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Saggio

La tutela dei creditori nel concordato in continuità*

Giuseppe Bozza, già Presidente del Tribunale di Vicenza

27 Giugno 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’Autore si inoltra nel concetto di continuità per valutare quanto la difesa di questo valore incida sulla tutela dei creditori. E il risultato è che, pur tra tante criticità e aporie, tutte portate all’attenzione del lettore, il legislatore nazionale, in linea con i principi europei volti a preservare il valore dell’impresa, considerata come bene giuridico in sé, da preservare nell’interesse non solo dei creditori, ma anche del debitore, dei soci, dei lavoratori e del sistema economico generale, ha svilito il ruolo dei creditori non essendo più l’autonomia negoziale che individua la soluzione più idonea ad affrontare la situazione di crisi, in nome di una continuità, peraltro, non più basata sulla prevalenza della provenienza dei flussi destinati alla soddisfazione degli aventi diritto.
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1 . Il valore della continuità
L’impresa è, per definizione, una attività organizzata destinata ad operare nel mercato nonché un sistema dotato di una struttura interna complessa, a seconda delle dimensioni, come tale fisiologicamente esposta agli accadimenti esterni come alle turbative dei suoi assetti organizzativi e gestionali.
Il legislatore del codice della crisi, che ha posto a centro del nuovo complesso normativo l’impresa, si è preoccupato di entrambi questi aspetti. 
Da un lato, infatti, va segnalata l’introduzione di strumenti che consentano e agevolino un’emersione precoce della crisi, nel presupposto che la crisi sia tanto più facilmente gestibile e superabile quanto più tempestivamente si intervenga in modo da non pregiudicare la continuità aziendale. In questa ottica si inserisce la disciplina della composizione negoziata e la riscrittura dell’art. 2086 c.c., in vigore fin dal 2019, che ha introdotto, per tutti gli imprenditori societari e collettivi, l’obbligo di istituire un assetto organizzativo non soltanto adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, ma anche funzionale alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, ed ha ulteriormente disposto che, in tal caso, gli amministratori debbano attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale. A sua volta l’art. 3 del CCII, nel riprendere il concetto dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile posto dall’art. 2086 c.c. per le società e nell’imporre anche all’imprenditore individuale l’obbligo di adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi ed assumere senza indugio le necessarie iniziative, impone, sempre al fine di anticipare l’emersione della crisi, di verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale per i dodici mesi successivi e di rilevarne prontamente i segnali, a conferma di come la sostenibilità economica dell’impresa sia diventato il baricentro del nuovo diritto concorsuale 
Dall’altro lato, ossia quello esterno, la rivoluzione è stata globale in quanto, nel momento della crisi e dell’insolvenza, il valore della conservazione dell’impresa è diventato centrale. 
Questa tendenza al mantenimento della continuità, estranea alla legge fallimentare originaria, si era timidamente affacciata nella riforma degli anni 2006- 2007, con la libertà data al debitore, per raggiungere la soddisfazione dei creditori, di servirsi non soltanto dei rigidi schemi legali in precedenza previsti, ma di proporre agli stessi qualsiasi soluzione, nel rispetto dell’ordine delle cause di prelazione, che ritenesse potesse avere il loro consenso; tuttavia, la continuità era concepita nell’ottica di sfruttare ogni residua potenzialità del complesso aziendale allo scopo di una più proficua liquidazione per il miglior soddisfacimento dei creditori, per cui, nel concordato- a carattere all’epoca prevalentemente liquidatorio- come nello stesso fallimento, anche lì dove era presente un intento conservativo, questo era diretto ad assicurare il proseguimento dell'attività produttiva non allo scopo di risanare l'impresa, ma al fine di non disperdere il valore unitario del complesso aziendale nell’ottica di una liquidazione più proficua che consentisse, nell’interesse precipuo dei creditori, il più ampio margine di soddisfazione possibile.
Bisogna attendere il 2012 per avere la prima forma di regolamentazione del concordato con continuità aziendale, che richiese, oltre ad una ampia revisione normativa, una rivoluzione concettuale, e cioè che la legge non considerasse più il concordato preventivo solo come lo strumento per rendere possibile, attraverso la cessione dei beni e trasferimento sui creditori dei rischi conseguenti alla liquidazione, l’estinzione dei debiti, ma fosse utilizzato anche come mezzo per la prosecuzione dell’attività economica; richiese che l’attività economica, in sé e per sé considerata, non costituisse più soltanto un presupposto della procedura, per cui un debitore poteva accedere al concordato in quanto aveva esercitato una determinata attività d’impresa, ma che la prosecuzione costituisse essa stessa lo strumento per la realizzazione dell’accordo con i creditori, ossia per la sistemazione concordata della crisi; richiese, in sostanza, come dice Terranova[1], il passaggio da un sistema statico imperniato sul soggetto imprenditore insolvente e sul suo patrimonio quale garanzia per i creditori, sul quale la legge, a tutela dei creditori, si limitava soltanto ad impedire l’esercizio delle azioni esecutive e cautelari dei singoli, ad un sistema dinamico incentrato sull’attività di impresa e sul ripristino del ciclo produttivo e dei flussi finanziari necessari per attivarli. 
Tuttavia, questa nuova figura richiedeva comunque per l’ammissione una attestazione “che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”, ossia una valutazione di un risultato ottimale per i creditori che evidenziava l’importanza data alla tutela del credito. Una tale valutazione implicava, infatti, il riscontro che l’esercizio dell’’impresa generasse per i creditori un soddisfacimento, non solo pari, ma superiore a quello offerto da altre soluzioni della crisi alternative alla continuità, e, quindi, in ottica meramente liquidatoria con cessazione dell’attività[2]; di modo che la continuità aziendale era sì un bene da tutelare, ma non quale valore in sé- anche eventualmente contro l’interesse dei creditori, come nell’amministrazione straordinaria in cui entrano in gioco interessi pubblicistici dati dalla dimensione aziendale e su cui i creditori non hanno modo di esprimersi- bensì solo se il complessivo valore del patrimonio del debitore potesse ridursi qualora l’attività d’impresa fosse stata interrotta.
In sostanza anche dopo la riforma dei primi anni 2000 e i ripetuti successivi interventi, sia la procedura di fallimento che quella concordataria rimangono funzionalizzate all’interesse dei creditori, per i quali la continuità costituisce una modalità per il più proficuo soddisfacimento in presenza della crisi o dell’insolvenza del loro debitore. 
E’ questo collegamento ancillare della continuità al miglior soddisfacimento dei creditori che è venuto meno nel nuovo codice, in quanto la clausola del miglior soddisfacimento dei creditori scompare dal panorama normativo e viene sostituita nel primo comma dell’art. 84 dal meno impegnativo intento che la proposta concordataria, di qualsiasi tipo, sia essa liquidatoria che in continuità, realizzi “il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale”, che diventa l’unico parametro della tutela dell’interesse dei creditori. Di conseguenza, il comma terzo dell’art. 87 richiede che, in caso di continuità aziendale, il professionista attesti che “il piano è atto a impedire o superare l’insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale”, che offre anche la chiave di lettura dell’asettica indicazione contenuta nel secondo comma dell’art. 84 che la continuità tutela l’interesse dei creditori.
Tanto significa che la continuità non deve necessariamente realizzare nuove risorse tali da consentire di soddisfare i creditori in misura maggiore rispetto a quella ottenibile con la liquidazione, ma è sufficiente che essa non generi un risultato penalizzante per i creditori, di modo che, più che una valutazione correlata all'ammontare del debito, basta un apprezzamento parametrato alla misura del soddisfacimento ricavabile nello scenario liquidatorio concorsuale, alla luce dell’entità del patrimonio monetizzabile.
Si è passati, quindi, da un sistema concorsuale votato a soddisfare i diritti di credito incisi dal dissesto, ad un sistema concorsuale diretto a gestire la crisi e a regolare i diritti dei creditori, che prescinde dall’intento del loro miglior soddisfacimento, in quanto la tutela del diritto di credito è rapportata al realizzo minimo, a quanto, cioè, ogni creditore potrebbe ricavare dall’apertura della liquidazione giudiziale, che diventa la pietra di paragone da utilizzare, peraltro solo nella fase dell’omologa e solo attraverso l’opposizione. 
In questa nuova ottica la continuità non è più un mezzo per la soddisfazione dei creditori, ma il mezzo per perseguire il possibile risanamento dell’impresa, che è il fine da realizzare ogni qualvolta l’operazione sia sostenibile in quanto la cessazione dell’attività economica e il disgregamento degli assetti aziendali è da scongiurare a meno che non sia inevitabile; anzi il fatto che al concordato possa accedere l’imprenditore che si trova in stato di crisi o di insolvenza (art. 84, comma 1) e che la legge non faccia alcuna differenza tra insolvenza reversibile, caratterizzata dalla esistenza di effettive prospettive di risanamento e ristrutturazione dell'impresa, e insolvenza irreversibile, distinta da uno squilibrio economico-finanziario talmente grave da escludere ipotesi ristrutturatorie, induce a ritenere che la continuità sia essa stessa un fine cui destinare le risorse dell’impresa, se non altro per la salvaguardia dei posti di lavoro, anche se il raggiungimento di questo fine non corrisponde al miglior soddisfacimento dei creditori.
Per la verità, il concetto del miglior soddisfacimento dei creditori non scompare del tutto dal panorama normativo, in quanto l’autorizzazione al compimento degli atti di straordinaria amministrazione e degli altri elencati nel secondo comma dell’art. 94 può essere concessa solo se l’atto “è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori” (art. 94, comma 3), così come, in caso di urgenza, la vendita e l’affitto di azienda o rami della stessa possono essere autorizzati senza far luogo a pubblicità e alle procedure competitive quando “può essere compromesso irreparabilmente l’interesse dei creditori al miglior soddisfacimento” (art. 94, comma 6), ecc. Tuttavia, queste sono sfumature di valutazioni relative a singoli atti, ma è indubitabile che il baricentro della nuova concorsualità sia la continuità dell’attività di impresa, a sostegno della quale la nuova normativa prevede una serie di incentivi, a cominciare dalle disposizioni speciali per i contratti pendenti di cui all’art. 94 bis o da quelle sulla salvaguardia dei rapporti con la Pubblica Amministrazione, per finire con quelle riguardanti la soddisfazione extra concorsuale dei fornitori strategici di cui al primo comma dell’art. 100, o riguardanti la possibilità di ottenere l’autorizzazione a pagare alle scadenze le rate di mutuo con garanzia reale sui beni strumentali all’esercizio dell’impresa, eventualmente saldando gli insoluti, di cui al secondo comma dell’art. 100, passando per la facoltà di ottenere l’autorizzazione alla stipula di finanziamenti prededucibili di cui all’art. 101, per le regole sulla sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione di cui all’art. 89, e così via. Si è così completamente consumata la scissione tra imprenditore e impresa; al legislatore non interessa più la sorte del primo ma quella dell’impresa, per la conservazione della quale sono previste una serie di norme agevolative, in nessuna delle quali è contemplato l’interesse dei creditori al loro miglior soddisfacimento.
E’ anche vero che l’art. 4 impone all’imprenditore l’’obbligo, durante la procedura, di gestire il patrimonio e l’impresa nell’interesse prioritario dei creditori, tuttavia, tale obbligo, nell’ambito del concordato preventivo, trova comunque il suo limite nel principio che il soddisfacimento dei creditori sia realizzabile in misura non inferiore all’alternativa liquidatoria, sicché la gestione dell’impresa può essere anche negativa e dannosa per i creditori, i quali nulla possono lamentare fin quando tale attività non pregiudica l’interesse a realizzare ciò che potrebbero ricevere dalla liquidazione giudiziale.
