibile l’applicazione del metodo della consultazione scritta o del consenso espresso per iscritto dal momento che la decisione in ordine al progetto e al piano deve essere adottata con verbale notarile.
Si tratta di competenze delegabili a singoli amministratori o al comitato esecutivo dal consiglio di amministrazione della s.p.a. o della s.r.l.? Il dubbio si era posto nella vigenza del testo originario della legge fallimentare che, come si è ricordato, attribuiva la competenza all’assemblea straordinaria, salvo delega agli amministratori. Pertanto, si poneva l’interrogativo se l’eventuale delega della competenza a favore degli amministratori fosse compatibile con un ulteriore spostamento, deciso da questi ultimi, agli organi delegati. Occorre ancora aggiungere che tra le competenze non delegabili a singoli amministratori o al comitato esecutivo ai sensi di legge vi sono quelle relative all’emissione di obbligazioni convertibili e all’aumento di capitale, già delegate dall’assemblea agli amministratori. 
Potrebbe quindi distinguersi tra la competenza esclusiva prevista in ordine all’accesso ad uno strumento ed alla redazione della proposta e del piano, decisione spettante agli amministratori e che, in mancanza di divieti dell’atto costitutivo o dello statuto, potrebbe essere delegata dal consiglio a singoli amministratori o al comitato esecutivo. Per contro le modificazioni statutarie rappresentano, come si è osservato, una competenza tipicamente propria (dei soci o) dell’assemblea e pertanto l’attribuzione all’organo amministrativo, quando siano funzionali alla ristrutturazione per superare la crisi, potrebbe essere configurata (lo si è già osservato) quale una delega ex lege: partendo da tale constatazione e tenuto conto che lo stesso legislatore vieta la “subdelega” delle deliberazioni consiliari di emissione di obbligazioni convertibili e dell’aumento di capitale, potrebbe dubitarsi dell’ammissibilità di conferire l’adozione di piani che prevedano tali modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto, a singoli amministratori o al comitato esecutivo.
L’esclusività dell’attribuzione impedisce ai soci o all’assemblea dei soci di adottare decisioni al proposito. Pertanto, nell’ambito delle società di persone, l’eventuale clausola che conferisca ai soci competenze in ordine alla determinazione o approvazione del progetto o del piano e delle modifiche statutarie conseguenti è da considerare invalida. La stessa conclusione si applica anche alla s.r.l., ove non sarà consentita la previsione di decisioni relative al progetto o al piano o alle modificazioni conseguenziali dell’atto costitutivo attribuite ai soci, all’assemblea o a singoli soci. 
Analogo discorso mi sembra da estendere anche alle decisioni o deliberazioni che abbiano un contenuto meramente autorizzativo. 
E’ vero che l’esclusività della competenza affidata agli amministratori può coesistere con la possibilità di prevedere la presenza di autorizzazioni di altri organi o soggetti. Così, ad esempio, il legislatore stabilisce che la gestione spetta in esclusiva agli amministratori di s.p.a., ma ammette che possa essere introdotta una clausola statutaria che preveda poteri autorizzativi a favore dell’assemblea; così pure nell’ambito della società in accomandita semplice la gestione è conferita agli accomandatari, ma si possono attribuire agli accomandanti poteri autorizzativi. Tuttavia, nel nostro caso, la necessità di rapide decisioni, l’obiettivo di evitare ostacoli o intralci da parte dei soci o dell’assemblea, l’obbligatorietà degli interventi da parte degli amministratori mi pare che conducano a ritenere non ammissibili clausole che prevedano che le decisioni spettanti in esclusiva agli amministratori richiedano una previa autorizzazione da parte dei soci o dell’assemblea o di singoli soci di s.r.l., di soci delle società di persone, dell’assemblea o del consiglio di sorveglianza delle s.p.a..
Per contro mi pare possibile introdurre una clausola che disponga nel caso in esame l’obbligo degli amministratori di acquisire da parte dei soci o dell’assemblea un parere preventivo non vincolante. Anzi, potrebbe essere opportuna al fine di favorire il “dialogo” tra amministratori e soci ed evitare possibili contenziosi. Naturalmente la clausola deve essere confezionata con modalità tali da consentire un iter veloce evitando un rallentamento nei tempi di adozione delle decisioni.
