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Interferenze tra diritto della crisi e dell’insolvenza e diritto dei contratti*

Renato Rordorf, già Primo Presidente Aggiunto della Suprema Corte di Cassazione

28 Gennaio 2022

*Relazione svolta al Convegno tenutosi in Verona il 17 dicembre 2021 sul tema “Il diritto concorsuale italiano e gli obiettivi di coordinamento con la normativa eurounitaria”, organizzato dall'Associazione Concorsualisti in collaborazione con l’Università di Verona.
L’Autore si sofferma sull’intricato tema delle correlazioni e degli attriti fra l’ordinamento concorsuale e l’ordinamento civilistico, in una chiave critica e sistematica, densa di spunti, implicazioni, prospettive. 
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1 . I frequenti incroci tra il diritto della crisi ed il diritto dei contratti
Quello che un tempo eravamo soliti chiamare diritto fallimentare, ma al quale ora dovremmo più propriamente riferirci come diritto della crisi e dell’insolvenza, ha sempre intrattenuto stretti rapporti con altri settori dell’ordinamento. Lo si riscontra sia in ambito teorico ed accademico, dove la materia concorsuale è spesso appannaggio vuoi dei cultori del diritto commerciale vuoi di quelli del diritto processuale, sia sul piano pratico. Chiunque abbia avuto la ventura di occuparsi di procedure concorsuali sa bene quali e quante questioni di diritto societario, di diritto processuale, di diritto tributario, per non parlare del diritto penale, gli è capitato sovente di dover affrontare. 
Già in passato, ma ancor più negli ultimi tempi, sono venuti in particolare ad evidenza i molteplici intrecci del diritto della crisi con il diritto civile dei contratti. Che la crisi d’impresa possa talvolta esser fronteggiata con strumenti negoziali è da sempre, almeno in qualche misura, una convinzione assai diffusa; ed è pressoché inevitabile che il maggiore spazio concesso a tali strumenti di stampo privatistico riduca quello riservato all’intervento giudiziario, del quale tuttavia non è quasi mai possibile fare del tutto a meno: non solo per una più efficace tutela dei soggetti deboli della negoziazione, ma pure per i riflessi che il modo in cui si perviene alla soluzione della crisi non di rado produce nei confronti di soggetti terzi (e ciò anche a prescindere da suggestioni di tipo pubblicistico, inerenti al buon funzionamento del mercato in generale).
La sovrapposizione di profili di stampo prettamente contrattuale con istituti e principi di diritto processuale è da sempre assai facilmente riscontrabile soprattutto nella figura del concordato preventivo, la cui natura è apparsa sin dall’inizio caratterizzata dal connubio tra norme processuali – giacché si tratta appunto di una procedura – e norme o principi insiti nella dinamica almeno lato sensu contrattuale che già la stessa denominazione di “concordato” non può non evocare[1]. Non sorprende, quindi, che in molte occasioni la giurisprudenza abbia fatto ricorso a categorie ed a concetti propri del diritto dei contratti per risolvere questioni sorte nell’applicazione all’istituto concordatario. Basterà a tal proposito ricordare come all’interrogativo sui poteri spettanti al giudice nel valutare la fattibilità della proposta di concordato si sia dato risposta appunto facendo riferimento ad una nozione elaborata dalla dottrina civilistica in materia contrattuale, la causain concreto del contratto[2], il difetto della quale, anche a prescindere dall’approvazione dei creditori, imporrebbe al giudice di sbarrare la strada a proposte concordatarie manifestamente inidonee alla regolazione ed al superamento della crisi dell'imprenditore mediante il soddisfacimento delle ragioni dei creditori.[3] 
Né meno evidente, già sin dalla loro denominazione, appare il legame col diritto dei contratti delle più recenti figure degli accordi di ristrutturazione del debito e della convenzione di moratoria[4], sia pure con le notevoli deroghe che qui il diritto concorsuale ha introdotto rispetto ai principi generali della materia contrattuale. Istituti, questi, a proposito dei quali il legislatore non ha mancato di richiamare, negli artt. 187-septies e 182-octies, l. f., quella clausola generale della buona fede nelle trattative che, come meglio si dirà tra un momento, proprio nell’ambito del diritto civile dei contratti affonda la sua primaria radice. 
