Saggio
Con il Codice il risanamento è con i creditori e non vi è più spazio per quelli contro di essi*
Riccardo Ranalli, Dottore Commercialista in Torino
18 Luglio 2023
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A ben vedere, il punto chiave risiede nella limitazione del valore riservato ai soci sancita dall’art. 120 quater, comma 2. Il cambiamento di approccio che ne deriva è radicale; i modelli del passato possono dirsi superati e il risanamento va ricercato con i creditori e vi è più spazio per quello contro i creditori.
In questo contesto, la composizione negoziata si pone come il “punto di attacco” ideale che fa leva sul ruolo dell’esperto quale facilitatore delle trattative e percettore degli interessi coinvolti nell’ottica della ricerca di soluzioni comportino un equilibrio dei sacrifici ed un bilanciamento degli interessi.
Sommario:
La legge fallimentare, da una disciplina preminentemente rivolta a tutelare i diritti di credito, si è gradualmente spostata verso la tutela della continuità aziendale. Il percorso è proseguito con l’introduzione della versione originaria del Codice della Crisi e dell’Insolvenza. Accanto alle controverse misure di allerta, che ne costituivano un caposaldo, l’art. 84 riconobbe espressamente che, nei concordati in continuità diretta, il ripristino dell’equilibrio finanziario andasse non solo nell’interesse, pur sempre prioritario, dei creditori, ma anche in quello dell’imprenditore e dei soci. Venne così superato ogni possibile dubbio sulla deroga, nel concordato in continuità aziendale, al disposto dell’art. 2740 c.c.
Nel contesto normativo previgente erano maturati due approcci della gestione della crisi nell’alveo della continuità aziendale radicalmente diversi uno dall’altro. Da una parte, quello volto al raggiungimento di un accordo con taluni selezionati creditori, attraverso i piani attestati dell’art. 67 L. fall., gli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 182 bis L. fall. e quelli ad efficacia estesa di cui all’art. 182 septies L. fall. Dalla parte opposta quello del concordato in continuità aziendale in cui la proposta è formulata unilateralmente dal debitore.
In entrambi mancava una fase dialettica volta a cogliere l’effettivo interesse dei diversi creditori. Il modello predominante era quello del tentativo di accordo, per lo più con i soli creditori finanziari, per virare repentinamente, in caso di suo insuccesso, verso il deposito di una proposta concordataria.
Il fatto che le trattative fossero circoscritte ad un numero limitato e selezionato di creditori era giustificato dall’esigenza, per economia di tempo e mitigazione di impatto reputazionale, di interloquire solo con soggetti avvezzi a percepire le peculiarità degli accordi disciplinati dagli strumenti di regolazione della crisi. Sottostante all’intero percorso era frequente una forzatura del debitore nei confronti dei creditori: l’opzione per il concordato aleggiava spesso dietro alla proposta di accordo e il debitore non aveva nemmeno necessità di sottolineare che in quel caso l’alternativa che si sarebbe posta sarebbe stata la liquidazione fallimentare o, peggio ancora, un’amministrazione straordinaria, nella quale i primi destinatari della tutela divengono i lavoratori.
Mancavano efficaci strumenti di dissuasione di comportamenti opportunistici volti a ricostituire, a spese dei creditori, il valore dell’impresa a vantaggio dell’imprenditore. Non erano tali la valutazione del miglior soddisfacimento dei creditori nei concordati in continuità ed il giudizio di cram down di cui all’art. 180, comma 4, L. fall. in quanto i rispettivi valori di riferimento erano quelli liquidatori che comportano tassi di recupero minimali. Non sono pochi i casi in cui l’imprenditore, avendo percepito che dalla prosecuzione delle trattative in vista di un accordo sarebbe derivato il concreto rischio della perdita del controllo individuale dell’impresa, egli abbia opportunisticamente preferito tentare il ricorso allo strumento del concordato preventivo.