2 . Il rapporto tra tutela del credito e conservazione dell’impresa. Impostazione del problema
Nel dare atto che la nuova disciplina segna un indubbio ammodernamento delle regole della ristrutturazione, in linea con i principi europei volti a preservare il valore dell’impresa, considerata come bene giuridico in sé, da tutelare nell’interesse non solo dei creditori, ma anche del debitore, dei soci, dei lavoratori e del sistema economico generale, il discorso si sposta sulla verifica di come è calibrato il rapporto tra la tutela del mercato, che implica la salvaguardia dei valori imprenditoriali conseguibili con la continuità, e la tutela di coloro che sono entrati in contatto con l’impresa, tra cui principalmente i creditori, che si trovano, al momento dell’apertura di una procedura concorsuale, a far parte involontariamente di una comunità con interessi contrapposti tra i vari componenti.
E’ diffusa l’opinione che il valore della continuità aziendale, finora subordinata e recessivo, è adesso tendenzialmente paritetico all’interesse creditorio, che ha perso la qualifica di prioritario ma si innesta e si amalgama con la difesa del going concern in quanto la tutela dei creditori viene realizzata proprio attraverso le risorse liberate e prodotte dalla continuità[3]. 
E’ fin troppo ovvio che il recupero della capacità produttiva dell’impresa attraverso la protrazione dell’attività possa utilmente riversarsi su tutti i soggetti coinvolti nella crisi (dal debitore ai creditori, ai lavoratori, ai soci) dal momento che l’impresa non è una entità cui siano sottesi solo l’interesse dell’imprenditore individuale o degli azionisti, ma è inserita in un sistema complesso di relazioni con tutti questi soggetti, identificabili genericamente negli stakeholders, gli interessi e i diritti dei quali sono coinvolti, direttamente o indirettamente, da procedure di ristrutturazione e di insolvenza. Sarebbe pertanto antistorico negare che il soddisfacimento dei creditori possa essere realizzato mediante la ricchezza aggiuntiva correlabile alla continuità, così come è palese che l’emersione di valori sovraordinati debba inevitabilmente determinare una qualche compressione dei diritti dei creditori. 
Quello che considero il punto critico della nuova disciplina è che non è stato realizzato un equilibrio tra tutela del credito e tutela della continuità aziendale in quanto l’attività dell’impresa non è attuata sulla base di un piano condiviso con i creditori, che è il viatico per il loro coinvolgimento nel processo di ristrutturazione ideato e voluto dal debitore. Al contrario, il rapporto tra i due citati valori è stato capovolto in quanto la tutela del credito ne esce fortemente compromessa dalla irrilevanza del consenso- cui si contrappone, quale altra faccia della stessa medaglia, l’ampliamento della libertà di azione concessa all’imprenditore in crisi-, al punto che l’omologa non è impedita dal dissenso della maggioranza (ed è attraverso il voto che i creditori possono proteggere il loro interesse alla migliore soddisfazione), di modo che l’intento di spalmare il costo della crisi su un numero più ampio di possibili portatori di interessi finisce per penalizzare esclusivamente o, comunque prevalentemente, i creditori, schiacciati dalla difesa di interessi ritenuti prevalenti dall’ordinamento, tra cui quello alla continuità dell’attività di impresa. 
È proprio questa asimmetria tra tutela dei creditori e difesa della continuità che, a mio avviso, costituisce l’aspetto più dirompente del nuovo impianto concordatario e difficile da conciliare con i principi generali del nostro diritto. La protezione del creditore può anche non consistere nel cercare il suo miglior soddisfacimento, anzi in una visione moderna del diritto concorsuale non deve essere questa la finalità prioritaria, ma comunque, a mio parere, devono essere assicurati ai creditori:
a- una informazione esaustiva che consenta un contraddittorio prima del voto;
b- la libertà di esprimere il voto che può cedere a fronte della deversa opinione manifestata dalla maggioranza;
c-il diritto di reagire opponendosi alla omologazione per portare in quella sede di ultimo vaglio le ragioni- e tutte le ragioni- che lo hanno determinato al dissenso.
3 . Il calcolo delle maggioranze nei concordati in continuità. Proposte concorrenti
Nessuna delle indicate condizioni è stata realizzata in concreto nel nuovo sistema codicistico.
La prima considerazione sul trattamento dei creditori va rivolta alla soppressione della adunanza dei creditori che, seppur a seguito della eliminazione (con il D.L. n. 35 del 2005, convertito dalla L. n.80 del 2005) della votazione numerica per teste avesse perso la sua importanza, tuttavia costituiva ancora, come testualmente afferma la S. Corte[4], “la fase in cui tra le parti - creditori e debitore, appunto - si sviluppa una fase di contraddittorio pieno, che viene a supplire - seppure in termini parziali e al solo fine della votazione - all'assenza nel concordato di una procedura di verifica del passivo: tanto il debitore, quanto i creditori ben possono, in questa sede, contestare il diritto a partecipare di ogni altro soggetto”.
La eliminata adunanza- ove i creditori potevano confrontarsi tra loro, con il debitore e il commissario, per poi avere un ulteriore tempo per esprimere il voto- non è stata sostituita da un sistema “con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione”, come si prefigge l’art. 47 nella lett. c) del comma 2, in quanto le modalità ideate dal nuovo legislatore per pervenire al voto non consentono a coloro che avrebbero potuto partecipare all’adunanza di chiedere ed ottenere i necessari chiarimenti, di interloquire sulla propria e sulla altrui posizione creditoria e replicare, così come appunto avrebbero potuto fare all’udienza, ove la deliberazione che viene assunta attraverso l’espressione del voto, contestuale o successivo, è il portato anche della volontà formatasi a seguito del dibattito ivi sviluppatosi. 
Basta ricordare che, a seguito della comunicazione ai creditori, al debitore e a tutti gli altri interessati della relazione del commissario almeno 15 giorni prima della data iniziale stabilita per il voto, i destinatari possono, almeno 10 giorni prima della data iniziale stabilita per il voto, trasmettere al commissario giudiziale osservazioni e contestazioni e, a questo punto, il dialogo si interrompe perché a queste osservazioni e contestazioni non è consentita una replica; il quinto comma dell’art. 107 prevede, infatti, che immediatamente il commissario comunica ai creditori, al debitore e a tutti gli altri interessati le osservazioni e contestazioni che ha ricevuto e ne informa il giudice delegato e, almeno sette giorni prima della data iniziale stabilita per il voto, deposita in cancelleria e comunica ai creditori, al debitore e agli altri interessati una relazione definitiva (quella di cui al sesto comma dell’art. 107).
E questo già costituisce una prima lesione dei diritti dei creditori in quanto un contraddittorio vero ed effettivo (scritto o orale) è elemento coessenziale ad ogni procedura che vincoli tutti i creditori, anche quelli dissenzienti, giacché in tanto alla minoranza dissenziente può essere imposto un sacrificio in quanto tutti possano partecipare con pienezza di informazioni e di poteri al procedimento destinato a formare la maggioranza; considerazione a maggior ragione valida quando, come si vedrà, potrà essere anche una minoranza a vincolare la maggioranza. 
Quanto alle maggioranze, sancito nel concordato in continuità il principio dell’obbligatoria suddivisione in classi dei creditori, l’inizio del quinto comma dell’art. 109 pone la regola che “il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore“, per poi aggiungere che “in ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto”, di modo che per l’approvazione è necessario che in tutte le classi si raggiunga il voto favorevole del 50,1% (51% per semplicità espositiva) dell’intera massa dei creditori. È una regola giustamente più severa di quella dettata dalla legge fallimentare e di quella posta per il concordato liquidatorio con classi che, a norma del primo comma dell’art. 109, è approvato se la maggioranza dei crediti ammessi al voto è raggiunta nel maggior numero di classi e non in tutte le classi, giacché l’alea per i creditori è certamente maggiore quando la loro soddisfazione deriva dall’andamento della gestione dell’impresa nel tempo piuttosto che dalla liquidazione dei beni.
Il legislatore, tuttavia, conscio della difficoltà a raggiungere la maggioranza in tutte le classi, per agevolare l’approvazione dei concordati in continuità, prevede nel prosieguo del quinto comma dell’art. 109 che, in mancanza del voto favorevole della maggioranza dei crediti inseriti in una classe, la proposta è egualmente approvata ove “abbiano votato favorevolmente i due terzi dei crediti dei creditori votanti, purché abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe”; con la conseguenza che, attraverso questo strumento suppletivo di calcolo, qualora in nessuna classe sia raggiunta la maggioranza, è sufficiente per l’approvazione che esprima il voto almeno la metà dei crediti ammessi al voto in ciascuna classe e di questi si dichiarino favorevoli i due terzi. Sistema che tradotto in numeri, ipotizzando che in ogni classe voti giusto la metà dei crediti ammessi al voto, comporta che la proposta concordataria è egualmente approvata col voto favorevole dei due terzi della metà dei crediti appartenenti a ciascuna classe, pari al 33,33% periodico dell’intera massa dei crediti; di contro, il concordato non è approvato ove non esprima il voto almeno la metà dei crediti di una classe o in una classe i crediti dei creditori votanti non raggiugano i due terzi dei crediti ammessi in quella classe, 
Con questo criterio suppletivo si è creata una sorta di quorum costitutivo (partecipazione al voto di almeno la metà dei crediti inclusi in ciascuna classe) e di un quorum deliberativo (i due terzi dei crediti dei creditori votanti), in modo da spostare il calcolo della maggioranze sui voti effettivamente dichiarati, e sterilizzare, così, il non voto; se, infatti si prendono in considerazione soltanto i voti effettivamente espressi dai votanti, l’inerzia dei creditori non votanti perde consistenza, come nelle consultazioni elettorali, ove i risultati sono espressi da chi vota e non da chi si astiene, o nelle deliberazioni societarie. 
Si tratta di un criterio di calcolo criticabile sotto più aspetti- e lo ha fatto con puntuali richiami al diverso dettato della direttiva insolvency il Consiglio di Stato nel parere del 13 maggio 2022-, tuttavia, il fatto che la minoranza di un terzo del monte crediti ammessi al voto sia idonea a vincolare alla decisione presa la restante maggioranza dei due terzi dei creditori, trova fondamento proprio nel dato che la maggioranza non si si è espressa, dimostrando di non aver interesse per le sorti del concordato, per cui il silenzio, che non equivale a dissenso né è espressione di consenso, diventa neutro.
Spiegazione plausibile nel concordato, anche se rimane da chiedersi perchè lo stesso sistema non valga per l’approvazione dei concordati liquidatori, per i quali il silenzio continua ad equivalere a dissenso essendo la maggioranza calcolata sull’ammontare dei crediti ammessi al voto, oppure perché il silenzio abbia questo stesso valore nel criterio primario dettato dal comma quinto dell’art. 109 per il quale, come visto, il concordato in continuità è approvato se è raggiunta in tutte le classi la maggioranza dei crediti ammessi al voto, ma, al di là di questi dubbi, va ricordato che lo stesso meccanismo di calcolo delle maggioranze predisposto dal quinto comma dell’art. 109, sia in via primaria che sussidiaria, è riprodotto esattamente negli stessi termini, nel comma settimo dell’art. 64 bis per il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. 
