A ben vedere, le critiche mosse dai sostenitori della tesi che sia necessaria l’approvazione della maggioranza delle classi anche nell’ipotesi subordinata della lett. d) del secondo comma dell’art. 112, sono dettate, più che da verifiche esegetiche, dalla preoccupazione di snaturare l’istituto del concordato non essendo più l’autonomia negoziale che individua la soluzione più idonea ad affrontare la situazione di crisi.
In effetti è proprio così dal momento che, al di là che l’omologa possa essere giustificata dal consenso di una sola classe svantaggiata, rimane il fatto che, come visto, nella ristrutturazione trasversale anche l’approvazione della maggioranza numerica delle classi non è espressione di un consenso realmente maggioritario dei crediti; sicchè non resta che prenderne atto di questo nuovo fenomeno cercando di capire come una proposta concordataria in continuità approvata da una minoranza, addirittura sparuta numericamente e quantitativamente insignificante, possa vincolare la stragrande maggioranza dei creditori, che può essere costituita non solo da creditori che si siano disinteressati della procedura ma anche da creditori che abbiano manifestato voto contrario, e, prima ancora, perché, in queste condizioni, si richieda ancora una votazione, che appare del tutto inutile dal momento che il voto contrario, anche se largamente maggioritario non è idoneo a bloccare l’omologazione.
Il voto dei singoli creditori- si è detto-[19] non è più funzionale all’approvazione o meno della proposta, ma svolge la diversa funzione di consentire l’esercizio o meno di snaturare l’istituto del concordato del diritto di veto dei creditori rispetto all’omologazione, nel senso che solo se in tutte le classi i creditori esprimono il veto la proposta non può essere sottoposta al vaglio di omologazione del tribunale, e, allo stesso tempo, di permettere ai creditori attraverso il loro dissenso, di beneficiare della possibilità di proporre opposizione all’omologazione per contestare il difetto di convenienza.
Questa acuta osservazione, che segna il passaggio dal diritto di voto al diritto di veto, è più la constatazione di una realtà che la spiegazione di un fenomeno.
È vero, infatti, che il giudizio di omologa non si apre soltanto se in nessuna classe siano state raggiunte le maggioranze previste dalla prima parte del quinto comma dell’art. 109[20], ma rimane il problema di come e se venga tutelato l’interesse dei creditori qualora non ci sia stato il veto o un voto negativo in tutte le classi ma almeno la maggioranza numerica delle stesse classi o anche una sola classe abbia votato favorevolmente aprendo la strada alla ristrutturazione trasversale.
Il legislatore ha risolto il problema proiettando la tutela dei creditori dalla fase della votazione a quella dell’omologazione, per cui il mantenimento della votazione serve a restringere l’opposizione ai creditori dissenzienti. Il ragionamento sottostante è abbastanza evidente: i diritti dei creditori, nonostante l’irrilevanza del loro voto contrario, non sono pregiudicati in quanto il debitore è tenuto comunque a “riconoscere a ciascun creditore un trattamento non inferiore a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale” (art. 87, comma 3) ed è concessa ai dissenzienti la possibilità di far valere la lesione di tale rapporto avanti al tribunale in sede di opposizione (art. 112, comma 3)[21].
Il principio posto dal terzo comma dell’art. 87 conferma quanto detto fin dall’inizio, che il nuovo concordato non richiede più il soddisfacimento dei creditori in misura più elevata rispetto a quella della liquidazione giudiziale, ma soltanto non inferiore e, quindi, anche nella stessa misura raggiungibile con la liquidazione giudiziale.
Per nulla convincente è, invece, il principio presupposto dal comma terzo dell’art. 112 della sostanziale equiparazione tra manifestazione del voto e opposizione all’omologazione; non è, infatti, la stessa cosa dare valore al voto in sede di calcolo delle maggioranze, ove l’espressione del voto è gratuita e immediata, e consentire l’opposizione, che richiede l’assistenza di un legale e una iniziativa che, come l’esperienza insegna, prendono normalmente i c.d. creditori forti (banche, quelli istituzionali e quelli titolari di crediti di un certo spessore).
Inoltre l’opposizione ha un oggetto limitato alla mancanza di convenienza della proposta cui segue un cram down che tiene conto soltanto della soddisfazione che quantitativamente quel creditore potrebbe ottenere nella liquidazione giudiziale, nel mentre il voto, sia esso favorevole che contrario, può essere espresso per le motivazioni più varie, pur sempre di carattere economico, e che non debbono essere spiegate; il creditore che ha bisogno di liquidità ha ben diritto di votare contro[22] una proposta che preveda un pagamento dilazionato, seppur con interessi, ma questa scelta non riceverà alcuna tutela in sede di omologazione ove la proposta sia ritenuta quantitativamente preferibile a quanto ricavabile dalla liquidazione giudiziale, dal momento che i motivi che, a parità di condizione tra offerta concordataria e liquidazione giudiziale, hanno spinto il creditore a votare contro diventano irrilevanti (oltre che difficilmente documentabili). Del resto, l’introduzione nel terzo comma dell’art. 112 del principio del soddisfacimento dei creditori “in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”, ove l’uso dell’aggettivo “inferiore” indica una comparazione di maggioranza tra valori da misurare, fa capire che con l’eccezione di inconvenienza il creditore può lamentare soltanto di ricevere un trattamento quantitativamente inferiore a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale.
