In modo completamente diverso sono determinate le maggioranze nel concordato in continuità che trovano la loro regolamentazione nel quinto comma dell’art. 109.
Questa norma inizia col disporre che “Il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore”, il che comporta l’istituzione, in questo tipo di concordato, dell’obbligatoria suddivisione in classi dei creditori, in conformità a quanto previsto dall’art. 85[41], che, dopo aver posto al primo comma la regola generale della facoltatività della suddivisione in classi e del trattamento differenziato tra creditori appartenenti a classi diverse e individuate, nel secondo comma, alcune categorie di creditori per i quali è sempre obbligatoria la classazione, precisa, nel comma terzo, che, “Nel concordato in continuità aziendale la suddivisione dei creditori in classi è in ogni caso obbligatoria”.
La tassatività della disposizione non ammette eccezioni nel senso che nel concordato in continuità assoggettati alla classazione sono tutti i creditori ammessi al voto, siano essi chirografari che prelatizi, come si desume dal prosieguo della norma che impone la divisione in classi dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca quando “non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 109, comma 5”, in quanto, in tal caso, essi sono considerati sempre parti interessate e ammessi al voto anche per la parte prelatizia (come si vedrà); gli stessi creditori, invece, qualora sono soddisfatti integralmente e nei termini e con le modalità indicate nel quinto comma dell’art. 109 di cui si è detto nel precedente paragrafo, non subiscono alcun pregiudizio dalla procedura perché il rapporto continua alle stesse condizioni preesistenti, come se il concordato non fosse intervenuto, per cui non sono parti interessate alla stessa e, quindi, non ricorre alcuna ragione perché debbano esprimere il voto[42].
Di modo che, nel concordato liquidatorio, i creditori chirografari possono, e non debbono, essere divisi in classi ed egualmente è facoltativa la classazione dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca incapienti sui beni gravati o per i quali è previsto un pagamento dilazionato per la parte ammessa al voto, a meno che non si tratti di creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l'integrale pagamento o comunque rientranti nella previsione del secondo comma dell’art. 85 (tant’è che è contemplata espressamente l’opposizione dei creditori dissenzienti che rappresentano il 20% dei crediti ammessi al voto nell'ipotesi di mancata formazione delle classi), nel mentre, nel concordato in continuità, i creditori chirografari, siano essi tali fin dall’origine o siano divenuti tali per incapienza o per la parte incapiente, debbono essere obbligatoriamente divisi in classi e così anche i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca quando sono ammessi al voto, ossia quando per costoro il piano prevede il pagamento non integrale, o non in denaro, o oltre il limite temporale di centottanta giorni dall’omologazione giacché, se concorrono queste condizioni in positivo, essi sono considerati parte non incise dal concordato e, pertanto, non esprimono il voto; ed, infatti, nel concordato in continuità, stante l’obbligatorietà della formazione delle classi, l’opposizione può essere promossa soltanto un creditore dissenziente all’interno di una classe, sia essa consenziente o dissenziente[43].
Sancita, ad ogni modo, l’obbligatorietà della formazione delle classi nel senso indicato, l’inizio del quinto comma pone, come appena ricordato, la regola che “il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore“ e, poiché la norma continua precisando che “In ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto”, è evidente che per l’approvazione del concordato è necessario che in tutte le classi sia stata raggiunta la maggioranza dei crediti inseriti in ciascuna classe, ossia è sufficiente che abbia votato favorevolmente almeno la metà più uno dei crediti ammessi al voto.
Tuttavia il legislatore, conscio della difficoltà a raggiungere la maggioranza in tutte le classi, per agevolare l’approvazione dei concordati in continuità, ha introdotto un meccanismo per il quale l'adesione della singola classe può anche non dipendere dal voto favorevole della maggioranza dei crediti inseriti. Invero, il comma quinto dell’art. 109, dopo la previsione che in ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto, aggiunge “oppure, in mancanza, se hanno votato favorevolmente i due terzi dei crediti dei creditori votanti, purché abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe”; ossia si ritiene consenziente anche la classe nella quale hanno votato favorevolmente i due terzi dei crediti votanti, purché abbia votato almeno la metà dei crediti della classe.