Il fatto è che il PRO, a seguito del richiamo operato dal D.Lgs n. 83 del 2022, al comma ottavo dell’art. 84, che si riferisce al “piano che prevede la liquidazione del patrimonio”, può ora , essere utilizzato non solo per la prosecuzione (diretta o indiretta) dell’attività d’impresa, ma anche a scopo liquidatorio, per cui, se si segue questa lettura, già accolta da parte della dottrina[5], il debitore può formulare una proposta di piano anche di tipo liquidatorio-, senza peraltro dover rispettare i limiti posti dal comma quarto dell’art. 84 (soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore al 20% e apporto di risorse esterne che incrementino l’attivo del 10%)- che rimane assoggettata al sistema di maggioranze dettate per il concordato in continuità; e così la continuità, anche quando non c’è perché il piano prevede la disgregazione dell’azienda con vendite particellizzate, resta ancora un interesse primario da tutelare con l’approvazione in ciascuna classe della minoranza di un terzo dei crediti ammessi al voto. 
Ma il problema che qui interessa non è tanto questo, quanto il fatto che in una procedura come il PRO, caratterizzato dalla libertà distributiva che è giustificata proprio con il consenso diffuso dei creditori, non può essere fissata la stessa maggioranza richiesta per il concordato preventivo in continuità, che non poggia sullo stesso presupposto. Il fatto che il PRO possa essere approvato dal voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto e, ancor più, in via subordinata, da un terzo dei crediti mina alla base il principio giustificativo della libertà distributiva che regge il PRO giacché, quando si legittima la libertà del debitore di alterare nella distribuzione delle disponibilità l’ordine di graduazione delle cause di prelazione con il consenso dei creditori ampio e diffuso dei creditori, va accertato che sia effettivamente espresso in positivo un consenso ampio e diffuso dei creditori ammessi al voto a sostegno del piano; che, cioè, si siano espressi in senso favorevole creditori portatori di una quantità di crediti tali da far ritenere che la gran parte di essi, se non proprio tutti, sia consenziente.
Sterilizzare l’astensionismo permette di dire che, seppur in ciascuna classe sia stata raggiunta la maggioranza di un terzo dei creditori ammessi, il PRO, come il piano di concordato in continuità, è approvato da tutte le classi, ma rimane il fatto che quel PRO è stato approvato da una minoranza e non da una maggioranza e, tanto meno, da una maggioranza qualificata, come invece dovrebbe richiedersi in coerenza con il principio fondante della nuova procedura (dato che pretendere l’unanimità dei consensi significherebbe l’inapplicabilità del PRO). Ecco allora che rapportare l’approvazione alla unanimità delle classi, senza dare rilevanza a come il voto viene calcolato all’interno delle classi, diventa solo un espediente per continuare a dire che il piano soggetto ad omologa, con la relativa libertà distributiva attribuita al debitore, è approvato all’unanimità; che poi il piano possa essere approvato con la maggioranza di un terzo dei crediti ammessi al voto in ciascuna classe, diventa questione irrilevante perché una unanimità è raggiunta, seppur delle classi; il legislatore avrebbe potuto anche richiedere la maggioranza di un quarto o di un decimo, ecc., e nulla sarebbe cambiato perché si sarebbe comunque avuta una unanimità delle classi e una minoranza favorevole all’interno delle stesse.
Il valore supremo della continuità cui, nei concordati in continuità, vien piegato l’intero meccanismo della votazione e della formazione delle maggioranze, svanisce poi in caso di proposte concorrenti. 
Invero, il secondo comma dell’art. 109 CCII dispone che, quando sono poste al voto più proposte di concordato, si considera approvata quella che “ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto”, da cui emergono due dati: 
- in primo luogo, che il criterio utilizzato per stabilire quale delle proposte sia stata approvata è quello di cui al primo comma dell’art. 109 per i concordati liquidatori in quanto anche qui i voti favorevoli sono rapportati al monte dei crediti ammessi al voto; 
- inoltre la norma non pretende che sia da considerare approvata la proposta prevalente tra le presenti, anche se non ha raggiunto la maggioranza assoluta dei crediti ammessi al voto, e che non sia richiesta la maggioranza tra classi, ma vuole, invece, ribadire che tra tutte le proposte che abbiano raggiunto la maggioranza quantitativa e nelle classi come richieste dal primo comma dell’art. 109, è preferita quella che ha riportato il maggior numero di consensi (e in caso di parità stabilisce quale debba prevalere). Tant’è che poi la norma prende in considerazione l’ipotesi che nessuna delle proposte “sia stata approvata con le maggioranze di cui al primo e al secondo periodo del presente comma”, nel qual caso il giudice delegato rimette al voto “la sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai creditori e il termine a partire dal quale i creditori, nei venti giorni successivi, possono far pervenire il proprio voto per posta elettronica certificata”.
Le alternative, quindi, sono due: 
a-le maggioranze di legge- che, come visto, sono le stesse dettate dal primo comma per il concordato liquidatorio- sono raggiunte almeno da una proposta o da più, nel qual caso si sceglie quell’unica che ha superato tali livelli o, tra le più che lo hanno superato, quella che ha riportato la maggioranza più elevata; 
b-nessuna proposta ottiene i voti necessari a raggiugere le maggioranze di legge, nel qual caso, si procede ad una nuova votazione sulla sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto.
Nulla è detto circa le maggioranze necessarie per l’approvazione in questa votazione supplementare sulla proposta di concordato in continuità scelta per aver riportato la maggioranza relativa. A mio avviso vale la stessa regola utilizzabile per la prima votazione dell’approvazione a maggioranza dei crediti ammessi al voto, per vari motivi che è superfluo qui richiamare, non ultimo quello basato sul dato testuale che il secondo comma dell’art. 109 si chiuda con la precisazione che “in ogni caso si applicano le disposizioni del comma 1”, ma è anche vero che esiste qualche argomento che potrebbe indirizzare in senso contrario. 
Ad ogni modo, qualunque tesi si segua, si pone un problema di carattere sistematico di non poco conto nel momento in cui il debitore iniziale o un creditore concorrente o anche entrambi propongano una proposta di concordato in continuità, giacché, in tal caso, trovano applicazione, sicuramente nella prima votazione- e, a mio avviso, anche nella successiva quando a questa si arrivi- le regole di votazione e di approvazione dettate per il concordato liquidatorio, anche se alcune o anche tutte le proposte presentate siano introduttive di un concordato in continuità. 
Si può dire, quindi, senza tema di smentita, che i criteri applicabili per la votazione e l’approvazione di in concordato in continuità variano (illogicamente) a seconda che ci sia una proposta singola o vi siano una o più proposte concorrenti; nel primo caso, infatti, la proposta presentata dal debitore viene regolata dal comma quinto dell’art. 109, nel mentre la presenza di una proposta alternativa (di qualunque tipo essa sia) fa sì che la scelta venga effettuata secondo le maggioranze previste dal primo comma dell’art. 109, di modo che, tutte le ragioni che giustificano la formazione delle classi e l’unanimità del voto delle stesse quando viene posta al voto una proposta singola di concordato in continuità inspiegabilmente evaporano qualora vengano poste al voto più proposte di concordato in continuità. 
Il secondo comma dell’art. 109 è richiamato anche dall’art. 64-bis nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, e qui la situazione diventa paradossale dato che il PRO ha come ragione fondante l’unanimità del consenso delle classi quale contrappeso alla libertà distributiva concessa al debitore; eppure, in presenza di proposte plurime di PRO, quanto meno per la prima votazione (ma a mio parere anche nella seconda), trova applicazione, in forza del richiamo al secondo comma dell’art. 109, il criterio delle maggioranze dettato per i concordati liquidatori, per cui potrebbe essere preferito un PRO approvato dalla maggioranza dei crediti ammessi al voto raggiunta nel maggior numero di classi e non in tutte[6]. 
4 . La libertà del debitore di organizzare il consenso
Questo nuovo utilizzo delle classi, sia nel PRO che nel concordato in continuità, evidenzia il mutamento genetico che ha subito la formazione delle classi. Invero nel momento in cui la classazione è diventata in queste procedure obbligatoria e i meccanismi di voto, nonché le maggioranze, sono stati rapportati alle classi, la classazione, da tecnica di superamento del rigore della par condicio creditorum, finalizzata a rompere la tradizionale uniformità del grado di soddisfazione dei chirografari consentendo di trattare in modo differenziato creditori di pari rango inseriti in classi diverse, è diventata parte imprescindibile del procedimento di approvazione della proposta di concordato preventivo in continuità aziendale e del PRO, che finisce per diluire (e nei casi che si vedranno di ristrutturazione trasversale per annullare) il principio maggioritario, destinato soprattutto ad operare all’interno di ogni classe e non più (salvo che nel concordato liquidatorio) a livello dell’intera massa dei crediti ammessi al voto[7]. 
Questo significa che la formazione delle classi, se utilizzata con quel minimo di maestria che è bagaglio comune di qualsiasi professionista che tratti la materia concorsuale, è diventata uno straordinario strumento di indirizzo del consenso verso il risultato voluto dal debitore. Se poi si pone mente alle nuove regole di possibile distribuzione del valore ritraibile dall’impresa in crisi oggetto di ristrutturazione fra i creditori, con l’introduzione nei concordati in continuità della regola della priorità relativa per la distribuire del surplus generato dalla continuità ai creditori, e si considera che l’attuale art. 86 prevede nel concordato in continuità aziendale una moratoria per il pagamento senza limiti di tempo (se non quelli dettati dalla attendibilità della stima previsionale[8]), si vede chiaro un quadro che ha come sfondo la continuità dell’attività nell’ottica di un risanamento e, in primo piano, il debitore che, per raggiungere quella meta (nel proprio interesse), può, attraverso la formazione delle classi e la distribuzione abbastanza discrezionale dei flussi germinati dalla continuità, indirizzare le future risorse verso quei creditori che intende favorire per qualsiasi motivo, e, quindi, può condizionare il consenso dei creditori modulando la distribuzione delle risorse, i tempi del pagamento e la formazione delle classi agli scopi che si prefigge. 
Se a questo si aggiunge che nel nuovo concordato in continuità la formazione delle classi è obbligatoria per cui vanno classati anche i creditori prelatizi ammessi al voto (quando sono pagati non integralmente o non in denaro o non entro i 180 giorni dall’omologa)[9], si vede come il debitore possa, come meglio si dirà in seguito, costruire le classi già nell’ottica che, in mancanza delle maggioranze di legge in precedenza esaminate, si arrivi alla ristrutturazione trasversale, la chiave della quale, non va dimenticato, è esclusivamente nelle mani del debitore dal momento che ad essa si può accedere, a norma del secondo comma dell’art. 112, solo su sua richiesta o col suo consenso in caso di proposte concorrenti; norma quest’ultima che costituisce un altro grazioso cadeau al debitore essendo del tutto evidente che costui ha sempre interesse a chiedere il cross class cram down sulla sua proposta (unica o scelta tra proposte plurime) per vederla omologata nonostante non abbia raggiunto le maggioranze e a negare il consenso a che possa essere omologata, attraverso lo stesso meccanismo, la proposta concorrente di altro creditore, il che sta a significare che la ristrutturazione trasversale non si applicherà mai quando oggetto dell’omologa sarebbe la proposta di un creditore concorrente, in controtendenza con favor mostrato per questa categoria di creditori[10] .