Chi scrive aveva, in particolare, osservato che nella legge fallimentare (ed anche nel Codice della Crisi, prima del recepimento della Direttiva UE 2019/2023 c.d. Direttiva Insolvency) mancavano deterrenti idonei a dissuadere il debitore dall’accollare in capo ai suoi creditori l’intero onere del risanamento dell’impresa, trattenendo per sé il ricostituito valore aziendale. L’introduzione delle proposte concorrenti di cui all’art. 163 L. fall., che avrebbe dovuto evitare comportamenti opportunistici del debitore, si è sin da subito dimostrata inadeguata[1] al punto che l’istituto, con rarissime eccezioni, è rimasto sulla carta perdendo così l’occasione di creare un mercato efficiente del distressed debt[2].
Le trattative sono oggetto di tutela specifica nei principi generali. L’art. 4 stabilisce i doveri delle parti nel corso delle stesse, ponendo a carico del debitore il dovere di trasparenza, in particolare di completezza, appropriatezza e qualità delle informazioni rassegnate, e richiedendo ai creditori lealtà di comportamento.
Alle trattative è rivolta la composizione negoziata e ad esse è informato il conseguente agire dell’imprenditore (art. 21) e il comportamento delle parti interessate coinvolte (art. 16, comma 5 e 6).
Anche il piano di risanamento presuppone la presenza di trattative, richiedendo, diversamente rispetto a quanto previsto dall’art. 67 L. fall., la presenza di accordi in esecuzione del piano (art. 56).
Le trattative sono il fulcro degli accordi di ristrutturazione ed in particolare di quelli ad efficacia estesa (art. 61). A ben vedere l’omogeneità degli interessi all’interno della classe può essere adeguatamente percepita solo nel corso delle interlocuzioni con i creditori. Chi scrive, in seguito alla introduzione dell’art. 181 septies L. fall., aveva osservato che la percezione dell’interesse economico discende naturalmente dalla stessa negoziazione dell’accordo[3], al punto che “saranno i creditori a costringere il debitore ad articolare in modo variegato la proposta per tenere conto dei diversi interessi, se rilevanti”. È ben vero che il Codice fornisce più di una indicazione per la suddivisione dei creditori in classi nel concordato preventivo in continuità (non ultima all’art. 85, l’iscrizione obbligatoria delle imprese minori in classi separate); la strutturazione delle classi sulla base dell’effettivo interesse è però, prima ancora che un obbligo, un’esigenza per stimolare il consenso.
Le misure protettive e quelle cautelari hanno quale riferimento le trattative e sono in funzione delle stesse (art. 2 lett. p) e q); funzionalità che sia l’art. 19, comma 4, per la composizione negoziata, che gli artt. 54 e 54, per gli strumenti di regolazione della crisi, richiamano e rafforzano sia in sede di conferma e concessione che in sede di proroga.
Nel concordato preventivo in continuità, la regola della distribuzione del valore eccedente alla liquidazione, la c.d. relative priority rule, necessita, di fatto, di un dialogo preliminare con i creditori che consenta di pervenire a formulare proposte evolute adeguate alle attese delle singole classi. In tale ottica deve essere anche letto il portato dell’art. 92, comma 3 che chiama il commissario ad affiancare il debitore e i creditori nella negoziazione del piano, formulando suggerimenti per la sua redazione.
Le trattative sono comunque il presupposto necessario per fruire con efficacia della maggiore flessibilità della distribuzione del valore che è possibile nel concordato approvato.
Pare inoltre improbabile che in assenza di dialogo con i creditori, e dunque di trattative, una classe in the money accetti un sacrificio al proprio grado di soddisfazione tale da consentire, per effetto dell’art. 112, comma 2, lett. d), l’omologazione del concordato anche in assenza del raggiungimento della maggioranza.
Il dialogo con i creditori è, per analoghi motivi, necessario in caso di impiego dello strumento del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione di cui all’art. 64 bis che consente, nell’ambito del principio maggioritario, di derogare alle regole della distribuzione del valore in presenza dell’approvazione di tutte le classi.
