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Saggio

Il cd. procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza*

Rinaldo d’Alonzo e Francesco De Santis, Giudice nel Tribunale di Larino e Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Salerno

4 Ottobre 2022

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Lo scritto è destinato, con eventuali variazioni, allo Speciale di Diritto della crisi, di prossima pubblicazione, dal titolo “Studi sull’avvio del Codice della crisi” a cura di Laura De Simone, Massimo Fabiani e Salvo Leuzzi.
*Pur essendo frutto di comuni riflessioni e soluzioni condivise, i parr. 1-4.4. sono stati curati da F. De Santis; i parr. 5 ss da R. d’Alonzo.
Il procedimento unitario ambisce ad essere il “contenitore” processuale unico, nel quale confluiscono tutte le domande (pattizie e non) di regolazione per via giudiziale della crisi e dell’insolvenza. All’interno del contenitore possono, pertanto, aprirsi segmenti processuali ben distinti, ancorché in molti passaggi tra loro concorrenti, ciascuno sorretto da regole e logiche proprie, non sempre coerenziate. Lo scritto propone una prima analisi del contenitore, evidenziandone la genesi sistematica e normativa, l’impianto, gli sviluppi ed i possibili sbocchi, al cospetto di un costrutto processuale che si presenta sin d’ora tanto raffinato nella fattura, quanto complesso nell’interpretazione ed intricato nell’applicazione. 
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1 . Il procedimento unitario come “strumento di regolazione”
Il Capo IV del Titolo III del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (il CCII, il Codice) reca – secondo la tassonomia implementata dal D.lgs. 17 giungo 2022, n. 83 – la disciplina dell’ “accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale”.
Nelle tre Sezioni che lo compongono, sono inserite le norme sulla “iniziativa per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale” (artt. 37-39), sul “procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale” (artt. 40-53), e sulle “misure cautelari e protettive” (artt. 54-55).
Secondo la più recente declinazione di siffatta tassonomia, si tratta di “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” (tale è la rubrica del Titolo III), o sarebbe meglio dire di strumenti “processuali” (ovvero “procedimenti”) finalizzati alla detta “regolazione”.
Diversamente, la rubrica del successivo Titolo IV (“Strumenti di regolazione della crisi”) sembra evocare una disciplina di rango “minore”, finalizzata alla regolazione della sola “crisi” d’impresa, a dispetto del fatto che essa contiene le norme sui presupposti e sulle caratteristiche degli strumenti “pattizi” di regolazione tanto della crisi, che dell’insolvenza (accordi, piani, procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, concordati), nonché le norme sugli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società” (così la rubrica della Sezione VI bis del Titolo IV); e del fatto che ivi si richiamano, attraverso intrecci normativi di non irrilevante complessità sistematica, le regole del precedente Titolo III.
Infine, tutte le citate disposizioni mettono capo ai “principi di carattere processuale” (così la rubrica della Sezione III del Capo II del Titolo I), contenuti nelle disposizioni generali del Codice, e specialmente, per quanto qui ci occupa, alle previsioni (oggi si direbbe “di vertice”) contenute nell’art. 7, posto a presidio della “trattazione unitaria delle domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alle procedure di insolvenza”.
Il leitmotiv di questo plesso di norme processuali (il cui intricato, ma non sempre coerenziato, costrutto sistematico emerge prima facie dal dedalo delle rubriche, titoli, sezioni e capi in cui esse si articolano) è, dunque, rappresentato dal lemma “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”[1], che l’art. 1, lett. m bis), del CCII (introdotta dal D.Lgs. n. 83/2022) definisce come “le misure, gli accordi e le procedure volti al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, oppure volti alla liquidazione del patrimonio, o delle attività che, a richiesta del debitore, possono essere preceduti dalla composizione negoziata della crisi”.
Nell’àmbito di siffatti “strumenti” è da collocarsi anche il “procedimento unitario”, che – per restare alla semantica della legge – ad essi consente l’“accesso”; l’illustrazione che segue propone un primo tentativo di lettura delle norme di nuovo conio, con riferimento al giudizio (rectius: ai giudizi) di primo grado.
2 . Il procedimento unitario ed il suo “doppio” (o “triplo”)
Il procedimento unitario trova il suo fondamento nell’art. 2, comma 1, della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155.