E’ a questi legami tra diritto concorsuale e diritto dei contratti[5] che corre subito il pensiero anche di fronte al nuovo istituto della composizione negoziata della crisi, introdotto dal d.l. 118/2021 (convertito in con l. 147/2021), che appunto evoca lo strumento negoziale, sia pure mediato e favorito dall’opera di un esperto, come mezzo per pervenire alla risoluzione della crisi (e talora financo dell’insolvenza). Non posso qui indugiare sui molteplici aspetti caratterizzanti questo nuovo istituto[6], ma vorrei accennare ad alcuni profili nei quali più marcata appare l’incidenza di principi giuridici radicati nel diritto civile, non senza considerare l’eventualità che quanto ora disposto nei citati testi normativi di nuovo conio possa riflettersi, anche in termini più generali, sulla futura evoluzione del variegato mondo dei contratti.
2 . Correttezza e buona fede
Coerente con la tendenza ad inserire strumenti negoziali nella normativa sulla crisi e l’insolvenza è la forte sottolineatura dei doveri di correttezza e buona fede cui sono tenuti i soggetti interessati. Era da sempre chiaro che questi doveri, riconducibili al fondamentale principio di solidarietà politica, economica e sociale enunciato dall’art. 2 della Costituzione, dovessero improntare i comportamenti dei consociati in qualsiasi rapporto tra loro intercorrente, ma è storicamente proprio nella disciplina civilistica del contratto che i doveri di correttezza e buona fede, già prima della Costituzione, sono stati dal legislatore bene esplicitati (artt. 1366 e 1347 c.c.).
Ma, tanto più dopo che quei doveri hanno acquisito il già accennato fondamento costituzionale, sarebbe stato difficile dubitare che abbiano una portata non certo limitata al solo terreno civilistico-contrattuale, e che quindi se ne dovesse tener conto anche in altri campi pur in assenza di un esplicito richiamo ed in particolare nell’ambito del diritto concorsuale. Di ciò si trae comunque oggi una chiara conferma dalla lettura dei principi generali enunciati dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, emanato col d.lgs n. 14 del 2019 (art. 4, comma 1) e, proprio perché si tratta di doveri già in qualche misura deducibili dal testo costituzionale e che potevano dirsi impliciti nelle pieghe dell’ordinamento, mi pare che siano da ritenersi pienamente attuali ed operativi nell’ambito delle procedure concorsuali, ancorché l’entrata in vigore del codice in cui sono espressamente richiamati sia stata differita. 
La vigenza dei suaccennati doveri di correttezza e buona fede, ad ogni buon conto, è nuovamente esplicitata anche nel citato d.l. 118/2021. Ad essi è prescritto che debba improntarsi il comportamento delle parti nella composizione negoziata della crisi (art. 4, c. 4) e ciò ha un importante risvolto nell’eventuale successiva ammissione alla procedura di concordato preventivo semplificato, cui si può accedere solo se, non avendo avuto successo il tentativo di composizione negoziata, l’esperto, nella sua relazione finale, abbia dichiarato che le trattative si sono svolte secondo correttezza e buona fede (art. 18, c.1). Una valutazione, questa, di evidente delicatezza e che non potrà non dover essere condivisa anche dal giudice in sede di omologazione del concordato. 
Il progressivo affermarsi, già nel settore del diritto dei contratti, ed ora anche nel diritto concorsuale, dei doveri di correttezza e buona fede, che come tutte le clausole generali implicano inevitabilmente un considerevole margine di elasticità interpretativa ed applicativa, porta necessariamente con sé un ampliamento dell’area di discrezionalità di chi è chiamato a verificarne in concreto il rispetto. In ambito contrattuale ciò ha influito sulla tensione da sempre esistente tra due poli: la rivendicazione dell’autonomia negoziale, come essenza ed anima del fenomeno contrattuale[7], da un lato, e dal lato opposto la ricerca della “giustizia” del contratto[8], al quale l’ordinamento assicura tutela solo se è tale da realizzare un equo contemperamento degli interessi in gioco. 
Sul difficile equilibrio tra i valori sottesi a questi due poli conviene spendere qualche riflessione.
