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Saggio

Alcune riflessioni aziendalistiche sulla viability of the business della direttiva Insolvency, con particolare (ma non esclusivo) riguardo al concordato in continuità*

Riccardo Ranalli, Dottore Commercialista in Torino

2 Gennaio 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’Autore esamina le novità introdotte avendo riguardo alla nuova disciplina del contenuto del piano del concordato preventivo in continuità e si domanda se ed in che cosa cambi la conseguente attestazione di fattibilità. 
In funzione di tale esame, egli affronta il tema della sostenibilità economica dell’impresa che discende dalla direttiva Insolvency il cui conseguimento è ora obiettivo esplicito del piano concordatario ai sensi dell’art. 87 del CCII: quale significato deve essere ad essa attribuito? Come essa si pone in relazione alla sostenibilità del debito e all’equilibrio finanziario? Quale è il significato da attribuire alla conservazione dei valori aziendali, che appare, per la prima volta, quale requisito di ammissibilità, nel novellato art. 47? 
Infine egli si sofferma sul connesso tema della tecnica di determinazione del valore dell’impresa ai fini dell’applicazione delle regole sulla sua distribuzione.
Riproduzione riservata
1 . Una premessa di metodo
Il recepimento della direttiva UE 2019/2023 (direttiva Insolvency) consente di mettere ordine tra espressioni del Codice della Crisi e dell’Insolvenza diverse riferibili alla continuità aziendale in senso lato: quella sostenibilità economica dell’impresa (viability of the business nella direttiva) che ritroviamo all’art. 21 ed all’art. 87, comma 3; quella sostenibilità del debito dell’art. 2,  comma 1, lett. a), dell’art. 3 comma 3, lett. b) e dell’art. 25 undecies; quella, infine, dell’equilibrio economico-finanziario sottostante all’art. 3,  comma 3, lett. a), all’art. 12,  comma 1, all’art. 25 quater,  comma 1, e agli artt. 56,  comma 2, 87  comma 1, lett. e) e 284,  comma 5. 
Ritenere analoghe tali diverse nozioni espone al rischio di equivocarne le conseguenze e finanche di ravvisare la sussistenza di una crisi, o il suo mancato superamento, ogni qualvolta si presenti un pregiudizio ad una qualsiasi delle sopra richiamate situazioni; ne deriverebbe un perimetro della crisi d’impresa indefinito e forse anche a geometria variabile, in quanto dipendente da fenomeni diversi. 
Si impone dunque la necessità di ricorrere ad un approccio metodologico che muova, in modo rigoroso, da un’unica nozione di crisi d’impresa. 
Essa era stata a lungo estranea al corpo normativo, almeno fino all’introduzione della disciplina delle grandi imprese in crisi, e ha assunto una sua connotazione più specifica con le modifiche all’art. 160 L. fall. ad opera del D.L. n. 273/2005 (convertito in L. n. 51/2006). Successivamente è stato il TUSP (D.Lgs. n. 175/2016) a richiamare il concetto di crisi aziendale, rubricata all’art. 14 come “crisi d’impresa”, ma è stata la legge delega della c.d. riforma Rordorf (L. n. 155/2017) a fare per la prima volta chiarezza sul tema prevedendo che per crisi si debba intendere la probabilità di futura insolvenza. Era venuto così meno il dibattito tra coloro che sostenevano che crisi e insolvenza fossero due insiemi distinti ancorché contigui (sicché dove finisce il primo inizia il secondo) e coloro che invece consideravano l’insolvenza come un sottoinsieme della crisi.
Il quadro normativo è stato ulteriormente definito con il decreto delegato che ha istituito il Codice della Crisi (D.Lgs. n. 14/2019), che aveva individuato la crisi nello “stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. Rileva sotto questo aspetto sicuramente il distinguo tra un evento “possibile”, e cioè il fatto che l’evento può accadere, e un evento “probabile”, e cioè il fatto che tra gli eventi possibili quello prognosticato appare quello che è più ragionevole attendersi. Restava però indeterminato l’orizzonte temporale entro il quale avrebbe potuto verificarsi l’evento. Non era questo un elemento marginale: ciò che non è probabile nel brevissimo termine potrebbe, infatti, esserlo nel lungo termine. Risolvente sotto tale profilo è la precisazione introdotta, in sede di adeguamento del Codice della Crisi alla direttiva Insolvency, con la specifica previsione che lo stato di crisi si debba manifestare “con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”. 
Per quanto il concetto di probabilità rimanga comunque fortemente pervaso da elementi di soggettività nella valutazione degli eventi caratterizzati da incertezza, la precisazione introdotta rende la valutazione suscettibile di misurazione diretta, attraverso la lettura di dati primari (i flussi di cassa e le obbligazioni nei successivi dodici mesi) e l’incertezza è confinata al solo avveramento delle loro previsioni. L’esito della valutazione non può che essere infatti binario: i flussi sono capienti oppure non lo sono. Ne consegue che, con un deciso tratto di penna, sono state risolte le indeterminatezze del passato. È stato in particolare superato il concetto di crisi in termini di incapienza dell’attivo a fronteggiare il passivo[1]. Si tratta del tema dello squilibrio patrimoniale che ora i principi contabili consentirebbero di apprezzare in termini più evoluti rispetto al passato, avendo in qualche modo riconosciuto il primato delle grandezze dinamiche (flussi finanziari) su quelle statiche (patrimonio contabile) [2]. 
Il Codice della Crisi ora, per la prima volta nel quadro normativo di riferimento, enuncia il concetto di crisi in termini aziendalisticamente fruibili: crisi è il pregiudizio alla sostenibilità prognostica del debito in un orizzonte temporale definito con una relazione diretta al pregiudizio alla continuità aziendale (che i principi contabili ancorano ai 12 mesi). Quella della sostenibilità del debito è una nozione ben nota agli aziendalisti, avvezzi a comparare il debito con i flussi di cassa al servizio dello stesso e si traduce in un indice (il debt service coverage ratio o DSCR a 12 mesi), laddove un risultato non superiore all’unità dà evidenza della sostenibilità del debito. Ad esso fa ricorso usualmente il sistema creditizio nel momento in cui valuta l’affidabilità del prenditore.
Anche in conseguenza di ciò, sono venuti meno gli indici della crisi del vecchio art. 13 CCII, basati sulle evidenze storiche (quali “l’inadeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli terzi”) che, valutati unitariamente, avrebbero dovuto fare ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi. Infatti, la valutazione unitaria e la mera presunzione non sarebbero state attagliate all’esigenza di disporre di criteri di individuazione oggettivi ed univoci. 
Ci si dovrebbe, a questo punto, solo domandare se la nozione della crisi, che è emersa da un quadro normativo solo successivo al TUSP, assuma rilevanza anche per esso, tenendo conto delle peculiarità delle imprese pubbliche. È ben vero che l’art. 1, comma 3, CCII prevede che “Sono fatte salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di crisi di impresa delle società pubbliche”, ma il TUSP non dispone alcunché sulla nozione di crisi ed anzi “non ha una formulazione escludente rispetto alle disposizioni generali del CCII”[3]. Determinante sotto questo profilo è anche la relazione illustrativa del TUSP nella quale si precisa che non si era ritenuto di accogliere le osservazioni del Consiglio di Stato che miravano a differenziare la disciplina delle crisi aziendali rispetto alle diverse tipologie di società pubbliche (in house o strumentali) in quanto sarebbe stato in contrasto “all’impostazione privatistica della disciplina della crisi ravvisabile nel testo unico”. 
Individuata la nozione di crisi e di riflesso quella della sostenibilità del debito restano da comprendere, per una corretta applicazione della disciplina sulla crisi d’impresa, i legami e le reciproche influenze tra sostenibilità economica dell’impresa e la sostenibilità del debito (come meglio si vedrà espressione dell’equilibrio economico-finanziario). Di essi si tratterà nel paragrafo successivo.
2 . La nozione di sostenibilità economica e quella di sostenibilità del debito
La continuità aziendale è ad un tempo l’oggetto del monitoraggio dell’impresa per la tempestiva rilevazione dello stato di crisi ed il fine del risanamento[4] dell’impresa.
