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Saggio

Le maggioranze per l’approvazione della proposta concordataria*

Giuseppe Bozza, già Presidente del Tribunale di Vicenza

3 Agosto 2022

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Lo scritto è destinato, con eventuali variazioni, allo Speciale di Diritto della crisi, di prossima pubblicazione, dal titolo “Studi sull’avvio del Codice della crisi” a cura di Laura De Simone, Massimo Fabiani e Salvo Leuzzi.
L’Autore indaga funditus il complesso tema del calcolo delle maggioranze nel nuovo concordato preventivo disciplinato dal Codice della crisi, sciogliendone i principali nodi critici.
Riproduzione riservata
1 . Il perimetro del presente intervento
Il titolo di questo intervento riprende la rubrica dell’art. 109 del codice della crisi nella sua ultima versione dovuta D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, pubblicato in G.U. n. 152 dell’1 luglio 2022; per la verità la rubrica dell’articolo citato usa il sintagma “maggioranza” al singolare sebbene la norma prenda in considerazione più tipi di maggioranze, distinte non solo per l’ipotesi che i creditori siano suddivisi in classi - che nella legge fallimentare, pur dopo la riforma degli anni 2005-2007 che aveva eliminato la maggioranza per teste, induce ad utilizzare ancora il termine al plurale - ma principalmente per tipologia di concordato.
L’incipit del primo comma dell’art. 109 è, infatti, il seguente: “Salvo quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dal comma 5, il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto”, da cui emerge chiaramente che le maggioranze richieste per l’approvazione del concordato sono diverse a seconda che si tratti di concordato in continuità, per il quale trova applicazione la disposizione del comma quinto, o di concordato liquidatorio, per il quale trova applicazione la previsione del primo comma; diversificazione che costituisce una novità assoluta, non solo rispetto alla legge fallimentare, ma anche relativamente alla originaria versione del codice della crisi di cui al D.Lgs. n. 14 del 2019, ove l’art. 109, comma 1, pur dopo le modifiche apportate con il D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, manteneva l’attuale previsione senza l’inciso “salvo quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dal comma 5”, il quale, a sua volta, aveva contenuto diverso da quello attuale. 
 Diversità che costituisce solo l’ultimo tassello di una costruzione che riesce finalmente a staccare la continuità aziendale dal tronco del concordato liquidatorio su cui la legge fallimentare l’aveva innestata, con regole comuni non sempre conciliabili con le diverse finalità perseguite dalle due tipologie di procedure. In questo percorso il concordato liquidatorio, nel quale la soddisfazione dei creditori è assicurata dalla liquidazione del patrimonio del debitore, è diventata figura sempre più marginale ed ora residuale dato che la stessa ammissibilità è stata condizionata all’apporto di risorse esterne che lo rendano più conveniente rispetto alla liquidazione giudiziale altrimenti preferibile[1], nel mentre la continuità - che, nel nuovo codice, costituisce il nucleo centrale intorno alla quale si sviluppa la gestione negoziale della crisi - ha visto i creditori assumere un ruolo sempre più coinvolgente in quanto la loro soddisfazione è collegata alla conservazione dei valori aziendali nella prospettiva del ripristino dell'equilibrio economico finanziario, come evidenziato fin dall’art. 47 quando, alla lett. b) del primo comma, pone quali requisiti inscindibili per l’ammissione al concordato in continuità la soddisfazione dei creditori e la conservazione dell’attività economica. 
Questo diverso posizionamento dei creditori rispetto alle sorti del concordato ha portato il novello legislatore a diversificare le condizioni di ammissibilità e di omologa dei due concordati, le modalità di distribuzione dell’attivo, le possibilità di finanziamento dell’impresa e dei rapporti pendenti, ecc., per cui non poteva rimanere identico il ruolo dei creditori, in particolare di quelli prelatizi, al momento della espressione del voto e del momento del calcolo delle maggioranze in quanto questi, nel concordato in continuità, possono diventare parti interessate, secondo il concetto di cui all’articolo 2, paragrafo 1, n. 2, della Direttiva europea n. 1023 del 2019 che, appunto definisce parti interessate “i creditori, compresi, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i lavoratori, o le classi di creditori, e, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i detentori di strumenti di capitale, sui cui rispettivi crediti o interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione”. 
Il precipitato di questa diversità si trova concentrato nell’art. 109, che il novello legislatore ha strutturato dettando una regola generale sulle maggioranze per l’approvazione della proposta e del piano di concordato, facendo salva la diversa e specifica regolamentazione di cui al comma 5 (che introduce disposizioni specifiche riguardanti soltanto l’approvazione del concordato in continuità), come se questa fattispecie fosse una eccezione rispetto alla norma primaria; in realtà si tratta solo dell’utilizzo di una tecnica redazionale, non inappuntabile, per dettare disposizioni sul diritto di voto e sulle maggioranze per l’approvazione della proposta e del piano di concordato liquidatorio, altre per regolare le stesse materie nel concordato in continuità e regole comuni riguardanti alcuni aspetti dell’espressione del voto dei creditori prelatizi, le modalità del voto in presenza di proposte plurime e la rilevanza del conflitto di interessi, con l’indicazione specifica di alcune categorie di soggetti esclusi dal voto. 
In un commento all’art. 109 sarebbe, quindi, doveroso seguire gli stessi criteri, trattando prima delle regole comuni, per poi passare all’approvazione nei concordati liquidatori, e infine all’approvazione in quelli con continuità, ma in una esposizione centrata sulle maggioranze, si può dare per scontato che la libertà data al debitore di proporre ai creditori un accordo che preveda la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie (art. 87, comma 1, lett. d) si estrinseca per il pagamento dei creditori chirografari, che sono, quindi, i soggetti naturali che partecipano al voto, nel mentre, poiché il pagamento parziale o dilazionato dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca è soggetto a determinate condizioni, è su queste che va focalizzata l’attenzione in quanto esse segnano i limiti dell’espressione del voto; di conseguenza, per motivi di spazio, non si tratterà della rinuncia alla prelazione in quanto su questo tema il nuovo codice non presenta particolari novità (art. 109, comma 3), né della votazione nelle proposte concorrenti (art. 109, comma 2 e 7)[2], né dei soggetti esclusi dal voto (art. 109, comma 6), sebbene questi siano argomenti contenuti nella previsione dell’art. 109.
Tutto ciò ponendo quale ipotesi di lavoro la divisione (o contrapposizione) tra continuità e liquidazione, dando per scontato, per un verso, che le disposizioni riguardanti il concordato in continuità abbiano ad oggetto sia la continuità diretta che indiretta, e senza indagare, per altro verso, sulla figura del concordato con assuntore “o in qualsiasi altra forma”, contemplati dall’art. 84, su cui si soffermeranno altri.
2 . Il voto dei creditori prelatizi incapienti nella legge fallimentare
Regola comune ad entrami i tipi di concordato è quella posta dal quarto comma dell’art. 109, per il quale “I creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito”, che riprende, con alcuni aggiustamenti la disposizione di cui al terzo comma dell’art. 177 L. fall., che ha avuto una storia lunga e travagliata.
Il divieto di voto dei creditori privilegiati, pignoratizi e ipotecari si spiegava originariamente con la non configurabilità di un concordato, sia preventivo che fallimentare, che non contemplasse l’integrale e immediato pagamento dei prelatizi; principio, che trovava la sua fonte normativa nella vecchia formulazione dell’art. 160 e dell’art. 124, che, prevedendo quale condizione di ammissibilità la sola soddisfazione parziale dei creditori chirografari, presupponevano che i privilegiati e gli altri creditori preferenziali dovessero essere soddisfatti per intero e subito. L'integrale soddisfacimento dei crediti prelatizi costituiva peraltro, condizione essenziale ed indefettibile anche della regolare esecuzione del concordato preventivo con cessione[3], tanto che, ove in qualsiasi momento della liquidazione dei beni fosse emerso che le somme ricavabili non sarebbero state sufficienti a garantire tale pagamento integrale, il concordato doveva essere risolto a norma dell'art. 186 L. fall., a prescindere da ogni valutazione sulla gravità o non dell'inadempimento, da compiersi esclusivamente con riguardo alla sorte dei crediti chirografari[4].
Da questo principio, complice anche il mancato richiamo nell’art. 169 L. fall. dell’art. 54, discendeva il mancato riconoscimento del diritto di voto alla categoria dei creditori prelatizi, salvo rinuncia con perdita del privilegio, dettato dall’art. 177 e dall’art. 127 L. fall., dato che costoro non avevano interesse all’esito della votazione dal momento che il trattamento dei crediti in questione non poteva subire alcuna conseguenza giuridicamente apprezzabile dall'eventuale accoglimento della proposta dovendo essi essere soddisfatti integralmente e immediatamente[5].
Questa situazione è iniziata a mutare quando, con il D.L. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, nella L. n. 80 del 2005, veniva introdotta nella disciplina del concordato fallimentare la possibilità del pagamento in percentuale dei privilegiati, pignoratizi e ipotecari purché in misura non inferiore al valore dei beni sui quali grava il privilegio. Con il D.Lgs. n. 5 del 2006 veniva poi inserito nella legge fallimentare l’art. 182 ter, che, nell’ambito della transazione fiscale, consentiva un pagamento percentuale e dilazionato dei debiti (all’epoca solo) tributari, sicché nel concordato preventivo i creditori prelatizi erano ancora soggetti alla regola del pagamento integrale e immediato, salva l’ipotesi della transazione fiscale; solo con il decreto correttivo di cui al D.Lgs. n. 169 del 2007, veniva introdotto nell’art. 160 un secondo comma dal contenuto identico a quello di cui al terzo comma dell’art. 124[6], con la sola differenza che nel concordato preventivo il professionista è incaricato dal debitore e non dal tribunale[7]. 
E’ pacifico, pertanto, che per l’attuale legge fallimentare, sia nel concordato preventivo (liquidatorio o in continuità) che in quello fallimentare, la proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne contempli la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), fermo restando che "il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione". Relazione di stima che si è resa necessaria perché, mentre nella esecuzione fallimentare la determinazione della grado di soddisfazione dei creditori con prelazione avviene a posteriori, dopo, cioè, la liquidazione dei beni in considerazione del ricavato netto dalla liquidazione e del grado di collocazione dei privilegi[8], nei concordati (anche in quello fallimentare , salvo che la proposta arrivi alla fine della integrale vendita dei beni), bisogna fare una valutazione a priori e simulata di quanto potrebbe competere a quei creditori in base al presumibile ricavo della liquidazione dei beni gravati, con tutti i rischi connessi ad una valutazione prognostica in quanto il livello effettivo di soddisfazione è dato pur sempre dal ricavato dalla liquidazione dei beni, nella maggior parte dei casi inferiore a quello preventivato[9].
E’ altresì chiaro che, a questo punto, anche la disciplina sulla votazione doveva essere rivista e adeguata alla nuova situazione; di conseguenza, il divieto di voto è stato costruito non più sull’esclusivo dato della natura prelatizia del credito, ma ristretto a quei creditori prelatizi che non risentono alcun sacrificio dalla proposta fatta[10], nel mentre quelli che un tale sacrificio risentono- perché non soddisfatti integralmente- devono poter votare, altrimenti il sistema si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali; sicché può sinteticamente dirsi che oggi, al principio secondo cui i creditori prelatizi non votavano perché la proposta, in ogni caso, doveva prevedere il loro integrale e immediato pagamento, è stato sostituito da quello secondo cui essi non votavano quando la proposta, nel caso concreto, prevede il loro integrale e immediato pagamento[11].
E’ stata, così, fissata la regola che i creditori muniti di privilegio pegno e ipoteca non hanno diritto al voto quando vengono pagati integralmente, a meno che non rinuncino in tutto o in parte al diritto di prelazione, ed è stato introdotto un terzo comma nell’art. 177, per il quale “I creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell'articolo 160, la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito”, che trova il suo omologo nel concordato fallimentare al quarto comma dell’art. 127, per il quale, “I creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell'articolo 124, terzo comma, la soddisfazione non integrale, sono considerati chirografari per la parte residua del credito”[12].
3 . Il voto dei creditori prelatizi incapienti nel Codice della crisi
Il nuovo codice della crisi e dell’insolvenza riprende le norme della legge fallimentare sopra richiamate con alcuni aggiustamenti; le disposizioni di cui agli art. 124, comma 3, ed art. 160, comma 2, L. fall. sono trasfuse rispettivamente negli art. 240, comma 4, ed art. 84, comma 5[13], con una precisazione lì dove, nel circoscrivere la soddisfazione dei creditori preferenziali all’ipotesi di sfavorevole raffronto del credito vantato alle concrete prospettive di suo effettivo recupero in sede di riparto della liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione, richiedono che si tenga conto “del presumibile ammontare delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali”. 
Precisazione utile seppur non indispensabile perché lo stimatore, dovendo ipotizzare il presumibile realizzo del credito nella procedura liquidatoria per eccellenza, avrebbe comunque dovuto, indipendentemente dalla espressa previsione legislativa, tener conto, nel determinare il valore del bene, del ricavo distribuibile ai creditori preferenziali, e, quindi non del ricavo lordo bensì di quello al netto delle spese specifiche riferibili al bene e della quota delle spese generali allo stesso imputabili, così come appunto accade nel fallimento e nella liquidazione giudiziale ai sensi dell’art. 111 ter L. fall. e dell’art. 223 CCII. 
Altra utilità della precisazione è che essa permette il superamento di ogni residuo dubbio circa l’alternativa al concordato dovuto al termine vago utilizzato nella legge fallimentare di “liquidazione” che, unito al riferimento al “valore di mercato”, richiamava l’idea di una vendita libera, sebbene, anche sotto questo aspetto, era abbastanza agevole presumere, in quanto più aderente alla realtà, che il riferimento fosse al valore di liquidazione fallimentare, dato che l’alternativa liquidatoria al concordato preventivo è il fallimento e il concordato fallimentare si inserisce in una procedura fallimentare, sicché qualora non intervenga il concordato, i beni in questione vanno liquidati nella procedura fallimentare pendente. 
Il nuovo legislatore che, come appena visto, non si è risparmiato aggiunte utili, seppur non indispensabili, non ha usato lo stesso metro lì dove, nella formulazione del quinto comma dell’art. 84, non ha riprodotto l’inciso “in ragione della collocazione preferenziale,” contenuto nel secondo comma dell’art. 160 L. fall., per il quale, appunto, “la proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione…”. L’inciso in questione evidenzia la necessità di tenere conto, nel raffronto tra la possibile soddisfazione nel fallimento e quella proposta con il concordato, del complessivo monte del passivo e, quindi, delle effettive possibilità che un creditore fornito di una determinata prelazione e del grado della stessa (che, nel loro insieme, assegnano la collocazione) avrebbe potuto ricevere nel fallimento. 
