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Saggio

Procedimento unitario e decreto correttivo: proposte minime waiting for Godot*

Francesco De Santis, Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Salerno – Avvocato

3 Aprile 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’A. propone alcune modifiche delle norme sul procedimento unitario contenute nel CCII, in vista del preannunziato decreto correttivo.
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1 . “Che ci sia ciascuno dice, cosa sia nessuno sa”
L’ennesimo e da più parti preannunziato decreto legislativo “correttivo” del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) [1] – che, se non ho fatto male i conti, sarà, in ordine di successione temporale, il settimo intervento riguardante la nuova normativa concorsuale[2] – sollecita da più parti interrogativi, previsioni, congetture ed auspici. 
Stante il reiterato (e, per molti aspetti, comprensibile) riserbo che circonda l’officina legislativa, in tanti si chiedono quale sarà il perimetro dell’intervento, quali e quante norme del CCII saranno modificate o sostituite, quali istituti subiranno radicali trasformazioni, e quali invece avranno ritocchi più modesti o semplicemente “cosmetici”. 
Gli interrogativi ed i dubbi investono anche le parti del CCII d’intonazione più strettamente processuale, che, come è noto, non sono poche ed irrilevanti. 
Ed è proprio ad alcuni profili processuali della disciplina concorsuale – e, segnatamente, del c.d. procedimento unitario – che sono dedicate le sparse considerazioni che seguono, con la doverosa avvertenza che esse non hanno ambizioni di completezza, auspicandosi, semmai, l’apertura di un ampio dibattito sul tema, in vista del rilascio, da parte degli uffici governativi, dello Schema di D.Lgs., del successivo parere delle Commissioni parlamentari competenti e della definitiva adozione del testo normativo. 
Tengo altresì a precisare che in questa sede non discuterò delle caratteristiche, della complessità sistematica, delle asperità interpretative e delle prime difficoltà applicative del procedimento unitario[3]: che piaccia o no, si tratta di un modello processuale ormai in vigore, col quale studiosi ed operatori sono chiamati a misurarsi con un sano spirito critico, anche al fine di migliorarlo.
2 . Le regole processuali generali applicabili al procedimento unitario
 In relazione alla previsione dell'ormai abrogato art. 15, comma 1, L. fall. (secondo il quale «il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio»), secondo una diffusa tesi le lacune dell'istruttoria prefallimentare dovevano essere colmate, innanzi tutto, mediante il ricorso alle disposizioni comuni ai procedimenti camerali (artt. 737 ss. c.p.c.), e, in difetto, alle norme del rito ordinario[4]. 
È opinione di chi scrive che il rinvio alle modalità dei procedimenti in camera di consiglio poco avesse a che fare con la natura di giudizio a cognizione piena, che l’istruttoria prefallimentare ha assunto dopo le riforme del 2006-2007. Sicché l'interprete, in presenza di lacune normative del sistema prefallimentare, non poteva non rivolgere l'attenzione alla disciplina del giudizio di cognizione ordinaria, in quanto istituzionalmente finalizzato alla pronunzia di provvedimenti idonei alla formazione del giudicato. 
A maggior ragione tali considerazioni valgono per il procedimento unitario regolato dal CCII, dalla cui disciplina è stato espunto anche il riferimento testuale alle modalità dei procedimenti in camera di consiglio. 
Il problema è, semmai, di stabilire se le eventuali lacune del processo in questione debbano essere colmate col ricorso alle disposizioni che governano il rito normale di ordinaria cognizione, di cui al secondo libro del codice di procedura civile, ovvero il rito, alternativo rispetto a quest'ultimo, del processo semplificato di cognizione, regolato dagli artt. 281-decies ss. c.p.c. 
Come è noto, la legge n. 69 del 2009, con la finalità di porre un argine al proliferare dei riti di speciali di cognizione, aveva implementato (all’art. 54) una norma di delega al governo ad emanare uno o più decreti legislativi che, realizzando il coordinamento con le disposizioni vigenti, riconducessero i procedimenti civili di natura contenziosa, «autonomamente regolati dalla legislazione speciale», ad uno dei tre modelli processuali previsti dal codice di procedura civile, e precisamente: a) i procedimenti in cui sono prevalenti i caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell'istruzione, venivano ricondotti al rito del lavoro regolato dagli artt. 409 ss. c.p.c.; b) i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti i caratteri di semplificazione della trattazione o dell'istruzione della causa, venivano ricondotti al procedimento cd. «sommario» di cognizione, all’epoca regolato dagli artt. 702-bis ss. c.p.c., restando esclusa la possibilità della loro conversione nel rito ordinario; c) tutti gli altri procedimenti erano riferibili al modello generale del processo di cognizione ordinaria, regolato dal libro secondo del codice di procedura civile. 
La stessa legge n. 69 del 2009 aveva collocato la disciplina del rito c.d. «sommario» di cognizione nel quarto libro del c.p.c. (artt. 702 bis ss.), come se si trattasse di un processo avente natura sommaria, e non, come in effetti era, alla stregua di un vero e proprio giudizio di cognizione ordinaria, rappresentante l’alternativa al rito normale, allorché i fatti di causa non siano controversi, oppure la domanda sia fondata su prova documentale, o di pronta soluzione, ovvero richieda un’istruzione non complessa ed, in ogni caso, nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica. 
Tale è la ragione che ha indotto il D.Lgs. n. 149 del 2022 (la «riforma Cartabia») a mutare nome e collocazione del procedimento «sommario» in rito “semplificato”, oggi collocato, come si è detto, sub artt. 281 decies ss. c.p.c., ossia nel secondo libro del codice, in funzione alternativa al rito di cognizione normale[5]. 
Avendo a riferimento i principi ispiratori di ciascuno dei tre modelli della cognizione piena (rito normale, rito del lavoro e rito sommario/semplificato), per come esplicitati dalla L. n. 69/2009, si sarebbe indotti a concludere che il modello più vicino a quello del processo concorsuale sia proprio il rito semplificato di cognizione, in quanto ispirato alla semplificazione della trattazione e dell'istruzione della causa, e, per giunta, destinato a regolare procedimenti soltanto nominalmente camerali, ma in realtà incidenti su diritti soggettivi e destinati a concludersi con provvedimenti idonei alla formazione del giudicato. 
Sennonché, l'art. 54 della L. n. 69 del 2009 ha testualmente escluso la possibilità di intervenire sulle disposizioni processuali in materia di procedure concorsuali, al fine di ricondurle ad uno dei tre suddetti modelli di riferimento, con la conseguenza che il processo (pre)concorsuale è rimasto, in parte qua, sganciato dalla necessità di sottoporsi ad un rito di riferimento. 
Se, dunque, l'interprete non è obbligato, al fine di colmare le lacune del procedimento unitario, a far ricorso alla disciplina degli artt. 281 decies ss. c.p.c., è mia opinione che l’univoco richiamo a tale disciplina possa essere addirittura escluso in virtù di due considerazioni: a) che nessuna norma prevede che il procedimento unitario regolato dal CCII, pur in ossequio ai principi della ragionevole durata e della speditezza del giudizio, debba per questo essere caratterizzato dalla semplificazione della trattazione e dell'istruzione della controversia (ben potendo verificarsi ipotesi in cui la domanda non sia fondata soltanto su documenti e le questioni in esso sollevate siano tutt'altro che semplici o di immediata istruibilità); e b) che, ai sensi dell'art. 40, comma 1, CCII la causa si svolge davanti al tribunale in composizione collegiale (ed è da quest'ultimo sempre decisa, anche nell'ipotesi di delega della trattazione ad un componente del collegio medesimo), nel mentre, ai sensi dell'art. 281 decies c.p.c., il rito semplificato di cognizione è sempre utilizzabile – a prescindere da ogni altra considerazione – nelle sole controversie in cui il tribunale giudica in composizione monocratica. 
Poiché, però, a seguito della riforma Cartabia (e differentemente da quanto in precedenza previsto dall’artt. 702 bis, comma, c.p.c.), il rito semplificato è utilizzabile anche nelle controversie soggette a riserva di collegialità (come si desume chiaramente dall’art. 281 terdecies c.p.c.), pare a chi scrive che, nell’assenza di indicazioni normative, entrambe le discipline – quella del rito ordinario e quella del rito semplificato – possano rappresentare modelli di eterointegrazione della disciplina del procedimento unitario: modelli da correlarsi alle caratteristiche assunte in concreto dal giudizio preconcorsuale che volta per volta viene in rilievo, nelle distinte declinazioni del procedimento unitario (a seconda, cioè, che i fatti di causa siano o non siano controversi, oppure la domanda sia fondata su prova documentale, o sia di pronta soluzione o richieda un’istruzione non complessa)[6]. 
Ciò potrebbe aprire la strada a qualche inconveniente in sede interpretativa, sicché – in relazione a quanto sopra esposto – potrebbe, ad avviso di chi scrive, valutarsi l’opportunità di introdurre, a seguire del comma 1 dell’art. 40 CCII, le seguenti parole: «o, in mancanza, dal secondo libro del codice di procedura civile, in quanto applicabili».
3 . Abuso del processo e preclusioni alla domanda di accesso allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza
La disciplina del procedimento unitario persegue, tra i suoi vari obiettivi, l’esigenza di mitigare il rischio dell’abuso degli strumenti di regolazione pattizia della crisi d’impresa, nei casi in cui essi vengano utilizzati dal debitore al fine di ritardare l’apertura della liquidazione giudiziale. 
Con due noti arresti del 2015, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito – dettando un principio di persistente validità – che la domanda di concordato preventivo (ordinario o con riserva), presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo coi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile, in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, «che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti»[7]
In pratica, se il tribunale ritiene il debitore stia tentando di perseguire un abuso della domanda (o del processo), deve dichiarare l’inammissibilità dello strumento pattizio prima di aprire (sempre che penda una domanda in tal senso) la procedura maggiore, e lo stabilire se vi sia stato un abuso rientra nel perimetro della valutazione discrezionale del giudice di merito. 