L’attribuzione in esclusiva all’organo amministrativo è da intendere riferita a quello della società debitrice oppure, nel caso dei gruppi, è possibile che progetto e piano (o anche modificazioni statutarie) siano oggetto delle direttive dell’organo amministrativo della capogruppo? 
Come è noto, una delle novità più significative della riforma societaria del 2003 è l'introduzione della disciplina dell'attività di direzione e coordinamento di società. In particolare il legislatore prevede la responsabilità a carico della società o degli enti che esercitano tale attività in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale. Tale regola, contenuta nell'art. 2497 c.c., secondo la dottrina e la giurisprudenza, assume un particolare rilievo sistematico, dal momento che, a contrario, presuppone il potere della capogruppo di esercitare l'attività di direzione e coordinamento. 
La norma introduce un limite a quest’ultimo, nel senso che deve essere posto in essere in conformità a principi di corretta gestione, essendo vietate operazioni pregiudizievoli ai soci o ai creditori, con la precisazione che il pregiudizio deve essere valutato non atomisticamente con riferimento alle singole operazioni, ma nell'ottica complessiva dell'attività di eterodirezione[8]. 
Ma l'esercizio del potere di eterodirezione presenta solo limiti, o anche è possibile individuarne un contenuto obbligatorio? In particolare, in presenza di una situazione di crisi o di insolvenza e ancor prima nell’ottica del “monitoraggio” della situazione patrimoniale, economica e finanziaria del gruppo?
«In questo contesto - si è osservato[9] - è da ritenere, in primo luogo, che rientri nei doveri connessi alla direzione e coordinamento il tempestivo accertamento da parte della capogruppo dell'alterazione dell'equilibrio finanziario delle società eterodirette, comportante la valutazione prognostica circa l'evoluzione della situazione ed in particolare del rischio dell'emergere dell'insolvenza o anche solo di uno stato di crisi».
In secondo luogo, i doveri derivanti dall'esercizio del potere di direzione e coordinamento ricomprendono l'individuazione dei rimedi in caso di crisi o di insolvenza di una società del gruppo anche al fine di evitare la propagazione della crisi a società in bonis, pur senza peraltro un obbligo di assistenza finanziaria[10].
Prendendo le mosse dall'art. 2497 c.c., che, come si è osservato, individua il perimetro del legittimo esercizio del potere di direzione e coordinamento, si può pervenire pertanto ad una diversa prospettiva, che ne metta in luce i doveri connessi. In particolare, si è osservato[11], «devono essere centralizzate, o quantomeno coordinate nella prospettiva dell'attività di direzione e coordinamento, la predisposizione di assetti organizzativi adeguati e le funzioni di controllo interno e di gestione dei rischi aziendali».
Se l’obbligo di intervento (come la creazione degli assetti adeguati) costituisce una competenza esclusiva dell’organo amministrativo si deve dedurre che l’esercizio dell’attività di eterodirezione da parte della capogruppo in adempimento di tale obbligo debba necessariamente competere ai gestori di quest’ultima. Pertanto il particolare settore dell’attività di eterodirezione consistente nell’attivarsi tempestivamente in caso di crisi o di insolvenza non può essere attribuito nell’ambito delle s.r.l. (e delle società di persone) all’assemblea o alle decisioni dei soci e neppure a un singolo socio come diritto particolare.
Mi pare che la risposta al quesito se proposta, piano e modificazioni statutarie possano essere oggetto di direttive della capogruppo debba essere positiva, anche alla luce della stessa disciplina dell’insolvenza di gruppo che presuppone un necessario coordinamento tra le società e quindi l’utilizzo da parte della capogruppo dei poteri di eterodirezione. D’altra parte tale conclusione viene adottata con riferimento ad un tema in qualche misura parallelo o se si vuole antecedente, quello relativo alla creazione di assetti adeguati di gruppo.