E’ probabile che il nuovo legislatore abbia ritenuto superfluo riproporre la medesima locuzione, essendo del tutto evidente che il grado di soddisfazione di un creditore concorsuale, nel fallimento come nella liquidazione giudiziale, è dato proprio dal rapporto tra attivo netto e passivo, seguendo, nella soddisfazione, l’ordine delle cause di prelazione. Concetto riaffermato nel quarto comma dell’art. 85, che ripropone la regola secondo cui “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”, ove l’inciso “fermo quanto previsto dall’art. 84, commi 5, 6 e 7”, ribadisce che il rispetto della graduazione è dovuto anche in caso di pagamento parziale, per la parte che trova capienza e mantiene la prelazione, sia nei concordati liquidatori che in quelli in continuità per la parte dei beni non strumentali destinati alla liquidazione (comma 5 art. 84, che richiama la regola della absolute priority rule con riferimento alla soddisfazione dei creditori prelatizi con le risorse derivanti dalla liquidazione dei beni), nel mentre, in questi ultimi il valore crescente, costituito dagli incrementi patrimoniali generati dalla continuità, ossia il surplus concordatario può essere ripartito in misura più flessibile perché è sufficiente che il creditore di rango pozione non sia trattato peggio di quello di rango immediatamente successivo (relative priority rule) (comma 6, art. 84), con una regolamentazione a parte dettata per i crediti dei lavoratori dipendenti assistiti dal privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 1 (comma 7, art. 84). 
Ad ogni modo, se la superfluità del richiamo è stata la ragione della formulazione dall’art. 84, comma 5, non si spiega come mai lo stesso inciso sia stato conservato nel quarto comma dell’art. 240, che, con riferimento al concordato nella liquidazione giudiziale, ha ripreso integralmente il terzo comma dell’art. 124; è vero che in questo tipo di concordato la collocazione già emerge dallo stato passivo, ma il concordato può essere presentato da un terzo subito dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, sulla base di un elenco provvisorio dei creditori.
A sua volta, il quinto comma dell’art. 84 contiene una frase finale, secondo cui “La quota residua del credito è trattata come credito chirografario”, non compresa, invece, nell’art. 240, sebbene di grande utilità. Attualmente, infatti, gli artt. 124 e 160 L. fall. prevedono la possibilità del pagamento non integrale dei creditori prelatizi nel concordato fallimentare e preventivo attraverso il meccanismo della stima, poi gli art. 127, comma 4, ed art. 177, comma 3 L. fall. dedicati alla votazione nei rispettivi concordati stabiliscono che i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, “sono equiparati (così l’art. 177, nel mentre nell’art. 127 si dice: “sono considerati”) ai chirografari per la parte residua del credito”; da qui il dubbio se l’equiparazione esplica i propri effetti solo ai fini del voto[14], o anche dal punto di vista sostanziale quanto al trattamento[15]. La nuova disposizione, secondo cui la parte del credito prelatizio incapiente “è trattata come credito chirografo”, per il suo tenore e, principalmente, per la sua collocazione nell’art. 84 - che tratta delle finalità del concordato, e non nell’art. 109, che regola l’espressione del voto e le maggioranze per l’approvazione del concordato (corrispondente all’art. 177 L. fall.) - chiarisce in modo inequivoco che l’assimilazione della parte incapiente del credito prelatizio ai crediti chirografari non è solo ai fini del voto, ma a tutti gli effetti. 
Rimane il fatto che la stessa disposizione, come accennato, non è ripresa dall’art. 240 CCII, tuttavia, l’equiparazione fatta per il concordato preventivo segna una linea interpretativa che consente di leggere la disposizione del quarto comma dell’art. 243, secondo cui nel concordato inserito nella liquidazione giudiziale i creditori prelatizi incapienti “sono considerati chirografari per la parte residua del credito” come comprensiva di una assimilazione sotto tutti gli effetti, anche quelli sostanziali, della parte residua del credito prelatizio insoddisfatta in via preferenziale ai crediti chirografari fin dall’origine[16]. 
Diversa è anche la dizione nella individuazione delle caratteristiche del professionista che può essere chiamato ad effettuare la stima, dato che l’art. 84 si limita a richiedere un valore “attestato da professionista indipendente”[17], nel mentre l’art. 240 parla di “relazione giurata di un professionista indipendente, iscritto nell'albo dei revisori legali, in possesso dei requisiti di cui all'articolo 358 e designato dal tribunale”, con una dizione ridondante perché l’art. 2 lett. o) detta la definizione di “professionista indipendente”[18]. 
Il meccanismo della stima si concilia anche con le nuove regole procedurali del concordato in quanto la relazione dello stimatore potrà ancora essere oggetto di revisione da parte del commissario, che può servirsi a sua volta di un perito, e se sorgono contestazioni queste saranno esposte nella relazione e sottoposte ai creditori e ciascuno di questi avrà modo, nei limiti consentiti dal nuovo sistema che non contempla più l’assemblea, di fare le proprie osservazioni che, ai fini del voto vengono risolte dal giudice delegato.
Le norme sulla votazione contenute negli art. 127, comma 4, ed art. 177, comma 3, L. fall. sono state integralmente riprese rispettivamente dall’art. 243, comma 4, ed art. 109, comma 4, per cui, anche nel nuovo codice, “i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito”, che costituisce, quindi, l’entità del totale della pretesa creditoria che partecipa al voto. Tuttavia, il significato di questa disposizione nel codice della crisi non è lo stesso che si è visto avere nella legge fallimentare. Qui, l’art. 177, comma 3, L. fall. indica che i creditori preferenziali dei quali la proposta di concordato prevede, ai sensi dell’articolo 160, la soddisfazione non integrale, hanno diritto di voto per la sola parte del credito per la quale la proposta di concordato non prevede, sulla base della relazione, la soddisfazione; nel nuovo codice della crisi questa lettura è ancora valida se applicata al concordato liquidatorio, nel mentre si pone in insanabile contrasto con le previsioni sulla approvazione del concordato in continuità di cui al quinto comma dell’art. 109 (di cui si parlerà in prosieguo), per superare il quale si deve interpretare il quarto comma dell’art. 109 nel senso che i creditori prelatizi per la parte incapiente sono equiparati ai chirografari anche ai fini del voto, ma non esclude che gli stessi possano esprimere il voto anche per la parte capiente, come il comma successivo consente a determinate condizioni. 
Ad ogni modo, fatta questa precisazione (di cui si darà conto in seguito), l’equiparazione fatta dal quarto comma dell’art. 109 tra i creditori chirografari e quelli prelatizi per la parte di credito che non trova capienza sui beni secondo la relazione di cui si è accennato, è valida sia nel concordato liquidatorio che in quello con continuità, per cui in entrambi la parte del credito preferenziale che non trova capienza, secondo la “stima” effettuata, sui beni oggetto della prelazione, è considerata come chirografaria ai fini del voto, e, di conseguenza, questa parte entra nel monte crediti per il calcolo delle maggioranze e i titolari del credito possono esprimere il loro voto, senza dover rinunciare alla prelazione nonché essere inclusi in classi, con trattamento differenziato.
Quest’ultimo accenno alla formazione delle classi porta l’attenzione su un altro riflesso della distinzione, sottolineata fin dall’inizio di questo scritto, tra concordato liquidatorio e concordato in continuità quanto alle maggioranze per l’approvazione, dato che i poteri del debitore non sono uguali nelle due tipologie di concordato, ma di questo si parlerà in seguito trattando delle maggioranze nei concordati in continuità.
4 . Il voto dei creditori prelatizi dilazionati nei concordati liquidatori nella legge fallimentare e nel Codice della crisi
Nel percorso di avvicinamento al traguardo della formazione delle maggioranze, la tappa più impervia è quella che ha portato a delineare il trattamento dei creditori prelatizi dilazionati, che, già nel vigore della legge fallimentare, va differenziato tra i due tipi di concordato in ragione della loro diversa normativa e struttura.
È appena il caso di ricordare che l'ammissione dell'imprenditore al concordato preventivo postulava, nella versione originaria della legge fallimentare, oltre al pagamento integrale dei crediti prelatizi anche quello immediato degli stessi crediti, giacché, a norma del secondo comma dell’art. 55 L. fall. "i debiti pecuniari... si considerano scaduti... alla data di dichiarazione di fallimento", per cui, in forza del richiamo di tale norma da parte dell’art. 169, anche nel concordato preventivo tutti i debiti (o crediti, visti dal lato attivo) pecuniari (e non pecuniari, per il richiamo anche dell’art. 59) si intendono scaduti alla data di presentazione della domanda di concordato. 
Questa regola, nella versione originaria della legge fallimentare, era rigorosa per i creditori privilegiati, ipotecari e pignoratizi nel mentre per il pagamento dei creditori chirografari l’art. 160, comma 2, n. 1, prevedeva la possibilità di una dilazione di sei mesi o anche maggiore se la proposta era accompagnata dalla prestazione di garanzie anche per gli interessi, il che implicitamente presupponeva il pagamento immediato dei crediti prelatizi; fermo restando che, comunque, il tempo del pagamento dei crediti assistiti da garanzie specifiche (pegno, ipoteca e privilegio speciale) era determinato dalla liquidazione dei beni gravati, data la vincolatività della inerenza del credito con un bene individuato. 
Principi trasfusi anche nella legge fallimentare riformata in cui è rimasto l’obbligo del pagamento immediato dei creditori prelatizi, ove l’immediatezza va coniugata con la liquidazione dei beni gravati, sicché, per un verso, la tematica del voto di questi creditori non si pone fino al momento della liquidazione dei beni oggetto della garanzia, che segna l’attualità del loro diritto di credito, e, per altro verso, quella del pagamento dilazionato riguarda le ipotesi in cui viene proposto a questi creditori un pagamento che va oltre il tempo della liquidazione.
Tralasciando, al momento, la differenza tra moratoria e rateizzazione - su cui si tornerà trattando della continuità, ove questa questione assume maggiore consistenza - il dato rilevante è che della moratoria, della dilazione o della rateizzazione non vi è traccia nella disciplina del concordato liquidatorio nella legge fallimentare, sicché il primo problema che si è posto è stato quello della ammissibilità di una proposta di dilazione rivolta ai creditori prelatizi in tale tipo di concordato o comunque ai creditori che vantino diritti di prelazione sui beni destinati alla liquidazione nei concordati in continuità.
La S. Corte con due interventi del 2014[19] ha affermato l’ammissibilità di tale dilazione, e, sebbene le argomentazioni portate a sostegno di questa tesi non siano tanto solide[20] tali da poterne dedurre l’esistenza di un principio di portata generale che ammetta la moratoria dei crediti con prelazione nei concordati liquidatori, bisogna prendere atto che l’accennato indirizzo della Corte è diventato uniforme e costante[21], per cui si può partire dal dato che i creditori prelatizi ai quali viene offerto un pagamento dilazionato possano essere equiparati ai creditori non integralmente soddisfatti[22]. 
Concetto lessicalmente non errato perché se il pagamento dei creditori prelatizi nel tempo determinato dalla liquidazione dei beni gravati costituisce adempimento integrale, si ha soddisfazione non integrale quando vi è una separazione temporale tra l'epoca prevista per la vendita dei beni oggetto della proposta concordataria e il pagamento dei creditori assistiti da cause di prelazione sugli stessi, sicché questa ipotesi è assimilabile al pagamento non integrale di cui al secondo comma dell’art. 160, con la conseguenza che nel concetto di pagamento non integrale può essere compreso sia un pagamento non integrale in senso quantitativo che temporale, che si verifica quando l'adempimento avviene con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura o dai tempi della liquidazione dei beni; e, così, nonostante la differenza sostanziale tra un pagamento non integrale quantitativamente per incapienza sul bene gravato- in cui il creditore non percepisce l’intero importo del suo credito perché per la parte non capiente passa al chirografo- e un pagamento non integrale per dilazione nel pagamento, in cui il creditore può ricevere anche la somma complessiva corrispondente al suo credito ma la riceve nel corso del tempo, i creditori muniti di cause di prelazione, come hanno diritto al voto quando ad essi viene offerto un pagamento parziale per incapienza, possono egualmente esercitare il diritto di voto quando la proposta di concordato prevede un pagamento dilazionato con scadenze che vanno oltre i tempi tecnici necessari per la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. 
Una volta riconosciuto che i creditori prelatizi hanno diritto al voto nel caso indicato, bisognava stabilire quale fosse la misura del credito in relazione alla quale computare il diritto di voto e se decorrono gli interessi. 
Anche a questa domanda ha dato risposta la Cassazione, che ha statuito che la dilazione, rispetto ai tempi "normali", va valutata in ragione della perdita economica conseguente al ritardo con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme ad essi spettanti e “la determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto L. fall., ex art. 177, comma 3, costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata L. fall., ex art. 160, comma 2, tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di realizzo dei beni gravati in ipotesi di soluzione alternativa al concordato, oltre che del contenuto concreto della proposta nonché della disciplina degli interessi di cui agli artt. 54 e 55 L. fall.”[23].
Come si vede, la Corte, ripetendo lo schema posto dal secondo comma dell’art. 160 - che richiede un raffronto tra quanto al creditore prelatizio viene promesso nel concordato e quanto potrebbe percepire da una liquidazione nella procedura alternativa fallimentare - propone di tenere conto anche nella fattispecie della dilazione “dei tempi tecnici di realizzo dei beni gravati in ipotesi di soluzione alternativa al concordato”[24]; tuttavia, la reiterazione in caso di dilazione, di un meccanismo ideato per equiparare, sotto il profilo quantitativo, il trattamento dei creditori prelatizi nel concordato a quello che gli stessi ricevono nel fallimento anticipando, attraverso una stima preventiva, il risultato finale che nel fallimento si ha con la liquidazione dei beni. non è per nulla convincente. 
E’, infatti, irrilevante raffrontare i tempi di adempimento nelle due procedure, dato che con la dilazione, il pregiudizio per il creditore è dato dalla differenza, tutta interna alla procedura concordataria liquidatoria, tra un pagamento all’atto della liquidazione dei beni sui quali grava la prelazione e quello offerto nella proposta, nel mentre non interessa sapere quando quel creditore potrebbe ottenere il pagamento nelle possibili alternative prospettabili (che si esauriscono sostanzialmente nel fallimento), tanto più che, all’atto della presentazione della domanda di concordato, non sono pronosticabili con un minimo di attendibilità i tempi della liquidazione e dei riparti nel fallimento.