Avuto riguardo a questi principi, l’art. 7, comma 2, CCII (come modificato dal D.Lgs. n. 83 del 2022), stabilisce che, nel caso di concorso di più domande avente contenuto diverso, il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, a condizione che la domanda medesima non sia manifestamente inammissibile, che il piano non sia manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati, e che nella proposta siano espressamente indicate la convenienza per i creditori o, in caso di concordato in continuità aziendale, le ragioni dell’assenza di pregiudizio per i creditori. 
Il tribunale è, dunque, investito – fin dall’introduzione del procedimento unitario[8] – del potere-dovere di «sanzionare» l’abuso dello strumento di regolazione pattizia con la dichiarazione d’inammissibilità delle domande aventi finalità diverse da quelle liquidatorie, ma che siano state pretestuosamente introdotte allo scopo di eludere l’apertura della liquidazione giudiziale. 
Il legislatore, però, non ha inteso affidare al giudice di merito ogni valutazione in ordine all’abuso dello strumento pattizio, e si è spinto a prevedere la più grave delle sanzioni processuali (ossia la decadenza), qualora la domanda pattizia della crisi sia introdotta oltre lo spirare di un termine perentorio. 
Il D.Lgs. n. 83 del 2022, aggiungendo i commi 9 e 10 nell’art. 40 CCII, ha infatti scandito una serie di decadenze processuali, che colpiscono la domanda di regolazione pattizia della crisi o dell’insolvenza introdotta successivamente all’avvio del procedimento unitario. 
In particolare, è stato previsto: 
a) con una evidente deroga alle normali preclusioni circa la proposizione di domande nuove nel corso del processo, che, quando il procedimento unitario è già pendente, la domanda di apertura della liquidazione giudiziale può essere proposta nel corso di esso e fino alla rimessione della causa al collegio per la decisione; se, poi, tale domanda è proposta con separato giudizio, il tribunale la riunisce, anche d’ufficio, al procedimento pendente (comma 9 dell’art. 40) 
b) con un altrettanto evidente, ma opposto restringimento della regola testé riferita, che, quando è già pendente il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale introdotto da un soggetto diverso dal debitore, la domanda di accesso ad uno strumento di regolazione pattizia può essere proposta, nel medesimo procedimento, ma ciò deve avvenire, «a pena di decadenza», entro la prima udienza. La domanda proposta separatamente entro il medesimo termine è riunita, anche d’ufficio, al procedimento pendente, ma, successivamente alla prima udienza, la domanda non può essere proposta autonomamente sino alla conclusione del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale (comma 10 dell’art. 40)[9]: il tutto sempre che, ovviamente, quest’ultima non sia stata già dichiarata. 
E’ noto che, secondo il dettato della Consulta, al legislatore ordinario spetta un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute[10]
Se ne potrebbe argomentare che le preclusioni previste dai commi 9 e 10 dell’art. 40 rispondano all’esigenza di razionalizzazione del procedimento, che resterebbe altrimenti esposto, come nel gioco dell’oca, al rischio di un continuo ritorno all’indietro, specie nelle ipotesi di strumentale proposizione della domanda di accesso allo strumento pattizio successivamente alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale. 
Sembra, però, a chi scrive che se la ratio delle riferite previsioni normative – pur nella salvaguardia della preferenza del legislatore per le soluzioni pattizie della crisi d’impresa e della priorità logico-temporale di queste ultime rispetto all’apertura della liquidazione giudiziale – sia da rinvenire non solo nelle esigenze di razionalizzazione, ma (soprattutto) nella finalità di contenere i possibili abusi del processo attraverso l’introduzione generalizzata di preclusioni (ovvero di decadenze) processuali[11], di sicuro non è possibile affermare a priori che ogni domanda di regolazione pattizia della crisi o dell’insolvenza presentata dopo la prima udienza del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale sia, per ciò stesso, da ritenersi mossa da finalità dilatoria, e come tale viziata da un abuso. 
D’altro canto, a supporto di una diversa possibile scelta del legislatore, va detto che nulla vieterebbe al tribunale – il quale abbia rinvenuto nella presentazione della domanda di soluzione pattizia gli estremi della strumentalità e, dunque, dell’abuso – di dichiararla, per questa ragione, inammissibile, pur se introdotta dentro i limiti preclusivi previsti dal comma10 dell’art. 40; e che, pertanto, la valutazione dell’abuso (con ogni conseguenza in termini d’inammissibilità della domanda) ben può essere affidata al giudice di merito in ogni fase del processo preconcorsuale[12]
Pertanto, a fugare i possibili dubbi di incostituzionalità, potrebbe essere utile, ad avviso di chi scrive, valutare l’opportunità di sopprimere i commi 9 e 10 dell’art. 40 CCII, e di sostituirli col seguente comma: «9. Nel caso di pendenza di un procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale introdotto da un soggetto diverso dal debitore, il tribunale, sentito il debitore ed il commissario giudiziale, se nominato, dichiara, anche d’ufficio, l’inammissibilità della domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza manifestamente proposta allo scopo di ritardare l’apertura della liquidazione giudiziale».
4 . La difesa tecnica
Ai sensi del comma 2, ult. parte, dell’art. 40 CCII, il ricorso recante la domanda di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza – che, per le società, è decisa ed approvata in via esclusiva dagli amministratori e sottoscritta da chi ne ha la rappresentanza, a norma dell’art. 120 bis – deve essere sottoscritto da un difensore munito di procura; a parziale limitazione di tale previsione, nel successivo comma 5, la legge stabilisce che nel procedimento di liquidazione giudiziale il debitore può stare in giudizio personalmente. 
La norma generale che impone l’assistenza del difensore ai fini dell’introduzione della domanda di accesso al procedimento unitario deve essere salutata, a mio avviso, con favore, in considerazione delle technicalities processuali che caratterizzano il giudizio preconcorsuale. Essa si correla direttamente alla previsione dell’art. 9, comma 2, CCII, ove si stabilisce che «salvi i casi in cui non sia previsto altrimenti, nelle procedure disciplinate dal presente codice, il patrocinio del difensore è obbligatorio».
Desta, invece, perplessità la facoltà riconosciuta dall’art. 40, comma 5, al debitore di stare in giudizio personalmente, se convenuto nel procedimento di liquidazione giudiziale.
Si apprende dai lavori preparatori che la ratio della deroga al principio generale dettato dall’art. 9 CCII deve essere individuata nell’esigenza di «non imporre, da un lato, ad un imprenditore già impossibilitato ad adempiere alle proprie obbligazioni, di doversi necessariamente munire di un difensore per adempiere ad un vero e proprio obbligo giuridico, qual è quello di non aggravare la situazione di insolvenza e, dall’altro, in considerazione della necessaria speditezza del procedimento che ha ad oggetto l’accertamento dello stato di insolvenza. Anche la giurisprudenza ha sempre affermato che il diritto di difesa del debitore va esercitato nei limiti compatibili con le regole del procedimento, che ha carattere sommario e camerale e che a tal fine è sufficiente che egli, informato dell'iniziativa assunta nei suoi confronti e degli elementi su cui questa è fondata, compaia davanti al giudice relatore all'uopo nominato, per contestare la sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi per l’apertura della procedura concorsuale»[13].
E’ mia opinione che occorra dissentire da tali affermazioni, anzitutto per il fatto che la natura del procedimento per la liquidazione giudiziale non è quella sommaria e camerale, di cui si legge nella Relazione governativa, bensì di cognizione piena, con idoneità al giudicato, di cui prima si è detto. Se si dovesse dare seguito a simili affermazioni, prenderebbe corpo un’anomala discrasia tra il testo normativo (che ripudia il riferimento alla natura camerale e sommaria del procedimento) e la Relazione di accompagnamento (che a siffatta natura continua, anacronisticamente, a fare riferimento).
Invero, già a seguito delle riforme del 2006-2007, si riteneva che il ricorso di fallimento dovesse essere sottoscritto – sotto pena d’inammissibilità – da un difensore munito di apposita procura alle liti[14]. 
Tale orientamento è in linea con la sintassi di un procedimento ordinario a cognizione piena, nonché con l’indefettibilità del diritto alla difesa previsto dall’art. 24 Cost., di cui il patrocinio legale è lo strumento principale di attuazione[15].
Anche la giurisprudenza fallimentare, nei suoi più recenti arresti, è pervenuta alla conclusione che «nel processo per la dichiarazione di fallimento – che, pur non potendo essere assimilato in toto al rito ordinario di cognizione, è un giudizio camerale a carattere contenzioso ed a cognizione piena, in cui vengono assicurati il contraddittorio tra le parti, il diritto di difesa e l’espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio – deve ritenersi applicabile la regola generale dettata dall’art. 82, comma 3, c.p.c., per cui, salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte di appello, le parti devono stare in giudizio con il patrocino del procuratore»[16].
Ciò detto, a me pare che l’art. 40, comma 5, CCII introduca un’ingiustificata disparità di trattamento tra le differenti parti del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale: non si comprende, infatti, la ragione per la quale il patrocinio legale è obbligatorio per il ricorrente attore, e non lo è per il resistente debitore (il quale, assai probabilmente, è la parte che in quella sede ne ha maggiore necessità), laddove identiche considerazioni sono a farsi con riguardo alla necessità della difesa tecnica del debitore che agisce in «autoliquidazione giudiziale». 