L’estensione delle trattative raggiunge anche i lavoratori attraverso l’informazione e la consultazione dei loro rappresentanti, come sottolineato anche dai principi generali (artt. 4, comma 3). In tal senso va letto l’art. 87, comma 1, lett. o) che definisce il contenuto del piano di concordato preventivo.
Il peso specifico delle trattative cresce fino a raggiungere il suo punto chiave nel portato dell’art. 120 quater, che introduce nel concordato preventivo in continuità una limitazione al valore riservato ai soci in presenza di classi dissenzienti. Esso costituisce il più forte ostacolo ad operazioni di risanamento condotte a spese dei creditori. Nonostante la norma si limiti a prevedere, al comma 2, che il valore riconosciuto ai soci sia quello della società risanata ad esito dell’omologa al netto degli apporti effettuati in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto ai fini della ristrutturazione, non vi sono dubbi su come debba essere calcolato.
In presenza di un piano, le regole di determinazione del valore sono chiare ed univoche. Sono i principi contabili, interni ed internazionali, che determinano, conformemente alla prassi aziendalistica, il valore in misura corrispondente ai valori attuali dei flussi risultanti dal piano stesso (che già prevedono con segno negativo i pagamenti spettanti ai creditori concorsuali).
L’unico parametro rimesso al valutatore è quello del tasso di attualizzazione. Anche qui però i principi sono chiari nel pretendere che esso tenga adeguatamente conto del premio per il rischio inerente. In particolare, sia i principi contabili (OIC 9 e IAS 36) che le tecniche di valutazione aziendale, quando assumono i flussi economico-finanziari derivanti da un piano prospettico, richiedono che si consideri il rischio del non conseguimento dei flussi attesi. In altre parole, i flussi finanziari devono essere attualizzati sulla base di un tasso normale di remunerazione del capitale determinato dal risultato della somma del tasso di rendimento di investimenti privi di rischi e del premio per il rischio specifico dell’impresa. È il noto approccio del capital asset pricing model (CAPM)[4].
La questione si pone dunque nell’assunzione di un premio per il rischio coerente con i rischi di fattibilità del piano di concordato. Nel momento però in cui il piano è già stato oggetto di attestazione e dunque la sua fattibilità è già stata acclarata, il rischio ad essa associato è tendenzialmente addirittura inferiore a quello ordinario di mercato. Il che impedisce di assumere premi integrativi per il rischio (ad esempio per l’execution risk o per lo stato di crisi dell’impresa) ed anzi comporterebbe uno sconto rispetto al rischio di mercato.
Non va neppure trascurato il fatto che la norma si riferisce al “valore effettivo … delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquistarle”. Il che impone di considerare, per il solo valore riservato ai soci, l’eventuale premio di maggioranza che comporta il riconoscimento alle partecipazioni di controllo di un valore proporzionalmente maggiore. Ciò differisce dal valore economico per il ripristino di quello iscritto in bilancio degli assets ed oggetto di svalutazione nei precedenti esercizi condotte nel rispetto dei principi contabili (gli stessi dianzi citati - IAS 36 ed OIC 9); in tal caso, infatti, si prescinde dell’assetto del controllo della società e la valutazione è resa per la società e non per i suoi soci. Il premio di maggioranza non trova nemmeno applicazione nel caso di determinazione (ai fini del calcolo di convenienza) del valore degli strumenti (azioni e strumenti finanziari) eventualmente assegnati ai creditori, non essendo di norma ad essi associato alcun controllo della società. In ogni caso, nel momento in cui il controllo dell’impresa resta nelle mani dell’imprenditore, non può essere adottato, per la determinazione del valore riservato ai soci, lo sconto per lack of marketability che caratterizza le partecipazioni di minoranza nelle sole imprese non quotate.