Il tutto, peraltro, senza incontrare uno stringente vaglio di ammissibilità sulla proposta e sul piano dal momento che, a questo fine, l’art. 47, comma 1 lett. b) richiede per i concordati in continuità un sindacato del giudice circoscritto al controllo della “ritualità della proposta” e alla verifica che il piano sottostante non sia “manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali"[11]. Questa ultima considerazione sminuisce anche quel minimo di collaborazione che può essere chiesto ai creditori nella fase della pendenza del termine concesso ex art. 44 CCII, quando, a norma del terzo comma dell’art. 92, “il commissario giudiziale, se richiesto o in caso di concessione delle misure protettive di cui all’articolo 54, comma 2, affianca il debitore e i creditori nella negoziazione del piano formulando, ove occorra, suggerimenti per la sua redazione”. Questo lodevole intento di costruire un piano concordato forgiando la figura del commissario giudiziale nominato per questa fase su quella dell’esperto della composizione negoziale, si infrange, infatti, proprio sullo scoglio del non penetrante scrutinio di ammissibilità; per cui il concordato può essere ammesso nonostante poggi su un piano che abbia incontrato il dissenso della maggioranza dei creditori, e, come si vedrà, potrà essere omologato nonostante il voto contrario di quella maggioranza.
5 . La ristrutturazione trasversale
Ritornando alle maggioranze nel concordato con continuità, il comma quinto dell’art. 109, lancia un’altra ciambella di salvataggio al concordato in continuità in difficoltà perché la norma, dopo le previsioni di cui si è parlato, aggiunge “In caso di mancata approvazione si applica l’art. 112, comma 2”, ove l’ipotesi di mancata approvazione non può che essere riferita a quelle esaminate in precedenza, ossia che non sia stata raggiunta in tutte le classi la maggioranza assoluta dei crediti ammessi al voto né quella dei due terzi dei crediti dei votanti. 
Orbene, qualora nessuna di queste maggioranze sia stata toccata, il concordato dovrebbe arrivare al tribunale non per celebrare il giudizio di omologazione bensì per l’eventuale apertura della procedura di liquidazione giudiziale, sicché quando in questa situazione di mancata approvazione lo stesso quinto comma dell’art. 109 statuisce che si applica il secondo comma dell’art. 112, che consente egualmente l’omologa in presenza di particolari condizioni, il legislatore ipotizza che, a seguito della constatazione del mancato raggiungimento delle maggioranze risultante dalla relazione del commissario, il giudice delegato debba riferire al tribunale l’esito delle votazioni e che questo, a sua volta, qualora vi sia richiesta del debitore (o il suo consenso in caso di proposte concorrenti)- invece di procedere a verificare la ricorrenza delle condizione per l’apertura della liquidazione giudiziale, come richiede il secondo comma dell’art. 49 “in caso di mancata approvazione del concordato preventivo”- debba fissare l'udienza in camera di consiglio per la comparizione delle parti e del commissario giudiziale e prendere tutti gli altri provvedimenti dettati dal primo comma dell’art. 48 per aprire il giudizio di omologa, come nel caso in cui il concordato sia stato approvato dai creditori.
Ad ogni modo, attraverso questo innovativo, quanto anomalo, modo di accedere al giudizio di omologazione su istanza del debitore (della cui portata si è detto in precedenza), in mancanza di approvazione, viene introdotto nel sistema nazionale la c.d. ristrutturazione trasversale disciplinata dall’art. 11 della direttiva insolvency, del quale l’art. 112 comma 2 ne fa una fedele trasposizione. Pertanto, all’esito del giudizio, il tribunale, ove riscontri la ricorrenza delle condizioni di cui alle lett. a), b) e c) del secondo comma dell’art. 112 (che riguardano il trattamento riservato ai creditori), “omologa altresì”- ossia deve omologare anche in caso di mancata approvazione da parte della unanimità delle classi - il concordato qualora “la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, che la proposta sia approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione” (lett. d). 
Questa previsione contempla due fattispecie. In primo luogo, l’omologa del concordato in continuità è egualmente conseguibile, pur in caso di mancata approvazione in tutte le classi, qualora la proposta sia stata approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione. 
Come si vede, saltata, in questa fattispecie, l’esigenza del consenso in tutte le classi, diventa sufficiente che la maggioranza dei crediti ammessi al voto o dei due terzi dei votanti sia raggiunta nel maggior numero di classi, di modo che basta, quale primo passaggio, che la proposta sia approvata dalla maggioranza numerica delle classi, indipendentemente dal valore dei crediti in esse inclusi dal momento che ciò che conta è il risultato del voto in ciascuna classe al fine di stabilire se quella classe è favorevole o contraria, ma manca qualsiasi riferimento alla massa complessiva dei crediti ammessi al voto.
 “A differenza di quanto avviene nel concordato liquidatorio- scrive in modo esemplare D’Attorre[12]- la mancanza di una doppia maggioranza (per crediti e per classi) determina la possibilità di un disallineamento tra le due, con la conseguenza che vi potrebbe essere maggioranza di classi favorevoli e minoranza di crediti ammessi al voto favorevoli (o di crediti votanti favorevoli), così come - al contrario - vi potrebbe essere minoranza di classi favorevoli e maggioranza di crediti ammessi al voto favorevoli (o di crediti votanti favorevoli). In ambedue i casi, rilievo normativo è riconosciuto solo al calcolo del voto delle classi, non a quello dei crediti complessivamente ammessi al voto o votanti”. In sostanza, “l'esigenza che sia la maggioranza delle classi ad approvare il concordato non assicura in alcun modo che ciò corrisponda all'espressione di un consenso realmente maggioritario dei creditori, posto che le classi approvanti potrebbero anche essere rappresentative di una percentuale minima del passivo”[13].
Ricorrendo questa condizione di base, si richiede, inoltre, per quanto riguarda il voto che almeno una delle classi che abbia votato favorevolmente sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione ammessi al voto. Di conseguenza, il concordato in continuità, per il quale rimane obbligatoria la formazione delle classi, può essere omologato qualora sia stato approvato da due classi su tre, o da tre su cinque e così via, anche se i crediti inclusi nelle classi favorevoli siano inferiori a quelli che compongono le classi dissenzienti, purchè almeno una classe favorevole sia costituita da creditori privilegiati. 
Quanto un meccanismo del genere si presti a strumentalizzazioni è stato già chiaramente evidenziato in dottrina quando è stato sottolineato che “il debitore può allocare in una classe (anche molto folta) - pur nel rispetto del principio della omogeneità degli interessi - i creditori riottosi e superare il loro voto contrario allocando nelle altre classi i creditori favorevoli purché queste classi siano la prevalenza. Poiché si è sempre ritenuto che sia legittimo formare la c.d. monoclasse, il debitore potrebbe inserire in una classe un creditore privilegiato (degradato ma votante per la parte capiente) e con il consenso di questa classe e di altre minoritarie rendere irrilevante il dissenso della classe maggioritaria”[14].
La lett. d) del secondo comma dell’art. 112 continua aggiungendo che il tribunale può procedere all’omologazione anche quando “in mancanza, la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”. Formulazione alquanto oscura, in primo luogo circa il significato da attribuire alla locuzione “in mancanza”, che pone il dubbio se essa è riferita all’intera fattispecie prevista nella prima parte della norma della mancata approvazione della proposta da parte della maggioranza delle classi (come a dire che, anche nel caso in cui la proposta abbia ottenuto la maggioranza di una sola classe il concordato può essere egualmente omologato purchè la proposta sia approvata dalla classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti …..), oppure se è riferita alla mancanza di classi costituite da creditori con prelazione o comunque di approvazione da parte di una di queste classi, nel qual caso sarebbe comunque necessario aver conseguito la maggioranza numerica tra le classi. 
Parte della dottrina[15] e la giurisprudenza, almeno nel primo intervento sul tema a me noto[16], è dell’idea che “tutti i canoni ermeneutici convergono nel confermare l’interpretazione secondo cui nel concordato in continuità aziendale per giungere all’omologazione non è necessario il voto favorevole della maggioranza delle classi, ma è sufficiente il voto favorevole di una sola classe o comunque di una minoranza di classi”. Interpretazione non da tutti condivisa[17], tuttavia, a mio avviso, sembra insuperabile l’argomentazione della conformità di tale lettura al dettato dell’art. 11 della direttiva insolvency il cui significato, già chiaro nell’affermare che la proposta di concordato è approvata dalla “maggioranza delle classi … oppure, in mancanza, la proposta è approvata da almeno una classe …” è ulteriormente esplicitato nel considerando n. 54, che, dopo aver preso in considerazione nel precedente considerando la prima fattispecie in precedenza esaminata, presenta il seguente incipit: “Qualora una maggioranza delle classi non sostenga il piano di ristrutturazione, dovrebbe essere possibile che il piano possa comunque essere omologato da almeno una classe di creditori interessati o che subiscono un pregiudizio ….”.
E’ vero che il diritto unionale non impone agli Stati membri questa soluzione consentendo di “aumentare il numero minimo delle classi di parti interessate”, purché non si addivenga alla pretesa di imporne l'unanimità[18], ma, nel momento in cui si tratta di interpretare una locuzione testualmente ripresa dall’art. 11 dalla Direttiva (“in mancanza”), sembra logico dedurne che il legislatore italiano abbia scelto il principio posto dall’art. 11 di consentire l’omologazione del piano di ristrutturazione approvato solo da una classe o da una minoranza di classi, senza usufruire della possibilità di scelta che la Direttiva permetteva, altrimenti avrebbe utilizzato un diverso linguaggio, come accaduto in Germania ove il legislatore in modo inequivoco ha richiesto la necessità del voto favorevole della maggioranza delle classi (art. 26 Abs. 1 Nr. 3. StaRUG). e, quanto meno nella Relazione accompagnatoria al D.Lgs. n. 83 del 2022, che sul punto tace, avrebbe dato atto della diversa strada seguita e spiegato le ragioni di tale opzione.
L’interpretazione proposta appare peraltro in armonia con un sistema che non pone soglie minime al valore complessivo dei crediti rappresentati nelle singole classi, perché, come in precedenza detto, pur quando è richiesta la maggioranza numerica delle classi (prima parte della lett. d) questa non implica il consenso realmente maggioritario dei creditori, sicché in un sistema del genere, che svuota il valore dei crediti che contribuiscono a formare la maggioranza per considerare sufficiente una maggioranza solo numerica delle classi- che già di per sé assesta un colpo mortale al principio maggioritario- ben si inserisce la previsione subordinata che possa farsi a meno anche della maggioranza numerica delle classi.
Non è questa la sede per approfondire questa tematica, qui interessa sottolineare che secondo parte della dottrina e del primo intervento giurisprudenziale (che condivido) il concordato può essere omologato se la proposta sia stata approvata da almeno una classe di creditori che nel concordato venga trattata in maniera deteriore, in termini di pregiudizio, rispetto alla soddisfazione che otterrebbe nell’ipotesi della liquidazione giudiziale rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione. Quello che Fabiani chiama il creditore svantaggiato, il quale, benché maltrattato, nel concordato vota a favore, da cui il legislatore deduce che allora il concordato può essere, comunque, omologato pur contro la volontà espressa (e non presunta dal silenzio) della maggioranza, sempre che ricorrano le altre condizioni di cui al comma 2, lett. a), b) e c) dell’art. 112.