Di conseguenza, qualora in nessuna classe sia raggiunta la maggioranza, è sufficiente per l’approvazione che esprima il voto almeno la metà dei crediti ammessi al voto in ciascuna classe e di questi si dichiarino favorevoli i due terzi, che tradotto in numeri, ipotizzando che in ogni classe voti giusto la metà dei crediti ammessi al voto, il piano è egualmente approvato col voto favorevole dei due terzi della metà dei crediti appartenenti a ciascuna classe, pari al 33,33% periodico dell’intera massa dei crediti; di contro, il concordato non è approvato ove non esprima il voto almeno la metà dei crediti di una classe o in una classe i crediti dei creditori votanti non raggiugano i due terzi dei crediti ammessi in quella classe.
Un esempio chiarisce il concetto, si ipotizzi un monte crediti ammessi al voto di 300, distribuito in tre classi, una per complessivi crediti di 50, una seconda per complessivi 100 ed una terza per complessivi 150; orbene in un caso del genere il concordato potrebbe essere approvato se vota almeno la metà dei crediti inseriti in ciascuna classe, e quindi crediti per almeno 25 della prima classe, per almeno 50 della seconda e per almeno 75 della terza, per complessivi 150, e se in ciascuna classe i votanti favorevoli rappresentano i due terzi dei crediti dei creditori votanti in esse inseriti, e cioè i due terzi i 25 nella prima classe, pari a16,66 periodico, i due terzi di 50 nella seconda, pari a 33,33 periodico e i due terzi di 75 nella terza, pari a 50, per un totale complessivo di 100, che equivale, appunto, al 33,33% del totale monte crediti di 300[44].
Questo esempio rappresenta indubbiamente una situazione limite, ma, a parte il fatto che proprio queste situazioni estreme servono a saggiare la bontà di una soluzione, quello che si vuole sottolineare è che questo meccanismo di calcolo supplementare, per il caso che non sia stata raggiunta la maggioranza in tutte le classi[45], consente di approvare il concordato con il voto favorevole di una minoranza dei crediti ammessi al voto; il che è già normalmente significativo della mancanza di una effettiva maggioranza quando il silenzio non è indice di approvazione né di diniego, ma lo è molto di più in un sistema che calcola la maggioranza con riferimento ai crediti ammessi al voto e in nessun caso sterilizza i crediti dei non voltanti, i quali sanno che la loro inerzia equivale a dissenso. Fin quando viene mantenuto questo meccanismo, la proposta che raccoglie il 33,33% dei voti dell’intero monte crediti, anche se questa quota supera la maggioranza dei crediti dei votanti, ha il consenso di una minoranza, in quanto vuol dire che il restante 66,67% ha votato contro, effettivamente o figurativamente, eppure detta maggioranza rimane vincolata alla decisione presa dalla minoranza, sovvertendo il principio base del metodo collegiale secondo cui in una collettività - tanto più se involontaria come quella dei creditori[46] - è la maggioranza che può imporre la propria volontà alla minoranza e non viceversa; inoltre, ne esce drasticamente ridimensionato lo stesso principio della maggioranza in tutte le classi, posto come criterio principale di calcolo, dal momento che, se anche non si raggiunge questa maggioranza, il concordato, in forza di questo criterio sostitutivo, può essere egualmente approvato purché si raggiunga la maggioranza dei due terzi della metà dei crediti dei votanti in ciascuna classe; senza peraltro la previsione di alcun correttivo per il caso che un unico creditore disponga della maggioranza dei crediti[47].
Rimane, pertanto, insuperata l’obiezione del Consiglio di Stato che, nel parere reso il 13 maggio 2022, proprio partendo dalla constatazione che “la proposta venga approvata senza che ci sia la maggioranza dell’importo dei crediti”, rilevava che “Seppure lo stesso art. 9, § 6,comma 2 della direttiva consente agli Stati membri di stabilire “le maggioranze richieste per l’adozione del piano di ristrutturazione”, è da ritenere che appunto di maggioranza si debba trattare, coerentemente a quanto previsto dal primo comma della stessa disposizione della direttiva, potendo gli Stati membri accontentarsi di una maggioranza semplice o qualificata (purché, come aggiunge, l’art. 9, § 6, comma 2, secondo periodo, non superiore al 75% dell’importo dei crediti o degli interessi di ciascuna classe o, se del caso, del numero di parti interessate di ciascuna classe)”, per poi concludere che “In definitiva, la regola che consente di ritenere raggiunta la maggioranza sulla base dei soli creditori votanti non è autorizzata dalla direttiva e anzi presenta i possibili profili di incompatibilità su evidenziati”.