3 . Autonomia negoziale e “giustizia del contratto”
Se l’autonomia negoziale è concepita come potestà dei contraenti di darsi un proprio ordinamento giuridico in forza di una loro originaria capacità nomopoietica[9], cui la legge può solo porre dei limiti in funzione di valori ed interessi generali della collettività (anche, in presenza di determinati presupposti, imponendo a taluno di entrare in rapporto contrattuale con altri: art. 2597 c.c.), allora il giudice dovrebbe poter negare tutela al contratto che varchi quei limiti, ma non anche sostituirsi alle parti nella definizione degli assetti contrattuali. Tuttavia, nell’evoluzione giurisprudenziale di quest’ultimo quarto di secolo, le cose sono andate alquanto diversamente e si è assistito ad un progressivo sempre maggiore ingresso del giudice nel corpo vivo del contratto[10]. Vi ha concorso, anzitutto, il progressivo dissolvimento del modello tradizionale di contratto[11], onde ormai si è soliti parlare al plurale di “diritto dei contratti”, e ne è derivato un ampliamento dell’area del controllo giudiziale sulla meritevolezza dei contratti atipici, previsto dal capoverso dell’art. 1322 c.c., non di rado esteso anche a singole clausole atipiche inserite in contratti tipici[12]. Ma vi ha contribuito anche il proliferare di nuove categorie contrattuali, qualificate in base alla condizione delle parti (contratti dei consumatori, contratti asimmetrici, contratti non negoziati, ecc.)[13], rispetto alle quali lo stesso legislatore si mostra assai meno incline a secondare l’autonomia negoziale ed anzi, in certo qual modo, ne diffida proprio a causa dell’asimmetria della posizione delle parti. 
Non sorprende, perciò, che quello dell’autonomia negoziale sia stato talvolta definito un dogma, dal quale occorrerebbe liberarsi o che, quanto meno, andrebbe ridimensionato[14]. E ci si può chiedere se davvero possa ancora dirsi che la libertà di autodeterminazione degli interessi privati sia il fondamento del fenomeno negoziale o se invece essa debba cedere il passo all’esigenza di salvaguardare altri valori, avvertiti come preminenti dalla società e della cui tutela il legislatore si fa carico.
In questo scenario, alquanto problematico, si pone il tema della “giustizia del contratto”: ossia dei limiti entro i quali è consentito (o anche solo auspicabile) l’eventuale riequilibrio giudiziale degli interessi in gioco nella vicenda contrattuale. E’ indubbio che l’ordinamento apre molti spazi entro cui il giudice può intervenire per conformare in varia misura il contenuto del contratto, e sono spesso spazi delimitati in modo alquanto elastico, sicché è fatalmente accaduto che il diritto vivente li abbia man mano dilatati.
S’è già accennato al ruolo giocato in tal senso dalla sempre maggiore valorizzazione delle clausole generali di correttezza e buona fede, operanti tanto nella fase dell’interpretazione quanto in quella dell’esecuzione del contratto. Vi si aggancia sovente la figura dell’abuso del diritto[15], proprio facendo riferimento alla quale vengono talvolta neutralizzate alcune clausole convenute dalle parti, finendo così per rimodellare il contratto[16]. Gli esempi in proposito potrebbero esser tanti; ma mi limiterò sinteticamente a ricordare la disattivazione della clausola di recesso ad nutum nei contratti di apertura di credito a tempo determinato, pur se le parti l’avevano prevista in favore della banca come l’art. 1845, comma. 1, c.c. espressamente consente[17]. 
In diverse situazioni è poi lo stesso legislatore ad attribuire al giudice un potere di intervento volto a ripristinare un equilibrio equo del rapporto. Lo prevedono, ad esempio, l’art. 1384 c.c., che consente la riduzione equitativa della clausola penale, l’art. 1526 c.c., che del pari ipotizza la riduzione equitativa dell’indennità convenuta in favore del venditore in caso di risoluzione della vendita a rate, e l’art. 1934 c.c., che permette di ridurre la posta eccessiva in caso di gioco autorizzato dalla legge. Ma il riferimento all’equità, anche in termini più generali, offre ulteriori spazi d’intervento giudiziale, oltre che nel momento interpretativo del contratto (art. 1371 c.c.), anche per integrarne ab externo il contenuto (art. 1374 c.c.). L’equità, se aristotelicamente intesa come temperamento del rigore della legge, quando esso appaia eccessivo in rapporto al caso concreto, si presta a consentire questo temperamento anche con riguardo a previsioni contrattuali che tra le parti hanno forza di legge (per esempio, per ridurre l’entità della clausola penale, ex art. 1384, in base ad una regola che è si è ritenuto poi possibile estendere pretoriamente pure alla caparra[18]).
Anche l’orientamento giurisprudenziale che, elevando a principio generale la figura del dolo incidente di cui all’art. 1440 c.c., consente di far valere la responsabilità precontrattuale della controparte pur quando il contratto resti valido ed efficace[19] si traduce, di fatto, in una forma di rimodulazione ope iudicis dell’equilibrio economico esistente tra le prestazioni contrattuali quali inizialmente previste dalle parti.