Di queste incongruenze sembra essersi resa conto la Corte[25] quando ha affrontato lo stesso problema nel concordato fallimentare, per il quale gli artt. 124, comma 3, e 127, comma 4, ripropongono, come visto, gli stessi principi contenuti negli artt. 160, comma 2 e 177, comma 3, per cui in entrambi i concordati la proposta può prevedere la soddisfazione non integrale dei creditori muniti di diritto di prelazione e, in entrambi, i creditori prelatizi sono considerati per la parte residua del credito incapiente come chirografari, che sono le regole da cui la giurisprudenza muove per individuare la disciplina del voto, non solo nel caso di incapienza, ma, come detto, anche nel caso in cui ai creditori prelatizi sia offerto il pagamento integrale ma dilazionato nel tempo. 
Invero la Cassazione, dopo aver ripreso il principio che anche nel concordato fallimentare la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, per cui “il pagamento con tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura è da considerare equivalente a una soddisfazione non integrale in ragione della perdita economica conseguente al ritardo, rispetto ai tempi normali, con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme loro spettanti”, ha ribadito che “i creditori privilegiati debbono poter partecipare al voto sulla proposta di concordato nei limiti della perdita consequenziale”. Nel quantificare poi la perdita, illustrata l’impossibilità di assimilare il pagamento integrale e immediato al pagamento integrale ma dilazionato e con interessi, ha precisato che il pagamento integrale ma rateizzato, anche se accompagnato dalla corresponsione degli interessi, comportando un sacrificio della posizione del creditore privilegiato, giustifica la necessità di garantire la sua partecipazione al voto e, a tale fine, bisogna determinare la perdita effettiva che il creditore subisce rispetto (non al trattamento che avrebbe nel fallimento, ma) al soddisfacimento derivante dal pagamento in denaro, integrale e immediato, del credito.
Di conseguenza, per la Corte, non ricorre la necessità di acquisire la relazione del professionista cui fa riferimento l’art. 124, comma 3, L. fall. (e la Cassazione di cui si è detto in precedenza) perché “la relazione giurata del professionista designato dal tribunale è funzionale alla verifica di un valore che consenta di determinare la misura di soddisfazione del credito presumibilmente realizzabile in caso di liquidazione dei beni e dei diritti, quale limite minimo suscettibile di essere previsto nella proposta di concordato. Essa non assume alcuna rilevanza quando il proponente abbia confezionato la proposta prevedendo il pagamento del credito in conformità del titolo ma con semplice dilazione. In tal caso la misura del soddisfacimento non è legata al valore dei beni o dei diritti suscettibili di liquidazione, ma molto più semplicemente all'incidenza del decorso del tempo, per cui ogni valutazione al riguardo, in vista del successivo computo delle maggioranze, può essere effettuata dagli organi della procedura”.
In conclusione, nel caso di proposta concordataria liquidatoria che preveda il pagamento dei creditori prelatizi in modo integrale ma dilazionato oltre i tempi tecnici della liquidazione dei beni oggetto delle garanzie, bisogna tenere conto della perdita economica per i creditori garantiti da privilegio pegno o ipoteca conseguente al ritardo in quanto rilevante ai fini del computo del voto; sicché, a tale scopo, la perdita - determinata dal raffronto con quanto quei creditori potrebbe e dovrebbe ottenere nell’ambito della procedura che si considera (e non con quanto potrebbero ottenere nelle possibili alternative prospettabili) - rappresenta la parte residua del credito per la quale tali creditori devono essere equiparati ai chirografari, in applicazione del terzo comma dell’art. 177 e del quarto comma dell’art. 127, e per la quale, quindi, partecipano al voto.
Gli stessi criteri valgono anche nel concordato liquidatorio regolato dal nuovo codice della crisi in quanto la flessibilità della proposta concordataria è ripresa dall’art. 84, per cui è rimasto il potere per il debitore di modificare unilateralmente i termini di adempimento delle proprie obbligazioni verso i creditori prelatizi, seppur in un quadro normativo più rigoroso, che incide, tuttavia, sull’ammissibilità del concordato in funzione dell’incremento della soddisfazione dei creditori chirografari, ma non sulla regolamentazione della votazione e delle maggioranze; ed, infatti, per questa parte, il nuovo codice riprende la precedente normativa fallimentare, con gli adattamenti dovuti alla mancanza della adunanza. Anche nel nuovo concordato liquidatorio manca, invero, una norma espressa che preveda la dilazione e ne fissi la durata, in quanto la moratoria è prevista esclusivamente per i concordati con continuità (art. 86) o per il trattamento dei crediti tributari inseriti in una transazione (art. 88) e l’unica ipotesi di mancato pagamento integrale dei creditori prelatizi è collegata alla incapienza dei beni gravati accertata con le modalità di cui al comma quinto dell’art. 84; sicché, in mancanza di una disposizione che vieti la dilazione del pagamento oltre i tempi tecnici, non vi sono ostacoli a lasciare ai creditori la libertà di valutare se una proposta che preveda pagamenti dilazionati sia conveniente rispetto alle possibili alternative di soddisfacimento.
Il meccanismo della stima come concepito dal quinto comma dell’art. 84 è idoneo a fissare la quota dei crediti prelatizi che trova capienza sui beni gravati, e, quindi, la quota che partecipa al voto corrispondete alla parte incapiente, ma allorché si parla del pregiudizio del creditore prelatizio dilazionato, che è costituito dal ritardo con cui il debitore concordatario propone di pagarlo rispetto al momento in cui dovrebbe essere soddisfatto, i tempi di pagamento proposti vanno rapportati al tempo della liquidazione, che segna il momento in cui il creditore con prelazione su quel bene dovrebbe essere soddisfatto, con gli interessi legali decorrenti dall’apertura della procedura alla data della vendita[26]. Pertanto, il proponente il concordato, attraverso l’adattamento della relazione di stima di cui al quinto comma dell’art. 84, deve fornire la prova del presumibile momento in cui i beni gravati dalla prelazione potranno essere liquidati nel concordato, nonché la prova del pregiudizio che tale creditore subisce per il fatto di essere soddisfatto, secondo la proposta concordataria, in una epoca successiva a quella dei preventivati tempi tecnici di realizzo, per poi valutare se tale pregiudizio è coperto dagli interessi offerti dal debitore, per cui il diritto al voto scatta solo per la perdita che eventualmente rimane in capo al creditore.
In questo contesto, i dubbi che la dilazione possa agire sulla alterazione dei principi su cui si fonda l’accordo concordatario della soddisfazione integrale e immediata dei crediti con prelazione, ove l’immediatezza è collegata al tempo della liquidazione dei beni gravati dalla garanzia, sono gli stessi che ricorrono nell’assetto della legge fallimentare attuale e che la giurisprudenza ha superato; per cui la dilazione può riconoscersi anche nel concordato liquidatorio regolato dal nuovo codice concedendo ai creditori interessati il diritto di esprimersi con il voto non per l’intero credito, ma per la quota di pregiudizio subita come in precedenza determinabile.
5 . Il voto dei creditori prelatizi dilazionati nei concordati con continuità nella legge fallimentare e nel Codice della crisi
Completamente diversa è la soluzione nei concordati con continuità aziendale. Nella legge fallimentare il problema del pagamento dilazionato dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, per un verso, è di più agevole soluzione, rispetto alla fattispecie del concordato liquidatorio esaminata in precedenza, e, per altro verso, presenta aspetti di maggiore complessità.
È più facile perché l’ammissibilità della moratoria è riconosciuta dall’art. 186 bis, comma 2, lett. c) L. fall., che, appunto, espressamente stabilisce che “il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall’articolo 160, secondo comma, una moratoria sino ad un anno (termine portato fino a due anni con il D.L. n. 118 del 2021, convertito dalla L. n. 147 del 2021) dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto”. 
Questa disposizione consegna alcune chiare indicazioni utili a delimitarne il campo di applicazione:
a-mentre nei concordati liquidatori il pagamento dei creditori prelatizi va effettuato nel momento in cui viene realizzata la vendita dei beni oggetto di garanzia, o, meglio al momento, in cui viene effettuato il versamento del corrispettivo da parte dell'aggiudicatario, nei concordati in continuità aziendale vale il principio che il pagamento va effettuato all’omologa, o meglio nei tempi tecnici necessari successivi all’omologa. 
b-Lì dove si mantiene fermo quanto disposto dal secondo comma dell'art. 160 L. fall. e si fa salva la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, si chiarisce, per un verso, che la moratoria di due anni non esclude che i creditori prelatizi possano trovare soddisfazione non integrale dalla liquidazione dei beni sui quali grava la prelazione, operando, per tale ipotesi, il meccanismo di cui al secondo comma dell’art. 160, nel qual caso la moratoria interesserà soltanto la parte capiente che conserva la prelazione, passando la parte residua al chirografo non soggetta al vincolo biennale; dall’altro, non riguarda i creditori che vantino diritti di prelazione sui beni destinati alla liquidazione per non essere funzionali all’esercizio dell’impresa, per i quali vale la regola del pagamento nel momento in cui viene realizzata la vendita del bene oggetto di garanzia. L’ambito di applicazione della norma di cui alla lett. c) del secondo comma dell’art. 186 bis L. fall. è circoscritto, pertanto, ai creditori che hanno privilegio, pegno o ipoteca sui beni strumentali alla prosecuzione dell’attività (e non destinati, quindi, alla liquidazione) allo scopo di consentire all'imprenditore in crisi di preservare temporaneamente le disponibilità liquide per destinarle, allo scopo di favorire la continuità aziendale, alla gestione dell’impresa piuttosto che al pagamento immediato dei creditori, per un periodo che non sia eccessivamente penalizzante per il ceto creditorio.
c-Lì dove si parla di “moratoria sino a due anni dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca”, la norma si riferisce alla possibilità per il debitore di sospendere il pagamento di questa categoria di creditori per un periodo, fino a due anni dalla omologa, in modo da concedere al debitore un periodo di tregua senza l’assillo di dover far fronte alle scadenze, che gli consenta di meglio organizzare le proprie risorse in funzione del mantenimento della continuità dell’impresa e del miglior soddisfacimento dei creditori. 
Diversa dalla moratoria così intesa è il differimento nel pagamento, che si riallaccia più al concetto di rateizzazione, che rientra nella possibilità, prevista dalla lett. a) del primo comma dell’art. 160 L. fall., della ristrutturazione dei debiti e della soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma[27]; il debitore, cioè, può proporre il mantenimento delle originarie scadenze delle proprie obbligazioni ma anche indicare nuove scadenze che prolunghino il pagamento nel corso degli anni, per cui non c’è una completa sospensione dei pagamenti per un certo lasso di tempo, ma un pagamento diluito nel tempo. E le due fattispecie non si escludono perché alla scadenza di un periodo di moratoria- durante il quale è sospeso l’obbligo di adempimento delle obbligazioni- può seguire il pagamento integrale del debito in un’unica soluzione, oppure un pagamento rateale dell’intera somma dovuta, eventualmente maggiorata degli interessi, ma è anche vero che le due fattispecie non sempre vengono tenute distinte tanto che si trovano promiscuamente utilizzati i termini di moratoria, differimento, rateizzazione, ecc.
La maggiore complessità nel concordato in continuità discende proprio dalla formulazione della norma di cui alla lett. c) del secondo comma dell’art. 186 bis L. fall. che, dopo la previsione della moratoria sino a due anni, aggiunge ”in tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto”, il che può indurre a ritenere che in casi diversi, come in quello in cui si offra una dilazione ultra biennale, la proposta sia egualmente ammissibile, ma il creditore ricupera il diritto di votare, che non può esercitare se la moratoria è contenuta nel biennio.
L’interpretazione di questa norma, sia per quanto riguarda la possibilità che il piano possa contemplare una moratoria oltre due anni dalla omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca sui beni destinati alla continuazione dell’attività di impresa, sia per il diritto di voto a costoro eventualmente attribuito (in quali casi e per quale parte del credito, se necessaria la classazione), ha destato, fin dalla sua introduzione un ampio dibattito in dottrina[28] e nella giurisprudenza di merito[29], che un intervento della Cassazione sembra aver sedato. 
La S. Corte[30], infatti, in piena continuità con le decisioni citate nei precedenti paragrafi (che a loro volta portavano, come detto, a conferma della tesi favorevole all'ammissibilità della dilazione del pagamento dei crediti con preferenza nei concordati liquidatori anche l’introduzione della lett. c) del secondo comma dell’art. 186 bis, ha statuito che “Nel concordato preventivo con continuità aziendale è consentita la dilazione del pagamento dei crediti privilegiati anche oltre il termine di un anno dall'omologazione, purché si accordi ai titolari di tali crediti il diritto di voto e la corresponsione degli interessi”. Secondo la Corte, quindi, il piano concordatario può prevedere, in ossequio alla disposizione normativa dettata dall'art. 186 bis, comma 2, lett. c), una moratoria fino ad un anno (ora due anni) dalla omologazione per il pagamento dei crediti muniti di privilegio, pegno ovvero ipoteca (a meno che il piano stesso non preveda la liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione) e tale moratoria, “non richiede l'ammissione al voto e neanche l'inserimento di tali creditori in una specifica classe, trattandosi dell'utilizzazione da parte dell'imprenditore proponente il piano concordatario di una facoltà prevista dalla legge”; pertanto solo nei casi e nella misura in cui la dilazione per il soddisfacimento dei creditori prelatizi ecceda il termine di un anno dalla omologazione previsto dalla norma, “i creditori privilegiati, al pari di quanto avveniva in passato, saranno chiamati ad approvare la proposta di concordato, se del caso, previo inserimento in un'apposita classe” e previa corresponsione degli interessi, senza farsi carico di indicare un termine finale di rateizzazione. La Corte, poi, quando passa ad individuare il credito per il quale il creditore prelatizio dilazionato può partecipare al voto, afferma, anticipando la previsione che all’epoca costituiva il contenuto dell’art. 86 del nuovo codice della crisi, che “il diritto di voto dei privilegiati dilazionati andrà calcolato sulla base del differenziale tra il valore del loro credito al momento della presentazione della domanda di concordato e quello calcolato al termine della moratoria, dovendo i criteri per tale determinazione essere contenuti nel piano concordatario a pena di inammissibilità della proposta”. 
Come si vede, a parte la scarsa coerenza di questa conclusione con la premessa[31], la Corte ritiene di poter utilizzare il criterio dettato dal legislatore nel nuovo Codice della crisi di impresa “anche per la regolamentazione della materia in esame in relazione ai concordati ricadenti sotto l'egida applicativa dell'attuale legge fallimentare, essendo identici i principi regolanti la materia dell'esercizio del diritto di voto da riconoscersi ai creditori privilegiati dilazionati”. Ma non è affatto così[32]; non lo era con riferimento al testo del CCII del 2019 e, a maggior ragione, non lo è rispetto al testo attuale dovuto al nuovo D.Lgs. n. 83 del 2022, che detta criteri del tutto nuovi e diversi.
