La pandemia e la legislazione emergenziale che ne è seguita hanno accentuato la tendenza a favorire forme di “aggiustamento” giudiziario dei contratti, finendo così per mettere ulteriormente in discussione il “dogma” dell’intoccabilità dell’autonomia negoziale. Le esigenze di solidarietà sociale, esaltate dalla pandemia, forniscono un criterio valoriale, cui dovrebbe auspicabilmente ispirarsi il funzionamento del mercato[20], che appare destinato a riflettersi nella concreta attuazione dei regolamenti contrattuali.
Ciò appare di particolare evidenza nel regime delle sopravvvenienze idonee a modificare l’equilibrio economico dei contratti di durata (a esecuzione continuata, periodica o differita). In questi casi, com’è noto, se l’obbligazione è unilaterale, la parte obbligata può chiedere la riduzione del contratto ad equità (art. 1468 c.c.); se invece sono previste prestazioni corrispettive e la parte maggiormente onerata chiede la risoluzione del contratto, l’altra parte può evitarla offrendosi di modificare equamente le condizioni contrattuali (art. 1467 c.c.). Sono tutte rimodulazioni dell’equilibrio contrattuale – che possono conseguire anche dalla risoluzione solo parziale del contratto – destinate a realizzarsi, su base equitativa, ad opera del giudice o sotto il suo controllo.
Credo non sia difficile riconoscere nella pandemia una sopravvenienza che, in taluni casi, ben può provocare l’eccessiva onerosità di prestazioni contrattuali pattuite in condizioni di mercato normali. Però, il carattere generalizzato degli effetti (almeno in parte e per un certo periodo di tempo) paralizzanti prodotti dalla pandemia sull’intero sistema economico nazionale ha indotto a spingersi oltre ed ha posto con forza il tema dell’eventuale rinegoziazione dei contratti. Il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità, d’altronde, non sempre è conveniente per la parte colpita che subisce le conseguenze negative della pandemia, mentre il mantenimento in vita del contratto, se il suo contenuto viene adeguato alle circostanze, può spesso condure ad un risultato più equilibrato.
Non si è giunti a formulare in termini generali la previsione di un obbligo di rinegoziazione in presenza di sopravvenienze, come pure era già stato proposto in un disegno di legge delega di riforma del codice civile presentato in Senato[21]. In diverse disposizioni emergenziali la rinegoziazione è stata però contemplata (in materia di locazione di immobili ad uso commerciale, di concessione di impianti sportivi, ecc.): talora semplicemente incoraggiandola con misure premiali, altre volte senz’altro imponendola. Ed anche la giurisprudenza (di merito) si è talvolta spinta a ravvisare un obbligo di rinegoziazione fondato sul dovere generale di buona fede o sull’equità, suscitando in dottrina commenti contrastanti[22].
La rinegoziazione dei contratti in presenza di una sopravvenienza di tal fatta potrebbe sembrare, a prima vista, una sorta di apertura di credito all’autonomia negoziale, alla quale ci si affida per ricondurre il contratto nel solco dell’equo contemperamento degli interessi, ossia per renderlo “giusto”. Parlare di autonomia negoziale, quando è la legge ad imporla, o comunque a dettarne le linee, appare tuttavia alquanto contraddittorio: si tratta, quanto meno, di un’autonomia controllata.
Ma l’autonomia rischia di svanire del tutto se, in caso di fallimento della rinegoziazione, si prevede l’intervento suppletivo del giudice per rimodulare d’autorità i termini di un contratto che appaia ormai sperequato. E’ in questo tipo di situazioni che si manifesta in sommo grado la prevalenza della ricerca del “contratto giusto”, rimessa alla decisione del giudice terzo, rispetto all’idea tradizionale del contratto come espressione della libera volontà e dell’autodeterminazione delle parti. Qui del “dogma” dell’autonomia negoziale rimane davvero ben poco.
Proprio in tal senso si muove però il disposto dell’art. 10 del già citato d.l. 118/2021. Nel contesto della composizione negoziata della crisi d’impresa, all’esperto è data infatti la facoltà di invitare le parti a “rideterminare secondo buona fede il contenuto dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da SARS-CoV-2”. In caso di mancato accordo, l’imprenditore in crisi può chiedere al tribunale di “rideterminare equamente le condizioni del contratto, per il periodo strettamente necessario e come misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale”. Ed il tribunale, se accoglie la domanda, “assicura l’equilibrio tra le prestazioni anche stabilendo la corresponsione di un indennizzo” (fatta eccezione per i contratti di lavoro ai quali tale normativa non si applica).