Per di più, un creditore può essere indotto ad esprimere voto contrario perché ritiene la proposta concordataria non conveniente nel suo insieme, indipendentemente dal trattamento a lui personalmente riservato, ma una eccezione sulla convenienza che coinvolga non (o non solo) il creditore che la sollevi, bensì il difetto di convenienza del concordato per l’intera massa dei creditori, fuoriuscirebbe dal perimetro dell’indagine del tribunale, che rimane comunque ancorato alla sola valutazione del confronto fra il soddisfacimento raggiungibile da ciascun creditore che opponga la non convenienza e quello possibile attraverso l’alternativa della liquidazione giudiziale, avendo l’art. 112, comma 3, relegato il test di convenienza ad un apprezzamento riferito non all’intero ceto creditorio ma unicamente al confronto fra il soddisfacimento raggiungibile con il concordato da ciascun creditore opponente e quello possibile attraverso l’alternativa della liquidazione giudiziale.
E’ pur vero che la convenienza per i creditori è considerata tra i principi generali di cui alla lett. c) del secondo comma dell’art. 7, ma si tratta di un richiamo non pertinente e, comunque, poco significativo. Invero, l’art. 7 detta non un principio sostanziale di carattere generale secondo cui il concordato debba essere conveniente per i creditori, ma una regola processuale (la rubrica della Sez. III, del Capo II del Titolo primo, in cui è inserito l’art. 7, ha come rubrica “Principi di carattere processuale”) che ha lo scopo di fissare un criterio di preferenza delle domande di accesso agli strumenti di regolamentazione della crisi e dell’insolvenza rispetto a quelle di accesso alle procedure di insolvenza, nel senso che “nel caso di proposizione di più domande, il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l'insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, a condizione che: a) …, b …. c)-nella proposta siano espressamente indicate la convenienza per i creditori o, in caso di concordato in continuità aziendale, le ragioni della assenza di pregiudizio per i creditori”.
Come si vede, la norma non riguarda il giudizio di omologa e il controllo che il tribunale svolge in quella sede, ma attiene al contenuto della domanda del debitore, la quale deve indicare le ragioni per le quali la proposta di concordato in continuità non è pregiudizievole per i creditori, in modo che il tribunale possa preferirla nel concorso di più domande anche con finalità diverse; nulla di più di quanto detto fin dall’inizio e, cioè che, alla luce della nuova continuità, è sufficiente che la proposta concordataria realizzi “il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale” (art. 84, comma 1), che è diventato l’unico parametro della tutela dell’interesse dei creditori.
Ancor meno significativo è il richiamo della previsione del terzo comma dell’art. 84, lì dove richiede che a ciascun creditore sia assicurata un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile. Anche in questo caso la norma non dà rilievo alla valutazione che gli interessati fanno, attraverso il voto, della utilità che viene loro attribuita né ad una valutazione del tribunale, i cui compiti, in sede di omologa sono ben delineati e precisati dal primo comma dell’art. 112, ma prende in considerazione la proposta del debitore che deve prevedere una utilità per ciascun creditore; obbligo questo che, nella mancanza di una norma che assicuri nel concordato in continuità un quantum minimo di soddisfazione, finisce soltanto per ampliare ancor più il margine di libertà dato al debitore di organizzare la sua crisi attribuendo ai creditori, invece che danaro, altre utilità da lui individuate. E’ del tutto evidente, infatti, che nell’assenza di una soglia minima di soddisfazione per i creditori, anche per la categoria dei chirografari, l’utilità per costoro diventa del tutto evanescente non dovendo essere adeguata alla previsione del raggiungimento di un traguardo prefissato dalla legge; se, infatti, non esiste la necessità di assicurare ai chirografari il pagamento del 20%, come nei concordati liquidatori, il debitore può promettere qualsiasi percentuale, anche irrisoria se i beni ceduti non consentono di meglio e, quindi, anche l’utilità per i creditori non può che essere parametrata su queste unità di misura, di modo che la prosecuzione di un rapporto giuridico o anche “il beneficio immediato degli scarichi fiscali”[23], a fronte della dimostrata insoddisfazione del credito, possono diventare una utilità vantaggiosa; salvo poi a stabilire come l’effettiva utilità che la proposta può apportare a determinati creditori possa essere valorizzata dal tribunale, trattandosi di un vantaggio quanto mai personale che, seppur certo ed economicamente valutabile in astratto, è difficilmente determinabile in concreto a causa delle ricadute sull’intera sfera personale del creditore, ignota al tribunale.
