Saggio
La trattazione unitaria dell’alternativa tra la liquidazione giudiziale e gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza nell’art. 7 CCII*
Ilaria Pagni, Ordinario di diritto processuale civile nell’Università degli Studi di Firenze
16 Ottobre 2023
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Sommario:
È, quello regolato dagli artt. 40 ss., un processo soggettivamente complesso, in conseguenza del fatto che il Codice della crisi riconosce una pluralità di legittimazioni: oltre a quella del debitore, quella – disgiunta e non congiunta - dei soggetti legittimati ex art. 37, comma 2, che non sono titolari della situazione oggetto del processo (a meno di non immaginare che quell’oggetto sia il diritto alla regolazione della crisi nelle forme della liquidazione giudiziale), ma titolari di una posizione qualificata, il che serve anche a spiegare la posizione dei sindaci nel procedimento. In ogni caso, quando quella posizione è dovuta alla titolarità di un credito nei confronti del debitore, i legittimati ex art. 37 sono anche coloro che subiscono gli effetti della pronuncia di apertura della liquidazione giudiziale.
Date le caratteristiche della situazione di partenza, non si ha litisconsorzio necessario, ma si ha comunque l’impossibilità, una volta che le più istanze siano confluite nel procedimento pendente o ne sia stata disposta la riunione, di una separazione delle cause o di una trattazione separata in fase di impugnazione, tant’è che la sentenza che pronuncia sui distinti ricorsi è una e unica e viene impugnata col ricorso previsto dall’art. 51 (a meno che non si abbia, con decreto, il rigetto della domanda di liquidazione, nel qual caso l’impugnazione segue le regole dell’art. 50) e l’alternativa tra liquidazione giudiziale e strumenti di regolazione della crisi viene trattata in un unico giudizio, quello di reclamo, che poi sfocia nel giudizio di cassazione. Ed è solo nel caso in cui alla pronuncia di inammissibilità del concordato non si accompagni l’apertura della liquidazione giudiziale che si provvede col decreto contemplato dall’art. 47, comma 4 primo periodo, e si prevede un reclamo, diverso da quello dell’art. 51, regolato dagli artt. 737 e 738 c.p.c.
Volendo mutuare le categorie del diritto processuale generale, sia pure con tutte le difficoltà di adattarle alla particolare natura del giudizio in grado di dar vita alle differenti soluzioni evocate dall’art. 7 e a una non semplice ricostruzione del suo oggetto, si può parlare di rapporto uno e unico, riferito alla condizione del debitore (tesi, questa, della quale mi vado man mano convincendo), oppure di incompatibilità diretta, se si immaginano un diritto del debitore alla regolazione della crisi nelle forme concordate e un diritto dei più soggetti legittimati ex art. 37 CCII all’apertura della liquidazione giudiziale quali facce della stessa medaglia in rapporto di alternatività tra loro, oppure ancora di continenza per specularità, come ha fatto la Corte di cassazione nel 2015 riprendendo la categoria tradizionalmente utilizzata per spiegare ipotesi in cui siano prospettate, con riferimento a un unico rapporto negoziale che ne rappresenta la causa petendi, domande contrapposte quali la domanda di risoluzione del contratto e la domanda di adempimento.
Qualunque sia la tesi ritenuta preferibile, la trattazione dovrà essere unitaria, perché la realtà è unica, e si discute dei diversi modi per affrontarla nell’interesse dei più soggetti coinvolti.
L’alternativa tra i diversi modi verrà affrontata secondo la scansione prevista dall’art. 7, che stabilisce sia quale è la domanda che dev’essere esaminata per prima (al comma 2), sia quando, una volta dato sfogo alla domanda diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale, si può procedere all’apertura di quest’ultima (al comma 3).
La disciplina del procedimento unitario – che è all’origine dell’architettura (complicata) del codice, in cui le norme per così dire “sostanziali” sono contenute nei titoli successivi al terzo, richiedendo così una qualche ginnastica mentale nel passaggio da un titolo all’altro - serve dunque a permettere il rispetto dell’art. 7. Ma non serve solo a quello. Esso consente l’intreccio tra le misure protettive e le misure cautelari, postulato dal legislatore nelle definizioni delle lettere p) e q) dell’art. 2 e nella sottolineatura della loro atipicità, e permette – ora diremo come - quella flessibilità tra i diversi strumenti di regolazione giudiziale della crisi e dell’insolvenza che la Direttiva richiedeva per l’ipotesi in cui il recepimento non fosse avvenuto con la creazione di un unico strumento avente tutte le caratteristiche richieste dalla stessa, ma con l’introduzione di correttivi distribuiti tra i diversi strumenti, come indicato dall’art. 4, comma 5.