Mi pare evidente che in tale contesto può accadere che l’autonomia negoziale ceda totalmente il passo ad una forma di eteroregolazione del rapporto. La rimodulazione del contratto, d’altronde, è funzionale ad altri scopi – la prospettiva di risanamento dell’impresa e di recupero della continuità aziendale – i quali in questo scenario vengono ad assumere un rilievo preminente, pur essendo di per sé estranei alla normale dialettica contrattuale, giacché paiono rispondere non solamente all’intento di realizzare un più equo contemperamento dei contrapposti interessi delle parti in causa ma anche, se non soprattutto, ad esigenze generali dell’economia.
Colpisce poi l’ampiezza dei poteri attribuiti da questa normativa al giudice nel rideterminare il contenuto dei contratti. Come è stato puntualmente osservato, qui l’azione del giudice non è in alcun modo “a rime obbligate”[23], perché egli è chiamato ad esercitare poteri davvero assai ampi, solo genericamente circoscritti dai richiami alle nozioni di equità ed indispensabilità del suo intervento ed alla necessità di contenerne gli effetti entro stretti (ma pur sempre indefiniti) margini temporali. Il che però presuppone che il giudice riesca a percepire compiutamente non solo i valori sottesi all’accordo contrattuale che si accinge a modificare, ma anche le conseguenze che ne possono derivare sulla situazione economico-patrimoniale complessiva delle parti. E colpisce anche la relativa vaghezza dei presupposti cui è condizionato l’esercizio di un siffatto intervento giudiziario, a monte del quale dovranno esservi l’accertamento della situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, tale però da consentire la ragionevole prospettiva di risanamento dell’impresa, e poi la valutazione delle ragioni che hanno impedito alle parti di raggiungere un accordo sulla rinegoziazione del contratto, il cui equilibrio sia stato compromesso dalla pandemia, oltre che della correttezza e buona fede del comportamento serbato dal debitore nella circostanza e della misura in cui la controparte debba essere indennizzata per non squilibrare eccessivamente il rapporto contrattuale in suo danno. Tutti elementi suscettibili di apprezzamenti diversi, potenzialmente idonei a generare controversie dall’esito non facilmente prevedibile. Come è stato giustamente osservato, “permettere al giudice di intervenire sul contratto per riequilibrarne le condizioni attraverso il ricorso a clausole generali che non fissano i presupposti del potere, e di farlo, oltretutto, con riferimento a contratti, quali quelli tipici del rapporto d’impresa strutturalmente complessi, rischia di produrre risultati che vanno al di là anche delle aspettative del contraente che si è rivolto al giudice”[24] .
Si tratta, ovviamente, di una normativa circoscritta, quanto al suo oggetto, e strettamente legata nel tempo al protrarsi dell’emergenza pandemica[25]. In questo, come in ogni altro campo, è difficile prevedere però quali effetti di lungo periodo ne potranno derivare e se, quindi, la tendenza alla eteroregolazione dei contratti in qualche modo si stabilizzerà o comunque si rafforzerà nel futuro. Tendo a credere che difficilmente, se e quando ci saremo lasciati definitivamente alle spalle la pandemia, tutto tornerà come prima.
In quale misura e con quali modalità la normativa emergenziale cui s’è fatto cenno sia destinata a costituire un punto di svolta nel delicato rapporto tra autonomia negoziale, “giustizia del contratto” e potere del giudice di rimodellarne il contenuto resta quindi un interrogativo aperto. Non senza qualche preoccupazione, che mi pare fondata non tanto perché ne potrebbe risultare compromessa l’efficacia allocativa del contratto (nella misura in cui la si voglia considerare dipendente dal gioco delle libera negoziazione tra i contraenti[26]), quanto soprattutto per quel margine d’imprevedibilità che inevitabilmente connota qualsiasi intervento correttivo del giudice in singoli casi concreti, e che rischia ora di allargarsi notevolmente mettendo a repentaglio in modo significativo un valore – certo non assoluto, ma pur sempre importante – quale è quello della certezza del diritto.