La norma impone(va), tra l’altro, di adottare (ad instar dell'art. 15 l. fall.) un “unico modello processuale per l'accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore”, avente “caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo”, e “disciplinando distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all'apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive e oggettive”[2].
Di più generico tenore è la Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio (cd. Direttiva Insolvency), sulla cui base è stato emanato il D.Lgs. n. 83/2022 (“correttivo” o “integrativo” del CCII, che dir si voglia); la Direttiva, nell’art. 25, comma 1, lett. b), si limita a disporre che “il trattamento delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione avvenga in modo efficiente ai fini di un espletamento in tempi rapidi delle procedure”.
Le norme di vertice non imponevano, dunque, l’implementazione di un unico procedimento, bensì di un unico “modello processuale”, ispirato a caratteristiche di celerità e di efficienza.
Nella Relazione governativa allo Schema di D.Lgs. (da cui è scaturito il CCII), a suo tempo presentato alle Camere al fine di riceverne il prescritto parere parlamentare[3], si legge un’eloquente dichiarazione d’intenti, secondo la quale “è stato previsto un procedimento ‘unitario’ di accertamento giudiziale della crisi e dell’insolvenza, che costituisce, in via generale, una sorta di contenitore processuale uniforme delle iniziative di carattere giudiziale fondate sulla prospettazione della crisi o dell’insolvenza, fatte salve le disposizioni speciali riguardanti l’una o l’altra di tali situazioni”.
Il Codice istituisce, in effetti, un “contenitore” processuale unitario, destinato alla confluenza di tutte le domande, anche contrapposte, presentate dai soggetti legittimati; l’oggetto della “regolazione”, portato dalla domanda, può essere di grado maggiore o minore, a seconda che si chieda l’apertura della liquidazione giudiziale, piuttosto che l’omologa dello strumento pattizio.
Il procedimento, però, non è realmente unitario, atteso che (come infra meglio si dirà) il primo grado del giudizio – dopo l’introduzione della domanda nel contenitore unitario – è caratterizzato dalla diversificazione dei percorsi processuali, a seconda che si intenda accedere alla regolazione pattizia o a quella liquidatoria. Esso si unifica, ma soltanto in parte, nelle fasi di gravame, pur sempre distinguendo il rito del reclamo avverso il rigetto della domanda di apertura della liquidazione giudiziale dal rito del reclamo avverso la sentenza che dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale, ovvero che omologa lo strumento pattizio.
Possiamo, dunque, dire che se il contenitore processuale è unitario, di sicuro non lo è il procedimento.
Quest’ultimo è stato, invero, strutturato nel senso che “anche se la domanda è disciplinata alla stessa maniera dall’art. 40 (‘il ricorso deve indicare l’ufficio giudiziario, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni ed è sottoscritto dal difensore munito di procura’, con l’eccezione del procedimento di liquidazione giudiziale nel quale il debitore può stare in giudizio personalmente), i procedimenti sono tenuti distinti, e regolati da norme differenti, a seconda che si tratti del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale (art. 41) o del procedimento di accesso ad una procedura di regolazione concordata della crisi (art. 44), e la trattazione unitaria è garantita piuttosto dall’art. 7, per il quale ‘le domande dirette alla regolazione della crisi o dell’insolvenza sono trattate in via di urgenza e in un unico procedimento’, ma – sembra questa l’unica forma ipotizzata per arrivare al risultato - grazie al fatto che “ogni domanda sopravvenuta va riunita a quella già pendente”. Si ha perciò la riunione dei procedimenti e non un vero e proprio procedimento unico, anche se, per il modo in cui ne è disciplinato lo svolgimento si arriva comunque ad un unico provvedimento conclusivo, che ha sempre la forma della sentenza e non del decreto, anche qualora il giudice decida dell’omologazione e non dell’apertura della liquidazione”[4].
Allora, “se l’obbiettivo perseguito dal legislatore delegante era quello dell’unitarietà del percorso di accesso a dette procedure ciò che si richiedeva era l’unitarietà del segmento processuale sfociante nel provvedimento di apertura o ammissione di/a quelle procedure medesime, non l’unitarietà dei successivi segmenti di gravame”[5]. 
D’altro canto, giammai avrebbe potuto trattarsi di procedimento unitario.