Il rischio che possa essere approvato un concordato che abbia ricevuto il voto favorevole solo di una minoranza di crediti è implicito nella scelta legislativa di superare nei concordati in continuità il metodo di calcolare le maggioranze sul monte complessivo dei crediti ammessi al voto. Ed infatti, come visto, tenendo conto solo dei votanti, può essere sufficiente per l’approvazione il consenso in ciascuna classe di terzo del complesso dei crediti, ma la caratteristica della ristrutturazione trasversale non è quella di neutralizzare il silenzio facendo prevalere la volontà di chi si esprime sull’inerzia, ma di attribuire prevalenza ad una minoranza sull’opinione contraria (non presunta, ma) manifestata dalla maggioranza degli altri creditori, posto che il voto favorevole della maggioranza numerica delle classi o di una minoranza di classi o anche di una sola- indipendentemente dalla entità dei crediti che esse comprendono e del numero dei creditori in esse inclusi- prevale sul voto negativo espresso dalla maggioranza dei crediti ammessi al voto; in tal modo, la libertà concessa al debitore di regolare la sua crisi non trova più come contrappeso la volontà dei creditori chiamati a valutare se ed in quale misura la proposta sia per loro appetibile, eppure il concordato una volta omologato continua ad essere, come precisa il primo comma dell’art. 117, “obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso”.
Non vi è dubbio che il nostro legislatore si è trovato ad adottare una direttiva che pone questi principi (seppur, come detto, poteva anche fare altre scelte), ma, nel cercare di spiegare il fenomeno, diventa davvero impervio sostenere che l’esercizio della continuità sia volta a generare flussi di cassa adeguati a realizzare la complessiva ristrutturazione dell’impresa e, contestualmente, la soddisfazione dei creditori, quale valore paritetico al primo, dal momento che la proposta (ed il relativo piano) non richiede più il consenso dei creditori identificato in una maggioranza.
Del resto, quando si contrappone all’interesse dei creditori un approccio alle procedure concorsuali etico, solidaristico e socialmente responsabile o si fa appello a quegli aspetti compendiati nella triade “ambiente, società, governance“ (indicati con l’acronimo ESG, environment, society, governance) per supportare e dare superiore dignità alla opzione del sostenibilità dell’impresa in crisi sul mercato quale soluzione più adeguata per conservare valore dell’impresa in crisi, si ammette, in via aprioristica e ideologica, che lo scopo della procedure concorsuali non è più la ricerca di un equilibrio tra la realizzazione della responsabilità patrimoniale del debitore e l’interesse sovraordinato del contenimento della crisi identificato nella tutela della massa dei creditori, bensì la realizzazione del valore sovraordinato della continuità, non più indirizzata al miglior soddisfacimento dei creditori ma finalizzata alla sopravvivenza di se stessa, quale mezzo di superamento della crisi e, in via mediata, quale forma di sostenibilità ambientale, sanitaria, sociale e così via; ed è evidente che, in questa ottica, il concordato non ha più bisogno del consenso dei creditori in quanto valore collettivo da perseguire comunque in nome dei valori etici richiamati.
Ed allora, anche il giudizio di omologazione non è più il luogo di conciliazione del rapporto tra il principio maggioritario e tutela dei creditori dissenzienti o silenti, non è più il luogo per “consentire, con la sentenza di omologazione, che tutti gli effetti dell’accordo stipulato fra il debitore e la maggioranza dei creditori si estendano ai terzi”, ma è lo strumento che, valorizzando la volontà espressa da una o poche classi che inglobano una quota minoritaria, in ipotesi anche infinitesimale di crediti rispetto all’ammontare di quelli ammessi al voto, ratifica la supremazia della minoranza. 
Rimane però una domanda: chi paga questo approccio etico alla gestione della crisi? E la risposta è semplice: a pagare sono i creditori, i quali non solo vengono, come è ovvio, a risentire della incapacità del debitore a far fronte alle proprie obbligazioni subendo la ristrutturazione dei propri crediti, ma, essendo estraniati dal percorso che il debitore sceglie per realizzare la propria ristrutturazione, devono accettare, passivi e inermi, le scelte di costui, anche se ritenute pregiudizievoli. 
A questo punto rimane da chiedersi se ha ancora senso parlare di concordato, che evoca una composizione negoziale basata sull’incontro di volontà che si manifesta con il voto, col quale la maggioranza accetta la proposta del debitore vincolando, proprio perché espressione della volontà maggioritaria, anche la minoranza dissenziente o silente; ed ancora, vista l’evaporazione della tutela del credito e la prevalenza assunta dalla conservazione dell’impresa allo scopo del suo risanamento, bisognerebbe anche fare un ripensamento sul mantenimento dell’amministrazione straordinaria.
6 . La tutela dei creditori per difendersi dall’applicazione della ristrutturazione trasversale
A ben vedere, le critiche mosse dai sostenitori della tesi che sia necessaria l’approvazione della maggioranza delle classi anche nell’ipotesi subordinata della lett. d) del secondo comma dell’art. 112, sono dettate, più che da verifiche esegetiche, dalla preoccupazione di snaturare l’istituto del concordato non essendo più l’autonomia negoziale che individua la soluzione più idonea ad affrontare la situazione di crisi. 
In effetti è proprio così dal momento che, al di là che l’omologa possa essere giustificata dal consenso di una sola classe svantaggiata, rimane il fatto che, come visto, nella ristrutturazione trasversale anche l’approvazione della maggioranza numerica delle classi non è espressione di un consenso realmente maggioritario dei crediti; sicchè non resta che prenderne atto di questo nuovo fenomeno cercando di capire come una proposta concordataria in continuità approvata da una minoranza, addirittura sparuta numericamente e quantitativamente insignificante, possa vincolare la stragrande maggioranza dei creditori, che può essere costituita non solo da creditori che si siano disinteressati della procedura ma anche da creditori che abbiano manifestato voto contrario, e, prima ancora, perché, in queste condizioni, si richieda ancora una votazione, che appare del tutto inutile dal momento che il voto contrario, anche se largamente maggioritario non è idoneo a bloccare l’omologazione.
Il voto dei singoli creditori- si è detto-[19] non è più funzionale all’approvazione o meno della proposta, ma svolge la diversa funzione di consentire l’esercizio o meno di snaturare l’istituto del concordato del diritto di veto dei creditori rispetto all’omologazione, nel senso che solo se in tutte le classi i creditori esprimono il veto la proposta non può essere sottoposta al vaglio di omologazione del tribunale, e, allo stesso tempo, di permettere ai creditori attraverso il loro dissenso, di beneficiare della possibilità di proporre opposizione all’omologazione per contestare il difetto di convenienza.
Questa acuta osservazione, che segna il passaggio dal diritto di voto al diritto di veto, è più la constatazione di una realtà che la spiegazione di un fenomeno.
È vero, infatti, che il giudizio di omologa non si apre soltanto se in nessuna classe siano state raggiunte le maggioranze previste dalla prima parte del quinto comma dell’art. 109[20], ma rimane il problema di come e se venga tutelato l’interesse dei creditori qualora non ci sia stato il veto o un voto negativo in tutte le classi ma almeno la maggioranza numerica delle stesse classi o anche una sola classe abbia votato favorevolmente aprendo la strada alla ristrutturazione trasversale.
Il legislatore ha risolto il problema proiettando la tutela dei creditori dalla fase della votazione a quella dell’omologazione, per cui il mantenimento della votazione serve a restringere l’opposizione ai creditori dissenzienti. Il ragionamento sottostante è abbastanza evidente: i diritti dei creditori, nonostante l’irrilevanza del loro voto contrario, non sono pregiudicati in quanto il debitore è tenuto comunque a “riconoscere a ciascun creditore un trattamento non inferiore a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale” (art. 87, comma 3) ed è concessa ai dissenzienti la possibilità di far valere la lesione di tale rapporto avanti al tribunale in sede di opposizione (art. 112, comma 3)[21].
Il principio posto dal terzo comma dell’art. 87 conferma quanto detto fin dall’inizio, che il nuovo concordato non richiede più il soddisfacimento dei creditori in misura più elevata rispetto a quella della liquidazione giudiziale, ma soltanto non inferiore e, quindi, anche nella stessa misura raggiungibile con la liquidazione giudiziale. 
Per nulla convincente è, invece, il principio presupposto dal comma terzo dell’art. 112 della sostanziale equiparazione tra manifestazione del voto e opposizione all’omologazione; non è, infatti, la stessa cosa dare valore al voto in sede di calcolo delle maggioranze, ove l’espressione del voto è gratuita e immediata, e consentire l’opposizione, che richiede l’assistenza di un legale e una iniziativa che, come l’esperienza insegna, prendono normalmente i c.d. creditori forti (banche, quelli istituzionali e quelli titolari di crediti di un certo spessore). 
Inoltre l’opposizione ha un oggetto limitato alla mancanza di convenienza della proposta cui segue un cram down che tiene conto soltanto della soddisfazione che quantitativamente quel creditore potrebbe ottenere nella liquidazione giudiziale, nel mentre il voto, sia esso favorevole che contrario, può essere espresso per le motivazioni più varie, pur sempre di carattere economico, e che non debbono essere spiegate; il creditore che ha bisogno di liquidità ha ben diritto di votare contro[22] una proposta che preveda un pagamento dilazionato, seppur con interessi, ma questa scelta non riceverà alcuna tutela in sede di omologazione ove la proposta sia ritenuta quantitativamente preferibile a quanto ricavabile dalla liquidazione giudiziale, dal momento che i motivi che, a parità di condizione tra offerta concordataria e liquidazione giudiziale, hanno spinto il creditore a votare contro diventano irrilevanti (oltre che difficilmente documentabili). Del resto, l’introduzione nel terzo comma dell’art. 112 del principio del soddisfacimento dei creditori “in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”, ove l’uso dell’aggettivo “inferiore” indica una comparazione di maggioranza tra valori da misurare, fa capire che con l’eccezione di inconvenienza il creditore può lamentare soltanto di ricevere un trattamento quantitativamente inferiore a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale.
Per di più, un creditore può essere indotto ad esprimere voto contrario perché ritiene la proposta concordataria non conveniente nel suo insieme, indipendentemente dal trattamento a lui personalmente riservato, ma una eccezione sulla convenienza che coinvolga non (o non solo) il creditore che la sollevi, bensì il difetto di convenienza del concordato per l’intera massa dei creditori, fuoriuscirebbe dal perimetro dell’indagine del tribunale, che rimane comunque ancorato alla sola valutazione del confronto fra il soddisfacimento raggiungibile da ciascun creditore che opponga la non convenienza e quello possibile attraverso l’alternativa della liquidazione giudiziale, avendo l’art. 112, comma 3, relegato il test di convenienza ad un apprezzamento riferito non all’intero ceto creditorio ma unicamente al confronto fra il soddisfacimento raggiungibile con il concordato da ciascun creditore opponente e quello possibile attraverso l’alternativa della liquidazione giudiziale.
E’ pur vero che la convenienza per i creditori è considerata tra i principi generali di cui alla lett. c) del secondo comma dell’art. 7, ma si tratta di un richiamo non pertinente e, comunque, poco significativo. Invero, l’art. 7 detta non un principio sostanziale di carattere generale secondo cui il concordato debba essere conveniente per i creditori, ma una regola processuale (la rubrica della Sez. III, del Capo II del Titolo primo, in cui è inserito l’art. 7, ha come rubrica “Principi di carattere processuale”) che ha lo scopo di fissare un criterio di preferenza delle domande di accesso agli strumenti di regolamentazione della crisi e dell’insolvenza rispetto a quelle di accesso alle procedure di insolvenza, nel senso che “nel caso di proposizione di più domande, il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l'insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, a condizione che: a) …, b …. c)-nella proposta siano espressamente indicate la convenienza per i creditori o, in caso di concordato in continuità aziendale, le ragioni della assenza di pregiudizio per i creditori”.