Che è quanto accaduto, per fare degli esempi, con l’attuazione dell’art. 5, paragrafo 2 (che prevede che la nomina del professionista nel campo della ristrutturazione sia decisa caso per caso), e dell’art. 6 paragrafo 5 della Direttiva (che prevede l’esclusione dei lavoratori dalle misure protettive), avvenuta, in entrambi i casi, solo nell’ambito degli accordi di ristrutturazione (cfr. gli artt. 40, comma 4, e 54, comma 7), per l’impossibilità di inserire quelle norme nella disciplina del concordato, con la quale sarebbero state incompatibili, sia per la regola dello spossessamento attenuato che caratterizza il concordato e impone una costante vigilanza sulla gestione dell’impresa, sia per il rispetto dei principi generali del concorso, dal momento che le risorse ottenute con l’esecuzione individuale verrebbero in ogni caso ripartite, secondo le regole dell’art. 84, nel concorso con gli altri creditori.
La flessibilità tra strumenti è stata codificata espressamente soltanto negli artt. 44 e 64 bis a quater CCII: nel primo, dove sono stati immaginati scambi di binario accompagnati dall’applicazione dell’art. 46 nella fase in bianco e dalla nomina del commissario giudiziale qualunque sia lo strumento di regolazione che verrà poi prescelto (pur se, nel caso degli accordi di ristrutturazione non preceduti dalla fase prenotativa, questi sarebbe necessariamente nominato solo in presenza di istanze per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale); nel secondo, col passaggio – che il legislatore qualifica “modificazione di domanda”, anziché “domanda nuova” nonostante il mutamento del petitum processuale, nella logica delle domande complanari - dal piano di ristrutturazione soggetto a omologazione al concordato preventivo, sia quando il piano non è approvato da tutte le classi, sia quando un creditore abbia contestato il difetto di convenienza nelle osservazioni ex art. 107, comma 4, sia al di fuori di queste ipotesi, in ogni momento.
Ma è evidente che una modifica della domanda è astrattamente sempre possibile anche nelle ipotesi non codificate, purché sia compatibile coi tempi stretti delle procedure. Così come è ipotizzabile il cumulo di domande ad opera del debitore, e non soltanto nella direzione degli strumenti di regolazione: il debitore potrebbe infatti chiedere anche l’apertura della liquidazione giudiziale in subordine al diniego di omologazione di uno degli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, per mostrare la propria convinzione nella bontà del tentativo di ristrutturazione.
Al comma 3 si chiarisce invece quel che accade una volta che sia stato dato sfogo alla domanda diversa da quella di liquidazione giudiziale: l’apertura di quest’ultima potrà aversi, oltre che quando la domanda non sia accolta, nelle ipotesi previste dall’art. 49, comma 2, che sono le stesse indicate dalla Cassazione nelle sentenze del 2015: mancato rispetto o revoca del termine fissato ai sensi dell’art. 44, mancato deposito delle spese di procedura, inammissibilità della proposta di concordato, mancata approvazione dello stesso, diniego di omologa, compimento di atti di frode.
Le regole processuali dell’alternativa sono dettate nelle norme che regolano il procedimento unitario, le cui caratteristiche necessitano di qualche chiarimento, visto che i diversi passaggi che avrebbero poi condotto alla versione attuale degli artt. 40 ss. del Codice hanno condizionato la sensibilità degli interpreti che cercano di ricostruirne la disciplina.
È importante ricordare che negli originari artt. 44 ss. dello schema di decreto delegato contenuto nella prima bozza elaborata dalla seconda Commissione Rordorf (che poi sarebbero diventati gli artt. 40 ss.) l’attenzione era stata focalizzata proprio sulla domanda riconvenzionale con la quale il debitore, evocato dall’altrui istanza di apertura della liquidazione giudiziale, avesse proposto di accedere al concordato preventivo o all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, e sugli interventi ex art. 105 c.p.c. dei legittimati a richiedere la liquidazione giudiziale nel giudizio aperto dal debitore per proporre la soluzione pattizia.
Poiché il D.Lgs. n. 14/2019 si era concentrato sulla riunione, della domanda riconvenzionale non si è parlato più, anche se niente, in realtà (se non il modo in cui veniva sviluppandosi dal punto di vista tecnico il procedimento unitario telematico, all’epoca ancora in fase di realizzazione), impediva di immaginarne la proposizione nel giudizio aperto dal ricorso dell’art. 40.
Nel D.Lgs. n. 83/2022 il legislatore ha fatto due scelte.