Specularmente, è da ritenersi che se il debitore – il quale ha il diritto di essere convocato e sentito dal tribunale, ovvero dal giudice delegato, anche al fine di poter replicare alla domanda avversaria, articolando ogni opportuna difesa – per sua scelta discrezionale ritiene opportuna ed esaustiva l'assistenza tecnica dei difensori, al cui patrocinio abbia ritenuto di affidarsi in via esclusiva, non ha diritto ad una nuova convocazione per essere sentito personalmente, a meno che non alleghi fatti sopravvenuti, che rivestano carattere di decisività. In questo caso è nel potere del tribunale provvedere, se ne ravvisa l'opportunità, all'audizione personale dell'imprenditore, ed il mancato esercizio di tale potere, attesa la discrezionalità che lo caratterizza, non è sindacabile in sede d'impugnazione, ancorché il motivo di gravame rappresenti le ragioni di fatto che, in caso di audizione personale del debitore, avrebbero potuto incidere sul convincimento del tribunale, facendolo pervenire ad un esito decisorio differente[17].
Alla luce di quanto sopra, sarebbe, a mio avviso, da valutarsi l’opportunità (se non la necessità) di prevedere quanto segue: «Il comma 5 dell’art. 40 è soppresso».
5 . La rinuncia «postuma» alla domanda
L’art. 43 CCII regola l’ipotesi della rinuncia alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale, estendendone gli effetti ad ogni ipotesi di domanda di accesso ad uno degli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza finalizzata ad ottenerne l’omologazione. Da tanto deriva, a mio avviso, la scelta del legislatore di adoperare il termine «rinuncia», anziché il termine «desistenza», essendo quest’ultimo tradizionalmente riferito (sotto il vigore della L. fall.) alla rinuncia del creditore istante per il fallimento. 
La norma prevede che, in caso di rinuncia (che può provenire anche dal debitore il quale abbia chiesto l’auto-liquidazione giudiziale), il processo si estingue, fatta salva la volontà di proseguirlo manifestata dagli intervenuti o dal pubblico ministero ai fini dell'apertura della liquidazione giudiziale; e che l’estinzione è pronunziata dal tribunale (in composizione collegiale) con decreto, il quale può condannare la parte che vi ha dato causa alle spese. Al di fuori di tali previsioni espresse, deve, a mio avviso, ritenersi applicabile, mutatis mutandis, la disciplina dettata dall’art. 306 c.p.c. per la rinunzia agli atti del giudizio[18]. Essa deve perciò avvenire entro la chiusura della discussione, in ogni caso prima del passaggio in decisione[19]. 
Sotto il vigore della L. fall., si era consolidato nel diritto vivente un orientamento secondo il quale la rinuncia successiva alla dichiarazione di fallimento, anche se proveniente dall'unico creditore istante, non fosse idonea a determinare l'accoglimento del reclamo proposto dal debitore e, conseguentemente, non consentisse la revoca della sentenza di fallimento[20], sussistendo, al momento della decisione del tribunale, ancora la legittimazione all'azione[21]. 
In quest’ottica, la domanda resta, pertanto, condizione dell’azione concorsuale: lo era nel vigore della legge fallimentare; e, a maggior forza, lo è nel contesto sistematico del CCII. 
Il provvedimento che apre la procedura concorsuale maggiore è lo spartiacque della vicenda processuale: prima che esso intervenga, vige il principio di disponibilità della domanda; successivamente, si entra in una fase nuova, nella quale il contenuto di quel provvedimento è destinato a valere erga omnes, con produzione di effetti nei riguardi di tutti i creditori, in ragione dei principi della cristallizzazione del credito e dell’obbligatorietà del concorso nelle forme peculiari previste dalla normativa concorsuale, caratterizzata dall’universalità, dall’espropriazione dei poteri dei creditori individuali e dall’accentramento delle attività di accertamento dei crediti e liquidazione dell’attivo in capo ad un organo terzo[22]. 
Tale considerazione rifluisce inevitabilmente sull’individuazione del momento ultimo in cui la rinuncia può essere validamente manifestata, non necessariamente coincidente col momento processuale in cui essa viene documentata. Da un lato, infatti, è necessario che la rinunzia, per produrre i suoi effetti, intervenga anteriormente alla pubblicazione della sentenza che apre il concorso dei creditori, determinando la carenza di legittimazione dell’attore; ma, dall’altro lato, è ben possibile – attesa la possibilità che nel giudizio di reclamo ex art. 51 CCII si depositino documenti nuovi – che il documento (avente data certa) contenente la rinuncia, sia prodotto per la prima volta nel giudizio di reclamo, provocando in tale guisa la revoca della detta sentenza[23]. 
Negli anni più recenti, la giurisprudenza fallimentare tende a distinguere tra la rinuncia alla domanda di apertura del fallimento dovuta al pagamento del creditore istante (idonea a comportare, sempre che sia avvenuta prima della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, la revoca della stessa) e la rinuncia non accompagnata dall’estinzione del debito (ovvero dalla relativa prova). 
In questo secondo caso, dice la Suprema Corte, la rinuncia alla domanda è un atto che ha natura meramente processuale, da intendersi come rivolto al giudice, sicché «non può produrre effetto ove non sia presentata al giudice che ne deve tenere conto ai fini della decisione e, per tale motivo, è inidonea a determinare la revoca della sentenza di fallimento se prodotta soltanto in sede di reclamo»; per contro, la rinuncia conseguente all'estinzione dell'obbligazione influisce sulla legittimazione del creditore istante e, ove il pagamento risulti avvenuto – con i crismi della data certa, ai sensi dell’art. 2704 c.c. – in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento, «ben può essere rappresentata anche al collegio del reclamo al fine di dimostrare il venir meno della legittimazione del creditore istante al momento della dichiarazione di fallimento»[24]. 
A me pare che la distinzione assuma un’intonazione di tenore più che altro «formalistico», senza che si colgano appieno le ragioni del differente trattamento delle due ipotesi, specie se calato nel rinnovato contesto sistematico del CCII, il quale, come si è detto, da un lato, fa salva la volontà di proseguire il processo per l'apertura della liquidazione giudiziale, se manifestata dagli intervenuti o dal pubblico ministero; e, dall’altro lato, estende gli effetti della rinuncia alla domanda di accesso agli strumenti pattizi di regolazione della crisi o dell’insolvenza. 
Pertanto, anche al fine di allineare la normativa processuale speciale a quella comune, di cui all’art. 306 c.p.c., potrebbe, a mio avviso, essere considerata l’opportunità di valutare l’inserimento, nel comma 1 dell’art. 43 CCII, dopo le parole “di cui all’articolo 40”, le seguenti: “, con dichiarazione delle parti o dei loro procuratori speciali fatte verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti prima della sentenza di cui all’articolo 48, comma 5, o 49, comma 1,”.
6 . Decorrenza del termine in caso di domanda di concordato con riserva
Il termine che il tribunale concede al debitore per sciogliere la riserva ai fini della presentazione della proposta e del piano, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. a), CCII, ha da intendersi come perentorio, sicché la domanda tardivamente integrata dal debitore deve ritenersi decaduta (ovvero dichiarata, per tale ragione, inammissibile), nel mentre la proroga del termine esige giustificati motivi, da apprezzarsi dal giudice di merito, la cui decisione è insindacabile in sede di legittimità[25]. 
Lascia, invero, perplessi un certo orientamento della giurisprudenza fallimentare secondo il quale il termine in questione decorre dalla data di presentazione della domanda, non da quella dell'emissione del provvedimento con cui il tribunale concede il termine, né dalla comunicazione di tale provvedimento da parte della cancelleria[26]. 
Se è, infatti, vero che «la fissazione del termine da parte del giudice va ad inserirsi in una fattispecie procedimentale che vede coinvolti anche soggetti, i creditori, che in questa prima fase, e sino all'udienza per la dichiarazione di voto, non possono interloquire, pur subendo gli effetti protettivi della presentazione della domanda dalla pubblicazione della stessa nel registro delle imprese»[27], è altrettanto vero che – pur nel bilanciamento degli interessi in gioco – gli eventuali ritardi del tribunale nell’emissione del provvedimento e della cancelleria nella comunicazione del medesimo al debitore non possono riverberarsi negativamente su quest’ultimo, sottraendogli del tempo (che, come è noto, può essere assai prezioso) per la predisposizione della proposta e del piano[28]. 
A me pare che tale orientamento sia, nella sostanza, superato dalla previsione portata dall’art. 45, comma 2, CCII, a tenore del quale il decreto di fissazione del termine deve essere, entro il giorno successivo alla sua emanazione, trasmesso per estratto dal cancelliere al registro delle imprese, affinché sia ivi iscritto entro il giorno ancora successivo (dunque al massimo entro due giorni dal deposito). Con la conseguenza che il termine decorrerà verosimilmente dalla detta iscrizione, siccome forma idonea di pubblicità del provvedimento sia a vantaggio dei creditori e dei terzi, sia a vantaggio dello stesso debitore, che ha pari possibilità di accesso a tale pubblicità degli altri citati soggetti. 
Tuttavia, a scanso di equivoci interpretativi, potrebbe, a mio avviso, essere considerata l’utilità di inserire nell’art. 44, comma 1, lett. a), dopo le parole “un termine”, le seguenti “, decorrente dall’iscrizione di cui all’articolo 45, comma 2,”. 
7 . Ammissibilità e ritualità della proposta concordataria
L’art. 6, lett. e), della L. delega 19 ottobre 2017, n. 55, ha dato mandato all’esecutivo, in sede di riforma della disciplina del concordato preventivo, di «determinare i poteri del tribunale, con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla fattibilità anche economica dello stesso, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale». 
Il riferimento della norma di delega alla «fattibilità» tout court ha, di fatto, aperto la strada alla piena legittimità del sindacato di fattibilità attorno ai profili economici del piano concordatario. 