La replica contenuta nella Relazione, secondo cui non è necessario un intervento sulla previsione in esame nonostante le osservazioni formulate nel parere del Consiglio di Stato in quanto “il fine di agevolare la ristrutturazione e l’ampia discrezionalità lasciata agli Stati consente di attribuire rilevanza al solo voto di chi si è espresso (sia pure con il contemperamento del quorum del 50% fissato nella norma)”, non è per nulla convincente.
E’ vero, infatti, che la Direttiva si propone di incentivare la ristrutturazione evitando che l’inerzia di una parte dei creditori appartenenti alla stessa classe impedisca l’approvazione della proposta e del piano, ma tale incentivazione è data concedendo la possibilità agli Stati membri di “richiedere che in ciascuna classe sia ottenuta la maggioranza del numero di parti interessate” (art. 9, par. 6, comma 1 e nello stesso senso il considerando n. 47[48]), richiedendo, cioè, che invece della maggioranza per crediti in tutte le classi, si tenga conto della maggioranza numerica dei votanti raggiunta in ciascuna di essa.
Concetti ben diversi da quelli attuati nel quinto comma dell’art. 109, ove, in questa ipotesi subordinata in esame, si prende in considerazione la maggioranza dei due terzi non dei creditori votanti bensì dei crediti di costoro, per cui si tratta pur sempre di una maggioranza quantitativa e non numerica, solo che è riferita ai votanti. In questo caso, invero, non si ha la ripresa dell’originario sistema di voto nel concordato per teste e per quantità (per il quale il concordato, a norma del primo comma dell’art. 177 L. fall., era approvato se riportava il voto favorevole della maggioranza dei creditori votanti, che rappresentavano i due terzi dei crediti ammessi al voto), ma, della introduzione, per la prima volta nel sistema delle votazioni nelle procedure concorsuali, di una sorta di quorum costitutivo (almeno la metà dei crediti inclusi in ciascuna classe) e deliberativo (i due terzi dei crediti dei creditori votanti), che, contaminato del principio del silenzio uguale dissenso, può portare alle conseguenze già evidenziate, che un creditore incluso in una classe sia messo in minoranza anche se nella stessa non è stata raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto in quella stessa classe, come evidenziato dall’esempio che precede[49] e all’approvazione con una percentuale, anche inferiore alla metà dei crediti ammessi al voto. Questa possibilità, peraltro, disincentiva chi presenta un concordato a formulare proposte che possano ottenere l’unanimità dei consensi in tutte le classi, sapendo che è sufficiente coagulare l’interesse dell’indicata minoranza per l’approvazione.
A questo punto il comma quinto dell’art. 109 lancia un’altra ciambella di salvataggio al concordato in difficoltà perché la norma, dopo le previsioni di cui si è parlato, aggiunge “In caso di mancata approvazione si applica l’art. 112, comma 2”, ove l’ipotesi di mancata approvazione non può che essere riferita a quelle esaminate in precedenza, ossia che non sia stata raggiunta la maggioranza in tutte le classi né sia stata raggiunta la maggioranza dei due terzi dei crediti dei votanti[50]. Orbene, qualora nessuna di queste maggioranze sia stata raggiunta, il tribunale, a norma del secondo comma dell’art. 112, su richiesta del debitore può egualmente omologare il concordato se ricorrono congiuntamente determinate condizioni, venendosi così a creare una situazione alquanto singolare dato che il quinto comma dell’art. 109 richiama, per il caso di mancata approvazione del concordato, la norma che regola il giudizio di omologazione, al quale si perviene, come prescrive il primo comma dell’art. 48, “se il concordato è stato approvato dai creditori ai sensi dell’art. 109”; quando, invece, nel termine stabilito non si raggiungono le maggioranze richieste, l’art. 111 dispone che “il giudice delegato ne riferisce immediatamente al tribunale, che provvede a norma dell'articolo 49, comma 1”, ossia “dichiara con sentenza l'apertura della liquidazione giudiziale” ricorrendone i presupposti.