Effettivamente nella sua originaria versione, l’art. 86 (dalla rubrica “Moratoria nel concordato in continuità”, che esprime l’autonomia dell’istituto della moratoria) prevedeva che il debitore potesse usufruire di una moratoria della durata non superiore a due anni, “salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”; tuttavia questa nuova dizione non si limitava soltanto ad estendere di un ulteriore anno la moratoria per il pagamento dei creditori il cui credito è assistito da privilegio o garantito da pegno o ipoteca, ma fissava il termine massimo della dilazione nel pagamento dei creditori prelatizi in due anni. Concetto già abbastanza chiaro nella versione originale del codice, ove si parlava di “moratoria fino a due anni”[33], ma ulteriormente rafforzato dalla modifica introdotta dal correttivo di cui al D.Lgs. n. 147 del 2020- che aveva sostituito la dizione “moratoria fino a due anni” con quella di “moratoria non superiore a due anni”, che eliminava ogni possibile incertezza interpretativa, “chiarendo che la moratoria per il pagamento dei crediti assistiti da cause di prelazione, legittima esclusivamente nel concordato in continuità, non può mai eccedere i due anni dall’omologazione” (Relaz. al D.Lgs. n. 147 del 2020). 
E’ superflua, tuttavia, ogni ulteriore considerazione in proposito e in ordine alle implicazione che tale assetto comportava in quanto questo è stato radicalmente modificato con il recente decreto legislativo n. 83 del 2022; l’odierno definitivo art. 86 disciplina, infatti, la moratoria dei creditori prelatizi nel concordato in continuità aziendale prevedendo che la proposta e il piano possano contemplare “una moratoria per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca” senza limiti di tempo in quanto contrastante con gli scopi perseguiti dalla direttiva volti ad agevolare la ristrutturazione e la redazione di piani in continuità, con l’unica eccezione che fissa, a tutela dei crediti di lavoro, a sei mesi il termine massimo di dilazione dei pagamenti dei creditori assistiti dal privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 1, c.c. 
Questa norma va letta in combinato con il quinto comma dell’art. 109, nella parte in cui dispone che “I creditori muniti di diritto di prelazione non votano se soddisfatti in denaro, integralmente, entro centottanta giorni dall’omologazione, e purché la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”. Ossia, per la prima volta, il legislatore, indicando a quali condizioni i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca devono ritenersi totalmente soddisfatti, tanto da non avere diritto al voto, individua, a contrario, le condizioni in presenza delle quali usufruiscono del diritto di voto in quanto, per definizione legislativa, la loro soddisfazione deve ritenersi incompleta.
Orbene i creditori prelatizi non sono ammessi al voto, in primo luogo, se hanno ricevuto il pagamento integrale e in denaro, ove l’integralità esprime un pagamento che copra l’intero credito riconosciuto o provvisoriamente ammesso e il riferimento al denaro esclude che possano essere considerati altri mezzi di soddisfazione, sicché un pagamento parziale o anche integrale ma con datio in solutum porta il creditore tra le parti interessate in quanto su essi incide la ristrutturazione proposta; naturalmente, alla luce di quanto detto nel paragrafo precedente si parla di pagamento integrale in denaro del credito che trova capienza sui beni oggetto della garanzia secondo la stima del professionista incaricato, in quanto per la parte incapiente, il creditore è stato già degradato a chirografo e la soddisfazione di questa parte fuoriesce quindi dalla previsione del comma quinto dell’art. 109.
La novità più rilevante in proposito riguarda, però, proprio il tempo dell’adempimento per il quale, come detto, l’art. 86 non pone più limitazioni, ma, in virtù della norma in esame, il pagamento, solo se è effettuato entro centoottanta giorni dall’omologa, è considerato come adempimento completo che non fa scattare il diritto di voto, sicché il debitore può proporre anche una dilazione maggiore di questa semestrale indicata, ma, in tal caso, il creditore, anche se soddisfatto integralmente e in denaro, recupera il diritto di voto. Per i crediti assistiti dal privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 1, c.c., il termine di 180 giorni è ridotto a 30 giorni, di modo che, posto che l’art. 86 per gli stessi crediti consente una moratoria nel pagamento massimo fino a sei mesi in caso di concordato in continuità aziendale, i lavoratori dipendenti, ove la proposta preveda il pagamento integrale in denaro entro trenta giorni, non hanno diritto al voto, nel mentre, ove sia proposta una dilazione maggiore (comunque entro i sei mesi, altrimenti il concordato è inammissibile) del pagamento, acquistano il diritto al voto.
L’ultima condizione posta per escludere il voto è che “la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”, espressione abbastanza oscura perché sembra riferirsi ai beni gravati da pegno o ipoteca non strumentali alla continuazione dell’attività e soggetti, quindi a liquidazione, ritenuta funzionale al pagamento, ma non si capisce cosa intenda il legislatore per garanzia reale che “resti ferma”, non essendo ipotizzabile una ipoteca o un pegno che si muova autonomamente; probabilmente intende dire che, fin quando esiste il bene oggetto della garanzia sussiste anche questa, per cui i creditori ipotecari e pignoratizi non subiscono alcun pregiudizio tale da ammetterli al voto.
In questo nuovo sistema, in cui il legislatore ha prefissato le condizioni in presenza delle quali i creditori diventano “incisi” e, quindi parti interessate al voto, si inserisce armonicamente la previsione del secondo comma dell’art. 100, che, quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, consente il pagamento alle scadenze convenute delle rate a scadere del contratto di mutuo con garanzia reale gravante su beni strumentali all’esercizio dell’impresa, sempre che ricorrano determinate condizioni[34]. E’ chiaramente una norma di carattere eccezionale rispetto alla regola della cristallizzazione del patrimonio per la quale i crediti pecuniari (quali sono quelli per il pagamento dei ratei di mutuo) si considerano scaduti, agli effetti del concorso, alla data di presentazione della domanda, che ha lo scopo di “evitare che il debitore, al fine di soddisfare un debito per la restituzione di un prestito, sia costretto a contrarre un nuovo debito, anche a condizioni deteriori (stante il peggioramento del merito creditizio), con danno per i creditori” o, comunque, sia costretto a rinegoziare le scadenze con il creditore; tuttavia, tale disposizione- che costituiva una eccezione anche rispetto alla previsione della durata massima biennale della dilazione, secondo l’interpretazione data al testo dell’art. 86 anteriore all’ultima modifica- ora si concilia perfettamente con la nuova previsione della dilazione senza limiti introdotta nell’ultima versione dell’art. 86, con il conseguente diritto di voto dei creditori interessati ove la dilazione superi i 180 giorni.
Nella stessa ottica va considerata la previsione di cui al primo comma dell’art. 88, lì dove dispone che “Se il credito tributario e contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie”. E’ l’affermazione del principio del rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione, declinato nella versione della relative priority rule (introdotta dal comma sesto dell’art. 84 come regola nel concordato in continuità per la distribuzione del valore eccedente quello di liquidazione) e, poiché la norma fa riferimento anche “ai tempi di pagamento”, se ne deve dedurre che i crediti tributari e previdenziali non possono essere soddisfatti in tempi più lunghi di quelli proposti ai crediti di rango inferiore o in tempi più brevi di quelli proposti ai creditori di rango superiore[35].
6 . Le maggioranze per l’approvazione dei concordati liquidatori
Esposti i principi che regolano l’espressione del voto dei creditori, e di quelli prelatizi in particolare quando non trovano capienza e/o vengono dilazionati nel pagamento, è possibile affrontare da vicino il tema delle maggioranze nel concordato liquidatorio e in quello con continuità aziendale che, come detto, fin dall’inizio, sono diversamente determinate nell’ultima versione del codice della crisi.
Come si è visto, nei concordati liquidatori nulla è cambiato rispetto al passato, se non un ulteriore inasprimento delle condizioni di ammissibilità per incrementare la soddisfazione dei creditori chirografari. Sono ammessi al voto, pertanto, i creditori chirografari nonché quelli prelatizi, per la parte per la quale rinunciano alla prelazione e per quella per la quale non trovano capienza sui beni gravati sulla base del meccanismo della stima e per il pregiudizio subito in caso di dilazione, di cui si è detto nei par. 3 e 4.
Anche quanto alle maggioranze richieste per l’approvazione è cambiato poco in quanto il primo comma dell’art. 109 riprende il pari comma dell’art. 177 L. fall. nella versione attuale (dovuta al decreto correttivo n. 169 del 2007)[36] secondo la quale “Il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi”, per cui, abolita la maggioranza numerica, è richiesta, in mancanza di classi, la sola maggioranza quantitativa assoluta dei crediti ammessi al voto e non più dei due terzi e, in presenza di classi, è richiesta, oltre a questa maggioranza, anche quella nel maggior numero di classi, che, come accennato, continua a giustificare l’uso del termine maggioranze al plurale.
La doppia maggioranza, numerica e quantitativa, era diretta ad intercettare un consenso che non si fermasse all’adesione di pochi creditori, in ipotesi anche uno solo titolare di un credito consistente, ma che coinvolgesse anche i creditori minori; l’abbandono della maggioranza numerica, se da un lato semplifica il calcolo, dall’altro va incontro proprio all’inconveniente di svilire la volontà della pluralità in favore dei c.d. creditori forti i quali, dalla riforma in poi, hanno potuto condizionare, più di prima, la sorte del concordato (obbligatorio per tutti), tanto più che è stato abbassato il quorum quantitativo.
Questa esigenza è stata colta dal recente legislatore del codice della crisi, il quale nell’art. 109, dopo aver confermato il principio secondo il quale per l’approvazione del concordato è sufficiente che si esprimano a favore della proposta i creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto, aggiunge che, nel caso in cui un unico creditore sia titolare di crediti in misura superiore alla maggioranza dei crediti ammessi al voto, “il concordato è approvato se, oltre alla maggioranza di cui al periodo precedente, abbia riportato la maggioranza per teste dei voti espressi dai creditori ammessi al voto”, ferma restando la regola che in caso di formazioni di classi il concordato è approvato se la maggioranza dei crediti ammessi al voto è raggiunta anche nel maggior numero di classi.
Nel caso considerato, quindi, il legislatore, seppur con una formula ridondante (“la maggioranza per teste dei voti espressi dai creditori ammessi al voto”) ha inteso ripristinare il meccanismo di voto antecedente alla riforma del 2006, quando era richiesta anche la maggioranza assoluta dei creditori votanti (sarebbe stato opportuno riprendere anche il testo dell’originario primo comma dell’art. 177), sembrando poco verosimile che la norma voglia fare riferimento ad un maggioranza che vada oltre i voltanti, calcolata sempre numericamente ma sul numero complessivo dei creditori ammessi al voto, dal momento che l’espressione utilizzata valorizza solo il voto di chi si sia espresso, ossia dei votanti tra tutti i creditori ammessi al voto (ed infatti ben diversa è la formula utilizzata nel comma quinto, di cui si parlerà).
Al di là di questa imprecisione, la norma è molto opportuna in quanto tende a limitare il dominio automatico che avrebbe il creditore che dispone da solo della maggioranza, seppur, a mio avviso, sarebbe stato preferibile porre questa regola già in caso di concentrazione in capo ad un unico creditore di una massa di crediti inferiore alla maggioranza purché fortemente condizionante (ad es. superiore al 35 o 40 per cento dei creditori ammessi al voto), posto che il nuovo meccanismo non neutralizza il voto dei creditori dominanti, ma tende a rendere la votazione quanto più possibile aderente all’effettiva volontà espressa dal corpo dei creditori, chiedendo anche il voto per teste[37].
Sulla scia dell’ultima versione della legge fallimentare risalente al 2015[38], è stato mantenuto, quindi, nel nuovo codice il principio del silenzio vale dissenso giacché, quando si prevede, nel primo comma dell’art. 109, che “il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto”, si dà rilievo al solo consenso esplicito che, rapportato ai fini del calcolo della maggioranza, al monte crediti ammessi al voto, finisce per accumunare automaticamente i dissenzienti con i silenti. 
E’ stata mantenuta anche la differenza, sotto questo profilo con il concordato che si innesta nella liquidazione giudiziale per il quale il secondo comma dell’art. 244 ribadisce che “I creditori che non fanno pervenire il loro dissenso nel termine fissato dal giudice delegato si ritengono consenzienti”, di modo che nel concordato preventivo, fortemente incentivato dal legislatore, almeno nella forma della continuità aziendale, sia diretta che indiretta, vige un sistema di votazione (silenzio vale dissenso) che non favorisce l’approvazione del concordato, nel mentre, nel concordato liquidatorio giudiziale, continua ad essere applicato un sistema di votazione teso a favorire la soluzione concordataria (silenzio vale assenso), ma contestualmente si penalizza l’iniziativa concordataria del debitore[39]. 
E’ stata mantenuta, infine, nel quinto comma dell’art. 112, la norma che richiede che la contestazione sulla convenienza in sede di omologazione del concordato preventivo liquidatorio possa essere fatta solo da un creditore dissenziente appartenente a una classe dissenziente ovvero, nell'ipotesi di mancata formazione delle classi, dai creditori dissenzienti che rappresentano il 20% dei crediti ammessi al voto, con annessa facoltà per il tribunale di omologare egualmente il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale[40]; perpetuando anche su questo punto la differenza con il concordato nella liquidazione giudiziale, ove il quinto comma dell’art. 245 riproduce questa forma di cram down ma solo se i creditori sono stati divisi in classi e l’opposizione sulla convenienza sia sollevata da un creditore appartenente ad una classe dissenziente, così come nel concordato preventivo in continuità ove, stante, come si vedrà, l’obbligatorietà della classazione, non possono esservi creditori singoli dissenzienti al di fuori delle classi.
7 . Le maggioranze per l’approvazione dei concordati in continuità
In modo completamente diverso sono determinate le maggioranze nel concordato in continuità che trovano la loro regolamentazione nel quinto comma dell’art. 109. 
Questa norma inizia col disporre che “Il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore”, il che comporta l’istituzione, in questo tipo di concordato, dell’obbligatoria suddivisione in classi dei creditori, in conformità a quanto previsto dall’art. 85[41], che, dopo aver posto al primo comma la regola generale della facoltatività della suddivisione in classi e del trattamento differenziato tra creditori appartenenti a classi diverse e individuate, nel secondo comma, alcune categorie di creditori per i quali è sempre obbligatoria la classazione, precisa, nel comma terzo, che, “Nel concordato in continuità aziendale la suddivisione dei creditori in classi è in ogni caso obbligatoria”.