È andato oltre la formulazione originaria dell’art. 7, che ha modificato precisando quale fosse il rito delle più domande riunite, e ha chiarito, introducendo i commi 9 e 10 dell’art. 40, come le varie istanze volte alla sistemazione della crisi o all’apertura della liquidazione giudiziale possano anche confluire nel giudizio pendente. In entrambi i casi, lo si è già ricordato menzionando l’art. 47, comma 4, il giudice si pronuncia sulle diverse domande con unico provvedimento, avente sempre la forma della sentenza. Non vi è mai, infatti, nell’unico contesto processuale, alcuna previsione di separazione delle decisioni, neppure con riferimento all’ipotesi che nella legge fallimentare era regolata dall’art. 180, ultimo comma, ove si stabiliva espressamente che “il tribunale, se respinge il concordato, su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, accertati i presupposti di cui gli artt. 1 e 5, dichiara il fallimento del debitore, con separata sentenza, emessa contestualmente al decreto”.
Dunque, a dispetto di quanto ancora ritenuto da molti, quel “contenitore processuale”, menzionato dalla relazione illustrativa (riferita però alla versione originaria del Codice del 2019), non è semplicemente un modello uniforme per la trattazione di diversi procedimenti che, sebbene riuniti tra loro, rimangono formalmente distinti e in cui l’unico elemento comune è la disciplina del ricorso. Esso è, piuttosto – o vorrebbe essere - un unico contesto processuale per la trattazione, istruzione, decisione e impugnazione delle diverse domande, che in primo grado rispondono a una disciplina in parte uniforme e in parte specifica per poi coordinarsi definitivamente in fase di impugnazione grazie agli artt. 51, 52 e 53. Senza nulla togliere agli elementi che distinguono le procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, infatti, l’unicità del contesto processuale dovrebbe consentire, fin dal primo grado, la circolazione del materiale istruttorio, la gestione unitaria delle udienze e quella visione complessiva delle alternative che, arrivati al giudizio di impugnazione, è assicurata dall’unica pronuncia conclusiva del processo.
Il principale ostacolo a una vera trattazione unitaria in primo grado non è nelle norme ma è nel modo in cui è stato strutturato, prima dell’intervento del D.Lgs. n. 83/2022, il flusso delle procedure nel registro informatico con le numerazioni subalterne, per cui il procedimento unitario che nasce col primo ricorso ha una numerazione di registro generale principale, e le procedure, definiti “procedimenti dichiarativi”, hanno una numerazione subalterna che le tiene distinte (alla quale si aggiunge la numerazione ulteriormente subalterna, rispetto al procedimento dichiarativo cui accedono, dei procedimenti cautelari e protettivi previsti dall’art. 54, commi 1 e 2). Il tutto anche senza raccordo, allo stato, col procedimento ex art. 19 CCII, nonostante quel raccordo, come diremo, sia postulato dall’art. 18, comma 4, e dall’art. 54, comma 1, per il caso di contemporanea pendenza del percorso di composizione negoziata accompagnato dalle misure dell’art. 18, comma 1, e del procedimento unitario accompagnato dalla richiesta di misure cautelari da parte dei soggetti legittimati ex art. 37 CCII. Un raccordo viceversa necessario, se si condivide la premessa, su cui tornerò, che la pendenza di un procedimento di apertura della liquidazione giudiziale non impedisce l’accesso alla composizione negoziata e che non ci sono limiti temporali per proporre l’istanza ex art. 17 CCII.
È opportuno chiarire che, sebbene ogni domanda di contenuto opposto a quella originaria – tranne quella ex art. 41, comma 5, che a mio avviso può essere proposta con semplice memoria di costituzione - debba essere introdotta con ricorso (ex art. 37, comma 1 o comma 2, a seconda dei casi, a dispetto del fatto che nei commi 9 e 10 dell’art. 40 si è ripetuto per errore il riferimento al comma 1), si è dinanzi a domande “riconvenzionali” dal momento che vengono rivolte contro l’attore originario: quindi “riconvenzionali” nel senso di contrapposte, con cui il debitore (che è già sicuramente parte del giudizio proposto per la liquidazione giudiziale) e i soggetti legittimati ex art. 37 (che sono invece soltanto parti potenziali del giudizio proposto per la regolazione pattizia della crisi) si fronteggiano per sciogliere l’alternativa postulata nell’art. 7. Dunque anche per aversi proposizione nel giudizio pendente i più ricorsi debbono comunque essere riuniti, ma la riunione (sulla falsariga dell’art. 335 c.p.c., fatte le debite differenze con le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza, e come nell’art. 2378 c.c.) determina necessariamente fusione delle cause che qui diventano un’unica causa da decidere.