Quanto sopra detto comporta che il valore aziendale a valle dell’omologazione non possa mai essere inferiore a quello sottostante alla valutazione in bilancio degli assets (potendo per contro essere superiore). Il valore non può nemmeno essere parametricamente inferiore a quello assunto per la determinazione del grado di soddisfazione dei creditori nel caso di assegnazione a loro favore di parte del capitale sociale o di strumenti finanziari partecipativi ed anzi è superiore se essi non comportano il trasferimento del controllo individuale. Infine, il valore in questione non può scendere al di sotto di quello sottostante al prezzo di emissione dell’eventuale aumento del capitale sociale sottoscritto da terzi investitori, mentre quest’ultimo potrebbe essere anche inferiore al valore riservato ai soci proprio in relazione al momento ed allo stato in cui si è concluso il contratto di investimento.
Per contro, come già detto, occorre dedurre dal valore in questione, oltre ai conferimenti effettuati, anche il valore dei flussi della continuità e di quelli di realizzo degli assets riconosciuti in via antergata ai creditori rispetto ai soci per effetto di clausole di earn-out o di privilegi nella ripartizione degli utili.
Alla luce di ciò si può sostenere che, dove hanno fallito le proposte concorrenti, oggi pare intervenire efficacemente il limite introdotto nel valore riservato ai soci. È ben vero che si tratta di disciplina che trova applicazione per le sole società ma la struttura, in larga parte collettiva, del sistema delle imprese fa sì che il caso di un concordato preventivo di un’impresa individuale sia di fatto rarissimo. Al punto che la ricostituzione del valore a spese dei soli creditori, pur se in astratto parrebbe ancora possibile per effetto del forte ridimensionamento delle maggioranze e dell’omologabilità del concordato anche in assenza della maggioranza per il solo effetto del sacrificio di una classe in the money, trova nella limitazione del valore riservato ai soci un ostacolo concreto che obbliga il debitore a ricercare in primo luogo la composizione degli interessi delle parti coinvolte.
Essendo il concordato in continuità aziendale il punto estremo di sblocco quando le trattative per un qualsiasi motivo si sono arenate, ad esso occorre volgere lo sguardo per comprendere se ne derivi mutamento della sintassi del linguaggio nella gestione della crisi. Ebbene nel concordato in continuità aziendale si è transitati dall’obiettivo del soddisfacimento dei creditori nel rispetto del principio della parità di trattamento, a quello dell’interesse dei creditori. Non ci si riferisce solamente all’interesse al quale fa riferimento l’art. 85, comma 3 che è circoscritto alle condizioni indicate al comma 5 dell’art. 109 e dunque al mero recupero del credito, ma a quelle che già venivano qualificate come “utilità esterne”. Sono queste le utilità, non necessariamente monetarie, ritratte dai singoli creditori e già previste nella lett. e) del comma 2 dell’art. 161 L. fall. ed ora sicuramente enfatizzate dalle novità sopra enunciate.
Ebbene, solo una parte delle utilità sono apprezzabili e valutabili da un soggetto (attestatore, debitore, commissario) diverso rispetto al creditore interessato; ve ne sono alcune sulle quali può esprimersi solo la parte interessata. Si tratta di quelle derivanti dalla continuazione del rapporto o dell’impresa che hanno certamente un contenuto economico ma, come si vedrà più oltre, esso non è necessariamente traducibile in grandezze economiche e comunque non è proporzionato all’entità del credito.
A ben vedere, alle utilità esterne si riferisce anche la “conservazione dei valori aziendali”, presupposto dell’ammissibilità del concordato in continuità posto, ancorché in termini di non manifesta inidoneità, dalla lett. d), del comma 1 dell’art. 47. I valori aziendali risiedono, infatti, anche nelle utilità che l’impresa rilascia all’esterno: sono i valori che ricadono sugli stessi creditori e sugli ulteriori stakeholder, nonché i valori per il sistema economico e quello sociale. Questi ultimi attengono alla responsabilità sociale del fare impresa. Vi rientra il tema della sicurezza del lavoro e quello della tutela ambientale.