4 . Obblighi e responsabilità degli amministratori
Gli amministratori hanno l’obbligo di informare i soci dell’avvenuta decisione di accedere ad uno strumento di regolazione e debbono riferire periodicamente del suo andamento. Si pone pertanto, a tutela dei soci, un obbligo di informazione a posteriori, intervenuta la decisione, ed un obbligo di informazione di carattere periodico. Così dispone il terzo comma dell’art. 120 bis. La norma indica come destinatari i soci, potendo pertanto sorgere il dubbio se, nell’ambito delle società di capitali e in presenza dell’organo assembleare, sia quest’ultimo il destinatario delle informazioni. La norma ha sicuramente carattere imperativo nel senso che non è possibile in tutti i tipi societari introdurre modalità di informazione più contenute. Mi pare invece ammissibile, e forse auspicabile, una clausola che ampli tali poteri. Pertanto, ove non si volesse, come si è già rilevato, introdurre un obbligo di acquisire dai soci o dall’assemblea un parere preventivo non vincolante, si potrebbe prevedere l’obbligo di informare soci o assemblea, specificandone le modalità, di carattere preventivo. Come pure sarebbe possibile introdurre più ampi doveri di informazione durante l’iter della misura o del procedimento, con le relative modalità di adempimento.
Il legislatore ha disposto una forma di tutela per gli amministratori, che riproduce quella dettata per i sindaci. L’art. 120 bis, quarto comma, del Codice stabilisce che, dall’iscrizione della decisione dell’organo amministrativo relativamente all’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza e fino all’omologazione, la revoca degli amministratori è inefficace se non ricorre una giusta causa. Precisa poi che non costituisce giusta causa la presentazione della domanda di accesso sussistendone le condizioni di legge. Pertanto la revoca degli amministratori è sì possibile, ma solo in presenza di una giusta causa. Inoltre la deliberazione di revoca dev’essere approvata con decreto della Sezione specializzata del Tribunale delle Imprese competente, sentiti gli interessati. 
Le decisioni attribuite agli amministratori sono ovviamente prese sotto la loro responsabilità e anche sotto quella, nella prospettiva del controllo, dei sindaci. Vale il principio della business judgement rule. Potrebbe venire in considerazione sia la responsabilità verso i creditori e la società, sia quella nei confronti di singoli soci, in caso di pregiudizio ingiustificato ai loro diritti di partecipazione.
Si pone il problema in ordine alla possibilità di impugnare la deliberazione dell’organo amministrativo, eventualmente anche da parte dei soci, qualora siano pregiudicati i loro diritti. Mi pare che l’impugnazione delle delibere invalide da parte degli amministratori assenti o dissenzienti o dal collegio sindacale possa venire in considerazione anche nel nostro caso; più delicato il discorso relativo alla legittimazione dei soci in presenza di deliberazioni lesive dei loro diritti.
5 . Il procedimento relativo alle modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto funzionali alla ristrutturazione
Un profilo particolarmente delicato e di non facile soluzione concerne l’attuazione delle modificazioni statutarie. L’art. 120 quinquies del Codice, in tema di esecuzione, al suo primo comma, prevede che il provvedimento di omologazione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza determina la riduzione o l’aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano, demanda agli amministratori l’adozione di ogni atto necessario a darvi esecuzione e li autorizza a porre in essere, nei successivi trenta giorni o nel diverso termine previsto dal piano, le ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano. Dispone poi la possibilità della nomina di un amministratore giudiziario in caso di mancata esecuzione da parte degli amministratori.
Stando alla lettera della norma ora richiamata, le modificazioni dello statuto previste nel piano sono “determinate” dalla sentenza di omologazione, mentre agli amministratori compete un compito esecutivo ed anche, se autorizzati, deliberativo in ordine alle modificazioni programmate nel piano. 
In conformità al secondo comma dell’art. 120 quinquies, se il notaio incaricato ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge, ne dà comunicazione tempestivamente, e comunque non oltre il termine di trenta giorni, agli amministratori: questi ultimi, nei trenta giorni successivi, possono ricorrere per i provvedimenti necessari al Tribunale che ha omologato lo strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza[12].
Le modificazioni dello statuto contenuto nel piano di concordato preventivo possono essere sia complete, sia semplicemente programmate. Tale conclusione è espressamente confermata dal dato normativo contenuto nel primo comma dell’art. 120 quinquies del Codice della crisi ove si prevede che il provvedimento di omologazione autorizza gli amministratori a porre in essere le ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano. 
Sotto il profilo operativo certamente sono configurabili modificazioni che possono essere deliberate nella loro completezza, ma spesso, in presenza di operazioni complesse, sarebbe difficile fin dal momento dell’elaborazione del piano predisporre un testo esaustivo. Inoltre, potrebbe essere necessario modificare nel corso della procedura il contenuto della variazione statutaria. 