Tanto è vero che la prima versione dell’art. 47 CCII, dettata dal D.Lgs. n. 14/2019, prevedeva, al comma 1, che, a seguito del deposito del piano e della proposta di concordato, il tribunale potesse dare ingresso alla procedura di concordato preventivo, una volta verificate «l'ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano». 
Il D.Lgs. n. 82/2022 ha implementato tale previsione, distinguendo tra concordato liquidatorio e concordato in continuità, ed affidando al tribunale distinte valutazioni in relazione a ciascuna delle due tipologie di concordato. 
Con riferimento alle valutazioni che il tribunale è chiamato ad assumere in relazione all’apertura del concordato liquidatorio, la norma (comma 1, lett. a) dell’art. 47) prevede che occorra scrutinare l’ammissibilità della proposta e la fattibilità del piano, intesa, quest’ultima, «come non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati». 
La norma fa assurgere la (ormai superata) valutazione di «fattibilità giuridica» ad una preliminare valutazione di «ammissibilità» della proposta concordataria, riservando il perimetro del giudizio di fattibilità al solo piano di concordato. Ciò è in linea col significato proprio delle parole, nel senso che il sindacato sulla legittimità della proposta (ovvero la coerenza di quest’ultima con le norme di legge e coi principi del diritto vivente) è attività preliminare ad ogni altra (che, dunque, ne condiziona l’ammissibilità). 
Sennonché, la nozione di ammissibilità lambisce quella di «ritualità» della proposta (nella quale è in buona parte è inglobata), la quale a sua volta appartiene, come subito si dirà, al novero delle valutazioni da compiersi a proposito del concordato in continuità, nell’àmbito del quale il profilo dell’ammissibilità investe valutazioni maggiormente legate al merito, ossia all’idoneità del piano al raggiungimento dei suoi obiettivi. 
La distinzione tra i due lemmi (ammissibilità e ritualità) finisce col non essere del tutto chiara, e bene avrebbe fatto (e farebbe) il legislatore delegato ad adoperarne uno soltanto, essendo da ritenersi che, anche in caso di concordato liquidatorio, il tribunale debba effettuare, quoad rationem, le medesime valutazioni preliminari di ritualità della proposta, che è chiamato ad effettuare in caso di domanda di concordato in continuità. 
Passando, infatti, alle valutazioni che il tribunale concorsuale è chiamato ad effettuare in relazione all’apertura del concordato in continuità (comma 1, lett. b dell’art. 47), la norma esige, come si è detto, una prima valutazione di ritualità, riferita alla proposta, ed, in ogni caso, una valutazione di «ammissibilità», qui però intesa come non manifesta inidoneità del piano «alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali». 
Il concetto di ritualità della proposta «richiama indubbiamente la verifica della completezza della documentazione depositata e della regolarità della procedura svolta»[29], ancorché la norma non precisi in relazione a quali ulteriori disposizioni il giudice debba concretamente attuare tale verifica[30]. 
Si tratterà, assai probabilmente, di una verifica che coinvolge il rispetto dei presupposti che attengono al rito[31]: competenza territoriale del tribunale concorsuale; legittimazione ad agire; tempestività della domanda alla stregua del limite temporale di cui al comma 10 dell’art. 40; completezza documentale della domanda, alla stregua dell’art. 39; deposito della relazione di attestazione, ai sensi dell’art. 87, comma 3, CCII. 
È poi necessario che la proposta ed il piano risultino percorribili e coerenti con il fine del risanamento dell'impresa, ed in quest’àmbito si inseriscono le ulteriori valutazioni di merito, previste dalla norma, relative alla non manifesta inidoneità del piano alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, ed alla conservazione dei valori aziendali[32]. 
Stante il carattere permanente (ovvero immanente) del controllo di ammissibilità svolto dal tribunale nel corso del procedimento concordatario, le suddette verifiche devono, poi, considerarsi, in questa fase, come provvisorie, poiché esse vengono «riconsiderate in sede di omologazione, senza che la precedente ammissione alla procedura determini alcun vincolo per il tribunale»[33]. 
In conclusione, potrebbe essere, a mio avviso, opportuno considerare l’opportunità che, nell’art. 47, comma 1, lett. a), CCII, la parola «ammissibilità» sia sostituita dalla seguente: «ritualità». 
8 . Il decreto di inammissibilità della proposta di concordato ed il suo regime di stabilità
Ai sensi del comma 5 dell’art. 47 CCII, il decreto col quale il tribunale dichiara l’inammissibilità del concordato è reclamabile dinanzi alla corte d’appello del distretto nel termine di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento, che avviene a cura dell’ufficio. La corte d’appello, sentite le parti, provvede in camera di consiglio con decreto motivato, applicandosi le norme per i procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e 738 c.p.c. 
Il successivo comma 6 si affretta a precisare che, decorso il termine per proporre reclamo, la domanda può essere riproposta, quando «si verifichino mutamenti delle circostanze». 
Il riferimento alle norme sui procedimenti camerali farebbe, di primo acchito, propendere per la natura sommaria (ancorché contenziosa) della cognizione sottesa al giudizio di reclamo, ad instar del principio, già declinato dalla giurisprudenza fallimentare, per il quale il decreto con cui il tribunale dichiarava l'inammissibilità della proposta di concordato, ai sensi dell’art. 162, comma 2, L. fall., ovvero revocava l'ammissione alla procedura di concordato, ai sensi del successivo art. 173, senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, non era soggetto a ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., non avendo carattere decisorio. Alla stregua dell’orientamento in questione, il decreto della corte d’appello, non decidendo nel contraddittorio tra le parti su diritti soggettivi, non era ritenuto idoneo al giudicato[34]. 
Vero è che il comma 6 dell’art. 47 CCII prevede la riproponibilità della domanda di concordato una volta scaduto il termine per il reclamo, ma è anche vero che non si tratta di una riproponibilità senza limiti, atteso che essa è subordinata, come sopra si diceva, ai «mutamenti delle circostanze». Da tanto si potrebbe argomentare che, in assenza di siffatti mutamenti, il decreto è da considerarsi definitivo, oltre che decisorio, e che perciò non si possa fare a meno di predicarne l’impugnabilità per Cassazione. 
Sotto un profilo sistematico, è giusto osservare che «nel diverso settore delle misure cautelari del codice di rito, la riproponibilità non illimitata che si ha nell’art. 669 septies c.p.c. non esclude la provvisorietà del provvedimento»[35]. 
Ma è al contempo da considerare che per l’accesso al concordato preventivo non sono previsti percorsi processuali (né a cognizione piena, né a cognizione sommaria) diversi o alternativi rispetto a quello degli artt. 40 e ss. CCII, e che tale procedimento non è finalizzato al rilascio (o al diniego) di misure cautelari, né è strumentale (nel senso tecnico del termine) a presidiare l’effettività di una domanda di merito. 
Il tema della stabilità del decreto col quale la corte d’appello conferma la dichiarazione d’inammissibilità della domanda di concordato preventivo pronunziata dal tribunale è destinato a mio avviso a restare irrisolto, le quante volte non si verifichino mutamenti delle circostanze, tali da giustificare la proposizione di una nuova domanda, chiamando, in sede applicativa, la giurisprudenza ad una rinnovata valutazione degli interessi e dei diritti in gioco, alla stregua dei principi di cui agli artt. 24 e 111 Cost. 
Al fine di mitigare le asperità interpretative, e di affidare (come a me pare corretto) al diritto pretorio la valutazione circa la decisorietà del provvedimento (ed il suo conseguente regime di stabilità), potrebbe essere considerata l’opportunità di sopprimere l’ultimo periodo dell’art. 47, comma 5, CCII (che così recita: «Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 737 e 738 del codice di procedura civile»). 
Diverso discorso è, invece, a farsi allorché il tribunale abbia, uno actu, dichiarato l’inammissibilità del concordato e, in presenza di domande a ciò finalizzate, anche l’apertura della liquidazione giudiziale. 
In questa ipotesi – anziché predicare la proponibilità di separati rimedi (il reclamo di cui al comma 4 dell’art. 47, ed il reclamo di cui all’art. 51), che potrebbero rispondere a procedimenti aventi natura diversa (sommario il primo, a cognizione piena il secondo) – è a mio avviso da ritenersi, per ragioni di economia processuale e di coerenza del sistema dei rimedi, che col reclamo ex art. 51, oltre ad impugnare la sentenza dichiarativa dell’apertura della procedura maggiore, si possano (e si debbano) far valere anche le censure attinenti alla mancata ammissione della proposta di concordato[36], ad instar di quanto già previsto dall’art. 162, ult. comma, L. fall. 
9 . Le opposizioni all’omologazione del concordato preventivo e del PRO
Con riferimento al giudizio di omologazione degli strumenti, il comma 2 dell’art. 48 CCII (dettato con riferimento al concordato preventivo, ma richiamato dall’art. 64 bis, comma 9, anche in relazione al procedimento di omologazione del PRO) fissa tre termini sfalsati:
a) quello per le opposizioni dei creditori dissenzienti e di qualsiasi interessato, che devono essere proposte con memoria depositata nel termine perentorio di almeno dieci giorni prima dell'udienza;
b) quello per il motivato parere del commissario giudiziale, che deve essere depositato almeno cinque giorni prima dell'udienza;
c) e quello per la memoria del debitore, che può procedervi fino a due giorni prima dell'udienza. 
Il termine sub c) è da ritenersi perentorio al pari di quello sub a), trattandosi di attività di parte[37]; non allo stesso modo è perentorio il termine sub b), sicché un eventuale ritardo del commissario giudiziale, a prescindere dall’attivazione di meccanismi di responsabilità, farebbe inevitabilmente scivolare in avanti il termine sub c), affinché sia garantito, tra l’uno e l’altro, il lasso temporale di almeno tre giorni. 