Quanto all’espressione “riunione di domande”, anziché quella, tecnicamente più propria, di “riunione di cause”, è una sorta di sineddoche che il legislatore utilizza tanto per comprendervi il caso di vera e propria riunione di procedimenti avviati separatamente, quanto il caso di proposizione di domande, comunque nella forma del ricorso, nel procedimento già aperto dal ricorso del debitore o di uno dei soggetti di cui all’art. 37.
Il processo si apre sempre col medesimo ricorso, ex art. 40, sia che la domanda sia “piena”, anche di concordato semplificato, sia che sia “prenotativa” (a dispetto della formulazione imprecisa dell’art. 54, comma 4, la domanda ex art. 44, infatti, non esiste, è sempre la medesima domanda dell’art. 40, solo priva della documentazione che dovrà essere depositata, ai sensi del comma 2 dell’art. 44, nel termine fissato dal tribunale), e si conclude sempre con sentenza, tranne nel caso previsto dall’art. 50, tanto quando la domanda miri all’omologazione di uno strumento di regolazione della crisi, tanto quando miri invece all’apertura della liquidazione giudiziale. Il reclamo dell’art. 51 è una vera impugnazione, malgrado la formulazione non precipua della lett. c), che menziona i fatti e gli elementi di diritto anziché i motivi, pur nella sostanziale equivalenza tra le due espressioni, e segue le medesime regole sia che si impugni l’omologazione della soluzione pattizia, sia che si impugni la dichiarazione di insolvenza (ci torneremo, a proposito dell’intervento nel reclamo, ex art. 41, comma 9).
Non è semplice – lo si è visto già nella premessa – individuare il petitum sostanziale del ricorso ex art. 40, vista la peculiarità delle situazioni oggetto di questo particolare processo; è assai più facile limitarsi all’indicazione del petitum processuale, consistente nell’opzione per uno degli strumenti di regolazione della crisi (tranne nel caso della domanda prenotativa, dove non è richiesto di effettuare una scelta, neppure tra strumenti conservativi o liquidatori, il che spiega la non necessità di un progetto di piano, richiesto invece nella composizione negoziata dall’art. 17, comma 3, lett. b). Sta di fatto che le categorie del processo civile, sia pure piegate alle particolarità della materia e degli interessi coinvolti, sono comunque l’unico strumento che ci consente di ragionare sul contraddittorio, sulla circolazione delle prove, sulla possibilità o meno di un cumulo di domande e l’ammissibilità dell’intervento al di là dei casi disciplinati dal legislatore, o sulla natura del giudizio in cui vengano calate le domande di omologazione della soluzione pattizia e di apertura della liquidazione giudiziale.
Il comma 10 regola l’ipotesi opposta, in cui, quando già pende il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale introdotto da un soggetto diverso dal debitore, la domanda di accesso a uno strumento di regolazione può essere proposta nel medesimo procedimento, purché entro la prima udienza (a meno che non sia proposta all’esito della composizione negoziata, nel qual caso può essere proposta entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’archiviazione della stessa).
Come si è detto, con entrambe le previsioni si consente la confluenza delle domande nel procedimento già aperto. In entrambi i casi sono previsti limiti temporali ben precisi, a evitare in un caso ritardi e nell’altro caso abusi.
In entrambi i casi, se le domande sono proposte separatamente, nei medesimi limiti temporali previsti per la domanda che confluisce nel procedimento unitario pendente, il tribunale le riunisce, anche d’ufficio, a quello già pendente.
Nel caso della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, non è chiarito quel che accade quando il procedimento penda in grado di reclamo. L’ipotesi più complicata è quella della domanda proposta separatamente, che non è espressamente regolata se non con riferimento al primo grado. Se non si ritiene che il limite valga anche per i gradi successivi al primo, cosa che invece dovrebbe ritenersi preferibile per evitare binari paralleli, si dovrebbe ragionare sull’applicazione dell’art. 337 c.p.c.; quanto invece alla possibilità di intervenire nel giudizio di reclamo, la si dovrebbe ritenere limitata (ex art. 51, nono comma) all’intervento adesivo dipendente senza possibilità di proposizione di istanza autonoma, e perciò leggere l’art. 53, comma 5, come riferito alla domanda di uno dei soggetti legittimati che fossero già parti del giudizio e non a coloro che lo diventino solo per effetto dell’intervento. Ma è stata proposta anche una diversa soluzione, secondo cui l’art. 53, comma 5, legittimerebbe la formulazione della domanda di liquidazione direttamente in sede di reclamo (mentre l’art. 51, nono comma, a mio avviso legittima solo l’intervento adesivo dipendente e non consente la proposizione di domande).
