Avviandosi ad analizzare il comma 2 dell'art. 112 è indispensabile affrontare due concetti che ne costituiscono il substrato e che compaiono peraltro anche in una disposizione di contenuto generale quale l'art. 84, il cui comma 6 distingue il valore di liquidazione dal valore eccedente quello di liquidazione, stabilendo per tali valori un trattamento differente sotto il profilo distributivo.
Il primo (valore di liquidazione) deve essere distribuito ai creditori secondo la cosiddetta regola di priorità assoluta (RPA) e quindi nell'integrale rispetto della graduazione previste per le cause legittime di prelazione, mentre il secondo (valore eccedente quello di liquidazione) può essere destinato ai creditori secondo la regola di priorità relativa (RPR) e quindi in modo che i crediti inseriti in una classe ricevano un trattamento nel complesso pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto alle classi inferiori[13].
Fanno eccezione i soli crediti che si giovano del privilegio di cui all'art. 2751 bis n. 1 c.c. (lavoratori subordinati) per cui si impone comunque il rispetto della RPA.
Nonostante la rilevanza di questi concetti che sono tra l'altro, come si vedrà, interdipendenti tra loro, il legislatore non ne offre una definizione e lascia all'interprete l'onere di delimitarne il perimetro e stabilirne il significato[14].
La loro importanza avrebbe probabilmente dovuto indurre ad una scelta opposta[15], tanto più che l'utilizzo di espressione analoghe in altre disposizioni del codice genererà ulteriori dubbi ed incertezze applicative.
Si pensi, ad esempio, al concetto di valore generato dal piano a cui fa riferimento l'art. 64 bis per i piani di ristrutturazione omologati[16] o al valore risultante dalla ristrutturazione menzionato nell'art. 120 quater in tema di trattamento delle partecipazioni dei soci anteriori al concordato[17].
Tutte queste espressioni, benché tra loro diverse, alludono a concetti parzialmente assimilabili o comunque collegati. Un migliore coordinamento tra questi principi sarebbe stato necessario ed è sin d'ora facile prevedere che le diverse espressioni usate finiranno con il creare opinioni divergenti[18].
Ad ogni modo, ai fini che qui interessano i temi che meritano di essere focalizzati sono soltanto il valore di liquidazione ed il valore eccedente la liquidazione.
Il primo costituisce un punto qualificante del piano di concordato come si apprende dall'art. 87 che impone al debitore che acceda allo strumento di presentare un piano che contenga tra l'altro “il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale”.
L'espressione è differente rispetto a quella contenuta nell'art. 161 L. fall., ove si prevedeva il deposito di “uno stato analitico ed estimativo delle attività” ed appare chiaro che l'intento del legislatore sia quello di avere un immediato riscontro del realistico potenziale di realizzo degli attivi patrimoniali (immobili, beni strumentali, partecipazioni, crediti) in una prospettiva liquidatoria. Quindi obbligando il debitore a tenere conto in concreto della verosimile perdita di valore di tali attivi in caso di apertura della liquidazione giudiziale.
Ne faranno parte i potenziali crediti da azioni di responsabilità, ma anche gli attivi che potranno derivare da azioni revocatorie, poiché l'art. 84, comma 1, chiarisce che con il concordato è necessario garantire il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale. Se la comparazione deve essere fatta con tale ipotesi, è pacifico che pure il ricavato dalle potenziali azioni di responsabilità o revocatorie dovrà essere incluso nel concetto di valore di liquidazione[19]. E del resto – per quello che può valere in un assetto normativo profondamente mutato – il principio costituiva ormai un solido approdo già nel vigore della legge fallimentare[20].
Né pare costituire serio ostacolo ad una simile conclusione quanto stabilito dall'art. 87 lett. h), ovvero il fatto che vengano formalmente distinte dal valore di liquidazione, menzionato alla lett. c), le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, nonché le azioni eventualmente proponibili in caso di apertura della liquidazione giudiziale.
La distinzione di valore puramente classificatorio dell'art. 87 non è, infatti, in grado di superare il dato fondante (e scolpito nell'art. 84, comma 1) della necessità che ogni concordato assicuri un soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quello realizzabile in caso di liquidazione giudiziale, ipotesi nella quale tali potenziali attivi rappresentano spesso un elemento tutt'altro che trascurabile.
Questione più delicata è l'inclusione dei proventi che si potrebbero generare in caso di esercizio provvisorio. Vanno considerati nella stima del valore di liquidazione?
Alcuni dei primi commentatori lo escludono[21], notando che l'esercizio provvisorio è ipotesi rara e decisamente residuale che quindi non può essere considerata una fonte di attivo nemmeno potenziale nello scenario liquidatorio[22].
Ma l'argomento non pare decisivo.