4 . Pandemia, sopravvenienze e rinegoziazione dei contratti
La pandemia e la legislazione emergenziale che ne è seguita hanno accentuato la tendenza a favorire forme di “aggiustamento” giudiziario dei contratti, finendo così per mettere ulteriormente in discussione il “dogma” dell’intoccabilità dell’autonomia negoziale. Le esigenze di solidarietà sociale, esaltate dalla pandemia, forniscono un criterio valoriale, cui dovrebbe auspicabilmente ispirarsi il funzionamento del mercato[20], che appare destinato a riflettersi nella concreta attuazione dei regolamenti contrattuali. 
Ciò appare di particolare evidenza nel regime delle sopravvvenienze idonee a modificare l’equilibrio economico dei contratti di durata (a esecuzione continuata, periodica o differita). In questi casi, com’è noto, se l’obbligazione è unilaterale, la parte obbligata può chiedere la riduzione del contratto ad equità (art. 1468 c.c.); se invece sono previste prestazioni corrispettive e la parte maggiormente onerata chiede la risoluzione del contratto, l’altra parte può evitarla offrendosi di modificare equamente le condizioni contrattuali (art. 1467 c.c.). Sono tutte rimodulazioni dell’equilibrio contrattuale – che possono conseguire anche dalla risoluzione solo parziale del contratto – destinate a realizzarsi, su base equitativa, ad opera del giudice o sotto il suo controllo.
Credo non sia difficile riconoscere nella pandemia una sopravvenienza che, in taluni casi, ben può provocare l’eccessiva onerosità di prestazioni contrattuali pattuite in condizioni di mercato normali. Però, il carattere generalizzato degli effetti (almeno in parte e per un certo periodo di tempo) paralizzanti prodotti dalla pandemia sull’intero sistema economico nazionale ha indotto a spingersi oltre ed ha posto con forza il tema dell’eventuale rinegoziazione dei contratti. Il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità, d’altronde, non sempre è conveniente per la parte colpita che subisce le conseguenze negative della pandemia, mentre il mantenimento in vita del contratto, se il suo contenuto viene adeguato alle circostanze, può spesso condure ad un risultato più equilibrato. 
Non si è giunti a formulare in termini generali la previsione di un obbligo di rinegoziazione in presenza di sopravvenienze, come pure era già stato proposto in un disegno di legge delega di riforma del codice civile presentato in Senato[21]. In diverse disposizioni emergenziali la rinegoziazione è stata però contemplata (in materia di locazione di immobili ad uso commerciale, di concessione di impianti sportivi, ecc.): talora semplicemente incoraggiandola con misure premiali, altre volte senz’altro imponendola. Ed anche la giurisprudenza (di merito) si è talvolta spinta a ravvisare un obbligo di rinegoziazione fondato sul dovere generale di buona fede o sull’equità, suscitando in dottrina commenti contrastanti[22]. 
La rinegoziazione dei contratti in presenza di una sopravvenienza di tal fatta potrebbe sembrare, a prima vista, una sorta di apertura di credito all’autonomia negoziale, alla quale ci si affida per ricondurre il contratto nel solco dell’equo contemperamento degli interessi, ossia per renderlo “giusto”. Parlare di autonomia negoziale, quando è la legge ad imporla, o comunque a dettarne le linee, appare tuttavia alquanto contraddittorio: si tratta, quanto meno, di un’autonomia controllata. 
Ma l’autonomia rischia di svanire del tutto se, in caso di fallimento della rinegoziazione, si prevede l’intervento suppletivo del giudice per rimodulare d’autorità i termini di un contratto che appaia ormai sperequato. E’ in questo tipo di situazioni che si manifesta in sommo grado la prevalenza della ricerca del “contratto giusto”, rimessa alla decisione del giudice terzo, rispetto all’idea tradizionale del contratto come espressione della libera volontà e dell’autodeterminazione delle parti. Qui del “dogma” dell’autonomia negoziale rimane davvero ben poco.
Proprio in tal senso si muove però il disposto dell’art. 10 del già citato d.l. 118/2021. Nel contesto della composizione negoziata della crisi d’impresa, all’esperto è data infatti la facoltà di invitare le parti a “rideterminare secondo buona fede il contenuto dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da SARS-CoV-2”. In caso di mancato accordo, l’imprenditore in crisi può chiedere al tribunale di “rideterminare equamente le condizioni del contratto, per il periodo strettamente necessario e come misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale”. Ed il tribunale, se accoglie la domanda, “assicura l’equilibrio tra le prestazioni anche stabilendo la corresponsione di un indennizzo” (fatta eccezione per i contratti di lavoro ai quali tale normativa non si applica). 