Se la domanda proposta per seconda è quella di accesso a uno strumento di regolazione della crisi, la domanda, oltre la prima udienza del primo grado, non può essere proposta neppure autonomamente sino alla “conclusione” di quel procedimento. Il termine “conclusione” deve intendersi come definizione con provvedimento irrevocabile, dal momento che, una volta chiuso il giudizio in primo grado, l’alternativa tra liquidazione giudiziale e strumenti di regolazione della crisi è disciplinata esclusivamente dalla previsione dell’art. 53.
Anche quando l’imprenditore è insolvente, purché la sua condizione sia reversibile, egli ben può entrare nel percorso degli artt. 12 ss., che, come spiega chiaramente il decreto dirigenziale previsto dall’art. 13, comma 2, si regge sull’idea che la sua funzione sia quella di verificare la perseguibilità del risanamento attraverso le trattative. Tant’è vero che, per ricostruire il tipo di verifica rimessa al Tribunale negli artt. 19 e 22 bisogna considerare che non vi è una situazione statica, affrontata con una proposta di soddisfacimento dei creditori sulla quale un organo della procedura formuli una valutazione, come accadrebbe in un concordato preventivo, ma vi è piuttosto una situazione dinamica, in cui l’esperto che non abbia archiviato immediatamente è chiamato a esprimersi, a seconda dei casi, sulla funzionalità al buon esito delle trattative (per le misure protettive) e sulla coerenza a garantire la continuità aziendale e la migliore soddisfazione dei creditori (per gli atti compiuti dall’imprenditore e i finanziamenti che vengono richiesti), ma sempre tenendo conto del fatto che la condizione dell’impresa dipende dalla sua stessa attività quale facilitatore.
È opportuno allora precisare che l’interpretazione offerta da Trib. Siracusa 14 settembre 2022 (costruita su un apparente dato letterale che emergerebbe dal confronto tra gli artt. 2, comma 1, e 9, comma 1 D.L. n. 118/2021, riprodotti negli artt. 12, comma 1, e 21, comma 1, CCII), secondo cui l’impresa insolvente non potrebbe viceversa accedere alla composizione negoziata, non risponde affatto all’intenzione del legislatore, che non ha immaginato in alcun modo requisiti di accesso (dirò tra poco anche della corretta lettura che dev’essere data dell’art. 25 quinquies), ma ha inteso prevedere piuttosto i) da un lato, all’art. 9, oggi 21, quali sono le regole di gestione dell’impresa insolvente, qualunque sia il momento in cui l’insolvenza si manifesti, riprendendole dalla disciplina codicistica della garanzia patrimoniale e della responsabilità degli amministratori, tratteggiata negli artt. 2394, 2476, sesto comma, e 2497, primo comma, c.c., e distinguendole da quelle dell’art. 4 che, in pendenza invece del procedimento unitario, sono identiche tanto per l’impresa insolvente quanto per quella solo in crisi; ii) dall’altro lato, che, quando emerge che l’insolvenza non è reversibile a dispetto delle trattative, l’esperto debba chiuderle e far sì che venga disposta l’archiviazione. Il meccanismo si regge così su un sistema di pesi e contrappesi: per esempio, il fatto che, nell’art. 12, terzo comma, sia stata esclusa l’applicazione dell’art. 38, non impedisce affatto che quando, nel corso di un procedimento (e tali sono quelli previsti dagli artt. 19 e 22), emergano elementi che concretano la sussistenza di uno stato di insolvenza, operi la regola generale per cui il tribunale li indica al pubblico ministero affinché questi prenda, se ne ricorrono le condizioni, l’iniziativa per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.
Più corretta è dunque la lettura offerta da Trib. Bologna 8 novembre 2022, est. Atzori, il quale osserva che quel che conta è “non tanto il punto di partenza, ma il punto di approdo, e cioè il risanamento della impresa attraverso le trattative con i creditori, ai quali si presenta un piano che dovrebbe convincerli ad accettare la sospensione del potere di azione ex art. 2740 c.c. a fronte di una ragionevole risanabilità”.
Al tempo stesso, consentendo l’ingresso nella composizione negoziata anche in presenza di un mero squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che faccia prevedere il venir meno della continuità aziendale, l’idea primigenia della precocità della reazione alla crisi è stata enfatizzata, abilitando ad entrare in un percorso protetto anche l’imprenditore che veda la crisi come un evento soltanto probabile. In questa logica si comprende che la segnalazione dell’organo di controllo riguardi indifferentemente la situazione di squilibrio, la crisi e l’insolvenza, ma la menzione del termine di trenta giorni, entro il quale l’organo amministrativo deve riferire in ordine alle iniziative intraprese, deve intendersi come stringente solo in presenza di queste ultime due condizioni, non della prima, per la quale, oltretutto, le iniziative potranno essere anche diverse dall’accesso al percorso dell’art. 17, e limitarsi a interventi a carattere industriale.