Intanto si deve considerare che, approcciandosi il debitore ad un concordato in continuità, si presume che questi abbia ancora a disposizione un'azienda o un ramo d'azienda in grado di funzionare e produrre valore. Diversamente non si comprenderebbe quali prospettive di continuità diretta o indiretta vi siano.
D'altra parte, l'esercizio provvisorio è istituto poco frequentato non solo per le condizioni di avanzata disgregazione dell'azienda al momento di apertura della liquidazione giudiziale, ma anche per la difficoltà da parte del tribunale e del curatore (ex comma 2 o 3 dell'art. 211) di valutare con l'indispensabile rapidità se vi siano i presupposti per darvi corso.
Tuttavia, se alla liquidazione giudiziale si giunge in esito ad una proposta di concordato in continuità che non abbia avuto esito positivo, è evidente che simili difficoltà a valutare la produttività dell'azienda e le opzioni di prosecuzione anche solo parziale dell'attività saranno molto attenuate. Il tribunale, già con la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, e il curatore, nelle settimane immediatamente successive alla nomina, dovrebbero avere gli elementi per valutare se l'esercizio provvisorio anche solo di un ramo aziendale sia potenzialmente proficuo e comunque “non arrechi pregiudizio ai creditori”.
Di qui la conclusione che nel determinare il valore di liquidazione la possibilità di disporre l'esercizio provvisorio e gli introiti (o il minor deprezzamento degli assetti produttivi) che ne derivano debbono essere considerati[23], quanto meno in via potenziale, potendo essere esclusi solo se, con motivato e convincente assunto, si dimostri che l'esercizio provvisorio non potrà essere proficuamente attuato.
A conferma di tale approdo possono pure richiamarsi alcune diversità letterali apportate all'art. 211 rispetto al calco dell'art. 104 L. fall.: l'eliminazione della necessità al fine di disporre l'esercizio provvisorio che l'interruzione dell'attività aziendale possa generare grave danno, la sostituzione delle parole “può disporre” con la meno discrezionale espressione “autorizza”, il nuovo e deciso incipit della norma dedicata all'esercizio provvisorio che ora esordisce affermando che “l'apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell'attività di impresa”. Non si tratta di elementi irrefutabili, è giusto riconoscerlo, ma certo essi inducono ad una lettura meno eccezionale dell'istituto dell'esercizio provvisorio e simile esegesi del resto si concilia con lo scopo, che ispira l'intera riforma, di favorire la precoce emersione della crisi di impresa.
Più sfuggente è il concetto di valore eccedente quello di liquidazione, talvolta definito anche come surplus o plusvalore concordatario.
Anche in questo caso il legislatore non ne offre un'esplicita definizione ed è quindi compito dell'interprete ricercarne l'esatto significato.
Il punto di riferimento è per certo il risultato dell'attività imprenditoriale dopo l'omologa del concordato e per la durata del piano concordatario, al netto degli oneri e costi inerenti a tale attività[24].
In sostanza si dovranno quindi considerare i flussi di cassa che derivano dalla prosecuzione dell'attività, sia che essa avvenga in via diretta, sia che avvenga in via parzialmente o totalmente indiretta. In quest'ultimo caso, ad esempio, gli stessi potranno consistere nei canoni percepiti per l'affitto dell'azienda, dedotti sempre i costi che continuano a gravare sulla società dopo l'affitto aziendale.
Secondo i principi aziendalistici il flusso di cassa si ottiene aggiungendo all’utile o alla perdita d’esercizio i costi non monetari – gli ammortamenti di macchinari e impianti, gli accantonamenti per rischi futuri, i TFR o la svalutazione dei crediti – e sottraendo i ricavi non monetari, quali ad esempio le imposte anticipate o la rivalutazione delle partecipazioni.
E' quindi inevitabile che i flussi di cassa, per la durata del concordato, vengano stimati attraverso un piano finanziario che l'imprenditore insieme ai suoi consulenti ed all'attestatore dovrà elaborare.
Tuttavia tali flussi non potranno per intero considerarsi valore eccedente la liquidazione, perché, a seconda di come sarà stata costruita la proposta concordataria, una quota più o meno rilevante dovrà essere messa a disposizione del valore di liquidazione.
Un esempio potrà essere utile a comprendere meglio.
Ipotizziamo che il valore di liquidazione dell'impresa che accede al concordato in continuità sia stimato pari a 300 e che la proposta concordataria preveda di liquidare beni per un valore di 200 e di ottenere annuali flussi di cassa per la durata del piano di 70 per cinque anni, ovvero 350. In questo caso l'importo di 350 non potrà essere considerato per intero valore eccedente la liquidazione, dato che almeno 100 dovrà essere posto a disposizione del valore di liquidazione per colmare il divario tra il valore indicato in sede di proposta (300) e l'incasso previsto in esito alla liquidazione di alcuni beni aziendali (200). Esso ammonterà quindi a 250 (350 – 100).