In presenza di modificazioni statutarie programmate nel piano quale grado di specificità risulterà necessario? Si deve trattare di un “progetto” che deve contenere almeno gli elementi essenziali per poter consentire al Tribunale, in sede di omologazione, di valutare se si tratti di modificazioni dello statuto funzionali ai fini del buon esito della ristrutturazione e, prima ancora, di consentire il giudizio di ammissibilità, le valutazioni del commissario in sede giudiziale e quelle dei creditori in sede di votazione.
Come si è osservato, le modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto appartengono alla competenza esclusiva degli amministratori, che quindi decidono sostituendosi ai soci di società di persone o all’assemblea delle società di capitali o delle cooperative. Come recita il secondo comma dell’art. 120 bis del Codice della crisi possono essere previste nel piano. L’art. 120 quinquies, al secondo comma, fa riferimento alla presenza del notaio nel caso di modificazioni programmate. A contrario, si potrebbe ritenere che, nel caso di modificazioni compiutamente contenute nel piano, il controllo debba essere effettuato dal solo Tribunale in sede di omologa. Tuttavia, il mancato riferimento alla presenza del notaio in relazione a tali modificazioni potrebbe non essere di per sé significativo, ritenendo che comunque, in base ai principi generali, la decisione degli amministratori di modificare lo statuto, sostitutiva di quella dell’assemblea, debba essere contenuta in un verbale notarile, oggetto pertanto del controllo da parte del notaio. Sempre in virtù dei principi generali, nel caso di valutazione negativa, gli amministratori potrebbero rivolgersi per l’omologazione al Tribunale delle Imprese
In tale prospettiva, si potrebbe porre il dubbio in ordine all’estensione al notaio del controllo sul carattere funzionale della modificazione rispetto al “buon esito della ristrutturazione”. Mi sembrerebbe che tale valutazione sia riservata al Tribunale in sede di omologazione. Quest’ultimo, ritengo, potrà anche valutare la legittimità della modificazione e sicuramente dovrà farlo in presenza di un’opposizione in tal senso.
La modificazione avrà effetto dal momento della pubblicità nel Registro delle imprese del provvedimento di omologazione.
Nel caso di modificazioni puramente programmate nel piano si pone in essere un complesso iter che vede come protagonisti il Tribunale, gli amministratori e il notaio. 
Il Tribunale, in sede di omologa, dovrà controllare ovviamente che le modificazioni siano funzionali rispetto al piano nella prospettiva del “buon esito della ristrutturazione”. Ritengo poi che il Tribunale dovrà controllare anche la legittimità delle modificazioni programmate, anche indipendentemente da un’opposizione in tal senso.
Come si esprime il legislatore, il provvedimento di omologazione autorizza gli amministratori, nel breve termine di trenta giorni o in quello previsto nel piano, a porre in essere le modificazioni statutarie programmate demandando inoltre agli stessi l’adozione di ogni atto esecutivo. Pertanto, è compito dell’organo amministrativo deliberare la modificazione nel suo contenuto completo: nell’adozione di tale deliberazione debbono eseguire quanto previsto nel piano e quindi la modificazione deve essere conforme a quella programmata.
Nel caso di inerzia, il Tribunale può nominare un amministratore giudiziario attribuendogli i poteri necessari a provvedere in luogo degli amministratori (art. 120 quinquies, comma primo, Codice della crisi). Nel caso di deliberazione avente la funzione di porre in essere e completare quella programmata, l’amministratore giudiziario potrà sostituirsi all’organo amministrativo? Si tratterebbe non di semplicemente dare attuazione a quanto previsto nel piano, ma di integrare il piano stesso. Il Tribunale può attribuire un simile potere?
La decisione dell’organo amministrativo è oggetto della verbalizzazione da parte del notaio e del suo controllo. Un profilo di particolare delicatezza concerne l’ambito di tale controllo. In primo luogo, occorre verificare non solo quanto previsto dal provvedimento di omologa, ma anche se quest’ultimo è divenuto definitivo per essere trascorsi i trenta giorni per il reclamo. In presenza di quest’ultimo la sentenza di omologazione è pur sempre esecutiva, a meno che intervenga un provvedimento di sospensione che preveda espressamente che si estenda anche alle modifiche statuarie. In tal caso gli amministratori potrebbero adottare ugualmente la modificazione, sia pure sottoponendola alla condizione sospensiva del rigetto del reclamo?
