La cartografia che l’ideale mappa che si sta abbozzando ci lascia intravedere muove dunque nella direzione che, in presenza della crisi, abbia luogo un radicale mutamento nei paradigmi che governano la titolarità e la conformazione degli assetti proprietari e amministrativi: in primo luogo dacché, per un verso, ne affievoliscono la relativa natura e tutela, muovendo dal piano reale a quello risarcitorio; in secondo luogo, perché, per un altro verso, li trasformano da diritti societari in diritti concorsuali e ne affidano la salvaguardia agli strumenti propri degli istituti volti al superamento e alla soluzione della crisi d’impresa.
Il che – e veniamo così agli ultimi due profili con i quali si chiudono le presenti riflessioni – avrebbe immediate conseguenze sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme, non pienamente perspicue e non opportunamente coordinate, come si annotava in esordio, contenute nella Sezione VI-bis del codice della crisi. In altri termini, proprio portando alle conseguenze ultime la rotta apparentemente tracciata dalla mappa sin qui declinata, verrebbero ad emergere alcuni, immediati, corollari applicativi.
Segnatamente, e senza alcuna pretesa di completezza, con riguardo a due ordini di problemi. Il primo relativo al quesito se e in che misura la Sezione in parola e le misure e i rimedi in essa previsti si pongano come alternativi (sostitutivi) rispetto ai tradizionali strumenti di tutela cui il socio, dissenziente rispetto alla riorganizzazione degli assetti societari, potrebbe fare ricorso rispetto agli atti sociali a ciò funzionali, per inibirne in radice l’implementazione o quanto meno per reclamare la propria libertà e uscire dal capitale della società debitrice.
Il secondo ordine di problemi è quale sia la natura e l’entità del plusvalore da risanamento cui il socio – quello originariamente tale prima dell’epifania della crisi – potrebbe aspirare, sia pur attraverso la negoziazione (in buona fede e solidaristica) con il ceto creditorio.
Quanto al primo ordine di questioni, una domanda iniziale cui dare risposta sarebbe quella se il socio abbia ancora – in presenza della crisi e ad accesso allo strumento di regolazione della crisi avvenuto – il potere di contestare, tramite l’impugnazione ai sensi degli articoli 2377 e seguenti e dell’art. 2388, comma 4, c.c., le decisioni assunte dall’organo amministrativo, su due diversi piani [21].
Il primo è quello che si pone in diretta interferenza con l’art. 120 bis del codice sopra citato e, in particolare, alla decisione con cui l’organo amministrativo addivenga alla determinazione di accedere a uno strumento di regolazione della crisi. Il secondo attiene invece a un momento successivo e va ad impingere sulla possibilità di sindacare la validità delle deliberazioni e degli atti sociali funzionali alle operazioni straordinarie (trasformazione, fusione o scissione).
Su ambedue i piani il diritto societario – quanto meno nel caso di società per azioni – consentirebbe ai soci di impugnare le deliberazioni del consiglio di amministrazione «lesive dei loro diritti». Il diritto societario in presenza della crisi parrebbe procedere in direzione diversa: infatti, seguendo la nuova bussola, legittimo sarebbe inferire il dubbio che l’eventuale contrarietà non si debba necessariamente spostare al di fuori dell’ente societario e sul piano della mera convenienza in forma di opposizione all’omologazione ai sensi dell’art. 120 ter, comma 4. E ciò in ragione di una duplice circostanza.
Quanto infatti al primo livello cui si faceva poc’anzi cenno, è proprio la lettura sinottica delle due norme, quella del codice civile (art. 2388) e quella del codice della crisi (art. 120 bis) a escludere che la decisione di accedere allo strumento di regolazione della crisi (possa essere considerata e) sia di per sé potenzialmente lesiva dei diritti dei soci: tanto che il piano, a supporto dello strumento di regolazione della crisi può prevedere aumenti, riduzioni o altre modifiche statutarie «che incidono direttamente» – in senso peggiorativo se non finanche, erosivo – « sui diritti dei soci».