Ed ancora, attraverso il voto, i creditori esprimono una valutazione non solo sulla convenienza in punto di tempi e misura di soddisfazione, ma anche sulla probabilità di soddisfazione delle rispettive ragioni, ossia sulla fattibilità economica; tuttavia nella versione definitiva del CCII, il riscritto art. 47 ha ripreso nel comma primo lett. b) la formula secondo cui, in caso di concordato in continuità, il tribunale, ai fini dell’ammissione, verifica che il piano non sia “manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali” e, a sua volta, l’art. 112, comma 1, lett. g) dispone che in sede di omologazione il tribunale verifica “in ogni altro caso, la fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati”, per cui un esame completo della fattibilità economica del concordato non può essere oggetto di esame del tribunale[24].
Peraltro la sottrazione al giudice della verifica della fattibilità economica trova spiegazione proprio nel fatto che essa, come quella sulla convenienza, è affidata ai creditori, e non vi è ragione per cui la valutazione degli interessi economici dei creditori debba essere attribuita al giudizio eteronimo dell’organo giudiziario, a meno che i creditori non possano esprimersi con il voto; ed infatti nella disciplina del concordato semplificato, ove non è contemplato il voto dei creditori, l’accertamento della fattibilità del piano, come quello della convenienza (declinato nella formula della mancanza di pregiudizio), è stato demandato al tribunale (art. 25 sexies, comma 5). Nel concordato in continuità, si concede ai creditori la possibilità di votare per esprimersi sulla convenienza e fattibilità, tanto che la proposta è inammissibile solo “se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali” (art. 47, comma 1) proprio perché è compito dei creditori valutare con l’espressione del voto le prospettive di soddisfazione collegate alla conservazione dei valori aziendali attraverso la continuità[25]; tuttavia nella ristrutturazione trasversale la volontà manifestata dalla maggioranza dei creditori e delle classi può diventare insignificante. In sostanza, l’art. 112 concede al tribunale in sede di omologa la possibilità di verificare soltanto (per quanto qui di interesse) che “il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza” (art. 112, comma 1, lett. f) e che il piano non sia manifestamente inidoneo a raggiungere gli obiettivi prefissati (art. 112, comma 1, lett. g) sul presupposto inesistente (o che comunque può mancare), che una verifica del genere sia stata eseguita dai creditori attraverso il voto.
In questa terra di mezzo, si può dire che, paradossalmente, gli interessi dei creditori sono più e meglio tutelati nel concordato semplificato, ove, in mancanza di votazione, la tutela del ceto creditorio è rimessa in via esclusiva alla eterotutela del tribunale, dovendo l'autorità giudiziaria verificare l'assenza di pregiudizio per il ceto creditorio e la piena fattibilità del piano, che, nel concordato in continuità, ove una minoranza anche sparuta può prevalere sulla maggioranza sotto l’occhio indifferente dell’autorità giudiziaria che, ricorrendo le altre condizioni di cui al secondo comma dell’art. 112, non può fare a meno di omologare il concordato.
Infine, da ultimo quale fenomeno cronologico ma non ultimo per importanza, il percorso del creditore che si sobbarca alle spese dell’opposizione e, non contento della sentenza di omologa, propone gravame, può concludersi con una beffa in quanto, pur se viene riconosciuto che effettivamente la proposta concordataria non è per lui conveniente né gli attribuisce alcuna utilità, la Corte d’Appello può egualmente omologare il concordato in continuità “se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno” (art. 53, comma 5 bis)[26].
Lo scopo della norma è chiaramente quello di evitare che, a fronte di un consenso generalizzato dei creditori alla continuazione dell’attività, (interesse implicito per i lavoratori), devono cedere le pur fondate ragioni di non convenienza del singolo, che vengono tacitate con il risarcimento del danno; tuttavia, la genericità della formula utilizzata, priva di qualsiasi indicazione idonea ad individuare quale sia l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevalente su quello del singolo, lascia alla Corte d’Appello la discrezionalità di applicare la stessa norma anche nel caso della ristrutturazione trasversale. Se, infatti, si dà rilievo alla volontà di una classe contro quella di tutte le altre dissenzienti, vuol dire che la scelta della classe consenziente in tanto giustifica l’omologa in quanto risponde all’interesse generale della prosecuzione dell’attività, per cui non può che prevalere sull’interesse del singolo. In sostanza la disposizione inserita nell’art. 53, applicata al concordato in continuità in aggiunta alla ristrutturazione trasversale, pone una finta condizione in quanto, se il fantomatico e non individuato interesse generale di un gruppo può essere costituito anche dalla opzione espressa da una sola classe, l’interesse del singolo non può che soccombere sempre, anche quando l’omologa sia pronunciata per effetto del cross class cram down.
In cambio, al creditore dissenziente e opponente vincitore viene attribuito un diritto al risarcimento del danno, che dovrebbe coprire la differenza tra il trattamento promesso e quello che quel creditore riceverebbe nella liquidazione giudiziale; il che pone l’ulteriore problema di capire quando, con quale collocazione e con quali disponibilità il debitore debba far fronte a tale aggravio di spesa, che potrebbe anche essere consistente, specie se sono più i creditori che si trovano in questa situazione, tanto da dover pensare che, al momento della presentazione della proposta concordataria, bisognerà, a pena di inammissibilità, approntare un fondo rischi anche per fronteggiare questa evenienza.