Il suo pregiudizio, al pari del mero rischio del suo pregiudizio, costituiscono rispettivamente, il primo, indizio di possibile emersione della crisi e, il secondo, indizio della sua futura possibile emersione e cioè indizio di pre-crisi. Pare opportuno sottolineare che si tratta di meri indizi e non di indici della presenza di uno stato di crisi o di pre-crisi. Il pregiudizio della continuità aziendale, infatti, non necessariamente comporta l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi 12 mesi che abbiamo visto essere la demarcazione tra ciò che è stato di crisi e ciò che stato di crisi non è. Per contro tale inadeguatezza, se presente, pregiudica la continuità aziendale.
Il recupero della continuità aziendale costituisce, nel contempo, il fine enunciato degli strumenti che l’imprenditore è chiamato ad adottare ed attuare in caso di crisi d’impresa ai sensi dell’art. 2086 c.c. 
La continuità aziendale è però un concetto astratto: gli stessi principi contabili (IAS 1 ed OIC 11) e, in particolare, i principi di revisione (ISA n. 570), nel momento in cui la affrontano, si limitano ad individuare segnali esteriori di eventuali suoi pregiudizi; in altre parole individuano evidenziano trigger event potenzialmente sintomatici della perdita della continuità aziendale al punto che i principi di revisione precisano che l’elenco riportato non è esaustivo e che la presenza di uno o più elementi individuati dai principi stessi come critici non significa necessariamente che esista una incertezza significativa sul going concern[5].
A ben vedere la continuità aziendale ha plurime chiavi di lettura. Comune a tutte è la sostenibilità economica dell’impresa, la già citata viability of the business, e cioè la sua capacità di stare sul mercato e di non esserne estromessa. 
Vi sono, a ben vedere, tre facce distinte ma tra loro connesse della sostenibilità economica dell’impresa: quello della sostenibilità del modello di business; quello della capacità di remunerare adeguatamente i fattori produttivi; quello della sostenibilità del debito. La sostenibilità del debito pertanto pregiudica sempre quella economica dell’impresa ma da quest’ultima non necessariamente discende.
La sostenibilità del modello di business, prima ancora che una situazione suscettibile di valutazioni parametriche, è una condizione di compatibilità con i bisogni del mercato e dell’impresa e con la domanda. Sono molti gli esempi che aiutano a comprenderlo. Ad esempio il caso delle pellicole fotografiche e quello fotografie istantanee Polaroid, il cui mercato ha avuto un drammatico ridimensionamento con la fotografia digitale, che ha permesso di raggiungere analoghi risultati con costi ed efficienza incommensurabilmente maggiori. È analogo il caso delle directory telefoniche (le pagine gialle), il cui modello di business e la cui economicità di esercizio hanno avuto un declino, più o meno rapido, in tutto il mondo. Infine il caso attuale del declino del motore endotermico derivante dalle risposte al climate change, che comporterà l’estromissione dal mercato di un numero rilevante di imprese che operano in tale comparto, se non saranno in grado di riconvertirsi. 
Sotto tale profilo, a bene vedere, la sostenibilità del modello di business è collegata al posizionamento dei suoi prodotti all’interno del ciclo di vita le cui singole fasi (introduzione, sviluppo, maturità, saturazione e declino) sono caratterizzate da una diversa e peculiare combinazione tra le prospettive dell’intensità della domanda, gli investimenti necessari e la marginalità ritratta.
La seconda faccia attiene alla remunerazione dei fattori produttivi. Chi mette a disposizione un fattore produttivo (sia esso costituito da capitale, mezzi e prestazione d’opera) ne pretende un ritorno che remuneri anche i rischi associati; si tratta dei rischi di perdite ma anche di quelli conseguenti alla perdita di impieghi alternativi.
Il che è particolarmente evidente per il capitale proprio e quello di terzi. Il costo del capitale ricomprende[6] quello degli impieghi alternativi e il c.d. “premio per il rischio” di perdite che è ovviamente diverso a seconda che l’impiego del capitale in equity ovvero in debito. Quanto maggiore è il rischio di perdite, tanto più elevata deve essere la remunerazione del capitale impiegato. Il che vale anche per il finanziatore: il merito di credito, il c.d. rating dei prenditori, determina il costo del capitale assorbito per il finanziatore e quindi il tasso di interesse praticato. Il profilo degli impieghi alternativi del capitale tiene ovviamente conto del quadro normativo di riferimento. Questa banale considerazione consente di apprezzare anche le conseguenze dell’attenzione rivolta dalle autorità di vigilanza al tema ESG, in relazione al quale il quadro normativo di riferimento si rafforza con una disciplina unionale sempre più stringente[7]. Esso incide sul costo del capitale proprio con un impatto sul premio per il rischio, in quanto gli investitori istituzionali che dichiarano di aderire a politiche ESG compliant devono rivolgere i loro investimenti alle imprese che esercitano attività sostenibili e la raccolta del capitale proprio delle restanti imprese risentirà di una domanda inferiore con inevitabili conseguenze sui prezzi e sul valore del capitale. Analogo è l’impatto sul costo degli impieghi delle banche, e dunque del capitale di terzi, per effetto dell’aggravamento dell’assorbimento del capitale introdotto dalla Banca Centrale Europea (l’EBA) nel momento in cui essi siano rivolti ad imprese non ESG compliant
Tra i fattori produttivi vi sono anche la concessione di beni e servizi la cui remunerazione deve essere adeguata a quella degli impieghi alternativi e, tenere conto, del rischio di perdite, anche di chances, in caso di difficoltà dei fruitori dei beni e dei servizi. Il che vale, ad esempio, per la locazione di beni, per l’affitto di rami di azienda e, non ultimo, per il capitale umano, troppo spesso trascurato nell’individuazione dei fattori critici di successo. Con particolare riguardo a quest’ultimo, occorre osservare che la capacità di attrarre risorse umane adeguate dipende non solo dalla capacità di remunerarle nel tempo ma anche dalla concretezza delle prospettive di crescita professionale.
La continuità aziendale presuppone dunque la capacità di creazione di valore per tutti gli stakeholder: investitori, fornitori, banche, proprietari dei beni e dipendenti. Gli stessi clienti sono attenti nella valutazione della capacità dei propri fornitori di rispondere nel tempo ai bisogni dell’impresa e lo fanno non solo in un’ottica di breve periodo, costituita dalla capacità di eseguire gli ordini e le commesse assunte, ma anche e principalmente, in un’ottica di medio-lungo termine, dalla loro capacità di adattare l’offerta (e dunque il modello di business) alle nuove esigenze del mercato. Ad esempio, per tornare ad un tema di particolare attualità, in alcuni ambiti più evoluti, già ora il cliente capo-filiera tiene anche conto della sostenibilità ESG dei propri fornitori, in quanto da questa dipende la propria.
In assenza di una remunerazione adeguata, l’impresa non potrà continuare ad avvalersi nel tempo dei contributori di fattori produttivi strategici. Solo se si ha presente tale aspetto si può comprendere come mai la più parte delle imprese che hanno completato con successo una composizione della crisi abbiano dovuto avviare una trasformazione del proprio assetto proprietario che ha portato al trasferimento del controllo dell’impresa o ad aggregazioni: il ritrovato equilibrio finanziario non è, infatti, sufficiente a perseguire la sostenibilità dell’impresa nel medio-lungo termine.
Quanto alla terza faccia, quella della sostenibilità finanziaria (o del debito), essa, diversamente rispetto alle precedenti, ha orizzonti temporali più ravvicinati e si interfaccia maggiormente con il tema della rilevanza giuridica della continuità aziendale. Il quadro normativo e quello che emerge dai principi contabili hanno, infatti, puntuali riferimenti in relazione all’orizzonte temporale di osservazione. Infatti, sia i principi contabili, per il pregiudizio della continuità aziendale, che il codice della crisi, per la sostenibilità del debito, si riferiscono ad un orizzonte temporale di 12 mesi. La presenza di un termine temporale definito (12 mesi) è decisiva. Essa consente di evitare zone grigie che comporterebbero solo incertezze nella tempestiva rilevazione della crisi, esponendo l’organo amministrativo e quello di controllo a responsabilità eccessive che rischierebbero, quale loro ultima conseguenza, di disincentivare anche l’iniziativa imprenditoriale.
Volendo trarre una sintesi da quanto sopra, potremmo dire che vi è un paradigma della continuità aziendale che è a medio-lungo termine ed è imperniato sul modello di business e sulla remunerazione dei fattori produttivi ed un diverso paradigma che è imperniato sulla sostenibilità nei successivi 12 mesi. Dal primo non derivano conseguenza regolamentari, né limitazioni sulla libertà di iniziativa e di gestione dell’impresa. Dal secondo viceversa scaturiscono conseguenze in materia contabile e di bilancio, nonché in materia di gestione dell’impresa. Sotto questo secondo profilo non è irrilevante osservare che l’art. 21, richiamato dall’art. 4,  comma 2, lett. c), prevede che, solo in presenza di uno stato di crisi, sorga l’obbligo di gestione dell’impresa in modo tale da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. Se l’impresa non ha ancora superato il limite della crisi, oggi definito anche in termini temporali, il cennato vincolo gestorio non opera. 
Si è tracciato così un netto distinguo tra la sostenibilità dell’impresa a medio-lungo termine e la sostenibilità finanziaria del debito a dodici mesi. Si tratta di due ambiti diversi che però hanno punti di contatto. Il principale di essi è costituito dal valore dell’impresa, inteso come l’espressione, anche quantitativa, della capacità di creazione di valore per gli stakeholder in genere e per gli investitori in particolare. 
È un parametro che assume rilevanza trasversale nella disciplina del Codice della Crisi. Volendo circoscrivere il tema al solo concordato preventivo in continuità, che è il focus del presente contributo, occorre osservare che il valore dell’impresa incide in primo luogo sotto il profilo della sua distribuzione. A tal riguardo, si richiamano qui di seguito i momenti salienti costituiti da:
-  il valore della liquidazione, soggetto alla absolute priority rule (112, comma 3); 
- il valore ai fini del trattamento dei creditori in caso di conversione del debito in equity (equity swap) o di clausole di earn-out, e ciò per la valutazione della convenienza e l’esclusione di un trattamento deteriore rispetto a quello di liquidazione (112, comma 4);
-  il valore riservato ai soci (art. 120 quater).
Il valore dell’impresa incide però anche sotto il profilo delle finalità del risanamento e ciò per effetto della previsione dell’art. 47,  comma 1, lett. b) dell’idoneità del piano alla conservazione dei valori aziendali che il Tribunale è chiamato a verificare a seguito del deposito del concordato. 
Il valore dell’impresa verrà esaminato più avanti; occorre prima soffermarsi brevemente sulla relazione tra i concetti affrontati e le finalità degli assetti organizzativi.
3 . Il coordinamento con gli adeguati assetti organizzativi
Quando si estende il perimetro di osservazione all’adeguata organizzazione dell’impresa e si affronta il tema degli adeguati assetti organizzativi, si rinviene nel valore della continuità aziendale a medio-lungo termine un momento di crasi tra i due caposaldi normativi costituiti dall’art. 6, comma 2, del TUSP, operante per le sole società a controllo pubblico, e dall’art. 3, comma 3, del CCII, operante per tutte le altre imprese. La disciplina del TUSP aveva, infatti, introdotto il programma di valutazione del rischio di crisi già nel 2016. Il Codice della Crisi, nel testo licenziato per l’adeguamento alla direttiva Insolvency, introduce ora la previsione tempestiva dell’emersione della crisi. Pur sussistendo talune affinità, la situazione in cui l’insolvenza è probabile e qella in cui sia prevedibile della crisi sono due diversi stati dell’impresa, ben distinti e tra di loro circoscritti. Né ci si può spingere a individuare la pre-crisi in una “probabilità al quadrato” del rischio di insolvenza o ad una “probabilità di secondo livello”[8]. Se è vero che un evento è probabile quando esso è, tra gli eventi possibili, quello che appare più ragionevole attendersi. Tradurre in un valore quantitativo lo stato di previsione della crisi in ragione della probabilità dell’evento dell’insolvenza (e cioè il 51% del 51%, corrispondente al 26%) appare fuorviante e conduce all’omissione di un passaggio logi comma Diversa è infatti la probabilità di un quarto dell’insolvenza rispetto alla previsione della crisi, quand’anche quest’ultima sia costituita dalla probabilità dell’insolvenza e ciò per almeno due motivi:
- la probabilità dell’insolvenza è oggi costituita da un elemento oggettivo costituito dalla più volte sottolineata inadeguatezza dei flussi di casa prospettici e pertanto la crisi non è un evento strettamente probabilistico. Rientra, infatti, in tale ambito anche l’insolvenza prospettica[9];
- lo stato di pre-crisi è suscettibile viceversa di valutazioni soggettive variamente ponderate e può limitarsi ad uno stato di mera difficoltà[10].
D’altronde, mentre dallo stato di crisi derivano obblighi ad agire, da quello di pre-crisi deriva tutt’al più la mera opportunità discrezionale di un intervento; siamo ancora nell’ambito della business judgement rule[11]. La mera previsione della crisi non innesca alcun obbligo di ricorso a strumenti di composizione della crisi. Lo stesso organo di controllo è chiamato a segnalare per iscritto all’organo amministrativo solo la presenza di una crisi o di un’insolvenza in atto; tale pare allo scrivente debba intendersi il portato dell’art. 25 octies laddove rinvia ai presupposti per la presentazione dell’istanza di composizione negoziata; in difetto l’obbligo di segnalazione sarebbe incerto e caratterizzato da marcata soggettività e il termine circoscritto “entro il quale l’organo amministrativo deve riferire in ordine alle iniziative intraprese” dipenderebbe dal mero giudizio dell’organo di controllo. Non va, infatti, trascurato che la finalità del comma 3 dell’art. 3 è costituita dall’implementazione di assetti che consentano di intercettare l’approssimarsi della crisi in quanto essi rendono davvero tempestivo l’intervento quando la crisi si presenti, ferma restando la possibilità di intervenire in via anche più anticipata, laddove l’organo amministrativo ne rilevi, a proprio giudizio, l’opportunità[12]. Di talché sarebbe coerente con la norma il fatto che l’allerta precoce derivi da una situazione di mera possibilità, pur concreta, ma non necessariamente dalla probabilità di una diversa conseguente situazione che renda probabile l’insolvenza.
Ciò premesso, per un doveroso inquadramento metodologico del tema, si osserva che il comma 3 dell’art. 3, cit., ha dato una declinazione puntuale ed efficace all’adeguatezza degli assetti organizzativi[13], che altrimenti rischierebbe di essere astratta e fumosa, e si può dire che tale declinazione torni utile ed efficace anche per le imprese soggette all’art. 6 del TUSP.
Quali sono, allora, i presidi che necessitano perché un assetto organizzativo possa in concreto ritenersi efficace per prevedere una crisi che potrà venire.
Degli adeguati assetti organizzativi si era molto parlato dalla modifica dell’art. 2086 c.c. e più lo si era fatto e più apparivano sfumati i contorni. Mancava nella precedente versione del Codice della crisi l'individuazione delle finalità di dettaglio (gli output) di un assetto adeguato alla tempestiva rilevazione della crisi[14]. La carenza è stata ora rimossa dal decreto legislativo che ha introdotto all'art. 3 del Codice la declinazione degli assetti organizzativi. Il  comma 3 individua, infatti, gli obiettivi delle misure e degli assetti organizzativi perché possano essere riconosciuti idonei ed adeguati a prevedere lo stato di crisi ne: (a) la rilevazione degli squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, nel rispetto del cennato principio di proporzionalità alle caratteristiche (anche dimensionali) dell’impresa; (b) la verifica della sostenibilità dei debiti e delle prospettive di continuità aziendale nei dodici mesi successivi, oltre che la rilevazione della presenza dei segnali (tratti dal grado di magnitudo dell’indebitamento) per la previsione della crisi; (c) la possibilità di ricavare, rendendole fruibili, le informazioni necessarie per l'utilizzo della lista di controllo e l’effettuazione del test pratico previsti per la composizione negoziata.
Passandoli in esame, occorre osservare che è finanziariamente equilibrata un’impresa il cui debito sia sostenibile a regime. Chi scrive ritiene che la valutazione dell’equilibrio finanziario sia agevolmente determinabile sulla base del risultato operativo lordo realizzabile in un’ottica stazionaria (di steady state) non incisa dalle variazioni del c.d. fabbisogno di capitale circolante netto (che assorbono e liberano risorse finanziarie, rispettivamente, nelle fasi di crescita e decrescita, o viceversa nelle imprese con ciclo di cassa invertito), a condizione che dal risultato operativo vengano dedotti gli investimenti di mantenimento a regime e il pagamento delle imposte sul reddito. Il risultato che ne deriva, affine al NOPAT[15] se non per la sostituzione degli ammortamenti con gli investimenti di mantenimento, indica i flussi al servizio del debito da porre in relazione al debito da servire, che ha caratteristiche preminentemente finanziarie. Tale non è il debito autoliquidante, che in una situazione stazionaria può essere mantenuto a regime. Vi concorre invece il debito scaduto che, nelle imprese che versano nella fase di esecuzione del concordato, è costituito dai pagamenti ai creditori concorsuali da assolvere. La situazione finanziaria può dirsi equilibrata se i flussi sono in grado di consentire il pagamento del debito in un orizzonte temporale normale per il settore di attività, applicando gli interessi di mercato. È quest’ultimo un passaggio al quale non si presta sempre la necessaria attenzione: l’interesse di mercato è quello adeguato per remunerare il capitale di terzi. Valgono al riguardo le considerazioni già svolte; in altre parole, il tasso di interesse utilizzato è quello che tiene conto dello stato in cui versa l’impresa.
La norma parla di equilibrio economico-finanziario ove altrove si fa riferimento all’equilibrio finanziario (art. 87 e art. 284). Il riferimento alle grandezze economiche accanto a quelle finanziarie non ne stravolge però la portata ed anzi è giustificato dal fatto che l’equilibrio economico è un presupposto di quello finanziario. In assenza di un equilibrio economico si assisterebbe ad una distruzione di risorse che nel tempo menomerebbe comunque l’equilibrio finanziario. 
La norma fa invero riferimento anche all’equilibrio patrimoniale. Esso, in caso di applicazione rigorosa dei principi contabili, dipende a sua volta dalla sostenibilità del debito. Infatti, il valore d’uso degli attivi (al quale sono volti gli impairment test) non è altro che il valore attuale dei flussi di cassa che essi sono in grado di generare; sicché il patrimonio netto, espresso sulla base di una corretta applicazione dei principi contabili, diventa negativo se il valore degli attivi, così determinato, è inferiore a quello del debito finanziario (come sopra inteso, previa attualizzazione del debito c.d. amortizing). 
Equilibrio economico-finanziario ed equilibrio patrimoniale sono dunque equivalenti alla sostenibilità del debito e ne sono a ben vedere l’espressione. Inoltre, poiché la sostenibilità del debito è un presupposto della continuità aziendale, si può concludere che le finalità enunciate alla lett. a) del terzo comma dell’art. 3 sono coerenti con quelle di cui alla seguente lettera b). Di quest’ultima pare necessario osservare che, mentre la verifica della sostenibilità del debito almeno per i dodici mesi successivi è direttamente volta ad intercettare con la necessaria tempestività la crisi non appena essa si presenti e cioè quando venga infranta la soglia del dodicesimo mese, quella della sussistenza della continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi non presenta un riflesso altrettanto diretto in relazione al manifestarsi della crisi ma costituisce un momento di monitoraggio comunque necessario per l’individuazione di situazioni di pre-crisi che, come tali, rendono opportune iniziative idonee, pur restando tali iniziative, a parere dello scrivente, confinate nella business judgement rule. Ciò che invece travalica la discrezionalità e rientra nelle regole di correttezza, pur con le necessarie cautele della proporzionalità alle dimensioni ed alle caratteristiche della singola impresa[16] è invece l’obbligo di realizzazione dei presidi organizzativi previsti dal  comma 3 e dunque l’implementazione delle cennate verifiche.
La previsione della lettera c) detta invece le tecniche di dettaglio per la misurazione sia dell’equilibrio economico-finanziario della lett. a), che della sostenibilità del debito e della continuità aziendale della lett. b) e, a tal fine, richiede che l’assetto organizzativo sia in grado di alimentare il test pratico e la lista di controllo particolareggia di cui all’art. 13,  comma 2. Test e lista di controllo assurgono a tecniche per la valutazione dello stato dell’impresa e sotto questo aspetto ben potrebbero costituire anche il programma di valutazione del rischio di crisi richiesto da TUSP. Esse impongono di organizzare preliminarmente processi interni quanto meno atti a individuare, implementare, raccogliere, valutare ed impiegare in continuo le informazioni occorrenti per svolgere il test e rispondere alle domande della lista di controllo. Di talché l’assetto potrà ritenersi adeguato sul punto solo se l’impresa è in grado di produrre tali flussi informativi, indipendentemente dal loro impiego. Affinché siano agevolmente disponibili le informazioni della lista di controllo occorre, infatti, che l’impresa abbia strutturato processi di rilevazione e raccolta delle informazioni rilevanti.
Invero la norma, al comma 4, prevede alcuni segnali, ai quali rinvia il comma 3, relativi alle magnitudo dell’indebitamento. Ad essi è stata però data eccessiva rilevanza: non si tratta di segnalazioni dalle quali scaturisca un obbligo di attivazione di uno degli strumenti di composizione della crisi ma unicamente uno strumento ulteriore di segnalazione laddove i restanti non avessero funzionato. Occorre preliminarmente osservare che essi sono stati richiesti dalla Commissione UE in relazione al PNRR ma non comportano, come da più parti erroneamente si ritiene, una deriva che conduce l’impresa verso forme di intervento coattivo, in deroga ad un principio di libertà di iniziativa. La capacità di intercettare internamente i segnali in questione deve essere intesa solo quale ausilio ulteriore per misurare l’intensità del debito scaduto, non in quanto costituisca un indice di uno stato di crisi ma in quanto elemento che comunque incide nella misurazione dello stato di salute finanziaria dell’impresa e sulla valutazione dell’intensità dello stato di crisi.
4 . Il coordinamento con le novità introdotte nel piano in continuità aziendale
Le significative variazioni del quadro normativo di riferimento a seguito del recepimento della direttiva Insolvency, in particolare per il concordato preventivo in continuità che ne è stato particolarmente inciso, hanno reso necessario arricchire il contenuto del piano, previsto dall’art. 87, di alcuni elementi, in parte innovativi ed in parte già presenti nelle buone pratiche, sui quali è opportuno soffermarsi. Con lavvertenza che per la corretta comprensione delle modifiche portate occorre tenere conto delle cennate nozioni di sostenibilità economica dell’impresa, continuità aziendale, sostenibilità del debito e riequilibrio finanziario. 
Il piano deve recare, accanto alla descrizione delle sue cause, anche l’entità dello stato della crisi (o dell’insolvenza). Il che presuppone che l’imprenditore abbia seguito un iter logico che gli consenta di comprendere il grado di gravità del proprio stato, gli obiettivi aziendali del percorso che si accinge a intraprendere e la difficoltà del risanamento.
Ad un lettore attento non sfuggirà dunque l’assonanza con le finalità del test pratico di cui all’art. 13: “il grado di difficoltà del risanamento è determinato dal risultato del rapporto tra il debito che deve essere ristrutturato e l’ammontare annuo dei flussi al servizio del debito” (così al punto 4 della Sezione I del decreto dirigenziale). Esso, infatti, lungi dall’essere un esercizio meccanico a valle di un’acritica estrazione di dati dal sistema contabile, sollecita l’imprenditore ad una valutazione consapevole sulla situazione dell’impresa, attraverso il rapporto causa-effetto delle due grandezze fondamentali costituite dal debito che deve essere servito e dai flussi che l’impresa è in grado di porre al suo servizio. Si tratta di una valutazione dinamica che gli indici di bilancio, per la loro staticità, non consentirebbero. Il confronto sollecitato dal test tra il debito da servire ed i flussi al suo servizio non si limita al rapporto quantitativo tra le loro grandezze (idealmente espressivo del numero di anni occorrenti per il rientro del debito), ma richiede all’imprenditore di analizzare la possibilità di influire su ciascuna di esse. Il risanamento di un’impresa in difficoltà o in crisi di norma necessita del rafforzamento (talvolta del conseguimento) dei flussi liberi al servizio del debito (e a tal fine, in primo luogo, il recupero della redditività dell’impresa) e della riduzione o del riscadenzamento dell’esposizione debitoria. In talune situazioni è sufficiente agire su una sola delle due leve (flussi o debito); in altre occorre agire su entrambe. Fondamentale è che l’imprenditore abbia chiaro da che cosa esse dipendano. I fattori sono molteplici: la marginalità lorda dell’impresa, cioè la capacità dell’impresa di creare ricchezza e risorse finanziarie; gli investimenti occorrenti, sia di mantenimento che quelli necessari per porre in essere le azioni in discontinuità volte ad accrescere i flussi reddituali; la struttura del debito; il realizzo di risorse ottenute dalla dismissione di beni; la contribuzione in capitale da chiunque effettuata. Si tratta di una disamina, che consente di percepire la difficoltà del percorso da intraprendere, funzionale a qualsiasi strumento di composizione della crisi e non solo alla composizione negoziata. In tale ottica la esaminata previsione della lett. c) del terzo comma dell’art. 3 ha una valenza trasversale.
Il piano, e non solo quello di concordato ma qualsiasi piano, deve anche indicare le strategie di intervento. Esse sono il pilastro del risanamento; non possono essere stereotipate o generiche ma debbono riferirsi alla situazione specifica e debbono essere convincenti. La premessa della lista di controllo, strumento di cui  comma 2 dell’art. 5 bis ne prevede l’impiego in qualsiasi piano di risanamento, dà chiara evidenza di ciò: “Il piano di risanamento deve muovere dalla situazione in cui versa l’impresa e dalle sue cause, individuate in modo realistico. Le strategie di intervento devono attagliarsi ad essa e consentire di rimuovere le difficoltà in essere”. Si tratta delle intenzioni strategiche (o delle linee guida del piano) che al successivo punto 3.9 della lista di controllo si precisa debbano essere “chiare e razionali, condivisibili da parte di un lettore informato (.), coerenti con la situazione di fatto dell’impresa e del contesto in cui opera”. Esse devono apparire appropriate per il superamento delle cause della crisi. Altrove nella stessa norma si parla di iniziative che si intendono adottare (lett. j): strategie e iniziative non sono sinonimi. Volendo tracciare un distinguo tra le due locuzioni si potrebbe dire che le prime orientano le seconde, che ne costituiscono il c.d. action plan[17]. Le strategie di intervento debbono essere qualitativamente adeguate a superare la crisi, mentre per le azioni di dettaglio, rappresentate dalle iniziative, la valutazione è in primo luogo quantitativa in termini di risorse economiche occorrenti (costi) e risorse finanziarie assorbite (fabbisogno), nonché in termini di relativi effetti economici e finanziari rilasciati. La distinzione non è irrilevante, anche sotto il profilo dell’individuazione delle modifiche sostanziali del piano alle quali fa riferimento l’ultimo periodo del  comma 3 dell’art. 87 (nonché l’art. 58): nel caso di modifiche sostanziali occorre la relazione dell’attestatore e sono sostanziali quelle che intervengono sulle strategie di intervento. Non lo sarebbero invece quelle che riguardano le singole iniziative; queste ultime ben possono, anzi debbono, cambiare per rispondere al continuo mutare del contesto in cui opera l’impresa ed adattarsi, ad esempio, al cambiamento della domanda e dei prezzi, alle azioni della concorrenza, all’intensità di avveramento dei fattori di rischio, senza che ciò determini una modifica del piano e della proposta di concordato.
Non va sottovalutata nemmeno la distinzione tra il piano industriale ed il piano finanziario contenuta alla lett. e) nella quale si precisa che nel piano industriale debbono essere indicati gli effetti sul piano finanziario. Il che evoca il percorso contenuto nella lista di controllo che chiede una gerarchia e un iter logico nella costruzione dei numeri del piano. Come si evince dalla premessa della lista di controllo: “La parte quantitativa del piano consegue alle strategie che si intendono adottare e segue un ordine logico strutturato attraverso valutazioni controllabili. Essa è volta a determinare i flussi finanziari”. Il piano è dunque l’esito di un processo e nella lista di controllo sono ben enucleate le singole fasi dello stesso. Si tratta de: 
(a) la valutazione della sussistenza dei requisiti organizzativi, in termini di presenza delle risorse chiave e delle competenze tecniche occorrenti, nonché di sistemi di monitoraggio continuativo dell’andamento aziendale, arricchito dal ricorso agli indicatori chiave di performance, anche per la valutazione dell’andamento tendenziale, e dalla presenza di un piano di tesoreria; 
(b) la produzione della situazione contabile e la rilevazione dell’andamento gestionale corrente; 
(c) l’individuazione delle strategie di intervento; 
(d) la proiezione dei flussi finanziari attraverso, nell’ordine, la stima dei ricavi, la determinazione dei relativi costi variabili, la stima dei costi fissi, la misurazione degli investimenti occorrenti, la valutazione degli effetti delle iniziative industriali che, in aderenza alle intenzioni strategiche, si intende porre in essere, la verifica della coerenza dei dati prognostici (fase di estrema rilevanza alla quale si rivolge il punto 4.8 della lista di controllo), la stima dell’effetto delle operazioni straordinarie, il pagamento delle imposte, la declinazione finanziaria ed infine la declinazione patrimoniale. 
Solo a questo punto si innesta la fase de (e) il risanamento del debito e la proposta concordataria che debbono essere entrambe aderenti ai flussi liberi che possono essere posti al servizio del debito. 
Altrettanto rilevante è il passaggio sui “tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria”. Con riferimento al momento del raggiungimento dell’equilibrio finanziario, è normale che esso, per un’impresa in crisi, sia differito in quanto viene raggiunto con gradualità; occorre, infatti, che si realizzino gli effetti delle azioni previste dal piano. Peraltro, in considerazione del fatto che il tempo costituisce una variabile critica ed un fattore ulteriore di rischio connesso alle possibilità di cambiamento di contesto, il riequilibrio finanziario deve essere raggiunto entro il termine in cui le previsioni mantengono una adeguata solidità. Si tratta dell’orizzonte temporale massimo del piano che, i principi contabili, richiedono che non sia superiore ai 5 anni, salvo eccezioni adeguatamente giustificate (§ 33 IAS 36 e § 23 OIC 9). Ben diverso è invece il tema dell’orizzonte temporale del rientro del debito e cioè del risanamento dell’esposizione debitoria[18]. È una differenza che non sempre viene colta e dalla quale si fa discendere una pretesa completa esdebitazione dell’impresa nel breve orizzonte temporale del piano. Invece, una volta raggiunto l’equilibrio finanziario nei termini prima descritti costituiti dall’adeguatezza dei flussi a regime a sostenere il debito in essere, ben il piano potrebbe prevedere un rientro del debito in un orizzonte temporale più dilatato. D’altronde è connaturale all’impresa il ricorso al credito, sia esso commerciale che finanziario. Pretendere che il risanamento si abbia solo con l’estinzione del debito equivale ad una contraddizione in termini. L’obiettivo del risanamento dell’impresa è, infatti, il raggiungimento del riequilibrio finanziario e dunque del merito di credito e non l’estinzione del debito delle esposizioni debitorie. Nel momento in cui l’impresa ha raggiunto l’equilibrio finanziario essa ben può fronteggiare gli obblighi di pagamento delle esposizioni debitore, anche se la relativa scadenza fosse oltre i canonici cinque anni dell’orizzonte del piano. Quanto sopra trova oggi una giustificazione normativa anche nel disposto del comma 2 dell’art. 100 laddove si precisa che, quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, sia possibile, alle condizioni ivi previste, il rimborso alla scadenza convenuta delle rate a scadere del contratto di mutuo, volto a non perdere il beneficio del termine. 
Non deve essere nemmeno trascurata la lett. g) che chiede di giustificare le ragioni per cui gli apporti di nuova finanza sono necessari per l’attuazione del piano. Il regime di prededuzione che è ad essi riconosciuto, infatti, aumenta il rischio associato per i restanti creditori e per il capitale proprio; considerazione, quest’ultima, assai rilevante in caso di equity swap e cioè di conversione dei crediti in capitale. Già si è detto che il risanamento non può prescindere dalla normale remunerazione del rischio del quale si fanno carico gli stakeholder. Nel momento stesso in cui viene riconosciuta la natura super-senior alla nuova finanza, si riduce la capacità di ritorno del capitale per gli altri stakeholder; da qui l’esigenza della chiara enunciazione nel piano delle ragioni per cui la nuova finanza si ritiene necessaria. Si tratta di ragioni che ben i creditori potranno, nel loro interesse, valutare prima di esprimere il proprio voto. 
Di fondamentale rilevanza è la lett. j), afferente alle iniziative da adottare qualora si verifichino scostamenti rispetto agli obiettivi pianificati. Il punto, oltre a confermare l’individuata differenziazione tra strategie di intervento ed iniziative, e pertanto tra modifiche sostanziali e non sostanziali del piano, evoca il tema dei rischi e delle analisi di sensitività. La certezza non è propria degli eventi futuri e gli scostamenti rispetto al piano sono inevitabili. Si tratta di eventi fisiologici dipendenti dai rischi. Da qui l’esigenza che il piano dia evidenza dell’analisi di sensitività individuando il punto di rottura oltre il quale occorre modificare le intenzioni strategiche e conseguentemente il piano, con la precisazione che da tali modifiche ben potrà conseguire la necessità di un accordo paraconcordatario ovvero una modifica della stessa proposta rivolta a tutti i creditori. 
Data così evidenza delle modifiche normative intervenute pare necessario soffermarsi sull’esigenza che, in un concordato preventivo in continuità diretta, il piano individui gli obiettivi, volti ad assicurare la continuità aziendale nei termini della sostenibilità economica dianzi rappresentata. Tale conclusione deriva dal fatto che il piano è lo strumento principe di conduzione dell’impresa e la fissazione degli eventuali obiettivi deve risultare da esso e non aliunde (ad esempio dal ricorso o dalla proposta). In difetto, non sarebbe infatti possibile per il Tribunale rispondere, in sede di omologa, alla richiesta contenuta dalla lett. g) del comma 1 dell’art. 112 e, più precisamente, verificare la “non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati” (art. 112, comma 1). Si tratta dunque di obiettivi che non possono non prevedere la sostenibilità del debito, compreso quello derivante dalla proposta concordataria, e il riequilibrio finanziario, che presuppone come già detto quello economico. Il piano deve però anche prevedere la sostenibilità economica dell’impresa. Infatti, l’attestatore è chiamato ad esprimere il proprio giudizio sulla sua attitudine a garantirla, come richiesto al  comma 3 dell’art. 87.
5 . Alcune considerazioni sul nuovo contenuto delle attestazioni dei piani in continuità aziendale dei concordati preventivi
La fattibilità del piano in continuità rientra tra i giudizi espressamente richiesti all’attestatore. La questione è se sia cambiato qualcosa rispetto al passato in ordine al significato da attribuire alla nozione di fattibilità, posto che il terzo comma dell’art. 87, in caso di continuità aziendale, la integra con l’attestazione dell’attitudine del piano a impedire o superare l’insolvenza del debitore, che fa perno sulla sostenibilità del debito, e a garantire la sostenibilità economica dell’impresa. Si tratta dei concetti già sopra esaminati.
Per meglio inquadrare il tema non si può sottacere che l’art. 112 traccia un distinguo, nell’ambito del giudizio di omologazione, tra i concordati in continuità aziendale che siano stati approvati da tutte le classi dei creditori, per i quali il Tribunale potrà negare l’omologazione solo laddove il piano sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza, e quelli non approvati dall’unanimità delle classi, per i quali il Tribunale verifica la sussistenza della fattibilità del piano pur in termini di negative assurance. Ed è proprio con riferimento a quest’ultima che la norma, alla lett. g) del comma 1 dell’art. 87, prevede che essa vada “intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati”. Come già detto vi rientra il raggiungimento della sostenibilità finanziaria dell’impresa, in termini di riequilibrio finanziario. Il che non vuol dire che il raggiungimento del riequilibrio finanziario debba essere certo, perché non può mai essere tale un evento non ancora verificatosi, ma che sia possibile raggiungerlo (o meglio non sia manifestamente irraggiungibile) attraverso le strategie che intende perseguire l’imprenditore. In altre parole, le strategie “devono attagliarsi” alla situazione dell’impresa “e consentire di rimuovere le difficoltà in essere” (così sempre la Sez. II del Decreto Dirigenziale). Con una precisazione dovuta: l’attitudine è carente in modo manifesto nel caso in cui il piano sia non contestualizzato alla situazione in essere, ovvero se le strategie previste in esso siano manifestamente inadeguate a porre rimedio alle cause della crisi.
A ben vedere vi sono tre diversi livelli del giudizio dell’attestatore.
Un primo livello, che deve comunque sussistere, è quello che il piano “non sia privo di ragionevoli prospettive” di impedire un’insolvenza prospettica o di superare un’insolvenza già presente. 
Un secondo livello, più stringente, è quello dall’attitudine del piano a raggiungere l’equilibrio finanziario. È quanto pare corretto trarre dall’art. 112, comma 1, lett. g) laddove si prevede che il Tribunale omologhi il concordato verificata “la fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati", essendo il riequilibrio della situazione finanziaria un obiettivo necessario per il risanamento dell’impresa, previsto espressamente quale contenuto del piano concordatario alla lett. e) dell’art. 87, comma 1.
Alla luce delle considerazioni svolte in precedenza ve ne è però un terzo, ben più stringente ancorché non rilevante nel giudizio di omologazione: quello sulla sostenibilità economica dell’impresa, e cioè sulla sua capacità di sostenere il proprio business remunerando i fattori produttivi, e cioè quello della capacità di creare valore nel tempo. È a ben vedere il tema al quale si è già fatto cenno della “conservazione dei valori aziendali” di cui alla lett. b) del comma 1 dell’art. 47; esso implica la responsabilità sociale del fare impresa, il tema della sicurezza del lavoro e della tutela ambientale, connessi ai profili ESG, e finanche un approccio etico nella gestione della crisi nella direzione di una visione solidaristica[19].
Per quanto il contenuto dell’attestazione, sotto questo aspetto, non sia rilevante nel giudizio di omologazione, esso appare, oltre che obbligatorio in forza della prescrizione del terzo comma dell’art. 87 (in termini di attitudine del piano a “garantire la sostenibilità economica dell’impresa”), imprescindibile per l’espressione del voto allorquando la proposta concordataria preveda la conversione di crediti in equity (capitale sociale o strumenti finanziari partecipativi) o in semi-equity (pagamenti subordinati) ovvero contempli clausole di earn-in o di earn-out
Il giudizio reso dall’attestatore in ordine alla viability of the business della direttiva Insolvency (nella traduzione italiana: sostenibilità economica dell’impresa) costituisce comunque un elemento fondamentale del compendio informativo per consentire ai creditori di esprimere il voto. Trattandosi però, nonostante la direttiva parli della finalità di assicurare[20] la sostenibilità economica, di un giudizio che è necessariamente pervaso dall’incertezza propria degli eventi futuri, esso ha un obiettivo preminentemente informativo per le parti interessate. Il livello della garanzia non pare infatti tale da pregiudicare l’omologabilità del concordato, salvo nei casi in cui i creditori abbiano ricevuto dall’attestatore informazioni distorte, tali da alterare la percezione del rischio inerente e il commissario nulla abbia detto al riguardo nella propria relazione redatta ai sensi dell’art. 105. 
Diverso invece è il caso in cui la soddisfazione del creditore dipende dalla sostenibilità economica dell’impresa. Quando ciò accada è fondamentale l’apprezzamento del rischio associato perché da esso dipende il valore di quanto assegnato al creditore. In questi casi non rileva infatti solamente il riequilibrio finanziario, che potrebbe comunque esservi in caso di conversioni massive di debito in equity a condizione di un seppur risicato equilibrio economico, ma la capacità di remunerare adeguatamente il rischio e conseguentemente quella di creare valore. 
In ogni caso, essendo la valutazione di fattibilità una derivata del rispetto di un processo ordinato di confezionamento del piano, l’attestatore nell’esprimere il proprio giudizio, non potrà non tenere conto del contenuto della lista di controllo. Per quanto essa sia ad uso dell’imprenditore, per la corretta “redazione del piano di risanamento”, e ad uso dell’esperto, “per l’analisi della sua coerenza”, l’attestatore ben può (o forse addirittura deve) tenerne conto per esprimere il proprio giudizio di fattibilità. È quanto si ricava quanto meno dal disposto del secondo comma dell’art. 5-bis che, come già detto, rende applicabile il contenuto della lista di controllo per la redazione di qualsiasi piano di risanamento, a prescindere dallo strumento di composizione impiegato. 
Pur se le domande in essa contenute costituiscono mere “indicazioni operative per la redazione del piano”, da esse l’attestatore ben può trarre spunto per esprimere un giudizio in termini di adeguatezza del processo di predisposizione del piano; è solo muovendo dall’analisi del processo seguito che egli può, infatti, evitare di esprimere giudizi astratti che potrebbero essere qualificati come meramente ipotetici. 
A tal fine, vi sono alcuni passaggi chiave nella lista di controllo sui quali l’attestatore pare chiamato a soffermarsi con particolare attenzione. Si tratta del punto 3.9 che richiede, all’esperto ma prima ancora all’imprenditore e comunque all’attestatore, nei termini già menzionati, un giudizio qualitativo di credibilità e di appropriatezza del piano. Si tratta anche del punto 4.8 che richiede una “verifica di ragionevolezza della redditività prospettica” sulla base della coerenza dei principali indicatori chiave gestionali (KPI) con il loro andamento storico, giustificando eventuali differenze tra l’incidenza del margine operativo lordo atteso sui ricavi e i benchmark di mercato disponibili. D’altronde, la manifesta inidoneità del piano “alla conservazione dei valori aziendali” (art. 47) presenta, come già detto, un’indubbia assonanza con la sostenibilità economica dell’impresa e con la razionalità delle intenzioni strategiche che rende il piano credibile di cui al cennato punto 3.9 della lista di controllo. La carenza di tale manifesta inidoneità costituirebbe dunque un ostacolo già in sede di ammissione del concordato. Da qui la centralità di quanto contenuto nella lista di controllo, rafforzato dal richiamo del comma 2 dell’art. 5 bis.
6 . Il valore della continuità aziendale: sua rilevanza ai fini del trattamento dei creditori
Nel concludere questa carrellata sul tema della sostenibilità economica dell’impresa occorre affrontarne l’effetto sulla distribuzione del suo valore. Si può pertanto dire che, per la proprietà transitiva, le cennate regole della distribuzione trovano nella continuità, che dalla sostenibilità economica dell’impresa dipende, il termine di confronto. Il che vale senza dubbio per la misurazione del valore riservato ai soci, come previsto dall’art. 120 quater, ma anche, come meglio si vedrà in seguito, per escludere un trattamento deteriore rispetto alla liquidazione del patrimonio nell’alternativa della liquidazione giudiziale e, di conseguenza, per l’applicazione dell’absolute priority rule
Con riferimento a quest’ultima, il quadro normativo di riferimento, costituito dall’art. 112, comma 3, prevede che, in caso di trattamento deteriore, i creditori possano opporsi all’omologazione eccependo il difetto di convenienza e il termine di raffronto sarà costituito dal trattamento nella liquidazione giudiziale. Precisa la norma che la valutazione del complesso aziendale è disposta dal Tribunale solo se sia proposta un’opposizione da parte di un creditore dissenziente che eccepisca la violazione di convenienza o il mancato rispetto delle condizioni di ristrutturazione trasversale (art. 112, comma 4). Con riferimento al trattamento dei soci, l’art. 120 quater prevede invece che in caso di dissenso di una o più classi di creditori, il concordato possa essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci, ovvero, quando non vi siano classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, se il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.
Con riferimento al valore della liquidazione giudiziale, ci si deve domandare se la continuità aziendale rilevi ed in quale misura. Sulla sua rilevanza è indicativa la lettera dell’art. 211 che, laddove prevede che “la liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa”, introduce una sorta di primato della continuità aziendale anche nel caso della liquidazione giudiziale. Occorre però dire che l’orizzonte temporale dell’eventuale esercizio provvisorio sarebbe comunque limitato e che il valore realizzato attraverso lo stesso anche per il tramite della cessione dell’azienda o di suoi rami risentirebbe necessariamente, oltre che della situazione distressed derivante dalla presenza di un disequilibrio economico-finanziario strutturale, anche dell’assenza delle normali clausole di tutela dell’acquirente. Pare dunque ragionevole ritenere che il valore differenziale realizzato attraverso la cessione dell’azienda rispetto alla liquidazione atomistica dei suoi beni risieda unicamente in quello dei beni immateriali non suscettibili di cessione autonoma. Tali sono principalmente il know how e il valore dell’organizzazione delle risorse esistenti. Da tale valore dovrebbe peraltro essere dedotto l’effetto dei disequilibri economici dei quali si farebbe carico l’acquirente, nonché quello del rischio del suo mancato superamento. Ne deriva che il valore del compendio aziendale si sostanzia di fatto solo in quello della possibilità, o meglio dell’opzione, dell’ottenimento dei beni immateriali in questione e come tale sarebbe tutt’al più pari al loro costo di ricostruzione.
Diverso, e ben più elevato, è invece il valore dell’azienda ai fini della determinazione della quota di esso riservata ai soci nel caso di continuità aziendale. Il valore corrisponde a quello attuale dei flussi economico-finanziari risultanti dal piano industriale. L’elemento maggiormente critico è costituito dal premio per il rischio inerente; sia i principi contabili (OIC 9 e IAS 36) che le tecniche di valutazione aziendale, quando assumono i flussi economico-finanziari derivanti da un piano prospettico, richiedono che si consideri il rischio del non conseguimento dei flussi attesi. I flussi finanziari debbono essere attualizzati sulla base di un tasso normale di remunerazione del capitale determinato dal risultato della somma del tasso di rendimento di investimenti privi di rischi e del premio per il rischio specifico dell’impresa. È di ausilio nella comprensione del tema l’impiego del già citato modello di Capital Asset Pricing Model. Impiegando questa metodologia, il premio per il rischio di settore viene aggravato in relazione allo stato distressed dell’impresa e comunque incrementato del premio per il rischio di esecuzione del piano (execution risk). Ne deriverebbe un tasso di attualizzazione assai più elevato di quello ordinario che riduce considerevolmente il valore, in misura tanto maggiore quanto più consistenti sono i rischi ai quali sono esposti l’impresa ed il piano. Una considerazione a questo punto è però doverosa: il valore dell’azienda a valle dell’omologazione è uguale per tutti gli stakeholder interessati. In conseguenza di ciò il processo di determinazione del valore riconosciuto ai soci non può differire rispetto a quello seguito per la determinazione del grado di soddisfazione dei creditori nel caso di assegnazione a loro favore di parte del capitale sociale o di strumenti finanziari partecipativi, né può differire da quello implicito al prezzo di sottoscrizione dell’eventuale aumento del capitale sociale sottoscritto da terze parti. Ciò che cambia è tutt’al più la conversione del valore dell’azienda nel valore del patrimonio e la ripartizione di quest’ultimo. La cennata conversione, in termini aziendalistici, è ottenuta deducendo dal valore dell’azienda il valore della posizione finanziaria netta che comprende i pagamenti ai creditori concorsuali dovuti in dipendenza della proposta concordataria. Da tale valore, per la sola determinazione di quello riservato ai soci ai fini dell’applicazione delle regole di distribuzione, vengono dedotti gli apporti effettuati in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto ai fini della ristrutturazione. Vengono altresì dedotti i flussi derivanti dalla continuità o dal valore di realizzo riconosciuti in via antergata ai creditori rispetto ai soci per effetto di clausole di earn-out o di privilegi nella ripartizione degli utili. 