Compete al notaio la verifica della conformità della decisione degli amministratori a quella programmata del piano. 
Il contenuto della modificazione statutaria nella sua completezza potrebbe essere scisso in due parti: da un lato, i profili già contenuti nel piano e, dall’altro, quelli aggiunti per completare la decisione. I primi sono già stati valutati positivamente dal Tribunale che ha omologato il concordato. Possono essere ancora oggetto di controllo da parte del notaio, che potrebbe rifiutare l’iscrizione dell’atto nel Registro delle imprese? Nel caso di specie, viene in considerazione un iter che vede prima l’omologazione, sia pure del concordato, e poi l’intervento del notaio e quindi forse si potrebbe ritenere quanto già oggetto di omologazione sia sottratto al controllo notarile. 
In ogni caso, in presenza di un rifiuto del notaio di iscrivere la decisione nel Registro delle imprese, con riferimento a profili estranei alla programmazione contenuta nel piano, gli amministratori, hanno la scelta tra accogliere le indicazioni del notaio o rivolgersi al Tribunale che ha omologato il concordato. Nell’ipotesi in cui il notaio, se si ritiene ammissibile questa ipotesi, rifiutasse l’iscrizione per profili ritenuti invalidi già contenuti nel piano omologato, mi pare che gli amministratori, dovendo eseguire il piano in ossequio alla sentenza di omologazione, debbono necessariamente rivolgersi al Tribunale che ha omologato il concordato e in questa prospettiva trova piena giustificazione che sia quest’ultimo a valutare le eventuali contrarie indicazioni provenienti dal notaio, eventualmente accogliendole oppure riconfermando il proprio provvedimento.
La modificazione avrà effetto, secondo i principi generali, con l’iscrizione della deliberazione “completa” nel Registro delle imprese.
Un’ipotesi particolare è quella di una modificazione statutaria che si collochi all’interno di un iter procedurale. Nel caso, ad esempio, di un’operazione di fusione o di scissione, anche se la relativa deliberazione fosse contenuta compiutamente nel piano, l’atto di fusione o di scissione non potrebbero che essere adottati dopo il provvedimento di omologazione in ossequio all’obbligo di esecuzione del piano. 

Note:

[1] 
Cfr., G. Scognamiglio - F. Viola, I soci nella ristrutturazione dell’impresa. Prime riflessioni, in Nuovo Diritto delle società, 2022, p. 1163 ss.; L. Panzani - E. La Marca, Impresa vs. soci nella regolazione della crisi. Osservazioni preliminari su alcune principali novità introdotte con l’attuazione della Direttiva Insolvency, ibid., 2022, p. 1469 ss.; A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Soc., 2022, p. 945 ss.; ID., I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Crisi e insolvenza nel nuovo Codice a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2022, p. 1049 ss.; R. Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione della crisi, in Fall., 2022, p. 1290 ss.; A. Nigro, La nuova disciplina degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it ; F. Briolini, I conflitti tra amministratori e soci in sede di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Prime riflessioni, in corso di pubblicazione, in Nuovo Diritto delle Società. Anteriormente all’emanazione della disciplina in esame, cfr., per tutti, L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in Riv. Dir. Soc., 2020, p. 295 ss..
[2] 
Mi pare che una norma parallela, sia pure simmetrica, possa rinvenirsi nell’art. 2446, primo comma, c.c., che prevede l’obbligo degli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per gli opportuni provvedimenti in presenza di una diminuzione di oltre un terzo del capitale in conseguenza di perdite, qualora si ritenga che gli opportuni provvedimenti comprendano anche atti di gestione. Infatti, in tal caso in presenza di una particolare situazione (la perdita rilevante del capitale sociale), si verifica un “travaso” di competenze non più dall’assemblea agli amministratori, ma da questi ultimi alla prima e di una competenza individuata attraverso un criterio funzionale (superamento della perdita). 