Quanto al secondo livello – quello attinente alla deliberazione delle misure esecutive, anche sotto forma di operazioni straordinarie – il codice della crisi è puntuale sul piano testuale, là ove ha cura di conservare (anche) all’interno della procedura relativa allo strumento di regolazione avviato un diritto di contestazione rispetto a siffatte operazioni straordinarie – sotto forma di censura della loro validità – in capo ai soli creditori sociali (art. 116, co 1). E, dunque, non già ai soci cui non dovrebbe essere consentito di ostacolare o impedire irragionevolmente, così recita la Direttiva Insolvency, il successo della misura destinata a perseguire il risanamento dell’impresa: irragionevolezza che, si potrebbe rilevare, non sussisterebbe nella misura in cui ai soci siano assicurati presidi alternativi.
Ancora, a fronte di quanto statuito nel più volte citato art. 120 bis, comma 2, e alla possibilità che il piano alla base dello strumento di regolazione della crisi possa prevedere interventi radicali sull’organizzazione finanziaria della società debitrice e dunque sui relativi diritti corporativi e sulla conseguente configurazione delle partecipazioni sociali, verrebbe da muovere a un ulteriore corollario: quello secondo cui, anche nelle imprese organizzate in forma di società a responsabilità limitata, allorquando la riorganizzazione che dovesse aver luogo in funzione del superiore interesse al superamento della crisi e alla conservazione della continuità aziendale, attraverso operazioni sul capitale sociale, l’art. 2482 quater, c.c., là ove statuisce che «in tutti i casi di riduzione del capitale per perdite è esclusa ogni modificazione delle quote di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci» sia destinato a divenire una norma recessiva e come tale non applicabile nelle ipotesi di modificazioni statutarie decise dall’organo amministrativo all’interno e in funzione di un piano a fondamento di uno strumento di regolazione della crisi ().
Altro istituto volto a dare voce ai soci dissenzienti nelle società lontane dalla crisi e costituito dal diritto di recesso spettante al socio, nel caso di società per azioni, che non abbia concorso alle deliberazioni riguardanti le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione [art. 2437, comma 1, lett. g), c.c.], viene a porsi in ideale disallineamento con lo ‘statuto’ della società in presenza della crisi. Ancorché – e qui emerge quel difetto di puntualità e di coordinamento del dato testuale – il codice della crisi, da un canto, appaia poco attento a quanto statuito dalla norma del codice testé citata, là ove all’art. 120 bis, comma 2, si riferisce genericamente (e forse, verrebbe da dire, in via onnicomprensiva) ai diritti di partecipazione del socio, mentre l’art. 2437, alla lettera g), distingue questi ultimi dal diritto di voto [22], e, dall’altro canto, espressamente sterilizza il diritto di recesso del socio con riferimento alle sole operazioni straordinarie (si veda l’ultimo comma dell’art. 116) [23]. Al riguardo, si potrebbe infatti obiettare come al diritto di ‘uscita’, assicurato al socio dalla legge nelle ipotesi di società non in crisi, lo statuto speciale che entra in vigore al manifestarsi della crisi sostituisca invece il diritto di ‘partecipazione’ al processo di approvazione (e di omologazione) dello strumento di regolazione della crisi, segnatamente mercé l’inserimento obbligatorio del socio che subisca la modifica diretta dei propri diritti corporativi in una classe (art. 120 ter, comma 2).
D’altro canto, quand’anche si dovesse riconoscere la persistenza in capo al socio del diritto di recesso, rimarrebbe aperta un’altra questione: quella relativa al valore di liquidazione da assegnare e alla verifica se, in presenza della crisi, possano valere i medesimi criteri applicabili, secondo le norme di legge ovvero anche secondo l’eventuale disciplina declinata a livello di statuto, in assenza della crisi ovvero se non si debbano applicare criteri alternativi, anche in deroga al principio, generalmente ritenuto imperativo, di assicurare al socio uscente una soglia minima di liquidazione [24].