Mi pare evidente che in tale contesto può accadere che l’autonomia negoziale ceda totalmente il passo ad una forma di eteroregolazione del rapporto. La rimodulazione del contratto, d’altronde, è funzionale ad altri scopi – la prospettiva di risanamento dell’impresa e di recupero della continuità aziendale – i quali in questo scenario vengono ad assumere un rilievo preminente, pur essendo di per sé estranei alla normale dialettica contrattuale, giacché paiono rispondere non solamente all’intento di realizzare un più equo contemperamento dei contrapposti interessi delle parti in causa ma anche, se non soprattutto, ad esigenze generali dell’economia. 
Colpisce poi l’ampiezza dei poteri attribuiti da questa normativa al giudice nel rideterminare il contenuto dei contratti. Come è stato puntualmente osservato, qui l’azione del giudice non è in alcun modo “a rime obbligate”[23], perché egli è chiamato ad esercitare poteri davvero assai ampi, solo genericamente circoscritti dai richiami alle nozioni di equità ed indispensabilità del suo intervento ed alla necessità di contenerne gli effetti entro stretti (ma pur sempre indefiniti) margini temporali. Il che però presuppone che il giudice riesca a percepire compiutamente non solo i valori sottesi all’accordo contrattuale che si accinge a modificare, ma anche le conseguenze che ne possono derivare sulla situazione economico-patrimoniale complessiva delle parti. E colpisce anche la relativa vaghezza dei presupposti cui è condizionato l’esercizio di un siffatto intervento giudiziario, a monte del quale dovranno esservi l’accertamento della situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, tale però da consentire la ragionevole prospettiva di risanamento dell’impresa, e poi la valutazione delle ragioni che hanno impedito alle parti di raggiungere un accordo sulla rinegoziazione del contratto, il cui equilibrio sia stato compromesso dalla pandemia, oltre che della correttezza e buona fede del comportamento serbato dal debitore nella circostanza e della misura in cui la controparte debba essere indennizzata per non squilibrare eccessivamente il rapporto contrattuale in suo danno. Tutti elementi suscettibili di apprezzamenti diversi, potenzialmente idonei a generare controversie dall’esito non facilmente prevedibile. Come è stato giustamente osservato, “permettere al giudice di intervenire sul contratto per riequilibrarne le condizioni attraverso il ricorso a clausole generali che non fissano i presupposti del potere, e di farlo, oltretutto, con riferimento a contratti, quali quelli tipici del rapporto d’impresa strutturalmente complessi, rischia di produrre risultati che vanno al di là anche delle aspettative del contraente che si è rivolto al giudice”[24] .
Si tratta, ovviamente, di una normativa circoscritta, quanto al suo oggetto, e strettamente legata nel tempo al protrarsi dell’emergenza pandemica[25]. In questo, come in ogni altro campo, è difficile prevedere però quali effetti di lungo periodo ne potranno derivare e se, quindi, la tendenza alla eteroregolazione dei contratti in qualche modo si stabilizzerà o comunque si rafforzerà nel futuro. Tendo a credere che difficilmente, se e quando ci saremo lasciati definitivamente alle spalle la pandemia, tutto tornerà come prima.
In quale misura e con quali modalità la normativa emergenziale cui s’è fatto cenno sia destinata a costituire un punto di svolta nel delicato rapporto tra autonomia negoziale, “giustizia del contratto” e potere del giudice di rimodellarne il contenuto resta quindi un interrogativo aperto. Non senza qualche preoccupazione, che mi pare fondata non tanto perché ne potrebbe risultare compromessa l’efficacia allocativa del contratto (nella misura in cui la si voglia considerare dipendente dal gioco delle libera negoziazione tra i contraenti[26]), quanto soprattutto per quel margine d’imprevedibilità che inevitabilmente connota qualsiasi intervento correttivo del giudice in singoli casi concreti, e che rischia ora di allargarsi notevolmente mettendo a repentaglio in modo significativo un valore – certo non assoluto, ma pur sempre importante – quale è quello della certezza del diritto. 