La tassatività della disposizione non ammette eccezioni nel senso che nel concordato in continuità assoggettati alla classazione sono tutti i creditori ammessi al voto, siano essi chirografari che prelatizi, come si desume dal prosieguo della norma che impone la divisione in classi dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca quando “non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 109, comma 5”, in quanto, in tal caso, essi sono considerati sempre parti interessate e ammessi al voto anche per la parte prelatizia (come si vedrà); gli stessi creditori, invece, qualora sono soddisfatti integralmente e nei termini e con le modalità indicate nel quinto comma dell’art. 109 di cui si è detto nel precedente paragrafo, non subiscono alcun pregiudizio dalla procedura perché il rapporto continua alle stesse condizioni preesistenti, come se il concordato non fosse intervenuto, per cui non sono parti interessate alla stessa e, quindi, non ricorre alcuna ragione perché debbano esprimere il voto[42]. 
Di modo che, nel concordato liquidatorio, i creditori chirografari possono, e non debbono, essere divisi in classi ed egualmente è facoltativa la classazione dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca incapienti sui beni gravati o per i quali è previsto un pagamento dilazionato per la parte ammessa al voto, a meno che non si tratti di creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l'integrale pagamento o comunque rientranti nella previsione del secondo comma dell’art. 85 (tant’è che è contemplata espressamente l’opposizione dei creditori dissenzienti che rappresentano il 20% dei crediti ammessi al voto nell'ipotesi di mancata formazione delle classi), nel mentre, nel concordato in continuità, i creditori chirografari, siano essi tali fin dall’origine o siano divenuti tali per incapienza o per la parte incapiente, debbono essere obbligatoriamente divisi in classi e così anche i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca quando sono ammessi al voto, ossia quando per costoro il piano prevede il pagamento non integrale, o non in denaro, o oltre il limite temporale di centottanta giorni dall’omologazione giacché, se concorrono queste condizioni in positivo, essi sono considerati parte non incise dal concordato e, pertanto, non esprimono il voto; ed, infatti, nel concordato in continuità, stante l’obbligatorietà della formazione delle classi, l’opposizione può essere promossa soltanto un creditore dissenziente all’interno di una classe, sia essa consenziente o dissenziente[43]. 
Sancita, ad ogni modo, l’obbligatorietà della formazione delle classi nel senso indicato, l’inizio del quinto comma pone, come appena ricordato, la regola che “il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore“ e, poiché la norma continua precisando che “In ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto”, è evidente che per l’approvazione del concordato è necessario che in tutte le classi sia stata raggiunta la maggioranza dei crediti inseriti in ciascuna classe, ossia è sufficiente che abbia votato favorevolmente almeno la metà più uno dei crediti ammessi al voto. 
Tuttavia il legislatore, conscio della difficoltà a raggiungere la maggioranza in tutte le classi, per agevolare l’approvazione dei concordati in continuità, ha introdotto un meccanismo per il quale l'adesione della singola classe può anche non dipendere dal voto favorevole della maggioranza dei crediti inseriti. Invero, il comma quinto dell’art. 109, dopo la previsione che in ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto, aggiunge “oppure, in mancanza, se hanno votato favorevolmente i due terzi dei crediti dei creditori votanti, purché abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe”; ossia si ritiene consenziente anche la classe nella quale hanno votato favorevolmente i due terzi dei crediti votanti, purché abbia votato almeno la metà dei crediti della classe.
Di conseguenza, qualora in nessuna classe sia raggiunta la maggioranza, è sufficiente per l’approvazione che esprima il voto almeno la metà dei crediti ammessi al voto in ciascuna classe e di questi si dichiarino favorevoli i due terzi, che tradotto in numeri, ipotizzando che in ogni classe voti giusto la metà dei crediti ammessi al voto, il piano è egualmente approvato col voto favorevole dei due terzi della metà dei crediti appartenenti a ciascuna classe, pari al 33,33% periodico dell’intera massa dei crediti; di contro, il concordato non è approvato ove non esprima il voto almeno la metà dei crediti di una classe o in una classe i crediti dei creditori votanti non raggiugano i due terzi dei crediti ammessi in quella classe. 
Un esempio chiarisce il concetto, si ipotizzi un monte crediti ammessi al voto di 300, distribuito in tre classi, una per complessivi crediti di 50, una seconda per complessivi 100 ed una terza per complessivi 150; orbene in un caso del genere il concordato potrebbe essere approvato se vota almeno la metà dei crediti inseriti in ciascuna classe, e quindi crediti per almeno 25 della prima classe, per almeno 50 della seconda e per almeno 75 della terza, per complessivi 150, e se in ciascuna classe i votanti favorevoli rappresentano i due terzi dei crediti dei creditori votanti in esse inseriti, e cioè i due terzi i 25 nella prima classe, pari a16,66 periodico, i due terzi di 50 nella seconda, pari a 33,33 periodico e i due terzi di 75 nella terza, pari a 50, per un totale complessivo di 100, che equivale, appunto, al 33,33% del totale monte crediti di 300[44].
Questo esempio rappresenta indubbiamente una situazione limite, ma, a parte il fatto che proprio queste situazioni estreme servono a saggiare la bontà di una soluzione, quello che si vuole sottolineare è che questo meccanismo di calcolo supplementare, per il caso che non sia stata raggiunta la maggioranza in tutte le classi[45], consente di approvare il concordato con il voto favorevole di una minoranza dei crediti ammessi al voto; il che è già normalmente significativo della mancanza di una effettiva maggioranza quando il silenzio non è indice di approvazione né di diniego, ma lo è molto di più in un sistema che calcola la maggioranza con riferimento ai crediti ammessi al voto e in nessun caso sterilizza i crediti dei non voltanti, i quali sanno che la loro inerzia equivale a dissenso. Fin quando viene mantenuto questo meccanismo, la proposta che raccoglie il 33,33% dei voti dell’intero monte crediti, anche se questa quota supera la maggioranza dei crediti dei votanti, ha il consenso di una minoranza, in quanto vuol dire che il restante 66,67% ha votato contro, effettivamente o figurativamente, eppure detta maggioranza rimane vincolata alla decisione presa dalla minoranza, sovvertendo il principio base del metodo collegiale secondo cui in una collettività - tanto più se involontaria come quella dei creditori[46] - è la maggioranza che può imporre la propria volontà alla minoranza e non viceversa; inoltre, ne esce drasticamente ridimensionato lo stesso principio della maggioranza in tutte le classi, posto come criterio principale di calcolo, dal momento che, se anche non si raggiunge questa maggioranza, il concordato, in forza di questo criterio sostitutivo, può essere egualmente approvato purché si raggiunga la maggioranza dei due terzi della metà dei crediti dei votanti in ciascuna classe; senza peraltro la previsione di alcun correttivo per il caso che un unico creditore disponga della maggioranza dei crediti[47]. 
Rimane, pertanto, insuperata l’obiezione del Consiglio di Stato che, nel parere reso il 13 maggio 2022, proprio partendo dalla constatazione che “la proposta venga approvata senza che ci sia la maggioranza dell’importo dei crediti”, rilevava che “Seppure lo stesso art. 9, § 6,comma 2 della direttiva consente agli Stati membri di stabilire “le maggioranze richieste per l’adozione del piano di ristrutturazione”, è da ritenere che appunto di maggioranza si debba trattare, coerentemente a quanto previsto dal primo comma della stessa disposizione della direttiva, potendo gli Stati membri accontentarsi di una maggioranza semplice o qualificata (purché, come aggiunge, l’art. 9, § 6, comma 2, secondo periodo, non superiore al 75% dell’importo dei crediti o degli interessi di ciascuna classe o, se del caso, del numero di parti interessate di ciascuna classe)”, per poi concludere che “In definitiva, la regola che consente di ritenere raggiunta la maggioranza sulla base dei soli creditori votanti non è autorizzata dalla direttiva e anzi presenta i possibili profili di incompatibilità su evidenziati”.
La replica contenuta nella Relazione, secondo cui non è necessario un intervento sulla previsione in esame nonostante le osservazioni formulate nel parere del Consiglio di Stato in quanto “il fine di agevolare la ristrutturazione e l’ampia discrezionalità lasciata agli Stati consente di attribuire rilevanza al solo voto di chi si è espresso (sia pure con il contemperamento del quorum del 50% fissato nella norma)”, non è per nulla convincente.
E’ vero, infatti, che la Direttiva si propone di incentivare la ristrutturazione evitando che l’inerzia di una parte dei creditori appartenenti alla stessa classe impedisca l’approvazione della proposta e del piano, ma tale incentivazione è data concedendo la possibilità agli Stati membri di “richiedere che in ciascuna classe sia ottenuta la maggioranza del numero di parti interessate” (art. 9, par. 6, comma 1 e nello stesso senso il considerando n. 47[48]), richiedendo, cioè, che invece della maggioranza per crediti in tutte le classi, si tenga conto della maggioranza numerica dei votanti raggiunta in ciascuna di essa. 
Concetti ben diversi da quelli attuati nel quinto comma dell’art. 109, ove, in questa ipotesi subordinata in esame, si prende in considerazione la maggioranza dei due terzi non dei creditori votanti bensì dei crediti di costoro, per cui si tratta pur sempre di una maggioranza quantitativa e non numerica, solo che è riferita ai votanti. In questo caso, invero, non si ha la ripresa dell’originario sistema di voto nel concordato per teste e per quantità (per il quale il concordato, a norma del primo comma dell’art. 177 L. fall., era approvato se riportava il voto favorevole della maggioranza dei creditori votanti, che rappresentavano i due terzi dei crediti ammessi al voto), ma, della introduzione, per la prima volta nel sistema delle votazioni nelle procedure concorsuali, di una sorta di quorum costitutivo (almeno la metà dei crediti inclusi in ciascuna classe) e deliberativo (i due terzi dei crediti dei creditori votanti), che, contaminato del principio del silenzio uguale dissenso, può portare alle conseguenze già evidenziate, che un creditore incluso in una classe sia messo in minoranza anche se nella stessa non è stata raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto in quella stessa classe, come evidenziato dall’esempio che precede[49] e all’approvazione con una percentuale, anche inferiore alla metà dei crediti ammessi al voto. Questa possibilità, peraltro, disincentiva chi presenta un concordato a formulare proposte che possano ottenere l’unanimità dei consensi in tutte le classi, sapendo che è sufficiente coagulare l’interesse dell’indicata minoranza per l’approvazione.
A questo punto il comma quinto dell’art. 109 lancia un’altra ciambella di salvataggio al concordato in difficoltà perché la norma, dopo le previsioni di cui si è parlato, aggiunge “In caso di mancata approvazione si applica l’art. 112, comma 2”, ove l’ipotesi di mancata approvazione non può che essere riferita a quelle esaminate in precedenza, ossia che non sia stata raggiunta la maggioranza in tutte le classi né sia stata raggiunta la maggioranza dei due terzi dei crediti dei votanti[50]. Orbene, qualora nessuna di queste maggioranze sia stata raggiunta, il tribunale, a norma del secondo comma dell’art. 112, su richiesta del debitore può egualmente omologare il concordato se ricorrono congiuntamente determinate condizioni, venendosi così a creare una situazione alquanto singolare dato che il quinto comma dell’art. 109 richiama, per il caso di mancata approvazione del concordato, la norma che regola il giudizio di omologazione, al quale si perviene, come prescrive il primo comma dell’art. 48, “se il concordato è stato approvato dai creditori ai sensi dell’art. 109”; quando, invece, nel termine stabilito non si raggiungono le maggioranze richieste, l’art. 111 dispone che “il giudice delegato ne riferisce immediatamente al tribunale, che provvede a norma dell'articolo 49, comma 1”, ossia “dichiara con sentenza l'apertura della liquidazione giudiziale” ricorrendone i presupposti.
In sostanza se non sono state raggiunte le maggioranze indicate nel secondo periodo del quinto comma dell’art. 109, il concordato dovrebbe arrivare al tribunale, ma non per celebrare il giudizio di omologazione bensì per la eventuale apertura della procedura di liquidazione giudiziale; di modo che, quando in questa situazione di mancata approvazione lo stesso quinto comma dell’art. 109 statuisce che si applica il secondo comma dell’art. 112, che consente una forma di cram down in sede di omologa, il legislatore ipotizza, presumibilmente, che, a seguito della constatazione del mancato raggiungimento delle maggioranze risultante dalla relazione del commissario[51], il giudice delegato debba riferire al tribunale l’esito delle votazioni e che questo, a sua volta, qualora vi sia richiesta del debitore (o il suo consenso in caso di proposte concorrenti), invece di procedere a verificare la ricorrenza delle condizione per l’apertura della liquidazione giudiziale, come richiede il secondo comma dell’art. 49 “in caso di mancata approvazione del concordato preventivo”, debba fissare l'udienza in camera di consiglio per la comparizione delle parti e del commissario giudiziale e prendere tutti gli altri provvedimenti dettati dal primo comma dell’art. 48 per aprire il giudizio di omologa, come nel caso in cui il concordato sia stato approvato dai creditori.
Questo innovativo, quanto anomalo, modo di introdurre il giudizio di omologazione su istanza del debitore in mancanza di approvazione avrebbe richiesto qualche precisazione (quanto meno nella Relazione, che è muta sul punto) dal momento che normativamente non è prevista la fissazione di un’udienza di omologa anche in caso di mancato raggiungimento delle maggioranze prescritte ex lege[52]. Ad ogni modo, all’esito del giudizio, il tribunale, ove riscontri la ricorrenza delle condizioni di cui alle lett. a), b) e c) del secondo comma dell’art. 112[53], “omologa altresì” - ossia deve omologare anche in caso di mancata approvazione - il concordato qualora “la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, che la proposta sia approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”. 
Quest’ultima condizione finisce, come si vede, per porre ulteriori criteri di calcolo delle maggioranze che, seppur in presenza di altre condizioni riguardanti le modalità della distribuzione dei valori di liquidazione e dei valori eccedenti quello di liquidazione, abbassano ulteriormente l’asticella della percentuale dei crediti favorevoli necessari per l’approvazione[54], posto che il raggiungimento di queste ulteriori soglie, anche se espressione di una esigua minoranza del monte crediti, è sufficiente per l’omologazione, su semplice richiesta del debitore. Si può, quindi, dire, pur nella consapevolezza della diversità di quest’ultima fattispecie (i cui contorni saranno approfonditi in altro intervento) e cercando di dare un ordine logico alle diverse previsioni, che il concordato in continuità, quanto a maggioranze, può essere omologato in via graduata: 
a - quando tutte le classi abbiano votato a favore in quanto in tutte le classi è stata raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto (si sia avuto cioè il consenso di almeno il 51% dei crediti ammessi al voto);
b - quando, pur non essendo stata raggiunta la maggioranza in tutte le classi, abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti ammessi in ciascuna classe e la proposta abbia ricevuto il voto favorevole dei due terzi dei crediti dei creditori votanti (di sia avuto, cioè, il consenso di almeno il 33,33% dei crediti ammessi al voto);
c - quando, pur in mancanza di consenso, assoluto (lett. a) o relativo (lett. b), in tutte le classi, la proposta sia stata approvata dalla maggioranza numerica delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione (in tal caso non è possibile calcolare una percentuale in astratto, ma nell’esempio fatto in precedenza, sarebbe sufficiente il consenso del 25,66% della massa dei crediti ammessi al voto);
d - quando, pur in mancanza di consenso della maggioranza delle classi, la proposta sia stata approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione (anche in questo caso non è determinabile una percentuale in astratto e secondo l’esempio fatto sarebbe sufficiente il consenso dell’8,66% dei crediti ammessi al voto).