Pare a chi scrive che l’incedere di questi termini possa rivelarsi ingiustificatamente «soffocante», e che sia utile dare ad essi un maggiore «respiro»
Occorre, d’altro canto, riconoscere che il meccanismo implementato dal CCII, per quanto penalizzante nei tempi, è sintatticamente più fluido rispetto a quello previsto dal comma 3 dell’art. 180 L. fall., a tenore del quale il debitore, il commissario giudiziale, gli eventuali creditori dissenzienti e qualsiasi interessato dovevano costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata e, nel medesimo termine, il commissario giudiziale doveva depositare il proprio motivato parere. 
La disciplina previgente, infatti, allineava al medesimo termine la costituzione di tutte le parti, dando la stura per la concessione di ulteriori termini finalizzati a garantire il contraddittorio. Nel rapido scambio di memorie e di atti previsto dall’art. 48 CCII, invece, l’ultima parola (anche in replica agli opponenti ed al commissario giudiziale) è correttamente affidata al debitore proponente.
10 . L’irragionevole dualità dei reclami
Con riferimento all’impugnazione del decreto che rigettava la domanda di fallimento, l’art. 22 L. fall. si limitava a prevedere che la corte d’appello, sentite le parti, provvedesse in camera di consiglio con decreto motivato. La norma non chiariva se dovesse essere adottato il medesimo procedimento dell’istruttoria prefallimentare regolato dall’art. 15 L. fall.[38], sul presupposto che il giudizio in questione avesse la medesima finalità di accertamento della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, e se perciò alla corte d’appello fossero da riconoscersi i medesimi poteri attribuiti al tribunale in primo grado[39]; oppure se dovesse adottarsi il procedimento camerale comune di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.[40].
L’art. 50 CCII ha sciolto il dilemma, stabilendo espressamente che al procedimento in questione si applicano gli artt. 737 e 738 c.p.c., ossia le scarne disposizioni codicistiche, che regolano il regime delle impugnazioni nei procedimenti in camera di consiglio.
Ma la scelta del legislatore delegato non è da condividersi, specie se – come a me pare – il richiamo alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio serva, nell’ottica del legislatore, a corroborare la natura non contenziosa, o comunque di giudizio camerale volontario del reclamo in questione.
D’altro canto, è noto che non è la qualificazione letterale dell’istituto processuale (ad esempio, come nel caso di specie, in termini di procedimento in camera di consiglio) a conformarne la natura giuridica, il carattere contenzioso, l’attitudine alla formazione della cosa giudicata sostanziale, il regime di stabilità e la ricorribilità in Cassazione del provvedimento finale: si deve, per contro, guardare alla capacità che siffatto provvedimento ha di incidere sui diritti soggettivi [41].
Le riforme della L. fall. del 2006-2007 avevano altresì inteso ribadire il regime c.d. «duale», già previsto dall’originaria formulazione dell’art. 22, affidando alla corte d’appello il judicium rescindens (cioè l’accertamento dei presupposti della dichiarazione di fallimento) ed al tribunale il judicium rescissorium (cioè la pronunzia costitutiva del fallimento)[42].
La ratio della previsione era palese. Infatti, se il legislatore avesse attribuito alla corte d’appello e non al tribunale il potere di dichiarare il fallimento, non sarebbe più stato possibile esperire il reclamo ex art. 18 l. fall., ma il solo ricorso in Cassazione per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., privando il fallito di una chance impugnatoria, non imposta dai principi costituzionali, ma opportuna in rapporto alle caratteristiche del sistema processuale che governava la dichiarazione di fallimento, ed alla gravità delle sue conseguenze. La scelta del legislatore trovava altresì ragione nel fatto che il tribunale che dichiarava il fallimento diventasse anche l’organo di controllo della successiva procedura concorsuale, ed uno dei suoi componenti assumesse le funzioni di giudice delegato: possibilità, queste, difficilmente attuabili dinanzi alla corte d’appello, che è un organo collegiale[43].
Tale regime è stato totalmente (ed, a mio avviso, non del tutto condivisibilmente) travolto dal CCII.
Nell’ansia di assecondare il principio di ragionevole durata del processo, salvaguardando la natura camerale, che si voleva imprimere al giudizio di reclamo avverso il decreto di rigetto della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, il CCII ha tentato, se così si può dire, di «salvare capra e cavoli», ed ha escogitato un sistema d’impugnazione a «doppia uscita» decisoria: con decreto, se il reclamo viene rigettato; con sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale, ricorribile in Cassazione, se il reclamo viene accolto.
In questa maniera, si viene a determinare la seguente situazione:
a) se la liquidazione giudiziale è dichiarata dal tribunale ai sensi dell’art. 49 CCII, la sentenza è reclamabile alla corte d’appello ai sensi dell’art. 51: entrambi i gradi di giudizio hanno le caratteristiche del processo a cognizione piena ed i relativi provvedimenti finali sono idonei al giudicato, tanto è vero che la sentenza emanata all’esito del giudizio di reclamo è ricorribile in Cassazione (cfr. art. 51, comma 13);
b) se il tribunale rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale, decide con decreto motivato reclamabile davanti alla corte d’appello ai sensi dell’art. 50 CCII. In questo caso, il primo grado di giudizio si svolge secondo le regole del processo a cognizione piena, ai sensi dell’art. 41; il secondo grado segue le regole dei procedimenti in camera di consiglio, ma, nell’ipotesi di accoglimento del reclamo, il provvedimento assume la forma della sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale, ai sensi dell’art. 49, idonea al giudicato, ma non reclamabile ai sensi dell’art. 51, bensì unicamente ricorribile in Cassazione. 
Ora, fermo rimanendo che il doppio grado di giudizio di merito non gode di copertura costituzionale, a me sembra che non si possa – salvo a voler ingenerare un dubbio d’illegittimità per violazione dell’art. 3 Cost. – prevedere che la pronunzia sulla medesima domanda in un caso (l’accoglimento della domanda di apertura della liquidazione giudiziale) goda della garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito a cognizione piena, ma nell’altro caso (il rigetto della domanda) non goda di pari garanzia. Tutto ciò nell’assenza di specifiche differenze in ordine alla tutela somministrata nelle due ipotesi, ma soltanto a cagione della circostanza (del tutto «estrinseca» rispetto all’individuazione della tipologia di tutela) di come si è chiuso il giudizio di primo grado.
Sarebbe altresì contraddittorio che un procedimento (dichiaratamente costruito come di giurisdizione camerale volontaria) possa approdare all’emanazione di un provvedimento di cognizione ordinaria, che incide su diritti soggettivi e che è impugnabile in Cassazione[44]. 
Né si dica che, nella specie, ferme restanti le caratteristiche del procedimento, è il contenuto del provvedimento finale che ne qualifica la natura (camerale piuttosto che di cognizione piena), perché non si comprenderebbe, sul piano delle garanzie processuali, come possa accadere che il medesimo procedimento abbia natura ed effetti diversi secundum eventum litis. Se, dunque, il giudizio ha da intendersi come di cognizione piena ed è idoneo alla formazione della cosa giudicata sostanziale allorché il reclamo viene accolto, deve parimenti esserlo allorché il reclamo viene rigettato. 
D’altro canto, il percorso cognitivo svolto dal giudice dell’impugnazione – quale che ne sia l’esito (rigetto con decreto o accoglimento con sentenza) – esige una revisio del provvedimento impugnato, la quale, a sua volta, è presa all’esito di un procedimento contenzioso a cognizione piena, ai sensi dell’art. 49. Per questo il reclamo ex art. 50 (al pari di quello ex art. 51) CCII non può che avere piena natura devolutiva, attribuendo alla corte d'appello il riesame completo della res iudicanda, senza che l'ambito della sua cognizione sia limitato alla valutazione della fondatezza delle ragioni fatte valere dalla parte reclamante[45].
Nella logica dell’art. 50 CCII, una volta soppresso in parte qua il doppio grado di giurisdizione di merito, la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale compete alla corte d’appello che accoglie il reclamo avverso il decreto di rigetto della domanda pronunziato dal giudice di primo grado, sicché appare conseguente che i fatti sopravvenuti al detto decreto di rigetto, che possano rilevare nel senso di impedire la dichiarazione di apertura della liquidazione, vanno giocoforza dedotti nel giudizio davanti alla corte d’appello. Ma ciò avviene nell’àmbito di una struttura processuale a modello camerale, che non permette le medesime garanzie difensive del giudizio di primo grado, pur potendo sfociare nell’emanazione di un provvedimento a cognizione piena, idoneo al passaggio in giudicato, impugnabile soltanto col ricorso in Cassazione, perciò immune dal sindacato giudiziario sul fatto, se non nei ristretti limiti oggi consentiti dal n. 5) dell’art. 360 c.p.c. 
In conclusione, è opinione di chi scrive che meglio avrebbe fatto il legislatore delegato a prevedere che il provvedimento che rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale assuma la forma della sentenza (al pari di quanto accade per il rigetto della domanda di omologazione degli strumenti), nonché a predicare l’applicazione al procedimento di cui all’art. 50 delle medesime regole previste dall’art. 51 CCII per il reclamo avverso la sentenza di accoglimento della domanda di apertura della liquidazione giudiziale[46]. 