L’art. 18, comma 4, prevede che dalla medesima data in cui iniziano a operare le misure protettive la sentenza dichiarativa dell’insolvenza non possa essere pronunciata.
È, questa, una novità originata dalla Direttiva, che ne ha ispirato l’introduzione. Il che non impedisce che il procedimento di apertura della liquidazione giudiziale si svolga, conduca eventualmente al rigetto della domanda, e, nel corso dell’istruttoria, vengano richieste misure cautelari da parte dei soggetti legittimati dall’art. 37. Il raccordo tra il divieto di avviare azioni cautelari, ottenuto nella composizione negoziata, e la possibilità di mantenere fermi invece i provvedimenti richiesti in pendenza dell’istruttoria per la dichiarazione di insolvenza o di richiederli anche dopo la pubblicazione dell’istanza del debitore volta alla conferma delle misure protettive nella composizione negoziata, è stato espressamente disciplinato dal legislatore nell’art. 18, quarto comma, con riferimento alla prima ipotesi, e nell’art. 54, primo comma, con riferimento alla seconda: in entrambi i casi al tribunale che provvede sulla domanda proposta per seconda è richiesto di tener conto delle misure concesse nella differente sede. È dunque il momento della conferma delle misure protettive, o della concessione delle misure cautelari, la sede per raccordare la composizione negoziata e il procedimento unitario, senza necessità, per evitare abusi, di immaginare invece che il raccordo avvenga sotto il profilo di una qualche preclusione temporale alla proposizione dell’istanza di accesso alla composizione quando già penda il procedimento unitario (anche per evitare che quella istanza finisca per sovrapporsi, nell’immaginario collettivo, alla domanda di concordato con riserva che nella legge fallimentare era la maniera utilizzata da molti per paralizzare l’istanza di fallimento, e venga impiegata in modo strumentale).
A proposito del rapporto tra liquidazione giudiziale e composizione negoziata, è necessario un chiarimento anche in ordine alla formulazione dell’art. 25 quinquies, che, nel prevedere i limiti di accesso alla seconda, stabilisce che l’istanza non possa essere presentata dall’imprenditore in pendenza del procedimento introdotto con ricorso depositato ai sensi dell’art. 40 (anche nelle forme della domanda prenotativa) e 54, comma 3. La norma, ripresa dall’art. 23 D.L. n. 118/2021 ma adeguata alla diversa terminologia del Codice, vuole riferirsi, come quella, al solo caso in cui il debitore abbia fatto accesso a uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza o proceda col preaccordo, mentre, in caso di pendenza di ricorsi per la liquidazione giudiziale proposti dai soggetti legittimati ex art. 37, la composizione negoziata non è impedita: ma l’aver ripreso, nel passaggio dal D.L. 118/2021 al CCII, i termini del Codice, che all’art. 40 contempla anche il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale, ha fatto ritenere agli interpreti, erroneamente, che anche quest’ultimo rappresenti un limite all’avvio della composizione. E il fatto che l’art. 17, comma 3, lett. d), preveda che chi accede alla composizione negoziata debba accludere all’istanza una dichiarazione sulla pendenza di ricorsi per l’apertura della liquidazione giudiziale e una dichiarazione con la quale attesta di non aver presentato ricorsi ex art. 40 e 54, comma 3, è stato letto come se questo confermasse una siffatta interpretazione e non, invece, nel senso opposto di smentirla (come si dovrebbe ricavare dal fatto che la norma chiede all’imprenditore di dichiarare se pendono domande di apertura della liquidazione giudiziale e non che quelle domande non pendono, come fa invece per i ricorsi di accesso a uno strumento di regolazione della crisi o per la domanda di liquidazione giudiziale che egli stesso abbia proposto).
Il problema applicativo che il Codice, all’art. 53, mirava a risolvere, in ossequio a quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lett. d), della legge delega (che chiedeva l’armonizzazione del “regime delle impugnazioni, con particolare riguardo all’efficacia delle pronunce rese avverso i provvedimenti di apertura della procedura di liquidazione giudiziale ovvero di omologazione del concordato”), non trovava, diversamente da altre questioni, una soluzione condivisa che potesse essere raggiunta ricorrendo a strumenti e categorie su cui fosse maturata una qualche consuetudine tra gli operatori.
Sul problema degli effetti sul fallimento della revoca in sede di reclamo dell’omologa del concordato e degli accordi, infatti, non si era formato un orientamento univoco nella giurisprudenza di merito, né la Cassazione aveva preso una posizione specifica: gli interpreti avevano continuato a dibattersi tra l’applicazione dell’art. 336 c.p.c., con caducazione immediata della pronuncia di primo grado riformata dalla Corte d’appello, e l’applicazione analogica, anche al concordato e agli accordi, della regola per cui gli effetti della sentenza dichiarativa dell’insolvenza si conservano fino al passaggio in giudicato della pronuncia.