A dispetto di quanto si legge nei lavori preparatori, all’effettiva unitarietà del procedimento ostava (ed osta) la differente natura dei segmenti processuali che scandiscono la trattazione delle distinte domande destinate a confluire nel contenitore unitario: il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale è un giudizio a cognizione piena, ancorché semplificata; sono invece a carattere sommario le fasi di concessione e revoca del termine per la presentazione della proposta, del piano e degli accordi, nonché di apertura del concordato preventivo; è, invece, nuovamente a cognizione piena semplificata il giudizio di omologazione dello strumento pattizio di regolazione della crisi e dell’insolvenza[6].
L’impressione è che il legislatore delegato abbia ritenuto (o forse si sia illuso) che tanto più complesso è il meccanismo processuale, tanto maggiore è la possibilità che il processo sia destinato ad essere “virtuoso”, e che non si sia avveduto fino in fondo della pluralità di snodi processuali che possono aprirsi dopo l’iniziale confluenza in un unico contenitore di riti aventi natura e finalità diverse.
3 . La legittimazione ad agire
Il processo per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza si origina sempre da una domanda di parte.
Il Codice declina una legittimazione ad agire “plurale”, che tiene conto della possibile varietà degli interessi coinvolti nei processi di regolazione della crisi d’impresa.
Si tratta, innanzi tutto, di interessi privati, in quanto derivanti dall’impossibilità per il ceto creditorio di ottenere soddisfazione delle proprie pretese in maniera diversa (e meno invasiva) della liquidazione concorsuale, oppure dall’esigenza del debitore di affidare agli organi concorsuali una “ragionata” ed “ordinata” soluzione di quelle pretese.
Ma si tratta di interessi anche pubblici (soprattutto se connessi o propedeutici alla repressione di reati), affidati alla gestione del pubblico ministero, alle autorità “tutorie” di vigilanza ed agli organi di controllo interni delle società.
La legittimazione ad introdurre la domanda appartiene innanzi tutto, con riferimento a tutti gli strumenti di regolazione previsti dal CCII, al debitore.
Il D.Lgs. n. 83/2022 ha previsto (implementando il comma 2 dell’artt. 40 del Codice) che, per le società, la domanda di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è approvata e sottoscritta a norma dell'articolo 120 bis del Codice. Tale norma prevede che la presentazione della domanda è decisa, in via esclusiva, dagli amministratori (unitamente al contenuto della proposta ed alle condizioni del piano, se si tratta dell’accesso ad uno strumento pattizio); gli amministratori che hanno la rappresentanza dell’ente provvedono, poi, anche alla sottoscrizione della domanda presentata in tribunale[7]. Dall’iscrizione della decisione nel registro delle imprese e fino alla omologazione, gli amministratori non possono essere revocati se non per giusta causa (con delibera soggetta ad approvazione del tribunale delle imprese, sentiti gli interessati), fermo rimanendo che non costituisce giusta causa di revoca la presentazione di una domanda di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza “in presenza delle condizioni di legge”.
Il comma 5 dell’art. 120 bis legittima altresì i soci, che rappresentano almeno il dieci per cento del capitale, alla presentazione di proposte concorrenti di concordato preventivo ai sensi dell’art. 90; malgrado la norma preveda che “la domanda” sia sottoscritta da ciascun socio proponente, in realtà non si tratta di una domanda di accesso allo strumento, atteso che, ai sensi dell’art. 90, la proposta concorrente può essere presentata non oltre trenta giorni prima della data iniziale stabilita per la votazione dei creditori, dunque nel corpo di un procedimento (strumento) già incardinato.
Le regole che disciplinano la deliberazione della domanda di accesso delle società allo strumento di regolazione sono, infine, estese dall’art. 120 bis, comma 6, agli imprenditori collettivi diversi dalle società, in quanto compatibili[8]. 
Con specifico riferimento, poi, alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale, la relativa legittimazione appartiene – oltre che al debitore – ai creditori ed al pubblico ministero; l’art. 37 CCII ha implementato tale elenco, rispetto a quello contenuto nell’art. 6 L. fall., aggiungendovi la legittimazione degli organi e delle autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull'impresa.
Il pubblico ministero – che, ai sensi dell’art. 38, presenta il ricorso per l'apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza – è altresì parte “necessaria” (rectius “automatica”) di tutti gli strumenti di regolazione, atteso che, ai sensi dell’art. 40, comma 3, qualsiasi domanda di accesso alle procedure è trasmessa dal cancelliere, unitamente ai documenti allegati, al pubblico ministero. Il P.M. può altresì intervenire in tutti i procedimenti per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza o a una procedura di insolvenza (art. 38, comma 3)[9].