Potrebbe, quindi, valutarsi l’opportunità di considerare una riscrittura dell’art. 50 CCII, che (alla stregua, ben inteso, di una mera ipotesi di lavoro) potrebbe essere riformulato all’incirca nel modo che segue: «Art. 50 Reclamo contro il provvedimento che rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale. / 1. Il tribunale, se respinge la domanda di apertura della liquidazione giudiziale, provvede con sentenza, che, a cura del cancelliere, è comunicata alle parti e, quando è stata disposta la pubblicità della domanda, iscritta nel registro delle imprese. / 2. Entro trenta giorni dalla comunicazione, il ricorrente o il pubblico ministero possono proporre reclamo contro la sentenza alla corte di appello che, sentite le parti, provvede in camera di consiglio. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 51. / 3. Il debitore non può chiedere in separato giudizio la condanna del creditore istante alla rifusione delle spese ovvero al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell’articolo 96 del codice di procedura civile. / 4. La sentenza della corte di appello che rigetta il reclamo è comunicata dalla cancelleria alle parti del procedimento in via telematica, al debitore, se non costituito, ai sensi dell’articolo 40, commi 6, 7 e 8 ed è iscritta immediatamente nel registro delle imprese nel caso di pubblicità della domanda. / 5. In caso di accoglimento del reclamo, la corte di appello dichiara aperta la liquidazione giudiziale con sentenza e rimette gli atti al tribunale, che adotta, con decreto, i provvedimenti di cui all’articolo 49, comma 3. La sentenza della corte di appello e il decreto del tribunale sono iscritti nel registro delle imprese su richiesta del cancelliere del tribunale. / 6. I termini di cui agli articoli 33, 34 e 35 si computano con riferimento alla sentenza della corte di appello».
11 . Il divisivo regime di stabilità dei provvedimenti di reclamo a contenuto misto
Il quadro processuale si viene a complicare in presenza di provvedimenti a contenuto misto. 
Se il tribunale (giudice di primo grado) abbia contestualmente rigettato la domanda di apertura della liquidazione giudiziale ed altresì quella di omologazione di uno strumento pattizio, il provvedimento non potrà che essere formalmente unitario ed assumere la forma di sentenza (richiesta, in ogni caso, dall’art. 48 CCII in relazione alla pronunzia di rigetto dell’omologazione). 
In questo caso, «il gravame esperibile, anche laddove diretto contro il solo capo reiettivo della domanda di liquidazione, dovrebbe essere il reclamo ex art. 51, con la conseguenza che, in caso di conferma di tale pronuncia di rigetto, ammissibile dovrebbe comunque risultare quel ricorso in cassazione che è viceversa precluso nei confronti dell’analoga pronuncia emessa dalla corte d’appello all’esito del distinto reclamo ex art. 50»[47]. 
Ragione, quest’ultima, che avrebbe nuovamente dovuto spingere il legislatore verso l’opportunità di costruire un unico modello processuale impugnatorio[48].
12 . Sospensione della liquidazione giudiziale e legittimazione alle liti della curatela
L’art. 52, comma 1, CCII prevede che, proposto il reclamo ex art. 51, la corte d’appello, su richiesta di parte o del curatore, può, quando ricorrono gravi e fondati motivi, sospendere, in tutto o in parte o temporaneamente, la liquidazione dell’attivo, la formazione dello stato passivo ed il compimento di altri «atti di gestione». 
Non può, però, a mio avviso, essere incisa dal provvedimento di sospensione la legittimazione della curatela rispetto alle azioni da promuovere (ivi comprese quelle di esecuzione individuale), aventi come finalità il recupero di beni o utilità alla massa concorsuale[49], sia che essi derivino dalla liquidazione giudiziale, sia che preesistano nel patrimonio del debitore al momento dell’apertura della liquidazione. 
Pur trattandosi di «atti di gestione» (dunque astrattamente ricadenti nella fattispecie dell’art. 52, comma 1), diversamente opinando si rischierebbe un effetto potenzialmente «perverso», consistente nel lasciar decorrere invano i termini di prescrizione o di decadenza fissati dalla legge per l’esercizio, da parte del curatore, di azioni recuperatorie o revocatorie[50]. 
Per le medesime ragioni, non può venire meno il potere-dovere del curatore di riassumere i giudizi attivi interrotti per effetto della sopravvenuta dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale[51]. 
Sarebbe, pertanto, ad avviso di chi scrive, da valutare l’opportunità di inserire nel comma 1 dell’artt. 52 CCII, dopo il primo periodo, il seguente: «E’ fatta salva la legittimazione del curatore ad agire ed a resistere in giudizio».
13 . La sospensione della sentenza emessa dalla corte d’appello
L’art. 51, comma 14, CCII stabilisce (in sintonia col sistema generale delle impugnazioni) che il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza resa dalla corte d’appello non sospende l'efficacia della sentenza medesima, applicandosi, in quanto compatibile, l'art. 52, se il ricorso è promosso contro la sentenza con la quale la corte d’appello ha rigettato il reclamo. 
In pratica, nelle more del giudizio di Cassazione, è possibile accedere ad un ulteriore procedimento di inibitoria, avente ad oggetto la sentenza che ha rigettato il reclamo ex art. 51, da proporsi alla stessa corte d’appello che l’ha emessa. 
Tale previsione è costruita ad instar di quanto previsto dall’art. 373 c.p.c., secondo il quale il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata per cassazione (nel nostro caso la corte d’appello) può, su istanza di parte, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa, o che sia prestata congrua cauzione[52]. 
La differenza riposa sul fatto che, mentre l’inibitoria ex art. 373 c.p.c. è subordinata alla circostanza che dall’esecuzione possa derivare «grave e irreparabile danno», quella regolata dall’art. 52 CCII presuppone la ricorrenza di «gravi e fondati motivi». 
Pare a chi scrive che – essendo l’applicazione dell’art. 52 espressamente subordinata dal comma 14 dell’art. 51 ad una valutazione di compatibilità – quest’ultima non possa spingersi fino a richiedere alla corte d’appello di delibare in sede sommaria la ricorrenza di un fumus (evocato dal lemma «gravi e fondati motivi»), che essa ha già escluso in sede di cognizione piena, con decisione impugnata davanti alla Corte di cassazione; e che meglio avrebbe fatto il CCII a richiamare in parte qua il presupposto del pericolo di «grave e irreparabile danno», declinato dalla norma di diritto comune. 
14 . La proroga della durata delle misure protettive
In relazione alla durata massima delle misure protettive, vengono, come è noto, in evidenza tre norme: 
a) l’art. 19, comma 5, CCII, a mente del quale, nell’àmbito della composizione negoziata, il giudice, su istanza delle parti e acquisito il parere dell’esperto, può prorogare la durata delle misure disposte per il tempo necessario ad assicurare il buon esito delle trattative, fermo rimanendo che la durata complessiva delle misure non può superare i duecentoquaranta giorni (otto mesi); 
b) l’art. 55, comma 3, che, nell’àmbito del procedimento unitario, fissa in quattro mesi la durata massima delle misure protettive, e comma 4, a mente del quale il tribunale, su istanza del debitore o di un creditore ed acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato, può prorogare, in tutto o in parte, la durata delle misure protettive concesse, nel rispetto dei termini di cui all’art. 8, se sono stati compiuti significativi progressi nelle trattative sul piano di ristrutturazione e se la proroga non arreca ingiusto pregiudizio ai diritti e agli interessi delle parti interessate; 
c) infine, l’art. 8, che fissa il principio per il quale la durata complessiva delle misure protettive, fino all’omologazione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza o all’apertura della procedura di insolvenza, non può superare il periodo, anche non continuativo, di dodici mesi, inclusi eventuali rinnovi o proroghe, tenuto conto delle misure protettive fruite nell’àmbito della composizione negoziata. 
La questione che si è posta è se il debitore che, nella composizione negoziata, abbia dapprima ottenuto la conferma delle misure protettive e, successivamente, la proroga della durata delle stesse, fino a raggiungere il totale di 240 giorni consentito dall’art. 19, comma 5, possa – in pendenza del percorso di composizione, la cui durata sia stata a propria volta prorogata di un tempo più lungo – chiedere misure cautelari nei confronti di alcuni creditori, finalizzata all’inibitoria delle azioni esecutive e cautelari, nonché alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale. 
Analoga questione potrebbe porsi (e, nella pratica, prima o poi si porrà) con riferimento alla scadenza del termine massimo di durata delle misure protettive nel procedimento unitario (art. 55, comma 3), anche in relazione alla durata complessiva fissata dall’art. 8 CCII. 
Alcune recenti pronunzie di merito hanno ritenuto che il termine massimo di durata delle misure protettive debba essere circoscritto «all’ombrello generalizzato a garanzia della conservazione del patrimonio del creditore nella fase iniziale delle trattative», e che non si possa escludere «la possibilità di concedere misure determinate e riguardanti singoli creditori qualora queste si rendano necessarie a non pregiudicare la contrattazione (e i risultati già conseguiti, nel caso di trattative avanzate)»[53]. 
Ma, secondo un opposto orientamento, sarebbe proprio il contenuto atipico rivestito dalle misure cautelari a precludere al debitore di farvi ricorso per ottenere effetti sovrapponibili a quelli delle misure protettive «risolvendosi, altrimenti, in uno strumento elusivo del termine di durata massima di tali misure, fissato dall’art. 19, comma 5, ultimo periodo, CCII in modo da riservare alla composizione negoziata una porzione predeterminata che rappresenta il pieno recepimento nell’ordinamento interno dell’art. 6, par. 8, della dir. (UE) 1023/2019)»; inoltre, si osserva, «il termine di durata legale di cui al citato comma 5 si presenta contratto rispetto alla durata complessiva massima della composizione negoziata, evidentemente in quanto la compromissione dei diritti individuali dei creditori non rinviene più un’adeguata giustificazione qualora sia trascorso un lasso temporale tale da risultare incompatibile con una prognosi di buon esito delle trattative»[54]. 
Tali obiezioni sono parse superabili «rimettendo al giudice il vaglio concreto della proporzionalità del sacrificio imposto ai singoli creditori oggetto di inibitoria cautelare e la risoluzione negoziata della crisi d’impresa»[55]. 
Ritengo che le cose non stiano nella maniera fatta propria dagli orientamenti più largheggianti. 