Né più chiara era, peraltro, la sorte della revoca del fallimento quando la Corte d’appello, adita ex artt. 18 e 183 L. fall. (l’art. 182 bis richiamava infatti l’art. 183 in quanto compatibile), fosse stata chiamata a procedere all’omologa del concordato e degli accordi: se da un lato la Cassazione aveva affermato in linea generale che il fallimento viene meno, con la conseguente decadenza dei suoi organi, soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di revoca, dall’altro niente aveva detto con riferimento all’efficacia che allora doveva riconoscersi alla pronuncia di omologa resa in secondo grado: se cioè a questa dovesse riconoscersi o meno efficacia immediata, in applicazione dell’art. 180, comma 5, L. fall., che attribuiva sì al decreto di omologa natura provvisoriamente esecutiva, ma solo con riferimento espresso alla pronuncia resa in primo grado.
Così, la questione è stata risolta per la prima volta dal legislatore della riforma, che ha colmato un vuoto difficile da riempire con le norme della legge fallimentare.
Un problema complicato come questo, in cui, venendo in gioco gli status, gli effetti sui rapporti pendenti, l’esigenza di garantire la conservazione del patrimonio del debitore, occorreva evitare, per quanto possibile, un andare avanti e indietro degli effetti delle pronunce, richiedeva una soluzione innovativa.
Il Codice ne ha individuata una che cerca di rispondere alle esigenze della pratica.
Per superare i dubbi interpretativi che sarebbero potuti sorgere per il fatto che le pronunce che dichiarano l’insolvenza o omologano il concordato, gli accordi o il piano hanno un contenuto complesso e un’efficacia mista, in parte costitutiva in parte esecutiva, che, in assenza di norme espresse, avrebbe reso difficile stabilire il momento di produzione dell’efficacia della pronuncia, nel Codice è previsto espressamente che la sentenza, tanto di omologazione che di apertura della liquidazione giudiziale, sia immediatamente efficace, sia in primo grado che in esito al giudizio di reclamo.
Infatti, in entrambi i casi quella sentenza produce i propri effetti dalla data di pubblicazione ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p.c., mentre gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dall’iscrizione della sentenza nel registro delle imprese (artt. 48, comma 5, e 49, comma 4).
Tuttavia, per bilanciare i contrapposti interessi ed evitare i pregiudizi che potrebbero discendere dall’altalena degli effetti qualora alla riforma del provvedimento di primo grado seguisse poi la cassazione della pronuncia, si è immaginata, nel primo caso, la immediata restituzione dell’amministrazione dei beni e dell’esercizio dell’impresa al debitore, sia pure sotto la vigilanza del curatore (che rimane in carica fino al momento in cui diviene definitiva la sentenza che pronuncia sulla revoca) e con un regime autorizzatorio analogo a quello previsto dal previgente art. 99, comma 2, L. fall.
Si è inoltre previsto che il debitore assolva a obblighi informativi periodici disposti dalla Corte d’Appello.
Non ha ragion d’essere, a mio avviso, il dubbio della dottrina circa “la piena conformità di questa soluzione ai principi generali che riguardano, da un lato, la necessità che lo status di semicapace, nel quale finisce per trovarsi l’imprenditore che abbia ottenuto la revoca in sede di reclamo della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, trovi fondamento in una pronuncia giudiziale costitutiva, nel caso in questione del tutto assente, non potendosi considerare tale la sentenza di accoglimento del reclamo che revoca proprio la precedente sentenza di primo grado, costitutiva dello status di semicapace del debitore insolvente, e, dall’altro lato, l’effetto pienamente sostitutivo della sentenza di primo grado, che consegue all’accoglimento dell’appello (in questo caso del reclamo)”.
Il legislatore della riforma, infatti, ha dettato direttamente il principio generale da applicare al caso di specie, superando la necessità di un confronto con le diverse regole che, nel processo civile e nel diritto concorsuale, sarebbero state deputate a disciplinare la fattispecie e che non avevano saputo offrire peraltro una risposta univoca al problema della decorrenza degli effetti dell’accoglimento del reclamo.