Come si vede, la norma non riguarda il giudizio di omologa e il controllo che il tribunale svolge in quella sede, ma attiene al contenuto della domanda del debitore, la quale deve indicare le ragioni per le quali la proposta di concordato in continuità non è pregiudizievole per i creditori, in modo che il tribunale possa preferirla nel concorso di più domande anche con finalità diverse; nulla di più di quanto detto fin dall’inizio e, cioè che, alla luce della nuova continuità, è sufficiente che la proposta concordataria realizzi “il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale” (art. 84, comma 1), che è diventato l’unico parametro della tutela dell’interesse dei creditori.
Ancor meno significativo è il richiamo della previsione del terzo comma dell’art. 84, lì dove richiede che a ciascun creditore sia assicurata un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile. Anche in questo caso la norma non dà rilievo alla valutazione che gli interessati fanno, attraverso il voto, della utilità che viene loro attribuita né ad una valutazione del tribunale, i cui compiti, in sede di omologa sono ben delineati e precisati dal primo comma dell’art. 112, ma prende in considerazione la proposta del debitore che deve prevedere una utilità per ciascun creditore; obbligo questo che, nella mancanza di una norma che assicuri nel concordato in continuità un quantum minimo di soddisfazione, finisce soltanto per ampliare ancor più il margine di libertà dato al debitore di organizzare la sua crisi attribuendo ai creditori, invece che danaro, altre utilità da lui individuate. E’ del tutto evidente, infatti, che nell’assenza di una soglia minima di soddisfazione per i creditori, anche per la categoria dei chirografari, l’utilità per costoro diventa del tutto evanescente non dovendo essere adeguata alla previsione del raggiungimento di un traguardo prefissato dalla legge; se, infatti, non esiste la necessità di assicurare ai chirografari il pagamento del 20%, come nei concordati liquidatori, il debitore può promettere qualsiasi percentuale, anche irrisoria se i beni ceduti non consentono di meglio e, quindi, anche l’utilità per i creditori non può che essere parametrata su queste unità di misura, di modo che la prosecuzione di un rapporto giuridico o anche “il beneficio immediato degli scarichi fiscali”[23], a fronte della dimostrata insoddisfazione del credito, possono diventare una utilità vantaggiosa; salvo poi a stabilire come l’effettiva utilità che la proposta può apportare a determinati creditori possa essere valorizzata dal tribunale, trattandosi di un vantaggio quanto mai personale che, seppur certo ed economicamente valutabile in astratto, è difficilmente determinabile in concreto a causa delle ricadute sull’intera sfera personale del creditore, ignota al tribunale.
Ed ancora, attraverso il voto, i creditori esprimono una valutazione non solo sulla convenienza in punto di tempi e misura di soddisfazione, ma anche sulla probabilità di soddisfazione delle rispettive ragioni, ossia sulla fattibilità economica; tuttavia nella versione definitiva del CCII, il riscritto art. 47 ha ripreso nel comma primo lett. b) la formula secondo cui, in caso di concordato in continuità, il tribunale, ai fini dell’ammissione, verifica che il piano non sia “manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali” e, a sua volta, l’art. 112, comma 1, lett. g) dispone che in sede di omologazione il tribunale verifica “in ogni altro caso, la fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati”, per cui un esame completo della fattibilità economica del concordato non può essere oggetto di esame del tribunale[24]. 
Peraltro la sottrazione al giudice della verifica della fattibilità economica trova spiegazione proprio nel fatto che essa, come quella sulla convenienza, è affidata ai creditori, e non vi è ragione per cui la valutazione degli interessi economici dei creditori debba essere attribuita al giudizio eteronimo dell’organo giudiziario, a meno che i creditori non possano esprimersi con il voto; ed infatti nella disciplina del concordato semplificato, ove non è contemplato il voto dei creditori, l’accertamento della fattibilità del piano, come quello della convenienza (declinato nella formula della mancanza di pregiudizio), è stato demandato al tribunale (art. 25 sexies, comma 5). Nel concordato in continuità, si concede ai creditori la possibilità di votare per esprimersi sulla convenienza e fattibilità, tanto che la proposta è inammissibile solo “se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali” (art. 47, comma 1) proprio perché è compito dei creditori valutare con l’espressione del voto le prospettive di soddisfazione collegate alla conservazione dei valori aziendali attraverso la continuità[25]; tuttavia nella ristrutturazione trasversale la volontà manifestata dalla maggioranza dei creditori e delle classi può diventare insignificante. In sostanza, l’art. 112 concede al tribunale in sede di omologa la possibilità di verificare soltanto (per quanto qui di interesse) che “il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza” (art. 112, comma 1, lett. f) e che il piano non sia manifestamente inidoneo a raggiungere gli obiettivi prefissati (art. 112, comma 1, lett. g) sul presupposto inesistente (o che comunque può mancare), che una verifica del genere sia stata eseguita dai creditori attraverso il voto.
In questa terra di mezzo, si può dire che, paradossalmente, gli interessi dei creditori sono più e meglio tutelati nel concordato semplificato, ove, in mancanza di votazione, la tutela del ceto creditorio è rimessa in via esclusiva alla eterotutela del tribunale, dovendo l'autorità giudiziaria verificare l'assenza di pregiudizio per il ceto creditorio e la piena fattibilità del piano, che, nel concordato in continuità, ove una minoranza anche sparuta può prevalere sulla maggioranza sotto l’occhio indifferente dell’autorità giudiziaria che, ricorrendo le altre condizioni di cui al secondo comma dell’art. 112, non può fare a meno di omologare il concordato.
Infine, da ultimo quale fenomeno cronologico ma non ultimo per importanza, il percorso del creditore che si sobbarca alle spese dell’opposizione e, non contento della sentenza di omologa, propone gravame, può concludersi con una beffa in quanto, pur se viene riconosciuto che effettivamente la proposta concordataria non è per lui conveniente né gli attribuisce alcuna utilità, la Corte d’Appello può egualmente omologare il concordato in continuità “se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno” (art. 53, comma 5 bis)[26]. 
Lo scopo della norma è chiaramente quello di evitare che, a fronte di un consenso generalizzato dei creditori alla continuazione dell’attività, (interesse implicito per i lavoratori), devono cedere le pur fondate ragioni di non convenienza del singolo, che vengono tacitate con il risarcimento del danno; tuttavia, la genericità della formula utilizzata, priva di qualsiasi indicazione idonea ad individuare quale sia l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevalente su quello del singolo, lascia alla Corte d’Appello la discrezionalità di applicare la stessa norma anche nel caso della ristrutturazione trasversale. Se, infatti, si dà rilievo alla volontà di una classe contro quella di tutte le altre dissenzienti, vuol dire che la scelta della classe consenziente in tanto giustifica l’omologa in quanto risponde all’interesse generale della prosecuzione dell’attività, per cui non può che prevalere sull’interesse del singolo. In sostanza la disposizione inserita nell’art. 53, applicata al concordato in continuità in aggiunta alla ristrutturazione trasversale, pone una finta condizione in quanto, se il fantomatico e non individuato interesse generale di un gruppo può essere costituito anche dalla opzione espressa da una sola classe, l’interesse del singolo non può che soccombere sempre, anche quando l’omologa sia pronunciata per effetto del cross class cram down.
In cambio, al creditore dissenziente e opponente vincitore viene attribuito un diritto al risarcimento del danno, che dovrebbe coprire la differenza tra il trattamento promesso e quello che quel creditore riceverebbe nella liquidazione giudiziale; il che pone l’ulteriore problema di capire quando, con quale collocazione e con quali disponibilità il debitore debba far fronte a tale aggravio di spesa, che potrebbe anche essere consistente, specie se sono più i creditori che si trovano in questa situazione, tanto da dover pensare che, al momento della presentazione della proposta concordataria, bisognerà, a pena di inammissibilità, approntare un fondo rischi anche per fronteggiare questa evenienza.
7 . La continuità tutelata prevalente sui diritti dei creditori
A conclusione del discorso fin qui svolto si capisce come non si possa giustificare l’irrilevanza del voto dissenziente con la concessione del diritto alla opposizione per far valere il difetto di convenienza, non essendo i due strumenti (il voto e l’opposizione all’omologa) sullo stesso piano, né dal punto di vista economico né da quello della efficacia del mezzo di tutela e difesa rispetto alla prevalenza della minoranza, né accampando utilità sostitutive equivalenti alla soddisfazione. Ed allora l’unica giustificazione del nuovo sistema rimane la difesa della continuità di impresa che l’autonomia negoziale- non importa se risultante dal consenso della maggioranza o della minoranza (anche quantitativamente insignificante) dei creditori ammessi al voto- ha individuato quale la soluzione più idonea ad affrontare la situazione di squilibrio, per cui il mantenimento dell’impresa in attività diventa il fine della procedura concordataria, cui piegare e subordinare gli interessi dei creditori silenti o dissenzienti. 
A questo punto allora diventa importante chiedersi quale continuità tutela il legislatore.
L’art. 84, nella sua originaria versione, poneva come primario criterio differenziatore tra continuità e liquidazione il principio della prevalenza quantitativa, basato sul raffronto, al momento del soddisfacimento dei creditori, tra le risorse provenienti rispettivamente dalla prosecuzione dell'attività e dalla liquidazione dei beni, in conformità della giurisprudenza di merito maggioritaria formatasi nel vigore della legge fallimentare[27]. “Nel concordato in continuità aziendale- era l’incipit del terzo comma dell’art. 84- i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta”, lasciando intendere che, invece, nei concordati liquidatori, i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla liquidazione dei beni, sicché, sotto il profilo qualificatorio, erano da considerare concordati in continuità quelli in cui le risorse utilizzate per la soddisfazione dei creditori provenivano in misura prevalente dalla continuità aziendale, e liquidatori quelli in cui tali risorse provenivano dalla liquidazione dei beni.
Il legislatore, ben conscio del travaglio interpretativo sul concetto di prevalenza intorno alla figura di quei concordati c.d. misti, che prevedono la prosecuzione dell'attività aziendale mediante l'utilizzazione di una parte soltanto del complesso aziendale, con previsione di una liquidazione dell'altra parte, una volta posto a base della distinzione il criterio della prevalenza, aveva fissato i criteri per misurarla, offrendo un metro per determinare a quali condizioni ciò che resta e prosegue dell'azienda (e inversamente l'attività liquidatoria prevista nel piano) possa essere considerata tale da configurare un'effettiva continuità e imporre la qualificazione come tale del concordato proposto, con conseguente applicazione delle regole peculiari alla fattispecie. E ciò aveva fatto introducendo, nel terzo comma dell’art. 84, dopo la codificazione del principio della prevalenza sotto il profilo esclusivamente quantitativo, anche un criterio qualitativo, che era la parte più interessante e caratterizzante della norma, che operava in chiave funzionale in modo da valorizzare la conservazione del valore dell’azienda, favorendo contemporaneamente la prosecuzione dell’attività d’impresa e la salvaguardia dei livelli occupazionali. Infatti la norma in esame aggiungeva (nella versione rivisitata dal decreto correttivo) che “La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso”; ove l’inserimento dell’avverbio “sempre” faceva capire che la prevalenza doveva ritenersi in ogni caso sussistente, in via assoluta, quando ricorrevano le indicate condizioni, senza possibilità di prova contraria.
Per la verità questa normativa presentava non poche criticità, sulle quali è superfluo soffermarsi in quanto il D.Lgs n. 83 del 2022, nel riscrivere il testo dell’art. 84 ha abolito il concetto della prevalenza prevedendo espressamente nel terzo comma che “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità, eliminando, contestualmente, anche gli altri obblighi previsti a carico debitore e del terzo di mantenimento o riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno alla metà della media di quelli in forza nei due anni precedenti al deposito del ricorso.
