Con riferimento all’impugnazione del decreto che rigettava la domanda di fallimento, l’art. 22 L. fall. si limitava a prevedere che la corte d’appello, sentite le parti, provvedesse in camera di consiglio con decreto motivato. La norma non chiariva se dovesse essere adottato il medesimo procedimento dell’istruttoria prefallimentare regolato dall’art. 15 L. fall.[38], sul presupposto che il giudizio in questione avesse la medesima finalità di accertamento della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, e se perciò alla corte d’appello fossero da riconoscersi i medesimi poteri attribuiti al tribunale in primo grado[39]; oppure se dovesse adottarsi il procedimento camerale comune di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.[40].
L’art. 50 CCII ha sciolto il dilemma, stabilendo espressamente che al procedimento in questione si applicano gli artt. 737 e 738 c.p.c., ossia le scarne disposizioni codicistiche, che regolano il regime delle impugnazioni nei procedimenti in camera di consiglio.
Ma la scelta del legislatore delegato non è da condividersi, specie se – come a me pare – il richiamo alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio serva, nell’ottica del legislatore, a corroborare la natura non contenziosa, o comunque di giudizio camerale volontario del reclamo in questione.
D’altro canto, è noto che non è la qualificazione letterale dell’istituto processuale (ad esempio, come nel caso di specie, in termini di procedimento in camera di consiglio) a conformarne la natura giuridica, il carattere contenzioso, l’attitudine alla formazione della cosa giudicata sostanziale, il regime di stabilità e la ricorribilità in Cassazione del provvedimento finale: si deve, per contro, guardare alla capacità che siffatto provvedimento ha di incidere sui diritti soggettivi [41].
Le riforme della L. fall. del 2006-2007 avevano altresì inteso ribadire il regime c.d. «duale», già previsto dall’originaria formulazione dell’art. 22, affidando alla corte d’appello il judicium rescindens (cioè l’accertamento dei presupposti della dichiarazione di fallimento) ed al tribunale il judicium rescissorium (cioè la pronunzia costitutiva del fallimento)[42].
La ratio della previsione era palese. Infatti, se il legislatore avesse attribuito alla corte d’appello e non al tribunale il potere di dichiarare il fallimento, non sarebbe più stato possibile esperire il reclamo ex art. 18 l. fall., ma il solo ricorso in Cassazione per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., privando il fallito di una chance impugnatoria, non imposta dai principi costituzionali, ma opportuna in rapporto alle caratteristiche del sistema processuale che governava la dichiarazione di fallimento, ed alla gravità delle sue conseguenze. La scelta del legislatore trovava altresì ragione nel fatto che il tribunale che dichiarava il fallimento diventasse anche l’organo di controllo della successiva procedura concorsuale, ed uno dei suoi componenti assumesse le funzioni di giudice delegato: possibilità, queste, difficilmente attuabili dinanzi alla corte d’appello, che è un organo collegiale[43].
Tale regime è stato totalmente (ed, a mio avviso, non del tutto condivisibilmente) travolto dal CCII.
Nell’ansia di assecondare il principio di ragionevole durata del processo, salvaguardando la natura camerale, che si voleva imprimere al giudizio di reclamo avverso il decreto di rigetto della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, il CCII ha tentato, se così si può dire, di «salvare capra e cavoli», ed ha escogitato un sistema d’impugnazione a «doppia uscita» decisoria: con decreto, se il reclamo viene rigettato; con sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale, ricorribile in Cassazione, se il reclamo viene accolto.
In questa maniera, si viene a determinare la seguente situazione:
a) se la liquidazione giudiziale è dichiarata dal tribunale ai sensi dell’art. 49 CCII, la sentenza è reclamabile alla corte d’appello ai sensi dell’art. 51: entrambi i gradi di giudizio hanno le caratteristiche del processo a cognizione piena ed i relativi provvedimenti finali sono idonei al giudicato, tanto è vero che la sentenza emanata all’esito del giudizio di reclamo è ricorribile in Cassazione (cfr. art. 51, comma 13);
b) se il tribunale rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale, decide con decreto motivato reclamabile davanti alla corte d’appello ai sensi dell’art. 50 CCII. In questo caso, il primo grado di giudizio si svolge secondo le regole del processo a cognizione piena, ai sensi dell’art. 41; il secondo grado segue le regole dei procedimenti in camera di consiglio, ma, nell’ipotesi di accoglimento del reclamo, il provvedimento assume la forma della sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale, ai sensi dell’art. 49, idonea al giudicato, ma non reclamabile ai sensi dell’art. 51, bensì unicamente ricorribile in Cassazione.
Ora, fermo rimanendo che il doppio grado di giudizio di merito non gode di copertura costituzionale, a me sembra che non si possa – salvo a voler ingenerare un dubbio d’illegittimità per violazione dell’art. 3 Cost. – prevedere che la pronunzia sulla medesima domanda in un caso (l’accoglimento della domanda di apertura della liquidazione giudiziale) goda della garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito a cognizione piena, ma nell’altro caso (il rigetto della domanda) non goda di pari garanzia. Tutto ciò nell’assenza di specifiche differenze in ordine alla tutela somministrata nelle due ipotesi, ma soltanto a cagione della circostanza (del tutto «estrinseca» rispetto all’individuazione della tipologia di tutela) di come si è chiuso il giudizio di primo grado.