Nel secondo caso (revoca dell’omologazione del concordato, dell’accordo o del piano), si è previsto invece che, una volta aperta la liquidazione giudiziale ad opera della Corte d’Appello, sia pure con i provvedimenti conseguenti demandati al tribunale, il debitore possa chiedere a quest’ultimo sia di sospendere i termini per la proposizione delle impugnazioni dello stato passivo (a evitare la complicazione originata dal procedere fino alla cassazione di giudizi condizionati dall’esito dell’impugnazione proposta nei confronti della sentenza della Corte d’Appello, e destinati ad essere superati dall’eventuale accoglimento di quest’ultima), sia di sospendere la liquidazione dell’attivo (qui a evitare il formarsi di situazioni incompatibili con l’accoglimento dell’impugnazione).
Per non sprecare tempo prezioso, non è invece impedita la formazione dello stato passivo con un decreto, che, essendo sospesi i termini per le impugnazioni, anche se non viene impugnato ha un’efficacia meramente provvisoria.
Con una diversa previsione - volta a intervenire, in chiave inibitoria, sull’efficacia della sentenza di primo grado nelle more del giudizio di impugnazione dinanzi alla Corte d’appello, e non già a regolarne gli effetti in caso di accoglimento del reclamo -, nell’art. 52 è stato rimodulato l’art. 19 L. fall. per meglio rispondere alle esigenze cautelari che possono sorgere in pendenza dell’impugnazione.
Si è stabilito così che, in presenza di gravi e fondati motivi (con una previsione che oggi non è più allineata all’art. 283 c.p.c., modificato nel 2022) la formazione dello stato passivo possa essere sospesa, insieme alla liquidazione dell’attivo e al compimento di atti di gestione, su istanza di parte o del curatore, e possa essere disposta altresì l’inibitoria dell’attuazione del piano o dei pagamenti, in caso di proposizione del reclamo avverso la sentenza che dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale o che pronuncia sull’omologazione. Si tratta di misure lato sensu cautelari, non reclamabili né ricorribili per cassazione (come del resto i provvedimenti sull’esecuzione provvisoria delle sentenze nel codice di rito), disposte dalla Corte d’Appello.
L’art. 52 di per sé non contempla una inibitoria per il caso in cui sia proposto ricorso per cassazione, né nel nuovo sistema aveva senso invocare per analogia l’art. 373 c.p.c., dal momento che l’art. 53 già regola quel che accade, dopo l’accoglimento del reclamo, in caso di revoca della liquidazione giudiziale o dell’omologa del concordato e degli accordi. Tuttavia, col decreto correttivo del 2020, senza modificare l’art. 52 (che è rimasto invariato, a disciplinare le sole esigenze cautelari in pendenza di reclamo) sono state inserite, nell’art. 51, al comma 14, dopo le parole “il ricorso per cassazione non sospende l’efficacia della sentenza”, le seguenti: “salvo quanto previsto dall’articolo 52, in quanto compatibile”. Per evitare ogni equivoco, il decreto di recepimento della Direttiva ha chiarito che la previsione è destinata ad operare per il solo caso di conferma (e non di riforma) della sentenza di primo grado da parte della Corte d’appello.
Il procedimento unitario, se correttamente inteso, permette al giudice, tanto nel caso di riunione quanto nel caso di domande proposte nel medesimo giudizio, una visione d’insieme delle diverse istanze, e una trattazione nel rispetto dei principi del contraddittorio, qualunque sia la natura dei giudizi che vedono svilupparsi le distinte domande (il procedimento aperto col ricorso ex art. 40 può snodarsi infatti, a seconda dei casi, in una fase di omologazione, in cui il provvedimento del giudice entra nella fattispecie negoziale per attribuirle efficacia, o in una dichiarazione di insolvenza, della quale si predica la natura contenziosa).
L’art. 7, secondo comma, CCII, trova la sua declinazione tanto in primo grado, negli artt. da 40 a 49, quanto nello svolgersi nel tempo della vicenda processuale, e perciò nei gradi di impugnazione, sia nell’art. 51 che disciplina reclamo e ricorso per cassazione verso l’unica sentenza che conclude il procedimento anche quando l’unitarietà sia frutto della riunione di ricorsi proposti separatamente, sia, soprattutto, negli artt. 52 e 53, scritti per bilanciare le esigenze di difesa del soccombente con le esigenze di tutela del vincitore, ma anche, al tempo stesso, per tener conto del fatto che la conservazione fino al passaggio in giudicato dell’efficacia provvisoria della pronuncia di primo grado che disponga l’omologazione o che apre la liquidazione giudiziale si scontra con l’ingiustizia del perdurare di una situazione di fatto difforme dal modo d’essere del rapporto sostanziale quale ritenuto dal provvedimento del grado successivo del giudizio.
In tutte queste norme il legislatore ha cercato di tratteggiare un sistema processuale coerente: ora spetta agli interpreti cercare di trovare le soluzioni alle questioni più delicate che, comunque, qualunque legge nuova porta con sé.