Si potrebbe porre il problema se sia ammissibile una clausola che individui un’area di competenze non attraverso un criterio contenutistico, ma mediante il ricorso a limiti di carattere funzionale. Per esempio, una clausola che circoscriva i casi di autorizzazione da parte dell’assemblea di società per azioni ad atti gestori o dell’assemblea o di singoli soci di s.r.l. o anche le decisioni dell’assemblea dei soci o dei singoli soci di s.r.l. attraverso l’utilizzo di un criterio funzionale, per il superamento di una determinata situazione (ad esempio, una perdita inferiore al terzo del capitale sociale o determinati indici di bilancio o specifiche situazioni di criticità, ribaltando sull’assemblea dei soci di s.r.l. le competenze gestorie necessarie per superare tale situazione).
Nell’esaminare le modalità di determinazione dell’ambito delle autorizzazioni assembleari di s.p.a. (o di s.r.l.) è stato sottolineato che occorre al proposito una sufficiente specificazione. Il criterio funzionale ora illustrato può qualificarsi come tale? La risposta sembra dover essere positiva, tenuto conto che lo stesso legislatore utilizza tale criterio. 
[3] 
L. Stanghellini, op. cit., p. 295 ss..
[4] 
Cfr. L. Panzani, La disciplina degli assetti ai fini della rilevazione della crisi con particolare riferimento alla S.r.l., in La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi a cura di M. Irrera, Torino, 2020, p. 661.
[5] 
L. Panzani, op. cit., p. 667.
[6] 
V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel Codice della crisi, in Giur. comm., 2020, I, p. 11. 
[7] 
M. S. Spolidoro, Procedure d’allerta, poteri individuali degli amministratori non delegati e altre considerazioni sulla composizione anticipata della crisi, in Riv. soc., 2018, p. 175 ss.. 
[8] 
P. Montalenti, L’attività di direzione e coordinamento. Dottrina, prassi, giurisprudenza, in Impresa. Società di capitali. Mercati finanziari, Torino, 2017, p. 232 ss..
[9] 
M. Miola, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi di società, in Società, Banche e Crisi d'impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, vol. 3, Torino, 2014, p. 2709 ss..
[10] 
Cfr. M. Miola, op. cit., p. 2735 ss..
[11] 
M. Miola, op. cit., p. 2712.
[12] 
In dottrina sono state proposte differenti ricostruzioni che prendono le mosse da una differente prospettazione in ordine al contenuto del piano. 
Il piano deve avere carattere “esaustivo” e quindi contenere la determinazione completa relativa alle modificazioni che si intendono adottare? (e v. R. Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione della crisi, cit., p. 1297 ss.). In tale prospettiva, ad esempio, in caso di fusione o di scissione, il relativo progetto deve essere contenuto nel piano, con allegati i documenti previsti dal legislatore (situazione patrimoniale, relazione dell’organo amministrativo, relazione degli esperti).
Il provvedimento di omologazione determina l’effetto modificativo, sostituendo la deliberazione dei soci (forse meglio l’effetto modificativo è da collegare all’iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento di omologa).
Quest’ultimo demanda agli amministratori l’adozione di ogni atto necessario a dare esecuzione alle modificazioni statutarie previste nel piano e li autorizza a porre in essere le ulteriori modificazioni programmate nel piano stesso (da intendersi come conseguenziali a quelle adottate?). Nell’esempio richiamato l’atto di fusione o di scissione. Naturalmente è necessario il verbale notarile ed è previsto il controllo da parte del notaio. Nel caso di suo esito negativo, gli amministrator possono ricorrere al tribunale che ha provveduto all’omologa dello strumento di regolazione.
In conformità ad una differente prospettiva (A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, cit., p. 947 ss.), il piano ha contenuto sintetico e quindi si limita a delineare i tratti fondamentali delle modificazioni statutarie decise. Il provvedimento di omologazione è da intendere come autorizzazione all’organo amministrativo a porre in essere tali modificazioni. Occorre pertanto, successivamente all’omologa, una nuova deliberazione del consiglio di amministrazione naturalmente coerente con quanto previsto dal piano. Per tale deliberazione è necessario il verbale notarile con conseguente controllo. Ed è coerente che, in caso di giudizio negativo da parte del notaio, gli amministratori possano ricorrere al tribunale che ha già valutato l’atto limitatamente a quanto previsto nel piano e quindi, al fine, alla luce di quest’ultimo, di verificare la legittimità degli ulteriori profili introdotti dalla deliberazione del consiglio di amministrazione. 

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