La Direttiva europea impone agli Stati di non fissare maggioranze superiori al 75%, ma la discrezionalità rivendicata nella Relazione al D.lgs. n. 83 del 2022 nel restare al di sotto di questo limite sembra sia stata usata con eccessiva larghezza, se si può arrivare all’omologa di un concordato che abbia ricevuto consensi che non raggiungono la doppia cifra percentuale, che rende vieppiù attuale la critica (in precedenza richiamata) che aveva mosso il Consiglio di Stato al sistema di calcolo delle maggioranze.
Questo inusuale (finora) sostegno alla continuità può essere, tuttavia, vanificato da un solo creditore dissenziente che eccepisca il difetto della convenienza della proposta perché, in tal caso, a norma del comma terzo dell’art. 112, “il tribunale omologa il concordato quando, secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”; norma che letta in positivo consente al tribunale di superare il dissenso dell’opponente quando viene offerto un trattamento equivalente a quello recuperabile nella liquidazione giudiziale, ma che, letta in negativo, sta a significare che, nel caso la proposta offra una soddisfazione inferiore a quella ricavabile dal presumibile valore dei beni gravati ricavabile dalla liquidazione giudiziale, il tribunale non può omologare il concordato, anche se approvato da tutte le classi. 
Per ovviare a questa forma di protezione di un creditore in contrasto con la volontà della maggioranza espressa e con il perseguimento del maggior interesse collettivo, il novello legislatore non ha trovato di meglio che introdurre nell’art. 53 il comma 5 bis, per il quale “In caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno”. Che si condivida o non questa forma di tutela surrogata risarcitoria, ciò che non si capisce è perché sia stata introdotta soltanto in sede di reclamo; se, infatti, si crede in questa soluzione, il “generale interesse dei creditori e lavoratori” che giustifica l’omologa potrebbe (recte, dovrebbe) essere preso in considerazione anche nel giudizio di primo grado consentendo l’omologa anche nel caso in cui il creditore dissenziente opponente possa ricevere un trattamento in misura inferiore rispetto a quanto accadrebbe nella liquidazione giudiziale.
Peraltro, questa tutela risarcitoria sostitutiva è riconosciuta soltanto in caso di “accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale”, sicché, nel caso di sentenza che, in accoglimento dell’opposizione del creditore dissenziente, non abbia omologato il concordato, nel giudizio di impugnazione promosso dal debitore ai sensi dell’art. 51, che sia stato o non dichiarata aperta la liquidazione giudiziale, non è consentito lo stesso escamotage previsto dal muovo comma 5 bis dell’art. 53 per salvare il concordato. Disparità di trattamento ingiustificata, che potrebbe essere evitata introducendo la tutela risarcitoria nel giudizio di omologazione avanti al tribunale.
A questo punto il comma quinto dell’art. 109 tratta delle condizioni in presenza delle quali i creditori assistiti da privilegio, pegno o ipoteca possono esprimere il voto, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, per poi concludere statuendo che “se non ricorrono le condizioni di cui al primo e secondo periodo, i creditori muniti di diritto di prelazione votano e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta”.
Va segnalato l’erroneo riferimento al primo e secondo periodo della disposizione di cui al comma quinto, che hanno ad oggetto, come si è visto, la formazione delle maggioranze nelle classi, nel mentre, come emerge chiaro dal contesto, il legislatore intende prospettare l’ipotesi che non ricorrono le condizioni, di cui al terzo e quarto periodo, la cui presenza esclude i creditori prelatizi dal voto, per indicare per quale parte del credito gli stessi creditori possano esprimersi quando, in mancanza anche di una sola delle condizioni elencate nei precedenti periodi terzo e quarto, sono chiamati a partecipano al voto.
Posto che, come detto. i creditori assistiti da privilegio, pegno o ipoteca, non votano quando la proposta prevede il loro pagamento integrale in denaro entro 180 giorni dall’omologa, se ne deve dedurre che costoro, ove pagati integralmente ma oltre i 180 giorni o anche entro i 180 giorni ma non in denaro, sono ammessi al voto, previo inserimento in apposita classe, e votano per l'intero credito; se ne deve altresì dedurre che, in caso di pagamento parziale per incapienza, i creditori prelatizi debbano essere inseriti in due diverse classi, una quale prelatizi per la parte che trova soddisfazione ed una per la parte che non trova capienza quali chirografari e che possano esercitare il diritto di voto per entrambe le parti, anche se per quella prelatizia il pagamento viene proposto entro i 180 giorni e in denaro. 
Si potrebbe anche leggere la norma nel senso che, in questa ultima ipotesi, i creditori prelatizi siano ammessi al voto per la sola parte passata al chirografo in quanto per la parte capiente vengono pagati entro il termine di legge e in denaro, sicché i creditori facenti parte di quest’ultima categoria sarebbero ammessi al voto solo se la proposta di pagamento superasse il limite dei 180 giorno o non fosse in denaro. Sembra preferibile la prima interpretazione in quanto la norma pone le varie condizioni per l’ammissione al voto (pagamento integrale in denaro entro 180 giorni) in modo congiunto e sullo stesso piano, per cui la mancanza di una sola di essa giustifica l’interesse a partecipare alle sorti del concordato e , quando il credito viene soddisfatto parzialmente viene meno la condizione della integralità del pagamento, per cui anche la parte capiente va ammessa al voto, indipendentemente dalla ricorrenza delle altre condizioni di adempimento[55].
Se così è, si ha il sovvertimento del principio secondo cui ha diritto al voto il creditore che dalla proposta viene pregiudicato e per la parte per la quale subisce pregiudizio, codificato nel terzo comma dell’art. 177 L. fall., ripreso nella originaria versione del quarto comma dell’art. 109, per i quali i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale, erano ammessi al voto per la parte residua del credito che non trovava capienza, per cui degradava al chirografo; egualmente l’indicato principio aveva trovato cittadinanza nella versione originaria dell’art. 86, per il quale, in caso di moratoria nel pagamento dei crediti prelatizi, i creditori avevano diritto al voto non per l’intero credito, bensì per la differenza fra il loro credito maggiorato degli interessi di legge e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano calcolato alla data di presentazione della domanda di concordato, determinato sulla base di un previsto tasso di sconto. 
In realtà non è proprio così perché il legislatore ha lui stesso fissati i criteri per individuare quando ricorre il pregiudizio che giustifica l’interesse al voto. Mentre, infatti, nell’attuale diritto fallimentare il divieto di voto è stato costruito non più sull’esclusivo dato della natura prelatizia del credito, ma ristretto a quei creditori prelatizi che risentono un sacrificio dalla proposta fatta - perché non soddisfatti integralmente o non immediatamente - i quali devono poter votare, nel nuovo codice il legislatore ha prefissato che nei concordati in continuità la soddisfazione completa dei creditori con prelazione si ha quando ad essi viene proposto un pagamento integrale in denaro entro 180 giorni dall’omologa, di modo che è presupposto che, in mancanza di una di queste condizioni, la proposta concordataria arrechi un danno ai creditori.; ossia il pregiudizio è espressamente individuato dal legislatore nella mancata ricorrenza delle condizioni indicate nella seconda parte del quinto comma dell’art. 109.
Di conseguenza, il diritto di voto non è più commisurato all’entità del pregiudizio subito dal creditore, il quale, nel momento in cui si trova nelle condizioni che secondo la previsione legislativa costituiscono un adempimento non completo, ha diritto a partecipare alle sorti del concordato per l’intero suo credito in quanto il piano incide sul credito e su i suoi interessi, indipendentemente dal calcolo dell’effettivo sacrificio che quel creditore subisce; viene, in sostanza, portato alle estreme conseguenze logiche l’impossibilità di assimilare il pagamento integrale e immediato al pagamento parziale o dilazionato e con corresponsione degli interessi, dato che il pagamento, anche se integrale ma dilazionato, importa comunque un sacrificio per i creditori muniti di prelazione che non può essere semplicisticamente coperto dalla corresponsione degli interessi perché, se così fosse, lì dove la perdita è eliminata dalla corresponsione degli interessi che consente il soddisfacimento integrale, il creditore non subirebbe alcun pregiudizio e non dovrebbe disporre del diritto di voto; è evidente, allora che bisogna muovere dalla constatazione che la dilazione causa comunque una perdita, rispetto alla quale, per quanto la dilazione di pagamento sia accompagnata dal decorso degli interessi di legge, non può il giudice sostituirsi al creditore al fine di vagliare la equivalenza rispetto al soddisfacimento derivante dal pagamento in denaro, integrale e immediato, del credito.
Concetto che la Cassazione aveva già intuito, quando, con la sentenza n. 22045 del 2016, di cui si è parlato, aveva sottolineato (seppur non ne aveva tratto le conseguenze oggi prospettate dal codice della crisi) che, “sul versante economico, il pagamento integrale e immediato consente al creditore di disporre prontamente della somma all'atto dell'omologazione, e di deciderne quindi ogni eventuale utilizzo, mentre il pagamento (integrale ma) differito, per quanto compensato dagli interessi, non solo non consente l'impiego totale della somma corrispondente al titolo ma espone, altresì, il creditore a un rischio supplementare di inadempimento del debitore prolungato nel tempo” e che “giuridicamente, un pagamento integrale ma dilazionato, per quanto accompagnato dal computo di interessi, dà comunque luogo a un'ipotesi di ritardo nell'adempimento; e quindi non può essere considerato equivalente a quel pagamento - immediato e integrale - che identifica, invece, l'adempimento in senso stretto”.
8 . Conclusioni
La complessità della materia e l’opportunità di ripercorrere il passato per meglio capire le nuove disposizioni hanno preso più spazio di quanto volessi, per cui limito le conclusioni ad una sola riassuntiva considerazione: in tema di votazione e maggioranze il nuovo codice propone soluzioni innovative di grande pregio; un minore sbilanciamento a favore del concordato in continuità e una maggiore attenzione nel coordinamento tra norme avrebbero potuto evitare le sbavature evidenziate.

Note:

[1] 
È chiaro che il reperimento di risorse esterne della entità richiesta, non essendo tale sforzo bilanciato dalla esclusività della procedura concordataria a procurare l’esdebitazione, di cui può usufruire anche il debitore che sia stato assoggettato alla liquidazione giudiziale, né dalla sicurezza della preclusione di azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, renderà sempre meno appetibile il ricorso a questo tipo di procedura.
[2] 
Su questo argomento si rinvia a G. Bozza, Il sistema delle votazioni nei concordati tra presente e futuro, in www.dirittodellacrisi.it, marzo 2022.
[3] 
Nel concordato con garanzia il pagamento dei prelazionari doveva avvenire immediatamente dopo l'omologazione; in quello con cessione dei beni, essendo la liquidazione patrimoniale una necessità non sottoponibile a vincoli temporali, l'immediatezza del pagamento era rapportata al momento della liquidazione.
[4] 
Cfr. ex multis, Cass. 17 maggio 2013, n.12064; Cass. 21 giugno 2012 n. 10387; Cass. 20 giugno 2011, n. 13446.
[5] 
Cfr. per tutti, A. Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare a cura di Bricola, Galgano e Santini, Bologna-Roma, 1979, 364. Vi è anche chi ha parlato (F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d'impresa, Milano, 2011, 203, nt. 1) di “eccesso di interesse”, essendo essi logicamente portati ad esprimere sempre un voto positivo rispetto ad una proposta concordataria che ne preveda l'integrale pagamento, ma la questione non cambia, perché, come giustamente rilevato da G. D’Attorre, La maior pars non sempre è la sanior pars: i creditori in conflitto d'interessi non possono votare sulla proposta di concordato, in Giur. comm., 2019, 312, “quale che sia la tesi che si preferisca, non vi è dubbio che le norme introducano un binomio indissolubile tra voto e interesse dei creditori: quando l'interesse non c'è, oppure quando l'interesse eccede quelli che sono i limiti ritenuti ammissibili dal legislatore, anche il diritto di voto cade”.
[6] 
Nella relazione al D.Lgs n. 169 del 2007 si legge che “La normativa precedentemente in vigore non consentiva, in sede di concordato preventivo, ed a differenza di quanto poteva invece accadere nell’ambito di un concordato fallimentare, di offrire un pagamento in percentuale dei creditori privilegiati, neppure con riferimento a quella parte del loro credito destinata a rimanere comunque insoddisfatta avuto riguardo al presumibile valore di realizzo dei beni sui quali il privilegio cade. Si è quindi voluto, al fine di incentivare ulteriormente il ricorso allo strumento del concordato preventivo, e di eliminare una illogica diversità di disciplina rispetto al concordato fallimentare, prevedere che anche la proposta di concordato preventivo possa contemplare il pagamento in percentuale dei creditori privilegiati, sempreché la misura del soddisfacimento proposta non sia inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di vendita dei beni sui quali il privilegio cade”.
[7] 
Nel periodo in cui la legge limitava al solo concordato fallimentare la possibilità del pagamento non integrale dei creditori con prelazione, si pose all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza la questione della applicazione in via analogica della norma di cui al terzo comma dell’art. 124 anche al concordato preventivo, e la risposta negativa data dalla Cassazione poggia su argomenti ineccepibili e insuperabili. “L'estensione della disciplina del concordato fallimentare a quello preventivo in via analogica non è ammissibile- spiega Cass. 22 marzo 2010, n.6901, in ilcaso.it, giugno 2010- non solo perché il ricorso alla analogia è consentito dall'art. 12 preleggi, solo quando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria e nella fattispecie l'istituto del concordato preventivo è compiutamente disciplinato anche per quanto attiene al possibile contenuto della proposta, ma soprattutto perché lo stesso legislatore che ha dettato la nuova formulazione del concordato fallimentare, che sotto l'aspetto che qui viene in considerazione non è certo di modesta portata, non ha ritenuto di intervenire anche sul concordato preventivo benché anche tale istituto sia stato contestualmente oggetto di attenzione e non è seriamente ipotizzabile che nel momento in cui si è introdotta nel concordato fallimentare la possibilità del pagamento non integrale dei privilegiati benché non espressamente previsto dalla legge delega, il legislatore delegato si sia sentito vincolato da quest'ultima al punto di affidarsi alla sola analogia in relazione ad un istituto sul cui successo ha certamente confidato e che dalla parificazione delle discipline avrebbe tratto sicuro giovamento”.