Più in generale, a dover essere affrontata è una questione che – si potrebbe dire – sta in monte e che è quella che attiene al diritto dei soci (di quelli che sono tali prima dell’aprirsi della crisi) a “disporre del contratto sociale” stesso, per mutuare la formula che si rinviene in una recentissima massima notarile della Commissione Società del Triveneto, la numero P.B.3 (Adozione della decisione di scioglimento durante il procedimento di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi) dell’ottobre del 2023. Massima che, nell’interrogarsi sulla portata della disciplina di cui alla Sezione VI bis e segnatamente sulla sua incidenza in ordine all’assetto delle competenze decisionali nei codici organizzativi societari, giunge alla conclusione secondo la quale sarebbe legittima l’adozione da parte dei soci della decisione di scioglimento anticipato della società e di nomina dei liquidatori anche in pendenza del procedimento di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza. E ciò sulla base di due assunti: quello secondo cui le norme in parola avrebbero carattere eccezionale e dovrebbero essere interpretate (e applicate) in stretta aderenza al principio enunciato dalla Direttiva Insolvency nell’art. 12, in precedenza citato, al fine di evitare che una lettura estensiva possa condurre di fatto «a una sorta di “esproprio” della società in crisi in danno dei suoi soci, che dunque ne perdono il controllo, e a vantaggio dei suoi creditori, degli stakeholders e del sistema economico in generale con il conseguente obbligo per gli amministratori di gestirla nell’esclusivo interesse di questi ultimi». Il secondo assunto, poi, è quello secondo cui «le disposizioni commento hanno quindi una portata specifica e non di sistema, non sono volte a sottrarre ai soci la loro società ma molto più banalmente a limitare il rischio di mancata esecuzione del piano per contrarietà o disinteresse di questi ultimi» (enfasi aggiunta, n.d.a.). E di qui, pertanto, l’apodosi secondo cui gli articoli 120 bis e seguenti del codice della crisi avrebbero quali condizioni di applicazione il coinvolgimento di una società operativa dotata di un organo amministrativo che abbia, a sua volta, l’obbligo di recuperare la continuità aziendale. Condizioni di cui i soci, ancorché l’impresa esercitata dalla società sia in crisi, potrebbero legittimamente disporre deliberando lo scioglimento e la messa in liquidazione della società, facendo venir meno in questo modo l’obbligo della ricerca della continuità aziendale. Tuttavia, proprio le coordinate di sistema di cui si è detto nelle pagine precedenti portano in una direzione affatto diversa: la società, intesa quale codice organizzativo, con i relativi diritti corporativi, per l’esercizio dell’attività d’impresa, in presenza della crisi, diviene oggetto e strumento a servizio dello strumento di regolazione della crisi dell’impresa (non della società). Oggetto e strumento funzionali al buon esito dell’intervento di risanamento con il fine primario e prioritario, per quanto fattivamente possibile, della persecuzione della continuità dell’impresa medesima. Continuità dell’impresa che, a sua volta, è valore imperativo predominante rispetto a tutti coloro che abbiano finanziato l’impresa e dunque anche rispetto ai soci cui, la presenza della crisi, nella misura in cui la conservazione della continuità fosse percorribile, il sistema post codice della crisi imporrebbe l’obbligo «di proseguire l’attività economica intrapresa anche contro la loro volontà» (sempre per mutuare le parole della massima in esame.
La competenza poi a decidere se e in che misura sia percorribile un percorso di ristrutturazione finanziaria funzionale al recupero e alla conservazione della continuità aziendale è di pertinenza esclusiva dell’organo amministrativo che per ciò solo (vale a dire per una decisione di accesso a uno strumento in chiave di continuità) non può infatti essere sfiduciato e revocato e verso il quale, semmai e al più, i soci, dissenzienti o riottosi, potranno rivolgere istanze di carattere risarcitorio ovvero, come si annotava in precedenza, reagire, in via reale, solo all’interno della procedura avviata con l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi.