Note:

[1] 
La difficoltà di distinguere il fondamento contrattuale da quello processuale del concordato preventivo era evidenziata già oltre sessant’anni fa da M. Vaselli, in Enc. dir., voce Concordato preventivo, Giuffré, Milano 1961, VIII, pag. 508; ma si vedano anche, in proposito, i puntuali rilievi di G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Giuffrè, Milano, 2011, pag. 217 e segg.; Id, Concordato preventivo: natura giuridica e fasi giurisprudenziali alterne, in Fallimento, 2013, pagg. 525 e segg.
[2] 
Sull’evoluzione della nozione di causa del contratto nella dottrina civilistica italiana nella seconda metà del secolo ventesimo e sull’emergere della concezione di causa come funzione individuale economico-pratica dell’accordo contrattuale moltissimo si è scritto: si vedano, per tutti, C. Scognamiglio, Problemi della causa e del tipo, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, II, Regolamento, Giuffré, Milano, 2006, pagg. 90 e segg.; V. Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, ne´ compiacente) con la giurisprudenza di legittimita` e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, pagg. 957 e segg.; e C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, ivi., 2014, pagg. 251 e segg.
[3] 
Il riferimento è alla nota pronuncia di Sez. un. 23 gennaio 2013, n. 1521, pubblicata in molteplici riviste, tra cui Fallimento, 2013, 149, con nota di M. Fabiani, La questione «fattibilità» del concordato preventivo e la lettura delle sezioni unite, sulla falsariga della quale si sono poi orientati molti altri provvedimenti conformi della Suprema corte.
[4] 
Sulla natura intrinsecamente contrattuale degli accordi di ristrutturazione, si veda B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall., in Le tutele contrattuali e il diritto europeo. Scritti per Adolfo di Majo, Jovene, Napoli, 2012, pagg. 263 e segg.
[5] 
Legame di recente evidenziato anche da F. Di Marzio, Crisi, contratti e ristrutturazione, in www.dirittodellacrisi.it, 2021.
[6] 
Intorno alla composizione negoziata della crisi è immediatamente fiorita un’abbondante letteratura: si vedano, tra gli altri, M. Fabiani e I. Pagni, Introduzione alla composizione negoziata, in Fallimento, 2021, pagg. 1477 e segg.; P. Vella, Le finalità della composizione negoziata e la struttura del percorso: confronto col CCII, ivi, pagg. 1489 e segg.; e M. Ferro, La composizione negoziata e il riposizionamento delle istituzioni della concorsualità giudiziale dopo il D.L. n. 118/2021, ivi, pagg. 1573 e segg.
[7] 
Per una forte rivendicazione dell’autonomia contrattuale – il cui fondamento costituzionale è approfonditamente indagato da F. Macario, voce Autonomia privata (profili costituzionali), in Enc. dir. Annali VIII, Giuffrè, Milano, 2015, pagg. 61 e segg. – si veda, da ultimo, A.M. Benedetti, L'autonomia contrattuale come valore da proteggere - Costituzione, solidarietà, libertà, in Nuova giur. civ., 2019, pagg. 827 e segg. Le implicazioni filosofiche ed economiche dell’autonomia contrattuale, ed i suoi legami con le ideologie libertarie e liberali, sono invece al centro della riflessione di E. Baffi, I limiti all'autonomia contrattuale nel pensiero economico e filosofico contemporaneo, in Riv. critica dir. privato, 2004, pagg. 631 e segg. 
[8] 
Il tema della giustizia del contratto è, ovviamente, assai ampio ed ha dato luogo ad una grande elaborazione dottrinaria di cui qui non sarebbe possibile dare compiutamente conto. Basterà richiamare, tra gli scritti più recenti, R. Sacco, voce Giustizia contrattuale, in Dig. disc. priv.- sez. civ., Agg., VII, Utet, Torino 2012; G. D’Amico, «Giustizia contrattuale» nella prospettiva del civilista, in Diritti lavori mercati, 2017, pagg. 253 e segg.; Id. Giustizia contrattuale e contratti asimmetrici, in Europa e dir. privato, 2019, pagg. 1 e segg.; E. Navarretta, Il contratto «democratico» e la giustizia contrattuale, in Riv. dir. civ., 2016, pagg. 1262 e segg.; P. Corrias, Giustizia contrattuale e poteri conformativi del giudice, ivi, 2019, pagg. 345 e segg.; ed A. Morace Pacelli, Il contratto giusto, ivi, 2020, pagg. 663 e segg.; nonché la monografia di R. Montinaro, La giustizia contrattuale nel sistema delle fonti, Giuffrè, Milano, 2017.