[8] 
L’art. 54 L. fall., nel consentire il pagamento prima della liquidazione dei beni oggetto della prelazione, prevede comunque il conguaglio finale.
[9] 
Valutazione che nelle garanzie specifiche del pegno, dell’ipoteca e del privilegio speciale, si concentra sul o sui beni sui quali i creditori possono trovare soddisfazione prelatizia nei limiti del ricavato dal bene oggetto della garanzia, nel mentre, in caso di privilegi generali (per i quali si applica la stessa regola secondo cui il creditore privilegiato in tanto può ricevere una soddisfazione parziale in quanto l’attivo gravato non sia sufficiente a soddisfarlo per intero), la valutazione dell’accertamento della insufficienza dei beni a soddisfarli si estende all’intero patrimonio mobiliare, con le ovvie difficoltà collegate. L’estensione del principio ai privilegiati generali è sottolineata nella stessa Relazione al D.Lgs. n. 169 del 2007, per la quale “In accoglimento dell’osservazione della Camera, si precisa, analogamente a quanto già previsto nel concordato fallimentare, che il debitore ha la possibilità di offrire un pagamento in percentuale non solo ai creditori muniti di un privilegio speciale, nella parte in cui il credito sia incapiente, ma anche a quelli muniti di un privilegio generale, sempre nella misura in cui tale credito non risulti capiente”. Nello stesso senso dottrina e giurisprudenza, cfr., tra i primi interventi, S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Trattato di Diritto Commerciale, a cura di G. Cottino, Padova, 2009, 55; in giurisprudenza, App. Torino, 14 ottobre 2010, in Il Fall. 2011, 349, con nota di P. Genoviva, La relazione del professionista ex art. 160 l. fall. ed il trattamento dei creditori prelatizi nel difficile percorso del nuovo concordato preventivo, 352.
[10] 
Per cui vanno esclusi dal voto anche i creditori chirografari ammessi in una classe per i quali sia previsto il pagamento integrale. Da ult., Trib. Benevento 14 aprile 2021 in www.dirittodellacrisi.it, secondo cui “L’esclusione del voto, nell’ambito di un concordato preventivo in continuità di impresa, può riguardare anche i creditori chirografari, ove ne sia previsto l’integrale soddisfacimento, pur fondandosi, quest’ultimo, sulla verifica di fattibilità economica della proposta in termini prognostici” (in un concordato in cui il piano prevedeva l’integrale soddisfazione di tutte le classi creditorie, eccezion fatta per il creditore postergato); conf. Trib. Bari 25 febbraio 2008; Trib. Perugia 22 giugno 2012, in ilcaso.it.
[11] 
Così, L. Benedetti, Il trattamento dei creditori con diritto di prelazione nel nuovo concordato preventivo, in Giur. comm. 2013, 1045.
[12] 
Nei concordati preventivi ove non esista nel patrimonio del debitore o non sia individuabile il bene oggetto del privilegio speciale che assiste un credito, la Cassazione, con tre interventi risalenti al 2013 (Cass. 6 novembre 2013, n. 24970; Cass. 31 ottobre 2013, n. 24553; Cass. 17 maggio 2013, n. 12064) ha riconosciuta la possibilità di limitare il soddisfacimento del privilegio speciale IVA di rivalsa solo a seguito dell'esperimento di una relazione giurata ex art. 160, secondo comma, che stimi il valore di mercato del bene su cui si concentra il privilegio in misura inferiore all'IVA dovuta, pertanto, in assenza di tale perizia, l'importo per IVA di rivalsa va pagato integralmente, indipendentemente dall'esistenza del bene su cui grava il privilegio. Il fatto è che, nel caso prospettato, la relazione di stima dovrà accertare non il valore di un bene, ma la sua mancanza e l’irrecuperabilità dello stesso e, quindi, la totale incapienza del credito con garanzia specifica, per cui è preferibile un’interpretazione che limiti il rigore del principio affermato dalla Cassazione ammettendo che sia sufficiente l’attestazione che, al momento della presentazione della proposta di concordato, certifichi la mancanza dei beni oggetto della prelazione riconosciuta al credito (In tal senso uno spunto lo offre Cass. 18 giugno 2020, n.11882, 2020, lì dove afferma che risulta corretta l'indicazione nelle classi dei creditori chirografari dei crediti per rivalsa Iva per fornitura di prodotti farmaceutici “oramai confusi nel magazzino e, peraltro, in parte anche consumati, e dunque non individuabili nella loro consistenza ed entità”); tanto comunque si deve procedere all’inventario con quale si può verificare la fondatezza di quanto dichiarato, senza gravare di ulteriori spese il debitore in danno del ceto creditorio.
[13] 
A seguito della riscrittura degli articoli 84 e 85 attuata con l’ultimo D.Lgs., è stata portata nell’art. 84, comma 5, la disposizione che in precedenza era collocata nell’art. 85, comma 7.
[14] 
Così App. Torino, 23 Aprile 2010, in ilcaso.it.
[15] 
Così App. Napoli, 25 Giugno 2014, in ilcaso.it.
[16] 
Sono facilmente immaginabili le obiezioni a tale conclusione, ma rimane il fatto che sarebbe ingiustificato un diverso trattamento tra i due tipi di concordato sotto il profilo in esame.
[17] 
È stata così omologata la disposizione in esame a quella di cui al comma terzo dell’art. 87, lì dove parla della “relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati e la fattibilità del concordato”.
[18] 
È vero che la definizione è riferita al professionista incaricato dal debitore nell'ambito di una delle procedure di regolazione della crisi di impresa, ma appare chiaro che quello nominato, come nel caso, dal tribunale, debba avere gli stessi requisiti, e debba, quindi, essere in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 2399 c.c., non essere legato all'impresa o ad altre parti interessate all'operazione di regolazione della crisi da rapporti di natura personale o professionale; ecc.
[19] 
Cass. 9 maggio 2014, n. 10112, in www.ilfallimentarista.it, giugno 2014, con nota di F. Lamanna, L'indistinta ammissibilità del pagamento dilazionato dei crediti muniti di prelazione; e la successiva, di identico contenuto, Cass. 26 settembre 2014, n. 20388.
[20] 
Esse si fondano principalmente sulla introduzione del secondo comma dell’art. 160 (e del conseguenziale art. 177, comma 3), che giustificherebbe una eguaglianza tra pagamento non integrale e pagamento dilazionato, sul richiamo dell’art. 182 ter e dell’art. 186 bis, comma 2, lett. c), che consentono la dilazione nella transazione fiscale e nel concordato con continuità. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 160, come si è detto nei paragrafi precedenti, permette il pagamento non integrale dei creditori con prelazione a causa della incapienza sui beni oggetto della prelazione, che è figura completamente diversa da quella in esame della moratoria nel pagamento dei creditori con prelazione sui beni oggetto di liquidazione, tant’è che nell’art. 186 bis, la moratoria non intacca la possibilità del pagamento non integrale del credito in caso di incapienza dei beni oggetto di prelazione. L’art. 182 ter consente sì il pagamento, anche dilazionato, di crediti ma solo per crediti tributari e previdenziali muniti di privilegio nell’ambito di una transazione fiscale ed esclusivamente qualora i competenti uffici accettino la proposta transattiva formulata dal debitore in concordato (almeno fino all’aggiunta apportata al quarto comma dell’art. 180 L. fall. con l’art. 3 del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito dalla L. 27 novembre 2020, n. 159); l’art. 186 bis limita la dilazione al periodo di un anno (periodo esteso a due anni dall’art. 20, comma 1, lett. g) del D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito nella legge 21 ottobre 2021, n. 147, anticipando la disposizione dell’art. 86 CCII, nella versione dell’epoca) nel concordato con continuità aziendale facendo espressamente salva l’ipotesi che sia prevista la liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione, il che esclude la possibilità di una moratoria per i creditori che abbiano una garanzia su beni che vengono liquidati. Amplius, cfr. G. Bozza, Il trattamento dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, in Il Fall. 2012, 3777; Trib. Monza 16 settembre 2014, in Dejure, che più che un decreto di revoca ex art. 173 L. fall. è una nota critica a Cass. n. 10112 del 2014 cit.
[21] 
Cass. 4 febbraio 2020, n. 2422; Cass. 23 febbraio 2016, n. 3482 in www.ilfallimentarista.it 2016, marzo 2016; Cass. 2 settembre 2015, n.17461, ivi, 2015.
[22] 
Anche perché, come sottolineato in dottrina (S. Bonfatti, La disciplina dei crediti privilegiati nel concordato preventivo con continuità aziendali, in ilcaso.it), pretendere la soddisfazione integrale ed immediata dei prelatizi, implicherebbe la disapplicazione tout court dell’istituto del concordato preventivo.
[23] 
Cass. 4 febbraio 2020, n. 2422, cit.; Cass. 23 febbraio 2016, n. 3482, cit.; Cass. 2 settembre 2015, n. 17461, cit.; Cass. 9 maggio 2014, n. 10112, cit.; Cass. 26 settembre 2014, n. 20388, cit.
[24] 
Pertanto, secondo la Corte, in una fattispecie concordataria di pagamento integrale ma dilazionato, il professionista incaricato dovrebbe verificare, in primo luogo, se nell’eventuale fallimento i creditori prelatizi ricevono eguale integrale soddisfazione e poi pronosticare i tempi della liquidazione dei beni nel fallimento e quelli del possibile riparto; indi calcolare la perdita che essi ricevono in applicazione del trattamento e decorso degli interessi in tale procedura in forza degli artt. 2749, 2788 e 2855 c.c. per raffrontare, infine, tale risultato con il trattamento che gli stessi creditori subiscono dalla proposta concordataria.
[25] 
Cass. 31 ottobre 2016, n. 22045.
[26] 
Attraverso il richiamo dell’art. 153 da parte dell’art. 96, sono applicabili nel concordato gli artt. 2749, 2788 e 2855, comma 2 e comma 3, c.c., che prevedono tutti la corresponsione degli interessi legali fino alla vendita dei beni gravati da garanzia specifica.
[27] 
Sulla differenza tra moratoria e rateizzazione, cfr. M. Bianchi – A. Miccio, La moratoria nel sovraindebitamento, in www.dirittodellacrisi.it, aprile 2021.
[28] 
Anche chi scrive non è riuscito a sottrarsi al fascino dell’argomento, cfr. G. Bozza, Una lettura controcorrente dell’art. 186, comma secondo, lett. c) della legge fallimentare, in ilcaso.it, aprile 2014, ed ivi ampi richiami, cui adde, F. Lamanna, La pretesa indistinta ammissibilità nel concordato preventivo del pagamento dilazionato dei crediti muniti di prelazione, in www.ilfallimentarista.it; ID. La massima durata della moratoria nel concordato preventivo in continuità, ivi; V. Zanichelli, "La dilazione del pagamento dei creditori privilegiati: quando le ragioni dell’economia fanno premio su quelle del diritto", in www.ilfallimentarista.it gennaio 2015; P. Bosticco, "Condizioni di derogabilità del termine per il pagamento dei creditori privilegiati nel concordato con continuità" in www.ilfallimentarista.it, settembre 2020;. M. Arato, "Il piano di concordato e La soddisfazione dei creditori concorsuali" in O. Cagnasso - L. Panzani, Crisi di Impresa e procedure concorsuali, Milano, 2016; M. Vitiello, La moratoria prevista, per il concordato in continuità, dall’art. 186-bis comma 2 lett. c): ambito di applicabilità e significato del mancato riconoscimento del diritto al voto, in www.ilfallimentarista.it; F. Di Marzio, Il pagamento concordatario dei creditori garantiti può essere dilazionato solo per consenso o nei casi previsti dalla legge, ivi; A. Colnaghi, La moratoria ultrannuale dei creditori privilegiati e la conseguente inammissibilità della proposta concordataria; ivi; A. Lendvai, Ancora contrasto tra giurisprudenza di merito e della Cassazione sulla moratoria ultrannuale per il pagamento dei creditori privilegiati ivi.
[29] 
Per la tesi estensiva, tra la giurisprudenza di merito, Trib. Mantova 29 maggio 2018, in Dejure; Trib. Como 22 settembre 2016, in Dejure; Trib. Torre Annunziata, 29 luglio 2016, in GiustiziaCivile.com 19 febbraio 2018. Contra, tra le più significative, Trib. Modena 24 marzo 2020 in www.ilfallimentarista.it, maggio 2020; Trib. Modena, 29 aprile 2020, ivi, settembre 2020, per i quali “In tema di concordato con continuità, la fissazione del termine annuale, ex art 186 bis L. fall., recepisce la necessità di assicurare i termini certi di pagamento per i creditori con diritto di prelazione sui beni necessari alla continuazione dell'attività di impresa, in quanto, non essendone prevista la liquidazione e con essa un termine, il loro pagamento deve necessariamente essere assicurato; pertanto non è possibile ritenere che il piano e la proposta concordataria prevedano una dilazione nel pagamento superiore all'anno”; Trib. Belluno, 17 febbraio 2017 e Trib. Asti 30/10/2014, in www.ilfallimentarista.it.
[30] 
Cass. 18 giugno 2020, n. 11882, cit.
[31] 
Posto, infatti, che la Corte interpreta l’attuale disposizione dell’art. 186 bis nel senso che ai creditori con prelazione sui beni destinati alla continuazione dell’attività di impresa il debitore può offrire una moratoria nel pagamento fino ad un anno, nel qual caso i creditori interessati non hanno diritto al voto, o anche una dilazione più lunga con ripresa da parte dei creditori del diritto di voto, nel momento in cui passa ad individuare la perdita che il creditore subisce dalla dilazione, che costituisce il quantum per cui è ammesso al voto, avrebbe dovuto fare riferimento non al differenziale tra il valore del credito al momento della presentazione della domanda di concordato e quello al momento del termine della moratoria, ma al differenziale tra il valore del credito dopo un anno dalla presentazione della domanda e quello ultimo del termine della moratoria. La differenza, comunque, non è di per sé significativa quantitativamente.
[32] 
Tant’è che anche chi nega la possibilità di una moratoria ultrannuale richiama a sostegno della propria tesi la nuova regolamentazione. Cfr Trib. Modena 24 marzo 2020 e Trib. Modena, 29 aprile 2020, cit.
[33] 
Che, appunto, significa che il differimento può essere inferiore a due anni, ma non superiore (in tal senso Trib. Monza 11 giugno 2013, in ilcaso.it; Trib. Modena 24 marzo 2020 in www.ilfallimentarista.it, maggio 2020; Trib. Modena, 29 aprile 2020 in www.ilfallimentarista.it settembre 2020).