Sarebbe altresì contraddittorio che un procedimento (dichiaratamente costruito come di giurisdizione camerale volontaria) possa approdare all’emanazione di un provvedimento di cognizione ordinaria, che incide su diritti soggettivi e che è impugnabile in Cassazione[44].
Né si dica che, nella specie, ferme restanti le caratteristiche del procedimento, è il contenuto del provvedimento finale che ne qualifica la natura (camerale piuttosto che di cognizione piena), perché non si comprenderebbe, sul piano delle garanzie processuali, come possa accadere che il medesimo procedimento abbia natura ed effetti diversi secundum eventum litis. Se, dunque, il giudizio ha da intendersi come di cognizione piena ed è idoneo alla formazione della cosa giudicata sostanziale allorché il reclamo viene accolto, deve parimenti esserlo allorché il reclamo viene rigettato.
D’altro canto, il percorso cognitivo svolto dal giudice dell’impugnazione – quale che ne sia l’esito (rigetto con decreto o accoglimento con sentenza) – esige una revisio del provvedimento impugnato, la quale, a sua volta, è presa all’esito di un procedimento contenzioso a cognizione piena, ai sensi dell’art. 49. Per questo il reclamo ex art. 50 (al pari di quello ex art. 51) CCII non può che avere piena natura devolutiva, attribuendo alla corte d'appello il riesame completo della res iudicanda, senza che l'ambito della sua cognizione sia limitato alla valutazione della fondatezza delle ragioni fatte valere dalla parte reclamante[45].
Nella logica dell’art. 50 CCII, una volta soppresso in parte qua il doppio grado di giurisdizione di merito, la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale compete alla corte d’appello che accoglie il reclamo avverso il decreto di rigetto della domanda pronunziato dal giudice di primo grado, sicché appare conseguente che i fatti sopravvenuti al detto decreto di rigetto, che possano rilevare nel senso di impedire la dichiarazione di apertura della liquidazione, vanno giocoforza dedotti nel giudizio davanti alla corte d’appello. Ma ciò avviene nell’àmbito di una struttura processuale a modello camerale, che non permette le medesime garanzie difensive del giudizio di primo grado, pur potendo sfociare nell’emanazione di un provvedimento a cognizione piena, idoneo al passaggio in giudicato, impugnabile soltanto col ricorso in Cassazione, perciò immune dal sindacato giudiziario sul fatto, se non nei ristretti limiti oggi consentiti dal n. 5) dell’art. 360 c.p.c.
In conclusione, è opinione di chi scrive che meglio avrebbe fatto il legislatore delegato a prevedere che il provvedimento che rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale assuma la forma della sentenza (al pari di quanto accade per il rigetto della domanda di omologazione degli strumenti), nonché a predicare l’applicazione al procedimento di cui all’art. 50 delle medesime regole previste dall’art. 51 CCII per il reclamo avverso la sentenza di accoglimento della domanda di apertura della liquidazione giudiziale[46].
Potrebbe, quindi, valutarsi l’opportunità di considerare una riscrittura dell’art. 50 CCII, che (alla stregua, ben inteso, di una mera ipotesi di lavoro) potrebbe essere riformulato all’incirca nel modo che segue: «Art. 50 Reclamo contro il provvedimento che rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale. / 1. Il tribunale, se respinge la domanda di apertura della liquidazione giudiziale, provvede con sentenza, che, a cura del cancelliere, è comunicata alle parti e, quando è stata disposta la pubblicità della domanda, iscritta nel registro delle imprese. / 2. Entro trenta giorni dalla comunicazione, il ricorrente o il pubblico ministero possono proporre reclamo contro la sentenza alla corte di appello che, sentite le parti, provvede in camera di consiglio. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 51. / 3. Il debitore non può chiedere in separato giudizio la condanna del creditore istante alla rifusione delle spese ovvero al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell’articolo 96 del codice di procedura civile. / 4. La sentenza della corte di appello che rigetta il reclamo è comunicata dalla cancelleria alle parti del procedimento in via telematica, al debitore, se non costituito, ai sensi dell’articolo 40, commi 6, 7 e 8 ed è iscritta immediatamente nel registro delle imprese nel caso di pubblicità della domanda. / 5. In caso di accoglimento del reclamo, la corte di appello dichiara aperta la liquidazione giudiziale con sentenza e rimette gli atti al tribunale, che adotta, con decreto, i provvedimenti di cui all’articolo 49, comma 3. La sentenza della corte di appello e il decreto del tribunale sono iscritti nel registro delle imprese su richiesta del cancelliere del tribunale. / 6. I termini di cui agli articoli 33, 34 e 35 si computano con riferimento alla sentenza della corte di appello».