Sulla base di esempio analogo, allorché la proposta non preveda di liquidare alcun bene aziendale o comunque non mettere alcuno dei valori che contribuiscono a formare il valore di liquidazione a soddisfo dei creditori, i flussi di cassa dovranno essere destinati prima a colmare il valore di liquidazione e solo successivamente a formare il valore eccedente quello di liquidazione.
La distinzione tra i due valori sarà fondamentale, posto che sino alla concorrenza del valore di liquidazione la distribuzione dovrà avvenire nel rispetto della RPA, mentre per l'eccedenza si potrà applicare la diversa e meno rigida RPR.
In estrema sintesi, quindi, volendo azzardare una definizione di valore eccedente la liquidazione così ci si potrebbe esprimere:
i flussi di cassa conseguiti dall'imprenditore per la durata del piano concordatario, dedotta l'eventuale quota destinata, secondo la proposta concordataria, ad integrare il valore di liquidazione.
Come si vede, il concetto non può essere delineato in termini assoluti, essendo rimesso alla struttura che l'imprenditore attribuirà al piano di concordato.
Ma anche in questa prospettiva residuano dubbi di non agevole soluzione che qui si affrontano solo per cenni, meritando senza dubbio un maggior approfondimento.
Il primo è l'incidenza che può avere un realizzo superiore a quello ipotizzato degli attivi di cui il piano ipotizza la liquidazione. Se anziché incassare 100 si incassa 120 dalla liquidazione o dal recupero dei crediti, la maggior somma percepita (20) consente di liberare risorse provenienti dalla continuità ponendole a servizio del valore eccedente la liquidazione?
Secondo alcuni no[25] e la soluzione appare convincente, perché più rispettosa del criterio generale di cui all'art. 2740 c.c. e della RPA che comunque si deve applicare ai beni che vanno liquidati.
Il maggior ricavato degli attivi aziendali da liquidare dovrà quindi essere distribuito rispettando la graduazione legittima delle cause di prelazione. In modo che le aspettative dei creditori non subiscano un pregiudizio in conseguenza dell'omologa del concordato, perché ad una distribuzione integrale del ricavato avrebbero avuto diritto in caso di liquidazione giudiziale, la quale costituisce pur sempre il metro di comparazione della convenienza della proposta e della sua stessa ammissibilità.
Altro problema può essere posto da quanto potremmo definire l'ultra surplus concordatario. Se l'impresa in continuità presume di conseguire flussi di cassa di 50 per ciascuno dei cinque anni di durata del piano e ne consegue invece di maggiori, la differenza (c.d. ultra surplus) dovrà essere distribuita ai creditori? E in caso affermativo, rispettando la RPR?
Da un lato, è innegabile che l'imprenditore con la proposta concordataria non abbia assunto vincoli su tale valore e che la possibilità di conseguirlo e destinarlo liberamente sia un forte incentivo ad investire nell'azienda e conseguire un vero risanamento[26]. Dal che si dovrebbe dedurre che non è conveniente apporre un vincolo distributivo a quanto abbiamo definito ultra surplus.
D'altra parte, considerato che il debitore risponde anche con i beni futuri delle obbligazioni contratte, che i creditori già sopportano l'alea del mancato conseguimento del risultato ipotizzato con la proposta concordataria, che le norme non parlano di valore eccedente la liquidazione previsto nel piano, ma di valore eccedente la liquidazione tout court, vi sono elementi che possono orientare per la scelta opposta e quindi vincolare anche la destinazione di tale valore.
Il tema è poi ulteriormente complicato dalla circostanza che questo plusvalore, se non viene distribuito ai creditori, finisce quasi sempre con l'avvantaggiare i soci e quindi incrocia le disposizioni di cui all'art. 120 quater che detta i principi da applicare quando il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato ai soci anteriori alla presentazione della domanda di concordato[27].
E' vero che tale norma regola le ipotesi in cui sia il piano concordatario a prevedere di riservare ai soci il valore risultante dalla ristrutturazione e, in questo caso, tale presupposto non si darebbe, poiché il valore non era in origine previsto. Però non si può escludere a priori - anche alla luce di quanto previsto dall'art. 2740 c.c.[28] - che i creditori anteriori al concordato non possano vantare pretese sulle maggiori ed impreviste disponibilità del proprio debitore che, in fondo, ha proseguito la propria attività anche grazie al parziale sacrificio delle ragioni creditorie.
Se è dettata una disciplina specifica per il caso di una previsione di piano che attribuisca valore ai soci, resta insomma problematica la decisione di attribuire agli stessi un valore non pronosticato, ma comunque concretatosi nel corso del piano.