In sostanza se non sono state raggiunte le maggioranze indicate nel secondo periodo del quinto comma dell’art. 109, il concordato dovrebbe arrivare al tribunale, ma non per celebrare il giudizio di omologazione bensì per la eventuale apertura della procedura di liquidazione giudiziale; di modo che, quando in questa situazione di mancata approvazione lo stesso quinto comma dell’art. 109 statuisce che si applica il secondo comma dell’art. 112, che consente una forma di cram down in sede di omologa, il legislatore ipotizza, presumibilmente, che, a seguito della constatazione del mancato raggiungimento delle maggioranze risultante dalla relazione del commissario[51], il giudice delegato debba riferire al tribunale l’esito delle votazioni e che questo, a sua volta, qualora vi sia richiesta del debitore (o il suo consenso in caso di proposte concorrenti), invece di procedere a verificare la ricorrenza delle condizione per l’apertura della liquidazione giudiziale, come richiede il secondo comma dell’art. 49 “in caso di mancata approvazione del concordato preventivo”, debba fissare l'udienza in camera di consiglio per la comparizione delle parti e del commissario giudiziale e prendere tutti gli altri provvedimenti dettati dal primo comma dell’art. 48 per aprire il giudizio di omologa, come nel caso in cui il concordato sia stato approvato dai creditori.
Questo innovativo, quanto anomalo, modo di introdurre il giudizio di omologazione su istanza del debitore in mancanza di approvazione avrebbe richiesto qualche precisazione (quanto meno nella Relazione, che è muta sul punto) dal momento che normativamente non è prevista la fissazione di un’udienza di omologa anche in caso di mancato raggiungimento delle maggioranze prescritte ex lege[52]. Ad ogni modo, all’esito del giudizio, il tribunale, ove riscontri la ricorrenza delle condizioni di cui alle lett. a), b) e c) del secondo comma dell’art. 112[53], “omologa altresì” - ossia deve omologare anche in caso di mancata approvazione - il concordato qualora “la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, che la proposta sia approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”.
Quest’ultima condizione finisce, come si vede, per porre ulteriori criteri di calcolo delle maggioranze che, seppur in presenza di altre condizioni riguardanti le modalità della distribuzione dei valori di liquidazione e dei valori eccedenti quello di liquidazione, abbassano ulteriormente l’asticella della percentuale dei crediti favorevoli necessari per l’approvazione[54], posto che il raggiungimento di queste ulteriori soglie, anche se espressione di una esigua minoranza del monte crediti, è sufficiente per l’omologazione, su semplice richiesta del debitore. Si può, quindi, dire, pur nella consapevolezza della diversità di quest’ultima fattispecie (i cui contorni saranno approfonditi in altro intervento) e cercando di dare un ordine logico alle diverse previsioni, che il concordato in continuità, quanto a maggioranze, può essere omologato in via graduata:
a - quando tutte le classi abbiano votato a favore in quanto in tutte le classi è stata raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto (si sia avuto cioè il consenso di almeno il 51% dei crediti ammessi al voto);
b - quando, pur non essendo stata raggiunta la maggioranza in tutte le classi, abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti ammessi in ciascuna classe e la proposta abbia ricevuto il voto favorevole dei due terzi dei crediti dei creditori votanti (di sia avuto, cioè, il consenso di almeno il 33,33% dei crediti ammessi al voto);
c - quando, pur in mancanza di consenso, assoluto (lett. a) o relativo (lett. b), in tutte le classi, la proposta sia stata approvata dalla maggioranza numerica delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione (in tal caso non è possibile calcolare una percentuale in astratto, ma nell’esempio fatto in precedenza, sarebbe sufficiente il consenso del 25,66% della massa dei crediti ammessi al voto);
d - quando, pur in mancanza di consenso della maggioranza delle classi, la proposta sia stata approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione (anche in questo caso non è determinabile una percentuale in astratto e secondo l’esempio fatto sarebbe sufficiente il consenso dell’8,66% dei crediti ammessi al voto).
La Direttiva europea impone agli Stati di non fissare maggioranze superiori al 75%, ma la discrezionalità rivendicata nella Relazione al D.lgs. n. 83 del 2022 nel restare al di sotto di questo limite sembra sia stata usata con eccessiva larghezza, se si può arrivare all’omologa di un concordato che abbia ricevuto consensi che non raggiungono la doppia cifra percentuale, che rende vieppiù attuale la critica (in precedenza richiamata) che aveva mosso il Consiglio di Stato al sistema di calcolo delle maggioranze.