E’ stato, in tal modo, accolto quell’indirizzo giurisprudenziale[28] che, nel vigore della legge fallimentare, ha ritenuto il criterio della “prevalenza” fuorviante ed inapplicabile perché è sempre prevalente la disciplina dettata dall’art. 186 bis rispetto a quella dettata dall’art. 182, ogni qual volta, in pendenza di procedura di concordato, vi sia esercizio dell'attività di impresa e tale esercizio divenga parte del piano, avendo il legislatore, all’interno della prima disposizione espressamente previsto la possibilità di liquidare i beni non funzionali alla prosecuzione dell’attività d’impresa, che diventa, quindi, una modalità liquidatoria comunque “secondaria” e servente rispetto al profilo della continuità aziendale, altrimenti avrebbe posto un vincolo di destinazione sul ricavato delle vendite e stabilito un criterio di prevalenza, che invece manca. Tesi che ha trovato definitivo e specifico riconoscimento in un intervento della S. Corte[29], per la quale “Il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dalla L. fall., art. 186 bis, che al comma 1 espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori”.
Di conseguenza, il rapporto tra la componente liquidatoria e quella continuativa dell’attività aziendale viene risolto a monte dal legislatore, non già in termini di prevalenza quantitativa dell’una o dell’altra componente, bensì in termini di funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell'attività, in uno scenario concordatario diretto al superamento della crisi di impresa, ove anche la distinzione fra continuità diretta e indiretta è segnata esclusivamente dal ruolo attribuito al debitore nella prosecuzione dell’impresa. 
In uno scenario del genere, il controllo del tribunale è limitato alla verifica che vi sia una reale, e non solo figurativa, prosecuzione dell’attività economica, tale da consentire la riconduzione dello strumento scelto nell’ambito del concordato in continuità. Controllo che ha margini ancor più contenuti in caso di continuità indiretta, ove ciò che il giudice può verificare è solo ”la rispondenza del mezzo (affitto o titolo tipico o atipico) utilizzato in funzione del cambio gestorio all’obiettivo di evitare una perdita d’efficienza della realtà produttiva o di preservarne al meglio il valore intrinseco nella prospettiva di un definitivo passaggio a terzi o della retrocessione in capo all’imprenditore in concordato”[30]. Non è più previsto, tuttavia, a differenza della precedente versione dell’art. 84, un obbligo del soggetto che prosegua- come cessionario, affittuario, usufruttuario o conferitario dell’azienda- l'attività dell'imprenditore in concordato di continuare l’esercizio dell’impresa e di mantenere o riassumere un certo numero di lavoratori per un certo periodo, di modo che la continuazione indiretta dell’attività da parte del terzo avviene non nell'ottica della ricollocazione sul mercato della azienda affinchè un nuovo imprenditore possa proseguire l’attività imprenditoriale utilizzando il complesso aziendale acquistato dopo averlo opportunamente riorganizzato, ma costituisce solo uno strumento di mantenimento dei valori aziendali nella prospettiva (o speranza) che il risanamento dell’attività produttiva sia attuato attraverso un mutamento della titolarità dell'impresa. 
Insomma, escluse le ipotesi in cui il piano programmatico nasconda un rilevabile itinerario meramente dismissivo-liquidatorio, il concetto di continuità, svincolato dalla prevalenza, comprende ogni ipotesi in cui il soddisfo dei creditori discenda, anche e indipendentemente dalla misura, dalla prosecuzione dell'attività aziendale in quanto, ora, la fattispecie del concordato con continuità aziendale è qualificata dalla mera prosecuzione dell'attività di impresa quale mezzo di attuazione del piano concordatario; di conseguenza, il sistema di votazione e maggioranze di cui al quinto comma dell’art. 109 e il meccanismo di cui alla lett. d) del secondo comma dell’art. 112, con la recessione dei diritti dei creditori al livello che si è cercato di dire, si applicano anche a quei concordati in cui la gran parte della soddisfazione dei creditori è data dal valore di liquidazione e una minima parte derivi dai proventi della continuità. 
A sua volta la prevalenza, scomparsa come criterio definitorio della natura del concordato, ritorna dal concordato di gruppo, ove l’art. 285, comma 1, prevede che nel caso di liquidazione in alcune imprese e di continuazione di altre si applica all'intera procedura di gruppo la disciplina del concordato in continuità quando risulta che il soddisfo tratto dai flussi complessivi derivanti dalla continuità diretta o indiretta prevale su quello tratto dai flussi complessivi derivanti dalla liquidazione; di modo che, posto che il comma 4-bis statuisce che, in tal caso, “il tribunale omologa il concordato secondo quanto previsto dall’art. 112, commi 2, 3 e 4”, se ne deduce che anche per i concordati liquidatori presentati da alcune imprese del gruppo trova applicazione la disciplina dei concordati in continuità, compresa quella di cui agli artt. 109, comma quinto, e 112 comma secondo, per effetto della prevalenza.
E così il complesso organizzativo ideato dal nuovo legislatore consente:
a-che concordati qualificabili in continuità, ma in cui il ricavo maggiore e preponderante è dato dalla liquidazione dei beni, siano approvati secondo le regole di cui al comma quinto dettate a tutela della continuità;
b-che le stesse regole siano applicate a concordati qualificati come liquidatori ma inseriti nell’ambito del gruppo ove i flussi complessivi derivanti dalla continuità prevalgano su quelli derivanti dalla liquidazione;
c-che concordati con effettive caratteristiche prevalenti o anche esclusive di continuità siano scelti, in caso di proposte plurime, con le maggioranze dettate per i concordati liquidatori dal primo comma dell’art. 109.
Non è un risultato molto coerente. Forse, piuttosto che enfatizzare questa continuità ritrovata, bisognerebbe andare alla ricerca della continuità perduta, in cui inserire, pur nel contesto di un concorso dinamico, un maggiore coinvolgimento dei creditori per la realizzazione di quei crediti il cui mancato pagamento ha determinato il ricorso allo strumento di regolamentazione della crisi, altrimenti si trasformano, come ho cercato di dimostrare essere accaduto, la crisi e l’insolvenza, da presupposti per aprire il concorso per la soddisfazione dei creditori, in un mezzo per la conservazione dell’impresa, anche se osteggiato dalla maggioranza dei creditori che avrebbe preferito l’apertura della liquidazione giudiziale; senza accorgersi che la salvaguardia a tutti i costi di imprese decotte in nome di una incerta sostenibilità anche sociale, privando le imprese sane del flusso regolare del pagamento dei loro crediti, facilita la proliferazione di altre crisi. 
Circoscrivere la diffusione delle crisi predisponendo strumenti di regolamentazione della stessa più lineari e attenti ai diritti dei creditori, non è anch’esso un valore collettivo da salvaguardare?

Note:

[1] 
G. Terranova, Il concordato 'con continuità aziendale' e i costi dell'intermediazione giuridica, in Dir. Fall. 2013, I, 13.
[2] 
L. Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in Fallimento, 2013, 1223. Sull’argomento, cfr. l’approfondito contributo di A. Rossi, Il migliore soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fallimento, 2017, 637.
[3] 
S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, settembre 2022, in modo esplicito, ma concetto sotteso alle versioni di chi valorizza la continuità quale valore da preservare.
[4] 
Cass. 25 gennaio 2021, n. 1518 in ilcaso.it, febbraio 2021.
[5] 
S. Ambrosini, Piano di ristrutturazione omologato (parte prima): presupposti, requisiti, ambito di applicazione, gestione dell’impresa. e una (non lieve) criticità, in RistrutturazioniAziendali. agosto 2022.
[6] 
Ed è appena il caso di dire che, essendo il richiamo da parte dell’art. 64 bis, comma 7 espressamente rivolto al secondo comma dell’art. 109, che regola la formazione delle maggioranze nelle proposte plurime, non si può escludere l’applicazione della norma per incompatibilità perché tale comma o è compatibile, ed allora ha senso il richiamo, o non lo è ed allora non doveva essere richiamato. Discorso diverso vale per il richiamo dell’art. 90 (contenuto nel comma nono dell’art. 64 bis) che disciplina le proposte concorrenti di concordato; qui il richiamo è all’intera norma per cui possono essere scrutinate le singole parti compatibili; ad esempio è chiaramente incompatibile il comma quinto, per il quale le proposte concorrenti “non sono ammissibili se nella relazione di cui all'articolo 87, comma 2, comma 3 il professionista indipendente attesta che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il trenta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari” (percentuale ridotta la 20% nel caso in cui il debitore abbia utilmente avviato la composizione negoziata ai sensi dell'articolo 13). Poichè questa norma presuppone l’integrale soddisfazione dei creditori prelatizi, la stessa è evidentemente incompatibile in un sistema in cui la proposta ai creditori è svincolata dal valore dei beni, come nel PRO.
[7] 
A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Crisi e Insolvenza nel nuovo codice, a cura di S. Ambrosini, Bologna 2022, 1070.
[8] 
Si è correttamente affermato (S. Ambrosini, Classificazione del ceto creditorio, moratoria dei privilegiati e contenuti del piano e dell’attestazione nel concordato preventivo riformato, in ristrutturazioniaziendali.it, febbraio 2023) che la mancanza di un termine nell’art. 86 “non significa che il piano del debitore possa prevedere una durata ad libitum giacché l’arco temporale della dilazione deve essere compatibile con l’attestabilità del piano, che di regola comporta una durata massima di cinque anni, al di là della quale le previsioni dell’attestatore perdono fatalmente di attendibilità, con conseguente declaratoria di inammissibilità della domanda”. Tuttavia, va anche detto che abbiamo assistito in questi anni ad interpretazioni giurisprudenziali che, pur in presenza della limitazione annuale (poi ampliata a due anni) di cui alla lett. c) del secondo comma dell’art. 186 bis L. fall., non hanno escluso una dilazione maggiore, senza fissarne la durata, con la differenza che qualora il piano preveda una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori privilegiati non è necessario attribuire a questi ultimi diritto di voto, dal momento che l’imprenditore proponente altro non fa che servirsi di una facoltà attribuitagli per legge, nel mentre, nell’ipotesi in cui la moratoria prevista dal piano ecceda il limite temporale sancito dalla legge, sebbene “la norma in esame non si esprima expressis verbis sulla possibilità di una moratoria ultra annuale”. (Cass. 18 giugno 2020, n. 11882, in Fallimento 2021, 349, con nota di Trentini, Ammissibilità del pagamento dilazionato dei creditori privilegiati nel concordato preventivo).
[9] 
Questo nuovo meccanismo crea nuovi problemi in quanto i crediti privilegiati sorgono già congenitamente classati dalla legge in ragione della causa del credito, che determina, attraverso la graduazione, il livello di soddisfazione di ciascuna categoria di privilegiati legati dalla omogeneità della posizione giuridica ed altri sistemi sono dettai dalla legge per fissare la priorità delle altre prelazioni. Sotto questo profilo la libertà del debitore concordatario sembra limitata in quanto, essendo tenuto comunque al rispetto della priorità relativa per la distribuzione degli utili della continuità, non può inserire nella stessa classe creditori con privilegi di rango diversi e, quindi, con posizioni giuridiche diverse, in cui la omogeneità è data solo dal trattamento proposto (come si comincia a prospettare in dottrina, cfr. B. Inzitari, Le mobili frontiere della responsabilità patrimoniale: distribuzione del valore tra creditori e soci nel concordato in continuità secondo la negozialità concorsuale del codice della crisi, in Dirittodellacrisi.it febbraio 2023), altrimenti rimarrebbe violata anche la regola della RPR, che, per la distribuzione del surplus concordatario, consente di pagare i creditori di rango inferiore (secondo la qualificazione del privilegio) inseriti in una classe pur non avendo integralmente soddisfatto quelli di rango superiore inseriti in altra classe, purché a questi ultimi sia attribuito qualcosa in più rispetto ai primi. Limitazione della libertà che è mitigata dal fatto che, non essendo determinato quale sia un trattamento più favorevole, quel qualcosa in più che il debitore deve offrire alla classe prioritaria può sostanziarsi in una utilità di qualsiasi entità, anche consistere in un punto percentuale o in un euro in più; sicché, nella realtà, il rispetto delle regole non limita eccessivamente la libertà del debitore, il quale, del resto, se vuole essere completamente svincolato dal rispetto dell’ordine delle cause di prelazione deve fare riscorso al PRO e non al concordato preventivo.