[34] 
Per il mantenimento della rateizzazione si richiede o che il debitore non abbia rate scadute impagate alla data di presentazione della domanda oppure che abbia le disponibilità per provvedere al pagamento del debito per capitale ed interessi scaduto a tale data; condizioni raramente riscontrabili nelle posizioni di chi ricorre ad una procedura concordataria. Si richiede, altresì, che un professionista indipendente attesti che il credito residuo del finanziamento può trovare integrale capienza sul ricavato della liquidazione, effettuata a valori di mercato, del bene gravato da ipoteca e che il rimborso delle rate a scadere non leda i diritti degli altri creditori; e se la prima attestazione non presenta grosse difficoltà in quanto riproduce il meccanismo previsto dal comma quinto dell’art. 84 al fine di determinare la parte per la quale i creditori prelatizi non hanno capienza sui beni gravati, la seconda non è altrettanto agevole. Trattandosi di crediti garantiti da ipoteca i creditori che potrebbero risentire un nocumento dal mantenimento delle scadenze sono i creditori prededucibili e quelli con privilegio immobiliare prevalente sulle ipoteche a norma del secondo comma dell’art. 2748 c.c. giacché tutti gli altri creditori di grado inferiore traggono vantaggio dalla possibilità del pagamento rateale del finanziamento, per lo più, con rientri anche pluriennali da soddisfare con i flussi dell’attività di impresa che continua e stimare le possibili prededuzioni che possono derivare da tale attività in un lungo arco temporale presenta margini di errore significativi e, quindi, un tasso di inattendibilità notevole.
[35] 
M. Poppi e L. Uccheddu, Voto favorevole dell'Agenzia Entrate alla proposta di transazione fiscale di un “debito futuro” e al pagamento degli Enti oltre la moratoria ultrabiennale, in Ilfallimentraista.it, 7 febbraio 2022 che nel commentare Trib. Milano 7 ottobre 2021, danno atto che il Tribunale, in corso di procedura, aveva rilevato che la transazione fiscale, che prevedeva un pagamento quadriennale a partire dalla omologa, era in contrasto con il principio dell’ordine delle prelazioni in quanto ad altri creditori privilegiati di rango superiore veniva offerto un pagamento integrale ma alla scadenza dell’anno, per cui aveva chiesto integrazioni ex art. 162 L. fall. e la classazione a parte, rispetto agli altri creditori privilegiati con dilazione annuale, e con esercizio del diritto di voto come da arresti della Suprema Corte.
[36] 
Come è noto, nella versione originaria della legge fallimentare le maggioranze richieste per l’approvazione del concordato preventivo erano due: una numerica, rappresentata dalla metà più uno, dei creditori votanti, ed una quantitativa rappresentata dai due terzi della totalità dei crediti ammessi al voto; ed era solo questa seconda maggioranza che poteva essere raggiunta anche nei venti giorni successivi alla chiusura dell’adunanza, nel mentre la prima doveva essere accertata già a tale data, di modo che , in mancanza, diventava superfluo anche attendere il termine indicato.
[37] 
Rimane il fatto che la norma, qualunque soglia fissi, è facilmente eludibile mediante la cessione a cessionario “amico” di una percentuale del credito sufficiente a restare sotto soglia. La disposizione di cui al comma sesto dell’art. 109, infatti, esclude dal voto e dal computo delle maggioranze non tutti i cessionari di crediti verso il debitore, bensì soltanto coloro che abbiano acquistato, nel corso dell’ultimo anno prima della domanda di concordato, crediti del coniuge del debitore o di suoi parenti e affini fino al quarto grado, come, peraltro evidenziato anche dall’uso del pronome “loro” nel riferimento ai cessionari e aggiudicatari e dalla ratio della norma che è quella di ostacolare la facile elusione del divieto di voto per il coniuge, i parenti e gli affini del debitore attraverso una fittizia cessione dei crediti di costoro nell’imminenza dell’apertura della procedura.
[38] 
Come è noto, con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134 al dichiarato scopo di “facilitare la gestione delle crisi aziendali” e di allineare la disciplina del concordato preventivo con quella del concordato fallimentare, in modo da eliminare il diverso trattamento dell’inerzia dei creditori, era stato introdotto nel concordato preventivo il criterio del silenzio assenso, poi abrogato, dopo circa tre anni, dal D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito nella legge 6 agosto 2015 n. 132, che ha sostituito il precedente quarto comma dell’art. 178 L. fall. – che prevedeva l’espressione del solo dissenso nei venti giorni successivi all’adunanza dei creditori, con la precisazione che i creditori non votanti “si ritengono consenzienti e come tali sono considerati ai fini del computo della maggioranza dei crediti”- con la più asettica formula, secondo cui “i creditori che non hanno esercitato il voto possono far pervenire lo stesso per telegramma o per lettera o per telefax o per posta elettronica nei venti giorni successivi alla chiusura del verbale”; dizione che, eliminando l’espressione del solo dissenso e della previsione che il silenzio vale assenso, ha ripristinato il sistema di voto del consenso esplicito ed ha inequivocabilmente limitato il novero degli aventi diritto al voto postumo ai soli creditori che non abbiano esercitato tale facoltà in adunanza.
[39] 
Invero, l’art. 240, alla limitazione già esistente nell’art. 124 L. fall., che consente al debitore, a società cui egli partecipi o a società sottoposte a comune controllo di presentare una proposta concordataria solo “dopo il decorso di un anno dalla sentenza che ha dichiarato l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo”, aggiunge, in attuazione d1ella lett. d) del comma decimo dell’art. 7 della legge delega, che “la proposta del debitore, di società cui egli partecipi o di società sottoposte a comune controllo, è ammissibile solo se prevede l'apporto di risorse che incrementino il valore dell'attivo di almeno il dieci per cento”.
[40] 
Si tratta della riproduzione del secondo periodo del quarto comma dell’art. 180 L. fall., che pone lo stesso criterio riferito a tutti i tipi di concordato preventivo e non solo a quelli liquidatori.
[41] 
Questo, nella ultima versione del codice, ha assunto la rubrica “Suddivisione dei creditori in classi”, al posto di quella originaria di “Presupposti per l’accesso alla procedura” in quanto in esso sono ora concentrati i criteri fondanti la formazione delle classi.
[42] 
In tal senso va intesa la Relazione illustrativa D.Lgs. n. 83 del 2022 lì dove si afferma che il comma terzo dell’art. 85 “istituisce, per il concordato in continuità aziendale, l’obbligatoria suddivisione in classi dei creditori privilegiati quando il loro pagamento è previsto oltre i termini previsti dall’articolo 109, comma 5, ipotesi in cui essi sono considerati sempre parti interessate, anche per la parte privilegiata”. Si vuol dire non che la classazione è obbligatoria solo in questi casi e facoltativa in altri, ma che nella generale previsione della obbligatoria suddivisione dei creditori in classi nei concordati in continuità la classazione dei creditori prelatizi è richiesta quando ricorrono dette condizioni, perché, in caso diverso, gli stessi non sono ammessi al voto e, quindi non si pone per essi il problema della classazione. Peraltro, immediatamente dopo la frase riportata, la Relazione ribadisce espressamente che nel concordato in continuità la a formazione delle classi è obbligatoria.
[43] 
Nell’ultima versione del decreto attuativo della direttiva insolvency è stata eliminata la decadenza dall’opposizione prevista dalla prima bozza per chi non aveva contestato la convenienza del piano nelle osservazioni di cui all’articolo 107, comma 4, che aveva il chiaro intento di scoraggiare le opposizioni giacché le osservazioni avrebbero dovuto essere fatte dai creditori nel breve termine di cinque giorni dal momento in cui sono stati messi a conoscenza delle considerazioni svolte dal commissario nella relazione loro trasmessa.
[44] 
Ovviamente gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinto, ma il risultato sarebbe sempre lo stesso in quanto i due terzi della metà di un importo rappresenta sempre il 33,33% del totale; ed egualmente il risultato non cambierebbe qualora la norma avesse richiesto il voto dei creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti ammessi al voto, in quanto la metà sarebbe sempre 150, solo che, in tal caso, si prescinderebbe dai voti espressi nelle singole classi in quanto non sarebbe più richiesto che la maggioranza dei due terzi dei crediti dei votanti si ripeta in ciascuna classe.
[45] 
Nel qual caso, nell’esempio fatto, la maggioranza in ciascuna classe avrebbe richiesto il voto favorevole di crediti per almeno 153, di cui 26 nella prima, 51 nella seconda e 76 nella terza classe, pari appunto al 51% del totale monte crediti.
[46] 
Questi, a differenza dei soci di una società o dei condomini di un condominio che accettano di far parte insieme ad altri di una collettività retta da determinate norme, statuti o regolamenti, si trovano, senza saperlo ad essere membri di una comunità che deve decidere della sorte del concordato e, quindi, anche della sorte dei propri crediti, sicché in questi casi il sacrificio che si chiede ai dissidenti di sottostare alla volontà dei consenzienti può essere giustificato soltanto da una effettiva maggioranza.
[47] 
A questo fine una previsione è contenuta nel primo comma dell’art. 109, ma tale comma, come detto fin dall’inizio, regola le maggioranze nel concordato liquidatorio.
[48] 
In questo la preoccupazione espressa è evitare che una minoranza di parti interessate di ciascuna classe possa impedire l'adozione di un piano di ristrutturazione che non ne riduce ingiustamente i loro diritti e interessi. “Senza una norma sulle maggioranze che vincoli i creditori garantiti dissenzienti, - si legge in tale considerando- la ristrutturazione precoce non sarebbe possibile in molti casi, ad esempio quando è necessaria una ristrutturazione finanziaria ma l'impresa è comunque sana. Per garantire che le parti abbiano voce sull'adozione del piano proporzionalmente ai loro interessi nell'impresa, la maggioranza richiesta dovrebbe basarsi sull'importo dei crediti dei creditori o delle quote dei detentori di strumenti di capitale di ciascuna classe. Inoltre, gli Stati membri dovrebbero poter richiedere la maggioranza del numero di parti interessate in ciascuna classe”.
[49] 
Si prenda la terza classe dell’esempio fatto, che presenta crediti ammessi per 150. Qui, per l’approvazione, secondo la regola principale, sarebbe richiesto il voto favorevole di crediti per 76 (di 75+1), nel mentre, secondo il sistema suppletivo, è sufficiente il voto dei crediti di due terzi della metà, pari 50, che rappresenta il 33,33% del monte crediti ammesso in quella classe.
[50] 
E’ vero che la norma richiamata di cui al secondo comma dell’art. 112 prende espressamente in considerazione l’ipotesi che, nel concordato in continuità aziendale, in un una o più classi non sia stata raggiunta la maggioranza (“una o più classi sono dissenzienti” è l’espressione usata), ma anche il concordato approvato con la maggioranza sostitutiva richiede il consenso in tutte le classi, solo che, come detto, tale consenso non presuppone che in ciascuna classe sia stata la raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi, sicché se vi sono una o più classi dissenzienti vuol dire che il concordato, come esattamente dispone il quinto comma dell’art. 109, non sia stato approvato dai creditori.
[51] 
Questi, infatti, a norma dell’art. 110, è tenuto a redigere, all’esito della votazione, “apposita relazione in cui sono inseriti i voti favorevoli e contrari dei creditori con l'indicazione nominativa dei votanti e dell'ammontare dei rispettivi crediti. È altresì inserita l'indicazione nominativa dei creditori che non hanno esercitato il voto e dell'ammontare dei loro crediti” e tale relazione va “depositata in cancelleria il giorno successivo alla chiusura delle operazioni di voto”.
[52] 
Peraltro l’apertura di un giudizio di omologazione anche in mancanza di approvazione del concordato non è situazione sconosciuta al legislatore se si considera che già la legge fallimentare, nel secondo periodo del comma quarto dell’art. 180, prevede che “Il tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di adesione da parte dell'amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l'adesione e' determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all'articolo 177 e quando ….”. È evidente, infatti, che delle due: o il consenso dell'A.F. e degli enti previdenziali è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di legge, ed allora la mancata adesione di costoro alla proposta concordataria equivale a mancata approvazione, oppure se il concordato è stato comunque approvato vuol dire che il voto dell’A.F. e degli enti previdenziali non era determinante. Ciò nonostante, si prevede, in caso di mancata approvazione, un intervento d’ufficio del giudice che, senza la sollecitazione di alcuno, apre il giudizio di omologazione e omologa il concordato in presenza delle condizioni indicate dalla legge (situazione ben diversa da quella di cui al primo periodo del quarto comma dell’art- 180 l. fa., che prevede un concordato che ha ottenuto le maggioranze di legge e del quale determinati qualificati creditori contestano la convenienza). Norma analoga è riprodotta nel comma 2- dell’art. 88 CCII, per il quale, appunto ”Il tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di adesione da parte dell'amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l'adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all'articolo 109, comma 1, e, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente o non deteriore rispetto all'alternativa liquidatoria”.
[53] 
Che: a)-il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione, b)-il valore eccedente quello di liquidazione è distribuito in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore, fermo restando quanto previsto dall’art. 84, comma 7, c) nessun creditore riceva più dell’importo del proprio credito.
[54] 
Nella prima fattispecie, infatti, riprendendo l’esempio precedente è sufficiente che la maggioranza sia raggiunta in due classi su tre, una delle quali sia costituita da creditori con diritto di prelazione, sicché se viene raggiunta la maggioranza nella prima classe, pari a 25+1= 26 e nella seconda, pari a 50+1= 51di privilegiati, il concordato è approvato col voto di creditori che rappresentano un totale di crediti di 77, pari al 25,66% del totale dei crediti ammessi di 300. Nel secondo caso il concordato potrebbe essere approvato se raggiunge la maggioranza anche nella sola prima classe, ossia 26, se i componenti della stessa possono essere soddisfatti “almeno parzialmente” rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione, ossa sarebbe sufficiente una percentuale di crediti favorevoli pari all’8,66% del monte crediti ammessi al voto.
[55] 
La differenza tra le due soluzioni non è di poco conto. Si prenda il caso di un creditore di 100 con ipoteca iscritta su un bene il cui valore di realizzo è stimato in 60 e la proposta ponga il creditore in questione nella classe chirografaria per 40 e ipotecaria per 60. Se si segue la soluzione preferita, questo creditore è ammesso al voto per 40, ma anche per 60, seppur il pagamento di 60 venga offerto in denaro ed entro 180 giorni dall’omologa; nell’altra soluzione prospettata, invece, il creditore in questione, nella stessa situazione, voterebbe solo per 40 passate in chirografo e la possibilità del voto per i 60 ipotecari scatterebbe solo ove il pagamento avvenisse oltre i 180 giorni o non fosse effettuato in denaro.

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