[9] 
Val qui la pena di richiamare il pensiero di Biagio de Giovanni, un filosofo sempre molto attento al mondo del diritto, il quale in un suo scritto risalente agli anni cinquanta, ma ripubblicato pochi anni fa con una bella prefazione di E. Scoditti, Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico, Esi, Napoli, 2016, sostiene che il negozio giuridico non è un mero fatto, destinato a costituire il presupposto per la produzione di effetti giuridici che il legislatore vi ricollega, ma si segnala per una “insofferenza ad un’integrale subordinazione all’ordinamento” (p. 39). Il fatto negoziale, cioè, essendo “portato allo stesso livello della norma, in una funzione contrapposta ma simile alla sua” (ibidem), costituirebbe “un punto di vista contrapposto e distinto dall’ordinamento” (p. 41). Il negozio giuridico, in questa prospettiva, appare quindi come il centro di un possibile regolamento dei rapporti “altro” rispetto allo Stato (p. 87) e l’autonomia negoziale delle parti, conformemente alla celebre definizione risalente a Santi Romano (Frammenti di discorso giuridico, Milano 1947), esprimerebbe la loro “potestà di darsi un ordinamento giuridico” (p. 88).
[10] 
Si veda ancora C. Scognamiglio, Problemi, cit., pagg. 143 e segg.
[11] 
Di un “dissolvimento del modello tradizionale del contratto” parlava già sul finire del secolo scorso G. Alpa, Nuove frontiere del diritto contrattuale, Seam, Roma, 1998, pagg. 9-10, imputando tale fenomeno, tra l’altro, “all’applicazione di criteri di <giustizia contrattuale > con riferimento ai valori della persona e all’equità dello scambio” ed alla “applicazione di clausole generali per il controllo del comportamento delle parti nella fase prenegoziale, nella fase di conclusione e in quella di esecuzione del contratto”.
[12] 
Anche sulla complessa e controversa figura della meritevolezza del contratto molto si è scritto. Si veda per tutti, da ultimo, M. Pennasilico, Dal «controllo» alla «conformazione» dei contratti: itinerari della meritevolezza, in Contratto e impr., 2020, pagg. 823 e segg., cui si rinvia per ulteriori riferimenti.
[13] 
Cfr. in argomento V. Roppo, Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul «terzo contratto»), in Riv. dir. privato, 2007, pagg. 669 e segg.
[14] 
Anche la Cassazione non ha esitato a parlare di “tramonto del mito ottocentesco della omnipotenza della volontà e del dogma della intangibilità delle convenzioni”, e ne ha fatto discendere la “riconosciuta confluenza nel rapporto negoziale – accanto al valore costituzionale della iniziativa economica privata (sub art. 41) che appunto si esprime attraverso lo strumento contrattuale – di un concorrente dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.) … che, entrando (detto dovere di solidarietà) in sinergia con il canone generale di buona fede oggettiva e correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.), all'un tempo gli attribuisce una vis normativa e lo arricchisce di contenuti positivi” (Cass., 24-09-1999, n. 10511, in Foro it., 2000, I, 1929, con nota di A. Palmieri, La riducibilità ex officio della penale e il mistero delle liquidated damages clauses.
[15] 
L’abuso del diritto è un altro di quei temi sui quali sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro; nell’impossibilità di procedere qui ad una rassegna della dottrina in argomento, mi limiterò a citare lo scritto di N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in www.Questione giustizia. Trimestrale, 4/2016, il quale definisce l’abuso del diritto come “un duttile strumento offerto all’operatore pratico del diritto per introdurre un correttivo di segno lato sensu equitativo nella trama di un sistema di enunciati formalmente posti”.
[16] 
M. Barcellona, Equilibro contrattuale e abuso del diritto, in Le tutele contrattuali, cit., pagg. 487 e segg., pone assai bene in evidenza il nesso esistente tra i due temi evocati dal titolo del suo saggio, da cui discende l’interrogativo se “si diano principi e/o regole che impongano che un contratto risponda ad un equilibrio eteronimo, ossia diverso da quello raggiunto dalle parti attraverso le trattative, e determinato, invece, da una misura oggettiva e attingibile a priori.