A propria volta, sempre la regola del necessario classamento dei soci, trascina con sé due distinti interrogativi. Uno è quello che concerne la natura delle modificazioni che incidano sui diritti di partecipazione cui fa riferimento la norma da ultimo citata; l’opzione è infatti tra l’obbligatorietà della classe ogni qual volta vi sia un’operazione straordinaria che ‘alteri’ o ‘modifichi’ le posizioni dei soci ovvero solo quando occorra una modificazione che incida, come afferma il dettato testuale, direttamente sui diritti dei soci. Una lettura che voglia preservare la centralità dei soci dovrebbe condurre verso la prima soluzione [25]. Per vero, l’art. 120 bis, comma 2, distingue tra «modificazioni dello statuto» e «modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci»; purtuttavia, vuoi in linea con la mappa in precedenza tracciata, vuoi anche con il dettato testuale della norma in parola, parrebbe doversi indirizzare verso la seconda opzione. E infatti le modificazioni cui si fa riferimento vengono immediatamente dopo le operazioni di «aumento e riduzione del capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione» e «altre modificazioni» nonché appena prima del riferimento alle «fusioni, scissioni o trasformazioni». Tutte operazioni che passano necessariamente per delle modificazioni dello statuto e che dunque possono dare conferma del fatto che l’avverbio sopra citato circoscriva l’applicazione della regola del classamento alle sole modificazioni, stabili e non mediate o di riflesso, sostanzialmente come avviene per le ipotesi di cui all’art. 2376 c.c. con le assemblee speciali di categoria. Per contro, al fine di assicurare la possibilità per i soci di accedere alla tutela costituita dal loro coinvolgimento nel processo decisionale relativo all’approvazione della proposta avanzata con lo strumento di regolazione della crisi, si dovrebbe concludere per una lettura estensiva della norma e intendere il riferimento ai diritti di partecipazione come sintagma onnicomprensivo e dunque inclusivo anche delle modifiche ai diritti di voto che viceversa l’art. 2437, comma 1, lett. g), tiene separati.
Un secondo interrogativo che nasce è poi quello di combinare gli articoli 120 bis, 102 ter e 120 quater, là ove il primo e l’ultimo fanno riferimento, rispettivamente, il primo alla categoria degli «strumenti di regolazione della crisi», il secondo ai «concordati preventivi in continuità», mentre la seconda norma si limita solo a disciplinare la formazione delle classi. La domanda è allora quella di cosa succeda nell’ipotesi di strumenti di regolazione che non prevedano una procedura di voto sotto il controllo del Tribunale, qual è l’accordo di ristrutturazione: in altri termini, se un siffatto strumento possa essere utilizzato anche allorquando l’operazione di ristrutturazione del debito possa realizzarsi soltanto per il tramite di un intervento di riorganizzazione corporativa che possa ledere direttamente i diritti dei soci. Nel caso di risposta affermativa, a prevalere sarebbe l’istanza del risanamento: i soci non potrebbero godere neppure della (nuova) forma di voce extra-sociale e dovrebbero quindi rinvenire la loro tutela solo sul piano della mera opposizione all’omologazione dello strumento (artt. 48, comma 2, e 120 quater, comma 4) e, a livello societario, solo in termini di strumento risarcitorio. Tra l’altro, una risposta negativa verrebbe a limitare fortemente l’autonomia e la competenza decisionali dell’organo amministrativo dell’impresa societaria, cui la legge affida il potere e il dovere di muoversi con lungimiranza, con anticipo e nel rispetto della condizione di legittimazione all’esercizio dell’attività economica di cui si è detto in precedenza e che trova la propria declinazione, sul piano normativo, nel combinato sinottico dell’art. 2086 c.c. e degli articoli 3 e 4 nonché 120 bis del codice della crisi.