Nella semantica dell’art. 18 CCII, l’inibizione delle azioni esecutive e cautelari, nonché dell’apertura della liquidazione giudiziale, mette capo a misure protettive «tipiche», in relazione alle quali il legislatore ha ritenuto di fissare – nel bilanciamento degli interessi in gioco ed al fine di evitare, o comunque di mitigare, il pregiudizio subìto dai creditori – una durata massima inderogabile. 
Né può ragionevolmente sostenersi che le misure protettive, solo perché si attivano erga omnes, cessano di essere tali, potendo mutare i propri connotati genetici ed assumere quelli delle misure cautelari atipiche, sol perché direzionate soggettivamente in maniera «selettiva». 
Infatti, già lo stesso art. 19, comma 4, ult. periodo, CCII, stabilisce – in maniera, per l’appunto, «selettiva» – che «sentito l’esperto, il tribunale può limitare le misure a determinate iniziative intraprese dai creditori a tutela dei propri diritti o a determinati creditori o categorie di creditori». E l’art. 18, comma 3, faculta l’imprenditore a chiedere lui stesso «che l’applicazione delle misure protettive sia limitata a determinate iniziative intraprese dai creditori a tutela dei propri diritti o a determinati creditori o categorie di creditori». 
Ne consegue che il contenuto atipico delle misure cautelari (previste dagli artt. 19 e 54 CCII) non può essere piegato al fine di ottenere effetti sovrapponibili a quelli delle misure protettive tipiche, le quante volte queste ultime non sono più prorogabili, perché ciò provocherebbe – quand’anche se ne affidasse la valutazione di proporzionalità al vaglio del giudice – un’alterazione dell’equilibrio tra gli opposti interessi e sacrifici, come stabilito ex ante dal legislatore mercé la fissazione della durata massima delle misure protettive. 
Per quanto a me sembri che tale equilibrio normativo risponda ad un equo criterio di contemperamento delle esigenze in gioco, occorre nondimeno soggiungere che il legislatore (e non il giudice) è pur sempre arbitro di ricercare, nel rispetto del limite della ragionevolezza, punti di equilibrio diversi, semmai quelli vigenti fossero ritenuti inadeguati, e, lungo questa via, di aumentare l’attuale durata massima delle misure protettive, sia quella complessiva (art. 8 CCII), sia nella composizione negoziata (art. 19, comma 5), facendo, ad esempio, coincidere la durata massima con quella di dodici mesi fissata dall’art. 17, comma 7, per la conclusione dell’incarico dell’esperto. 
Soltanto a seguito di tale decisione di vertice, entrerebbe in gioco la valutazione del giudice, chiamato a discernere se – al fine di assicurare il buon esito delle trattative – l’istanza di proroga delle misure protettive sia meritevole di accoglimento oltre la durata basica, con o senza la somministrazione di direttive specifiche, anche d’intonazione selettiva.

Note:

[1] 
Come è noto, l’art. 1 della L. 8 marzo 2019, n. 20 (varato in piena emergenza pandemica) ha previsto che il Governo, entro due anni dalla data di entrata in vigore dell'ultimo dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega di cui alla L. 19 ottobre 2017, n. 155 (a seguito della quale è stato deliberato il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il CCII) e nel rispetto dei principi e criteri direttivi da essa fissati, può adottare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi medesimi. L’art. 389 del CCII, come (da ultimo) modificato dal D.L. 30 aprile 2022, n. 36, conv. in l. 29 giugno 2022, n. 79, ha fissato al 15 luglio 2022 l’entrata in vigore del CCII. Pertanto, allo stato, il termine ultimo perché il Governo possa intervenire sul CCII con lo strumento del decreto legislativo “correttivo” è il 15 luglio 2024.
[2] 
Non tutti gli interventi sul CCII sono stati operati con lo strumento del decreto legislativo. Nell’ordine si sono, infatti, succeduti: il D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147; il D.L. 24 agosto 2021, n. 118, conv. in l. 21 ottobre 2021, n. 147; il D.Lgs. 30 aprile 2022 n. 36, conv. in l. 29 giugno 2022, n. 79; il D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83; il D.L. 21 giugno 2022, n. 73, conv. in L. 4 agosto 2022, n. 122; il D.L. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in L. 24 febbraio 2023, n. 14.
[3] 
Sul punto, rinvio – per quanto possa interessare – alle perplessità che ho avuto modo di esporre in F. De Santis, Il procedimento cd. unitario per la regolazione della crisi o dellinsolvenza: effetti virtuosi ed aporie sistematiche, in Fall. 2020, 157 ss.; Id., Le fasi introduttive del c.d. procedimento unitario, ivi, 2022, p. 1207 ss.: Id., Il sistema dei rimedi nel cosiddetto procedimento unitario, ivi, 2023, p. 310 ss. Per una esposizione ampia ed argomentata circa le ragioni fondative e la sperata efficacia del modello, si fa rinvio a I. Pagni, La trattazione unitaria dell’alternativa tra la liquidazione giudiziale e gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza nell’art. 7 CCII, in Dirittodellacrisi.it, 16.10.2023 (ove l’A. esamina le regole processuali della trattazione disciplinata agli artt. 40 ss. CCII, al fine di chiarire in che senso si possa davvero parlare di procedimento unitario, pur in presenza delle differenze tra l'uno e l'altro strumento di regolazione della crisi o dell'insolvenza, e tra questi e la liquidazione giudiziale, e quali siano il significato e le implicazioni dell’unitarietà).
[4] 
S. De Matteis, Istruttoria prefallimentare: il procedimento, in Le procedure concorsuali a cura di A. Caiafa, I, Padova, 2011, p. 57; M. Fabiani, L'impulso officioso nella gestione del procedimento prefallimentare, in Foro it., 2007, I, 607.
[5] 
In tema v. M. Cirulli, Il procedimento semplificato di cognizione, in Il processo civile dopo la riforma Cartabia a cura di A. Didone, F. De Santis, Milano, 2023, p. 235 ss.
[6] 
Rileva S. Boccagna, Le norme sul giudizio di primo grado nella delega per la riforma del processo ci­vile: note a prima lettura, in Ildirittoprocessualecivile.it, 2022, p. 256, che «la previsione della deci­sione collegiale discende da una valutazione in astratto circa la maggiore complessità della controversia; l’applicazione del rito semplificato presup­pone invece la sussistenza in concreto delle condizioni previste dalla legge, che ben possono ricorrere anche in relazione a controversie sulla carta più complesse».
[7] 
Cass., sez. un., 15 maggio 2015, n. 9935, e Cass., sez. un., 15 maggio 2015, n. 9936.
[8] 
Le verifiche in questione, pur se incombenti già dalla fase introduttiva, devono in ogni caso essere effettuate dopo il deposito del piano e della proposta, non avendo alcuna attitudine a questi fini la documentazione di cui all’art. 39, comma 3, richiamata dall’art. 44, comma 1, CCII, da depositarsi unitamente alla domanda c.d. «con riserva» (cfr. R. D’Alonzo, F. De Santis, Il c.d. procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in Dirittodellacrisi.it, 4.10.2022). 
[9] 
Il termine di decadenza non trova applicazione se la domanda di accesso allo strumento di regolazione pattizia (compreso, io ritengo, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio) è proposta all’esito della composizione negoziata, «entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui all’articolo 17, comma 8», ossia prima che siano trascorsi sessanta giorni dalla comunicazione dell’esperto alla camera di commercio di esito negativo della composizione negoziata, ai fini dell’archiviazione di quest’ultima.
[10] 
Cfr., ex multis, Corte cost. 20 giugno 2008, n. 221.
[11] 
In questo senso v. anche I. Pagni, La trattazione unitaria dell’alternativa tra la liquidazione giudiziale e gli strumenti di risoluzione della crisi e dell’insolvenza nell’art. 7 CCII, cit., secondo la quale «con entrambe le previsioni si consente la confluenza delle domande nel procedimento già aperto. In entrambi i casi sono previsti limiti temporali ben precisi, a evitare in un caso ritardi e nell’altro caso abusi» (par. 5)
[12] 
La giurisprudenza fallimentare ritiene soggetto al limite dell'abuso (sanzionabile in ogni momento della procedura) il diritto del debitore di fare ricorso alla procedura di concordato preventivo (cfr., con riferimento ad ipotesi diverse, Cass. 7 dicembre 2020, n. 27936; Cass. 12 marzo 2020, n. 7117; Cass. 11 ottobre 2018, n. 25210; Cass. 7 marzo 2017, n. 5677).
[13] 
Cfr. Relazione governativa allo Schema di D.Lgs. contenente il CCII, presentato alle Camere al fine di riceverne il prescritto parere parlamentare il 14 novembre 2018 (Atto Camera n. 53).
[14] 
Secondo Trib. Roma 18 giugno 2008, in Fall., 2008, 1202, con nota di V. Sangiovanni, il procedimento per dichiarazione di fallimento, in seguito alla riforma della procedura fallimentare (caratterizzata dai principi di pieno contraddittorio tra le parti e di terzietà del giudice nel rispetto dell'art. 111 Cost.) non consente la costituzione personale della parte ricorrente, dovendo il ricorso per dichiarazione di fallimento presentato senza l'assistenza di un difensore essere conseguentemente dichiarato inammissibile.
[15] 
Nel senso della necessità della difesa tecnica nel vigore della legge fallimentare, v. M. Fabiani, op. cit., p. 113, sul presupposto, tra l’altro, che nel processo di istruttoria prefallimentare riformato nel 2006-2007, creditore e debitore si collocano su posizioni antagoniste, e che, all’esito del processo in questione, possono essere liquidate le spese di lite; M. Montanaro, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Aa.Vv., Le riforme della legge fallimentare a cura di A. Didone, I, Torino, 2009, p. 212 ss.; S. De Matteis, Istruttoria prefallimentare: il procedimento, in Le procedure concorsuali a cura di A. Caiafa, I, cit., p. 69 ss. Per l’affermazione della non necessità della difesa tecnica, sul presupposto che la natura asserìtamente camerale del procedimento di istruttoria prefallimentare non sarebbe mutata a seguito delle riforme del 2006-2007, cfr. V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, p. 15.