Questo inusuale (finora) sostegno alla continuità può essere, tuttavia, vanificato da un solo creditore dissenziente che eccepisca il difetto della convenienza della proposta perché, in tal caso, a norma del comma terzo dell’art. 112, “il tribunale omologa il concordato quando, secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”; norma che letta in positivo consente al tribunale di superare il dissenso dell’opponente quando viene offerto un trattamento equivalente a quello recuperabile nella liquidazione giudiziale, ma che, letta in negativo, sta a significare che, nel caso la proposta offra una soddisfazione inferiore a quella ricavabile dal presumibile valore dei beni gravati ricavabile dalla liquidazione giudiziale, il tribunale non può omologare il concordato, anche se approvato da tutte le classi.
Per ovviare a questa forma di protezione di un creditore in contrasto con la volontà della maggioranza espressa e con il perseguimento del maggior interesse collettivo, il novello legislatore non ha trovato di meglio che introdurre nell’art. 53 il comma 5 bis, per il quale “In caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno”. Che si condivida o non questa forma di tutela surrogata risarcitoria, ciò che non si capisce è perché sia stata introdotta soltanto in sede di reclamo; se, infatti, si crede in questa soluzione, il “generale interesse dei creditori e lavoratori” che giustifica l’omologa potrebbe (recte, dovrebbe) essere preso in considerazione anche nel giudizio di primo grado consentendo l’omologa anche nel caso in cui il creditore dissenziente opponente possa ricevere un trattamento in misura inferiore rispetto a quanto accadrebbe nella liquidazione giudiziale.
Peraltro, questa tutela risarcitoria sostitutiva è riconosciuta soltanto in caso di “accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale”, sicché, nel caso di sentenza che, in accoglimento dell’opposizione del creditore dissenziente, non abbia omologato il concordato, nel giudizio di impugnazione promosso dal debitore ai sensi dell’art. 51, che sia stato o non dichiarata aperta la liquidazione giudiziale, non è consentito lo stesso escamotage previsto dal muovo comma 5 bis dell’art. 53 per salvare il concordato. Disparità di trattamento ingiustificata, che potrebbe essere evitata introducendo la tutela risarcitoria nel giudizio di omologazione avanti al tribunale.
A questo punto il comma quinto dell’art. 109 tratta delle condizioni in presenza delle quali i creditori assistiti da privilegio, pegno o ipoteca possono esprimere il voto, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, per poi concludere statuendo che “se non ricorrono le condizioni di cui al primo e secondo periodo, i creditori muniti di diritto di prelazione votano e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta”.
Va segnalato l’erroneo riferimento al primo e secondo periodo della disposizione di cui al comma quinto, che hanno ad oggetto, come si è visto, la formazione delle maggioranze nelle classi, nel mentre, come emerge chiaro dal contesto, il legislatore intende prospettare l’ipotesi che non ricorrono le condizioni, di cui al terzo e quarto periodo, la cui presenza esclude i creditori prelatizi dal voto, per indicare per quale parte del credito gli stessi creditori possano esprimersi quando, in mancanza anche di una sola delle condizioni elencate nei precedenti periodi terzo e quarto, sono chiamati a partecipano al voto.
Posto che, come detto. i creditori assistiti da privilegio, pegno o ipoteca, non votano quando la proposta prevede il loro pagamento integrale in denaro entro 180 giorni dall’omologa, se ne deve dedurre che costoro, ove pagati integralmente ma oltre i 180 giorni o anche entro i 180 giorni ma non in denaro, sono ammessi al voto, previo inserimento in apposita classe, e votano per l'intero credito; se ne deve altresì dedurre che, in caso di pagamento parziale per incapienza, i creditori prelatizi debbano essere inseriti in due diverse classi, una quale prelatizi per la parte che trova soddisfazione ed una per la parte che non trova capienza quali chirografari e che possano esercitare il diritto di voto per entrambe le parti, anche se per quella prelatizia il pagamento viene proposto entro i 180 giorni e in denaro.
Si potrebbe anche leggere la norma nel senso che, in questa ultima ipotesi, i creditori prelatizi siano ammessi al voto per la sola parte passata al chirografo in quanto per la parte capiente vengono pagati entro il termine di legge e in denaro, sicché i creditori facenti parte di quest’ultima categoria sarebbero ammessi al voto solo se la proposta di pagamento superasse il limite dei 180 giorno o non fosse in denaro. Sembra preferibile la prima interpretazione in quanto la norma pone le varie condizioni per l’ammissione al voto (pagamento integrale in denaro entro 180 giorni) in modo congiunto e sullo stesso piano, per cui la mancanza di una sola di essa giustifica l’interesse a partecipare alle sorti del concordato e , quando il credito viene soddisfatto parzialmente viene meno la condizione della integralità del pagamento, per cui anche la parte capiente va ammessa al voto, indipendentemente dalla ricorrenza delle altre condizioni di adempimento[55].