[10] 
Invero, il nuovo legislatore, pur avendo escluso espressamente dal voto e dal computo delle maggioranze i creditori in conflitto d'interessi (comma sesto, art. 109), ha, ciò nonostante, riprodotto la norma fallimentare che consente che il proponente la proposta alternativa, seppur collocato in una apposita classe, possa esprimere il voto sulla proposta da lui presentata in evidente conflitto di interessi ponendosi come proponente e accettante, nel mentre il debitore che ha avuto accesso al concordato non vota sulla sua proposta non essendo creditore di se stesso; ma vi è di più dal momento che il primo vota anche sulla proposta presentata inizialmente dal debitore, ovviamente esprimendo voto negativo, nel mentre quest’ultimo non vota sulla proposta alternativa (per non parlare delle società collaterali e dei aprenti e affini). In sostanza, dietro il paravento della classazione- che miracolosamente dovrebbe eliminare il conflitto di interessi- la realtà è che il creditore proponente esprime voto favorevole sulla sua proposta e voto negativo sulla proposta del debitore, incidendo pesantemente sull’esito delle votazione in quanto contribuisce, con il peso del credito complessivo di cui dispone (che non può essere per legge inferiore alla quota del 10% del monte crediti) all’approvazione della sua proposta e alla mancata approvazione della concorrente proposta del debitore. Tuttavia questa chiara tendenza favorevole al creditore concorrente, giustificata dalla finalità di massimizzare la recovery dei creditori concordatari, si blocca, come visto, al momento in cui, non essendo raggiunte le maggioranze in tutte le classi, si potrebbe passare alla ristrutturazione trasversale dato che tale passaggio può essere impedito dal mancato consenso del debitore.
[11] 
Il Trib. Roma 20 febbraio 2023, (in Ilfallimentarista.it, maggio 2023, con nota di L. Gambi, Il vaglio del Tribunale in sede di ammissione della proposta di concordato in continuità) concorda sul dato che i controlli previsti dall'art. 47, comma 1, lett. b), ai fini dell'apertura della procedura sono circoscritti alla verifica della ritualità della proposta e della non manifesta inidoneità del piano al raggiungimento dei propri obiettivi, ma ha aggiunto che non è precluso al giudice segnalare al ricorrente aspetti della proposta che appaiano meritevoli di approfondimento, anche in funzione di eventuali modifiche e/o integrazioni alla proposta medesima. Il che non può che essere meritevole, a meno che non si anticipi nella fase dell’ammissione quel giudizioche l’art. 112 riserva alla fase dell’omologa.
[12] 
G. D’Attorre, Dal principio di maggioranza al principio di minoranza, in Fallimento 2023, 304.
[13] 
Frase ripresa da D. Galletti, One class show? Fra illusioni di autonomia negoziale e poteri eteronomi del debitore, in Ilfallimentarista.it, maggio 2023.
[14] 
M. Fabiani, Il diritto diseguale nella concorsualità concordata postmoderna, in Fallimento 2022, 185.
[15] 
G. D’Attorre, Dal principio di maggioranza al principio di minoranza, in Fallimento 2023, 301; F. Aliprandi-A. Turchi, Cross-class cram-down: dubbi interpretativi e prima soluzione giurisprudenziale, in Dirittodellacrisi.it, maggio 2023; M. Fabiani, Il diritto diseguale, cit. 1489; S. Leuzzi, L’omologazione del concordato preventivo in continuità, in Dirittodellacrisi.it, febbraio 2023.
[16] 
Trib. Bergamo 11 aprile 2023, in Dirittodellacrisi.it, maggio 2023.
[17] 
D. Galletti, One class show?... cit.; M. Campobasso, VIII ed., Torino, 2023, 657-658; G. Fichera, Il giudizio di omologazione nei concordati liquidatori e in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, novembre 2022; M. Binelli, L’omologazione del concordato in continuità non approvato, in Dirittodellacrisi.it, dicembre 2022.
[18] 
Lo stesso considerando n. 54, dopo la previsione riportata continua prevedendo che “gli Stati membri dovrebbero poter aumentare il numero delle classi necessarie per l’approvazione del piano, senza necessariamente imporre che tutte queste classi, in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, debbano ricevere un pagamento o mantenere un interesse a norma del diritto nazionale. Tuttavia, gli Stati membri non dovrebbero esigere il consenso di tutte le classi”. Di tale libertà ha approfittato, ad esempio, la Germania, nel mentre in Spagna e nei Paesi Bassi si è optato per la sufficienza del voto favorevole di una minoranza di classi o anche di una sola classe.
[19] 
G. D’Attorre, op. cit., 309.
[20] 
Affermazione, comunque, da verificare nel caso di voto negativo determinate dell’Erario.
[21] 
Bisogna dare atto che il legislatore ha, nella versione definitiva del D.Lgs n. 83 del 2022, eliminato, su suggerimento del Consiglio di Stato, la restrizione posta dal secondo periodo del terzo comma dell’art. 112 nella bozza di decreto legislativo risalente al marzo del 2022, secondo cui “Il creditore che non ha contestato il difetto di convenienza nelle osservazioni formulate ai sensi dell’articolo 107, comma 4, non può proporre l’opposizione di cui al primo periodo se non dimostra che la mancata contestazione è dipesa da causa a lui non imputabile”; disposizione che aveva il chiaro intento di scoraggiare le opposizioni giacché tale possibilità veniva condizionata al dato che il creditore avesse sollevato osservazioni sulla convenienza nel breve termine di cinque giorni, che è lo spazio temporale che corre dal momento in cui sono stati messi a conoscenza delle considerazioni svolte dal commissario nella relazione loro trasmessa (almeno 15 giorni prima della data di inizio delle votazioni) e quello in cui vanno presentate le osservazioni (almeno 10 giorni prima della data di inizio delle votazioni, giusto il disposto dell’art. 107). La stessa restrizione era posta dall’art. 64-bis per il piano di ristrutturazione soggetto ad omologa, ed anche in quella sede è stata eliminata; tuttavia la presenza nel comma primo dell’art. 64 quater della previsione che consente la conversione quando un “creditore ha contestato il difetto di convenienza nelle osservazioni formulate ai sensi dell’art. 107, comma 4”, fa si che una tale tempestiva contestazione non sia più necessaria per proporre opposizione e contestare la convenienza, ma lo diventa indirettamente; quando, infatti, un creditore dissenziente solleverà per la prima volta in sede di opposizione una questione sulla convenienza, il debitore potrà eccepire la inammissibilità della stessa perché la mancata sollevazione tempestiva nei termini di cui all’art. 107 gli ha impedito di poter cambiare il percorso intrapreso e convertire in tempo la domanda di PRO in domanda di concordato.
[22] 
Anche se vi è chi (M. Fabiani, Introduzione ai principi generali e alle definizioni del codice della crisi, in Fallimento, 2022, 1180) spinge il dovere del creditore di comportarsi secondo buona fede fino al punto da prospettare una responsabilità del creditore che vota contro determinando la non approvazione di una proposta di concordato che preveda ingenti risorse esterne affluenti a condizione dell’omologazione, condizionando così anche la libertà di espressione del voto.
[23] 
Come lucidamente anticipato già nel 2015 da M. Fabiani, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche, in Ilcaso.it, agosto 2015.
[24] 
Ed è evidente che neanche su istanza di un creditore il tribunale possa comunque ampliare la sua sfera di intervento in quanto, come con mirabile sintesi hanno scritto I. Pagni – M. Fabiani (I. Pagni - M. Fabiani, I giudizi di omologazione nel Codice della Crisi, in Studi sull’avvio del Codice della crisi, Speciale di Dirittodellacrisi.it, a cura di L. De Simone, M. Fabiani e S. Leuzzi, 156) “la natura e l’oggetto del procedimento (di omologazione) non cambiano a seconda che siano proposte o meno opposizioni: non si trasforma un procedimento di volontaria giurisdizione in un processo contenzioso, non si muta l’oggetto del giudizio, ma semplicemente si amplia la cognizione del giudice perché si introducono fatti che altrimenti il tribunale non avrebbe modo di conoscere”. L’opposizione, pertanto, “amplia il novero delle circostanze che il giudice può esaminare e gli consente una valutazione più completa e approfondita dell’omologabilità della proposta di concordato, ma non estende in alcun modo l’oggetto del processo”. Quell’oggetto, infatti, è disegnato dalla domanda del proponente, e l’ambito dell’opposizione, se di vera e propria eccezione si tratta, non può andare oltre, non potendo essere introdotte nel giudizio di omologazione, tramite un’eccezione che non abbia natura di eccezione riconvenzionale, domande diverse da quelle che investono “i) vizi del procedimento, ii) censure che attengono al difetto di genuina prestazione del consenso (ai fini del computo della maggioranza e ai fini della ponderazione della formazione delle classi), ma anche iii) censure sulla fattibilità del piano concordatario, da intendersi come manifesta inattitudine del piano alla realizzazione ed esecuzione della regolazione concordata”; ecc.
[25] 
L’approvazione della proposta da parte di tutte le classi - spiega B. Inzitari, op. cit.- assorbe l’esigenza di un controllo penetrante del tribunale sulle prospettive di soddisfazione dei creditori o sulla conservazione dei valori aziendali.
[26] 
Meccanismo che inspiegabilmente opera solo in sede di gravame e solo in caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale e non in sede di impugnazione promossa dal debitore, ai sensi dell’art. 51, della sentenza di primo grado che, in accoglimento dell’opposizione del creditore dissenziente, non abbia omologato il concordato.
[27] 
Trib. Vicenza, 1° luglio 2018, in unijuris.it; Trib. Ravenna, 15 gennaio 2018, in Dejure; Trib. Monza, 26 luglio 2016, in Fallimento, 2017, 434, con nota di P. Genoviva, Il concordato preventivo “misto” alla prova della “restaurazione” della soglia minima di soddisfacimento per i crediti chirografari, 437.; Trib. Treviso 26 luglio 2016, in ilfallimentarista.it; Trib. Alessandria 22 marzo 2016, in ilfallimentarista.it; Trib. Pistoia 29 ottobre 2015, in ilfallimentarista.it; Trib. Roma 24 marzo 2015 in ilcaso.it Trib. Mantova 19 settembre 2013, in ilcaso.it.
[28] 
Trib. Massa, 29 settembre 2016, in Fallimento 2017, 429, con nota di P. Genoviva, cit.; Trib. Venezia, 5 luglio 2018, in Fallimenti&Società,; è anche il criterio di fondo che sta alla base di Cass. 19 novembre 2018, n.29742, cit., e della tesi che ha definitivamente configurato l’affitto di azienda come uno degli strumenti di attuazione della continuità.
[29] 
Cass. 15 gennaio 2020, n. 734, in Fallimento, 2020, 477. 
[30] 
S. Leuzzi, Il volto del nuovo concordato… cit

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