[16] 
Cass. 4 marzo 2021, n. 5985, in Fall., 2021, 635 ss., con mia nota di commento, Esercizi virtuosi di cognizione ordinaria e necessità della difesa tecnica nel processo per l’apertura della liquidazione concorsuale, in Fall., 2021, p. 635 ss.
[17] 
Così Cass. 21 aprile 2011, n. 9260.
[18] 
Nel senso del rinvio alla disciplina generale dell’art. 306 c.p.c. cfr. anche D. Plenteda, Profili processuali del fallimento dopo la riforma, Milano, 2008, p. 68 (con riferimento alla desistenza dalla domanda di fallimento).
[19] 
A. Saletti, voce Estinzione del processo, in Enc. dir., XIII, Roma, 1989, p. 4; Cass. 22 ottobre 1970, n. 2103.
[20] 
Così a partire da Cass. 5 maggio 2016, n. 8980.
[21] 
Cass. 19 dicembre 2018, n. 32850. Nel medesimo senso cfr. Cass. 3 agosto 2016, n. 16278; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27689; Cass. 28 giugno 2017, n. 16180; Cass. 7 agosto 2017, n. 19682.
[22] 
Sussiste, difatti, l’interesse, di natura pubblicistica, «all'ordinata gestione dell'insolvenza dell'impresa secondo le regole della concorsualità tuttora tutelata dalla dichiarazione di fallimento, cui fa riscontro la peculiare natura della c.d. istruttoria prefallimentare che, pur non potendo più svolgersi su iniziativa d'ufficio, può essere attivata su richiesta del pubblico ministero, e non è riducibile ad un mero processo fra parti contrapposte, in quanto idonea a dar luogo (nel caso di accoglimento della domanda) ad un accertamento costitutivo valevole erga omnes» (così Cass. 6 novembre 2013, n. 24968, in motivazione).
[23] 
Cfr. Cass. 27 giugno 2017, n. 16180.
[24] 
Cass. 31 luglio 2019, n. 20633; Cass. 14 giugno 2019, n. 16122; Cass. 27 luglio 2021, n. 21503; Cass. 1° febbraio 2022, n. 3081; Cass. 9 marzo 2023, n. 7067.
[25] 
Cass. 31 marzo 2016, n. 6277; Cass. 10 gennaio 2017, n. 270; Cass. 7 dicembre 2022, n. 35959: tutte, ovviamente, riferite alla corrispondente fattispecie prevista dall’art. 161 L. fall.
[26] 
Cass. 19 novembre 2018, n. 29740, in Fall., 2019, 1364, con nota critica di M. Gaboardi.
[27] 
Così Cass. 19 novembre 2018, n. 29740, in motivazione.
[28] 
A conclusioni diverse perviene M. Fabiani, Concordato preventivo in Commentario Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2014, p. 334, secondo il quale il termine – se ho ben compreso – dovrebbe decorrere dalla presentazione della domanda, che rappresenta l’unico atto del quale i terzi vengono a conoscenza attraverso la pubblicazione camerale.
[29] 
Trib. Bari 23 gennaio 2023.
[30] 
S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, 12.9.2022, p. 10. 
[31] 
Sul punto v. F. Del Rosso, G. Trisorio Liuzzi, Il concordato preventivo, in Diritto della crisi d’impresa a cura di G. Trisorio Liuzzi, Bari, 2023, p. 263.
[32] 
Stante la dispersione della disciplina sul concordato preventivo in distinti luoghi del CCII, il tribunale è altresì chiamato a valutare, come è noto, la conformità della proposta concordataria alle caratteristiche tipologiche del concordato, alla stregua dell’art. 84, commi 2 e 3, CCII, nonché a verificare che il piano sia prima facie redatto secondo le specifiche dell’art. 87, e che preveda la suddivisione dei creditori in classi, la quale, ai sensi dell’art. 85, comma 3, nel concordato in continuità è oggi obbligatoria.
[33] 
Così S. Di Amato, Diritto della crisi d’impresa, Milano, 2022, p. 354.
[34] 
Cass., sez. un., 28 dicembre 2016, n. 27073; Cass. 6 agosto 2021, n. 22442.
[35] 
Così I. Pagni, Codice della crisi e dell’insolvenza: il procedimento unitario, in Il Corriere giuridico, 2019, p. 1167.
[36] 
In questo senso v. anche D. Longo, La liquidazione giudiziale: apertura e impugnazioni, in Diritto della crisi d’impresa a cura di G. Trisorio Liuzzi, cit., p. 322.
[37] 
Nel vigore dell’art. 180 L. fall., l'omessa previsione circa la natura del termine per la costituzione delle parti nel procedimento di omologa del concordato ostava alla qualificazione della sua perentorietà, e la giurisprudenza neppure ravvisava ragioni concernenti la regolamentazione del procedimento che potessero legittimarne la perentorietà (cfr. Cass. 16 settembre 2011, n. 18987).
[38] 
Come riteneva F. Marelli, sub art. 22, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio, M. Fabiani, I, Bologna, 2006, p. 415.
[39] 
In questo senso v. G. Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in AA.VV., La riforma della legge fallimentare, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2006, p. 54; G. Bongiorno, La riforma del procedimento dichiarativo del fallimento, cit., 369.
[40] 
Questa seconda opzione interpretativa era considerata percorribile dalla maggioranza dei magistrati (41%) intervistati nell’àmbito della ricerca statistica L’istruttoria prefallimentare, a cura di M. Ferro, A. Di Carlo, Milano, 2010, p. 704, quesito n. 292 (la restante parte degli intervistati aveva espresso preferenza per il procedimento ex art. 18 L. fall., 34,4%; per il procedimento ex art. 15 L. fall., 14,8%; e per il procedimento di reclamo ex art. 26 L. fall., 9,8%). Nel senso dell’applicabilità della disciplina generale dei procedimenti in camera di consiglio, cfr. anche F. D’Aquino, sub art. 22, in La legge fallimentare. Decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, a cura di M. Ferro, Padova, 2007, p. 169.
[41] 
Così Cass. 22 aprile 2013, n. 9671, che richiama altresì i precedenti di Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2008, n. 28873 e di Cass. 22 ottobre 2010, n. 21718.
[42] 
Sul tema v. G. Ragusa Maggiore, Complessità della sentenza del tribunale che dichiara il fallimento su rimessione della corte d’appello, in Dir. fall., 1993, II, p. 5 ss. Secondo Cass. 1 luglio 1994, n. 6261, in Fall., 1995, p. 157, «il decreto della corte d’appello che, ai sensi dell’art. 22 L. fall., accogliendo il reclamo avverso il decreto del tribunale di rigetto dell’istanza di fallimento, rimette gli atti allo stesso tribunale perché provveda alla relativa declaratoria, assolve una funzione meramente processuale propedeutica alla sentenza che dichiara il fallimento».
[43] 
In questo senso v. A. Paluchowski, in P. Pajardi, A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, p. 178.
[44] 
Non è di questo avviso S. Di Amato, Diritto della crisi d’impresa, Milano, 2022, 99, secondo il quale il rigetto della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, pronunziata allo stato degli atti, «non ha contenuto decisorio su diritti, non esistendo un diritto all’apertura della liquidazione giudiziale in capo ai creditori, il cui diritto ha ad oggetto una prestazione, né in capo al debitore) e non è idoneo al giudicato, poiché la domanda di apertura della liquidazione può essere riproposta».
[45] 
Come già affermato dalla giurisprudenza sotto il vigore dell’art. 22 L. fall.: cfr. Cass. 4 ottobre 2022, n. 28789.
[46] 
Giova, a questo riguardo, rilevare che la legge delega n. 155 del 2017, all’art. 1, comma 1, lett. d), prescrive(va) di adottare un «unico modello processuale» (e non modelli differenziati a seconda dell’esito della lite) per l'accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore, ed alla successiva lett. m) manda(va) al legislatore delegato di riformulare le disposizioni che avevano originato contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento, «in coerenza con i princìpi stabiliti dalla presente legge» (e non in maniera da spezzare il principio del modello processuale unitario).
[47] 
Così M. Montanari, Le impugnazioni nel c.d. procedimento unitario, in Dirittodellacrisi.it, 2022, p. 24, nota 9, sulla scia di V. Zanichelli, La nuova disciplina del concordato preventivo, Molfetta, 2019, p. 164 s.
[48] 
In questo senso v. anche R. D’Alonzo, La disciplina del procedimento unitario in sede d’appello, in Dirittodellacrisi.it, 2022, p. 4.
[52] 
Ancorché, come è noto, nella pratica l’eventualità di accoglimento dell’istanza d’inibitoria ex art. 373 c.p.c. sia tutt’altro che frequente, atteso che, in tale ipotesi, la corte d’appello – smentendo, in sostanza, sé stessa – dovrebbe concedere l’inibitoria dopo avere confermato nel merito la sentenza di primo grado.
[53] 
Trib. Imperia 20 febbraio 2024, in Dirittodellacrisi.it, con commento, nella sostanza, adesivo di I. Pagni e L. Baccaglini, Misure cautelari e misure protettive nel Codice della crisi: una chiave di lettura per l’impiego anche combinato dei diversi strumenti di tutela, 4.3.2024.
[54] 
Trib. Milano, 22 novembre 2023, in Dirittodellacrisi.it.
[55] 
Cfr. in tal senso Tribunale Torino 5 dicembre 2023.

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Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

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