Sono i valori la cui tutela impone un approccio maggiormente etico nella gestione della crisi, in una visione solidaristica[6] della stessa.
In ogni caso, come è stato acutamente osservato[7], la concorsualità passa da “antagonismo” all’“unione delle forze” o, meglio ancora, al concorso di tutte le parti interessate nel risanamento. Il risanamento presuppone, infatti, un mutamento delle pregresse condizioni economiche, finanziarie, patrimoniali sottostanti ai rapporti in essere ed anche un cambiamento dell’esposizione al rischio delle singole parti coinvolte. È questo, a ben vedere, l’oggetto della negoziazione. Ne deriva, una discontinuità che si riflette in una modificazione, più o meno marcata, nell’assetto dei rapporti economici e giuridici con le controparti e gli stakeholder, la cui comprensione necessita di dialogo e di confronto tra il debitore e le parti interessate. Solo in tal modo può essere perseguito un bilanciamento degli interessi. Il dialogo ed il confronto conducono, infatti, alla condivisione dei sacrifici richiesti alle singole parti interessate, attraverso l’equilibrio tra gli stessi e l’interesse delle singole parti coinvolte.
In tale ottica deve essere letta l’indicazione riportata al par. 9.2 del Protocollo di Conduzione della Composizione Negoziata di cui alla Sezione III del decreto dirigenziale 21 marzo 2023, che prevede che, “nello stimolare la formulazione di proposte, l’esperto rappresenta l’esigenza che esse assicurino l’equilibrio tra i sacrifici richiesti alle singole parti, in modo quanto più possibile proporzionato al grado di esposizione al rischio di ciascuna di esse e alle utilità loro derivanti dalla continuità aziendale dell’impresa”.
In funzione di ciò, per l’individuazione delle parti con le quali nella composizione negoziata è opportuno vengano intraprese trattative, il Protocollo al par. 5.2 suggerisce di tener conto degli interessi in gioco. Nell’affrontarli spesso ci si limita al tasso di recovery della grandezza stock dei crediti in essere e pertanto a valutarli nella misura della perdita che il creditore subirebbe nel soddisfacimento del proprio diritto di credito in caso di liquidazione dell’impresa nell’alternativa della liquidazione giudiziale o, quando ne ricorrano i presupposti, in quella, ancor più severa, dell’amministrazione straordinaria.
Gli interessi in gioco invece sono, come già detto, anche, e prima ancora, altri.
Ci si riferisce, e già vi si è fatto cenno, alle utilità derivanti dalla prosecuzione del rapporto economico in essere ed alle conseguenze derivanti dal venir meno della continuità aziendale dell’impresa. Si tratta, per i fornitori, delle conseguenze sugli sbocchi di mercato per la parte interessata, per i clienti, di quelle sugli approvvigionamenti, per le controparti che hanno affidato servizi in outsourcing all’impresa, del conseguimento di servizi essenziali od importanti, per le controparti industriali, le collaborazioni anche industriali in corso, compresi accordi, joint venture, associazione temporanee d’impresa.
Tra gli interessi rilevano anche le conseguenze sui rapporti di credito o economici con terze parti. Ci si riferisce, ad esempio, al rischio dell’estensione della crisi ad altre società del gruppo del debitore, od anche esterne ad esso, con le quali sono in essere con la parte interessata rapporti di credito o economici che ne sarebbero pregiudicati.
Rientrano, infine, tra gli interessi della singola parte anche le ulteriori conseguenze derivanti sulla stessa da una procedura di liquidazione giudiziale in capo al debitore. Ci si riferisce alla responsabilità per la concessione di credito, alle conseguenze di azioni revocatorie degli atti posti in essere, a quelle derivanti dalle garanzie concesse, all’eventuale responsabilità contrattuale nei confronti di terze parti.
La percezione degli interessi in gioco diventa il presupposto necessario per una condivisione con le parti interessate del progetto di risanamento; occorre a questo punto comprendere quale sia il “punto di attacco” del percorso di risanamento.
Note: