Il titolo dà per scontato che esista un comparto autonomo del diritto che possiamo (provare a) definire diritto della crisi (dell’impresa e dell’insolvenza). In verità, dovremmo prima stabilire se davvero questa branca del diritto, sicuramente percepibile, sia tale da giustificare una sua collocazione autonoma rispetto ad altri settori consacrati come il diritto civile, come il diritto commerciale o il diritto processuale civile.
Il quesito va riproposto oggi, al lume del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ma non è affatto nuovo perché anche vigente la legge fallimentare ci si interrogava sulla autonomia del diritto fallimentare o sulla sua ancillarità rispetto, in particolare, al diritto commerciale e al diritto processuale civile. La tesi di gran lunga prevalente era quella della assenza di autonomia perché era un diritto privo di principi propri; una tesi che ho sempre ritenuto non condivisibile per due ordini di ragioni: (i) da un lato perché era mossa da pre-cognizioni ideologiche dei “puristi” delle altre materie; (ii) dall’altro lato perché era frutto di un approccio approssimativo. Non credo che il diritto fallimentare fosse privo di principi suoi propri e con un certo snobismo intellettuale era considerato un terreno dei pratici, spesso etichettati con malcelato stigma nei “fallimentaristi”. Un giurista specializzato nel diritto fallimentare, se non vogliamo essere ipocriti, era visto come un giurista minore rispetto al giuscommercialista che si occupava di impresa e di società o rispetto al processualcivilista che si occupava di tutela dei diritti e di giudicato.
Vedremo subito l’errore concettuale alla base di queste riflessioni ma per l’intanto dobbiamo subito precisare che l’autonomia del diritto della crisi non è figlia di un codice ma è una assunzione che gemma da più profondi e sostanziali convincimenti. Così, mettiamo in disparte il rilievo formale costituito dalla circostanza per cui la legge che governa il mondo delle crisi è (ma solo tendenzialmente, viste le innumerevoli legislazioni speciali che non si è voluto inglobare nel codice, dall’amministrazione straordinaria alla soluzione delle crisi degli enti bancari e assicurativi) disciplinata da un codice. Il codice ha l’ambizione di essere un prodotto normativo dotato, quanto meno, di completezza e sistematicità; destinato a durare nel tempo, quasi una sorta di testamento come è stato brillantemente ricordato.
Il solo fatto che il diritto della crisi sia, con i limiti sopra evidenziati, inserito in un codice non vale ad elevarne il valore di autonomia e questo, ancora una volta, per una pluralità di ragioni. Quando una materia viene disciplinata in un codice assurge il diritto che ne viene regolato ad un diritto autonomo? In astratto potremmo rispondere affermativamente ma l’esperienza suggerisce una risposta opposta: credo si possa agevolmente convenire sul fatto che il codice della nautica o quello degli appalti, pur assai importanti, non abbiano fatto germinare un autonomo diritto della nautica o degli appalti. Sono codificazioni certamente utili ma non troppo distanti dai meno attuali (e meno ambiziosi) testi unici. Non solo: il codice della crisi soffre, ormai lo si è capito bene, tanto un difetto di completezza quanto un difetto di sistematicità e per l’innata dinamicità dei rapporti che mira a regolare inseguirà, sempre, le innovazioni dell’uomo economico e l’interpretazione non sarà puntualmente in grado di assecondare le novità dell’economia; temo che l’obsolescenza del prodotto sia un rischio “dietro l’angolo” ma non emendabile, rischio acuito da un sorta di ansia prescrittiva tant’è che un codice dovrebbe assomigliare assai più ad un manuale di didattica avanzata più che a un genere letterario come il commentario.
Ed allora, se il codice della crisi non è l’abito che ci consente di ritenere il diritto della crisi un autonomo comparto del mondo del diritto, torniamo al punto di partenza perché dobbiamo verificare se i pilastri che contraddistinguono un diritto autonomo sono replicabili nel diritto della crisi. Come ho anticipato, a me pare che a questo interrogativo meriti di essere offerta una risposta affermativa.
Il diritto della crisi non è un diritto speciale del diritto commerciale o del diritto processuale civile come pure è autorevolmente predicato ed è qualificabile come diritto autonomo perché è contraddistinto dalla presenza di principi suoi propri non esportabili all’esterno e non importabili dai diritti che – si assume – possano essere definiti “matrice”. Questa conclusione va presa non già perché il Codice esponga al suo apice le definizioni generali, quanto invece per il fatto che la lettura di alcune norme di diritto positivo e la lettura coordinata di altre ci consentono di sostenere che esistono principi espressi e principi inespressi ma accomunati da un sentire condiviso e cioè quello della presenza di un ordine valoriale sebbene affidato, nella sua complessità, all’opera feconda dell’interprete.
Prima di analizzarli nel dettaglio, sebbene comunque succintamente, è utile verificarli proprio per dimostrare il loro rilievo autonomo senza, per il momento, essere più precisi e stabilire se si tratti di principi o di clausole generali.
Il principio di vertice che segna un profondo distacco dal diritto sostanziale dell’impresa e dal diritto processuale è rappresentato dalla “collettività” delle reazioni, dal transito tra un diritto binario – proprio degli altri comparti del diritto – a un diritto nel quale le regole e i comportamenti vanno considerati in una dimensione plurale (ancorché per avventura una liquidazione giudiziale veda la partecipazione di un solo creditore). La pluralità riguarda i soggetti, gli interessi, le categorie, le tutele: è la dimensione collettiva che assurge a valore primario: se si vuole, possiamo rimanere ancorati a termini più consueti come “concorsualità”, purché sia chiaro che la dimensione collettiva esula dalla concorsualità intesa in senso più o meno stretto, spesso associata a quella di procedura o di istituto. Tanto per essere netti, potremmo con una certa fatica discorrere di concorsualità nella composizione negoziata mentre riesce assai più facile dibattere di collettività anche nella composizione negoziata.
Altro principio proprio del diritto della crisi è quello della modificazione delle relazioni sia sul versante sostanziale che processuale. Le obbligazioni vedono mutato il loro assetto e la tutela giurisdizionale assume connotati di specialità.
Ed ancora, un principio esplicito è quello di gradualità perché le soluzioni della crisi hanno una loro scala di preferenza e non è applicabile l’ormai diffuso principio del processo civile della decisione secondo la “ragione più liquida”. Questa gradualità processuale fa da pendant alla gradualità degli interessi da tutelare tra interesse dei soci e interessi dei creditori (v., infra).
Esclusivo del diritto della crisi è il principio della liberazione dai debiti che contraddice plasticamente il principio della universalità, presente e futura, della responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.).
I principi, esclusivi o prevalenti che siano, esprimono sì un ordine di valori ma assumono anche una carica euristica perché aiutano l’interprete cogliere il significato delle norme e a riempire le lacune agevolando l’analogia iuris.
La presenza di principi, alcuni come rilevato esclusivi, ci consente di confermare che il diritto della crisi è un diritto autonomo talché le ricerche dei significati vanno colte facendo ricorso dapprima ai principi del diritto della crisi e in caso di insufficienza ai principi desumibili dagli altri diritti. In tale contesto si può apprezzare che questa discussione sulla autonomia del diritto della crisi è tutt’altro che accademica.