[17] 
Si veda Cass. 24 agosto 2016, n. 17291, in Corriere giur., 2016, 495, con nota di V. Carbone, Apertura di credito, recesso della banca e violazione del dovere di correttezza verso il cliente, secondo cui il recesso di una banca da un rapporto di apertura di credito in cui non sia stato superato il limite dell'affidamento concesso, benché pattiziamente previsto anche in difetto di giusta causa, deve considerarsi illegittimo, in ragione di un'interpretazione del contratto secondo buona fede, ove in concreto quel recesso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari in contrasto con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale di quelli in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e non sia, dunque, pronto alla restituzione, in qualsiasi momento, delle somme utilizzate.
[18] 
Il riferimento è alle note pronunce di Corte cost. 24 ottobre 2013, n. 248, in Foro it., 2014, I, 382, e 2 aprile 2014, n. 77, ivi, 2014, I, 2035, con note di E. Scoditti, Il diritto dei contratti tra costruzione giuridica e interpretazione adeguatrice, di R. Pardolesi, Un nuovo super-potere giudiziario: la buona fede adeguatrice e demolitoria, e di G. Lener, Quale sorte per la caparra confirmatoria manifestamente eccessiva?; pronunce che, nel dichiarare manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1385, 2º comma, c.c. nella parte in cui tale norma non prevede la possibilità di riduzione ad equità di una caparra confirmatoria di entità sproporzionata, diversamente da quel che accade in caso di clausola penale, chiaramente hanno suggerito che il giudice potrebbe nondimeno senz’altro dichiarare la nullità di una siffatta caparra per violazione del canone di buona fede e, quindi, per contrasto con il principio di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione.
[19] 
Cfr., tra le altre, Cass., 23 marzo 2016, n. 5762, in Corriere giur., 2016, 1517, con nota di C. Scognamiglio, Ancora sulla configurabilità della responsabilità precontrattuale in presenza di un contratto validamente concluso; Cass., 17 settembre 2013, n. 21255, in Foro it., 2015, I, 2909; e Cass., 8 ottobre 2008, n. 24795, in Giust. civ., 2010, I, 149.
[1] Sui riflessi della pandemia nel rendere più attuale ed effettivo il principio costituzionale di solidarietà, anche nella disciplina della crisi d’impresa, si veda M. Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nelle gestione della crisi d’impresa, in Fallimento, 2022, pagg. 5 e segg.
[20] 
Sui riflessi della pandemia nel rendere più attuale ed effettivo il principio costituzionale di solidarietà, anche nella disciplina della crisi d’impresa, si veda M. Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nelle gestione della crisi d’impresa, in Fallimento, 2022, pagg. 5 e segg.
[21] 
D.d.l. Senato n. 1151. Cfr. in argomento F. Macario, Dalla risoluzione all'adeguamento del contratto - Appunti sul progetto di riforma del codice civile in tema di sopravvenienze, in Foro it., 2020, V, 102 e segg.
[22] 
Il tema delle sopravvenienze contrattuali generate dalla pandemia è stato già oggetto di grande attenzione da parte della dottrina. Per gli opportuni riferimenti basterà qui rinviare a C. Scognamiglio, Il governo delle sopravvenienze contrattuali e la pandemia Covid-19, in Corriere giur., 2020, pagg. 581 e segg., il quale auspica un intervento del legislatore in materia dubitando che la sola elaborazione dottrinale e giurisprudenziale di istituti e principi giuridici già presenti nell’ordinamento valga a risolvere soddisfacentemente i problemi che si sono posti. Un punto di vista almeno in parte diverso esprime invece F. Piraino, L’impatto della pandemia sui rapporti contrattuali: problemi e rimedi, in Annuario del contratto 2020, Giappichelli, Torino, 2020, pagg. 3 e segg., il quale si mostra maggiormente propenso a valorizzare l’attitudine del diritto generale delle obbligazioni e dei contratti a fronteggiare l’eccezionalità.
[23] 
M. Fabiani, Il valore della solidarietà, cit., pag. 11.
[24] 
I. Pagni, Crisi d'impresa e crisi del contratto al tempo dell'emergenza sanitaria, tra autonomia negoziale e intervento del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2021, pag. 370.
[25] 
Lo sottolinea M. Fabiani, op. ult. cit., pag. 12, secondo il quale “Quando si tratterà di coordinare il D.L. n. 118/2021 con il codice della crisi, auspicabilmente nel senso di inserirlo all’interno del Titolo II, si dovrà valutare la sorte di questa norma che, ad oggi, ha una chiara vocazione transitoria e che, tuttavia, quando esprime il valore della solidarietà potrebbe non essere accantonata”. 
[26] 
Si veda in proposito E. Baffi, op. e loc citt.

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