Il riferimento della norma citata al “valore effettivo … delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquistarle” imporrebbe di considerare l’eventuale premio di maggioranza. Peraltro, al riguardo, pare doveroso osservare che rilevano prima ancora, ed ancor più, il premio di maggioranza connesso al valore riservato ai soci, lo sconto di minoranza e quello per lack of marketability che ridurrebbero il valore degli strumenti finanziari (azionari ed SFP) assegnati ai creditori. Gli strumenti tecnici per realizzare in concreto una corretta distribuzione del valore ci sono e sono molti (clausole di earn-out, riconoscimento di warrant, assegnazione di azioni privilegiate e strumenti finanziari partecipativi antergati, ecc.).
Vi è ancora da dire che il tasso di attualizzazione adottato per la determinazione del valore riservato ai soci non può essere difforme da quello impiegato per il ripristino del valore dei beni per i quali è ammesso, che ha subito riduzioni per effetto degli impairment test condotti ai sensi dei principi contabili (IAS 36 ed OIC 9). La coerenza impone l’adozione di valutazioni uniformi e ciò incide sul patrimonio netto contabile ad esito dell’omologa.
Da quanto sopra si possono trarre le seguenti conclusioni: a) il valore di liquidazione al quale è associata l’absolute priority rule non è necessariamente un valore di liquidazione atomistica ed anzi dovrebbe portare in conto quello dei beni immateriali non suscettibili di autonoma cessione, pur al netto dei costi per il raggiungimento del riequilibrio economico e comunque entro i limiti del loro valore di ricostruzione, salvo che l’alternativa dell’esercizio provvisorio risulti impraticabile; b) nella strutturazione delle proposte ai creditori sarà opportuno utilizzare, per quanto occorra, ogni opportuna clausola per rispettare le regole della distribuzione del valore ed evitare l’opposizione per difetto di convenienza della proposta o per violazione delle regole di distribuzione.

Note:

[1] 
V. Cass., 1° dicembre 2005, n. 26217 in mass. Giust. Civ., 2005, 12.
[2] 
Mentre le seconde sono, l’espressione di grandezze retrospettiche, le prime sono l’esito di una valutazione prognostica: la divaricazione tra le grandezze statiche e quelle dinamiche si è attenuata con l’introduzione di principi contabili che dettano regole puntuali per la determinazione del valore d’uso degli asset in misura corrispondente al valore attuale dei flussi di cassa che derivano dagli stessi (IAS 36 e OIC 9). Cfr. R. Ranalli, Adeguatezza degli assetti organizzativi. “Indicatori” e prevenzione della crisi tra tecnica e diritto in AA.VV Crisi d’impresa. Prevenzione e gestione dei rischi: nuovo codice e nuova cultura a cura di P. Montalenti e M. Notari, atti del Convegno Courmayeur 20-21 settembre 2019, Milano, 2021.
[3] 
D. Di Russo, La società a partecipazione pubblica e la crisi d’impresa, Torino 2022, p. 662.
[4] 
A parere di chi scrive, il risanamento presuppone la continuazione dell’attività mentre la ristrutturazione consente anche la liquidazione dell’impresa.
[5] 
ISA n. 570, par. 10 e par. A3-A6.
[6] 
Il modello del c.d. Capital Asset Pricing Model rende una evidenza diretta della struttura e della composizione del tasso norma di remunerazione.
[7] 
Ci si riferisce alla nuova direttiva 2022/2464 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 16 dicembre 2022 che prevede l’ampliamento dei perimetro delle imprese interessate con un’adozione scaglionata dal 2024 al 2028.
[8] 
In tal senso E. La Marca, Insolvenza, crisi e pre-crisi nel Codice della crisi, a valle della emanazione del Decreto Attuativo della Direttiva Insolvency, in Dirittodellacrisi.it, 22 agosto 2022. Egli muovendo dalla probabilità di secondo livello, invero non prevista dalla norma, ravvisa un “corto circuito logico”. 
[9] 
Trib. Milano, 3 ottobre 2019 in Ilcaso.it il quale sottolinea che “la irreversibilità della crisi si sostanzia in una previsione negativa sulla possibilità che i crediti dell’impresa possano trovare integrale soddisfazione. Sussiste, però una zona grigia, un momento in cui la crisi è solo intrinseca, e come fatto esterno non si manifesta ancora con inadempimenti o altri fatti esteriori. Allora diviene importante capire quando si è di fronte a c.d. insolvenza prospettica e, invece, quando si è di fronte a sola crisi di varia entità. L’insolvenza prospettica, creazione tutta dottrinale e giurisprudenziale, (…) è utilizzata come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali. Ciò avviene infatti nell’ambito delle misure di allerta, ovvero di misure di prevenzione della insolvenza e non per consentire una declaratoria di fallimento indiscriminata di tutti coloro che, in prospettiva anche abbastanza prossima (sei mesi appunto), potrebbero non essere in grado di far fronte alle scadenze dei propri debiti programmati.” 
[10] 
Ben potrebbe, infatti, l’imprenditore ricorrere alla composizione negoziata laddove ravvisi nei rischi esterni (ad esempio in quello della volatilità dell’andamento del costo dell’energia) un possibile fattore scatenante di una eventuale prossima crisi per scongiurare la quale potrebbe essere opportuno attivare un tavolo negoziale tra l’impresa ed i suoi stakeholder
[11] 
Per una contestualizzazione del margine di discrezionalità tecnica tra principi di correttezza e business judgement rule v. P. Montalenti, Il Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, atti XXXIII Convegno di studio Courmayeur, 20-21 settembre 2019, in Crisi d’impresa, prevenzione e gestione dei rischi; nuovo codice e nuova cultura. 
[12] 
Pare, infatti, che coloro che ravvisino un corto circuito logico nella norma muovano da un obbligo di intervento che la norma non prevede.
[13] 
Cfr. le considerazioni svolte in anticipo rispetto alla modifica dell’art. 3 da M. IRRERA, P. Riva, La convergenza tra le indicazioni del codice della crisi e D.L. 118/2021: is cash king? DSCR e TdR a confronto in Ristrutturazioni aziendali, 20 ottobre 2021 
[14] 
Chi scrive ne aveva proposti alcuni in relazione all’originario testo del Codice della Crisi. Cfr R. RANALLI, Il ruolo di amministratori, sindaci e revisori nell’istituzione e verifica degli adeguati assetti organizzativi alla luce del novellato art. 2086 c.c., in Società e Contratti, 03/2020.
[15] 
Il NOPAT (Net Operating Profit After Taxes) è costituito dal reddito operativo al netto delle imposte per tutti i finanziatori.
[16] 
A. Guiotto, La nuova “allerta” nella declinazione degli assetti organizzativi, in Il Fallimento, 2022, 1185.
[17] 
La differenza emerge con chiarezza da BORSA ITALIANA Guida al Piano Industriale, 2003 che distingue tra intenzioni strategiche e le azioni.
[18] 
L’espressione “risanamento dell’esposizione debitoria” è contenuta solo nell’art. 56 (e nell’art. 284 per i concordati e gli accordi di gruppo). Essa è però implicita anche al concordato in continuità ed è da riferirsi al debito concorsuale.
[19] 
M. Fabiani, Introduzione ai principi generali e alle definizioni del codice della crisi, in Il Fallimento, 2022, 1181.
[20] 
Ensuring” nella versione inglese.

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