Se così è, si ha il sovvertimento del principio secondo cui ha diritto al voto il creditore che dalla proposta viene pregiudicato e per la parte per la quale subisce pregiudizio, codificato nel terzo comma dell’art. 177 L. fall., ripreso nella originaria versione del quarto comma dell’art. 109, per i quali i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, erano ammessi al voto per la parte residua del credito che non trovava capienza, per cui degradava al chirografo; egualmente l’indicato principio aveva trovato cittadinanza nella versione originaria dell’art. 86, per il quale, in caso di moratoria nel pagamento dei crediti prelatizi, i creditori avevano diritto al voto non per l’intero credito, bensì per la differenza fra il loro credito maggiorato degli interessi di legge e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano calcolato alla data di presentazione della domanda di concordato, determinato sulla base di un previsto tasso di sconto.
In realtà non è proprio così perché il legislatore ha lui stesso fissati i criteri per individuare quando ricorre il pregiudizio che giustifica l’interesse al voto. Mentre, infatti, nell’attuale diritto fallimentare il divieto di voto è stato costruito non più sull’esclusivo dato della natura prelatizia del credito, ma ristretto a quei creditori prelatizi che risentono un sacrificio dalla proposta fatta - perché non soddisfatti integralmente o non immediatamente - i quali devono poter votare, nel nuovo codice il legislatore ha prefissato che nei concordati in continuità la soddisfazione completa dei creditori con prelazione si ha quando ad essi viene proposto un pagamento integrale in denaro entro 180 giorni dall’omologa, di modo che è presupposto che, in mancanza di una di queste condizioni, la proposta concordataria arrechi un danno ai creditori.; ossia il pregiudizio è espressamente individuato dal legislatore nella mancata ricorrenza delle condizioni indicate nella seconda parte del quinto comma dell’art. 109.
Di conseguenza, il diritto di voto non è più commisurato all’entità del pregiudizio subito dal creditore, il quale, nel momento in cui si trova nelle condizioni che secondo la previsione legislativa costituiscono un adempimento non completo, ha diritto a partecipare alle sorti del concordato per l’intero suo credito in quanto il piano incide sul credito e su i suoi interessi, indipendentemente dal calcolo dell’effettivo sacrificio che quel creditore subisce; viene, in sostanza, portato alle estreme conseguenze logiche l’impossibilità di assimilare il pagamento integrale e immediato al pagamento parziale o dilazionato e con corresponsione degli interessi, dato che il pagamento, anche se integrale ma dilazionato, importa comunque un sacrificio per i creditori muniti di prelazione che non può essere semplicisticamente coperto dalla corresponsione degli interessi perché, se così fosse, lì dove la perdita è eliminata dalla corresponsione degli interessi che consente il soddisfacimento integrale, il creditore non subirebbe alcun pregiudizio e non dovrebbe disporre del diritto di voto; è evidente, allora che bisogna muovere dalla constatazione che la dilazione causa comunque una perdita, rispetto alla quale, per quanto la dilazione di pagamento sia accompagnata dal decorso degli interessi di legge, non può il giudice sostituirsi al creditore al fine di vagliare la equivalenza rispetto al soddisfacimento derivante dal pagamento in denaro, integrale e immediato, del credito.
Concetto che la Cassazione aveva già intuito, quando, con la sentenza n. 22045 del 2016, di cui si è parlato, aveva sottolineato (seppur non ne aveva tratto le conseguenze oggi prospettate dal codice della crisi) che, “sul versante economico, il pagamento integrale e immediato consente al creditore di disporre prontamente della somma all'atto dell'omologazione, e di deciderne quindi ogni eventuale utilizzo, mentre il pagamento (integrale ma) differito, per quanto compensato dagli interessi, non solo non consente l'impiego totale della somma corrispondente al titolo ma espone, altresì, il creditore a un rischio supplementare di inadempimento del debitore prolungato nel tempo” e che “giuridicamente, un pagamento integrale ma dilazionato, per quanto accompagnato dal computo di interessi, dà comunque luogo a un'ipotesi di ritardo nell'adempimento; e quindi non può essere considerato equivalente a quel pagamento - immediato e integrale - che identifica, invece, l'adempimento in senso stretto”.