Questi principi normativi si riverberano, a rime incrociate, sull’instaurazione del contraddittorio nelle fasi d’impugnazione (giudizi di reclamo ex artt. 50 e 51 CCII; processo di cassazione). E’ fuor di dubbio, infatti, che nei giudizi di impugnazione il P.M. continui ad essere parte necessaria (come tale destinatario della notifica dell’atto introduttivo). Nondimeno, nel caso di apertura della liquidazione giudiziale, la legittimazione attiva al reclamo ex art. 51 CCII deve essere negata al pubblico ministero, per la ragione che la legge gli riconosce il potere di instare per l’apertura della liquidazione giudiziale, ma non per la revoca della stessa.
Ai sensi dell’art. 50, comma 1, la legittimazione ad impugnare gli spetta, invece, pleno jure nell’ipotesi di rigetto della domanda di liquidazione giudiziale da parte del tribunale. Si deve altresì ritenere che al P.M. spetti il potere d’impugnare per cassazione la pronunzia di accoglimento del reclamo ex art. 51, nonché di rigetto del reclamo, introdotto da lui (o da altri legittimati) ex art. 50 CCII[10].
4 . La trattazione unitaria delle domande di regolazione
All’interno dell’inedita disciplina processuale di cui sopra, l’art. 7 del Codice marca un importante principio di vertice, che è il seguente: vuoi che si chieda l’apertura della liquidazione giudiziale, vuoi che si chieda l’accesso ad uno strumento pattizio di regolazione della crisi o dell’insolvenza, il contenitore processuale in cui versare tali iniziative sarà sempre il medesimo. L’unica “porta” di accesso al contenitore è quella prevista dall’art. 40 CCII (norma, quest’ultima, sulla quale è intervenuto in maniera rilevate il D.Lgs. n. 83/2022).
Il principio portante è, dunque, quello della trattazione unitaria (“in un unico procedimento”) delle domande.
Il combinato disposto degli artt. 7 e 40 (in parte qua) declinano questo principio attorno a quattro assi a loro volta portanti: il “concorso” tra domande; il principio “di priorità” delle domande di regolazione pattizia; i limiti temporali alla proposizione delle domande; la “passerella” da una domanda all’altra.
È bene altresì precisare che il procedimento unitario si svolge davanti al tribunale in composizione collegiale (art. 40, comma 1), e che restano fuori dal contenitore unitario le vicende giudiziali della composizione negoziata (la quale non è inclusa nel numerus degli “strumenti di regolazione”, ma eventualmente può precederli), che sono di competenza del giudice monocratico (cfr. artt. 18-20, 22 CCII).
4.1 . Il “concorso” tra domande
L’art. 7, comma 1, del Codice prevede, come si è detto, che le domande dirette alla regolazione della crisi o dell’insolvenza siano trattate in un unico procedimento; a tal fine ogni domanda sopravvenuta è riunita a quella già pendente.
Il meccanismo è piuttosto complesso, perché deve tener conto della confluenza e della regolazione in quell’unico contenitore di domande non sempre convergenti, anzi spesso di opposto tenore, prestandosi a sbocchi flessibili.
Il contenitore agevola la soluzione dei problemi di coordinamento tra l’incedere processuale dei diversi strumenti, tenuto conto della frequente sovrapposizione che, sotto l’ègida della legge fallimentare, si è verificata tra il procedimento di ammissione al concordato preventivo (o all’accordo di ristrutturazione) e l’istruttoria prefallimentare.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno da tempo regolato tale snodo processuale, dettando il principio (che ha trovato pacifica applicazione nella prassi) per il quale, in pendenza di un ricorso per concordato preventivo, ordinario o con riserva, il fallimento del debitore (su istanza del creditore o su richiesta del P.M.) può essere dichiarato soltanto quando il tentativo concordatario si chiude con un esito negativo, diverso dall’ammissione alla procedura o dall’omologazione[11].
Tale regola si è affermata a prescindere da ogni considerazione sul (controverso) rapporto tra domanda di soluzione pattizia e domanda di apertura della liquidazione concorsuale, segnatamente se esso debba essere declinato secondo lo schema della pregiudizialità-dipendenza ex art. 295 c.p.c., ovvero della continenza ex art. 39, comma 2, c.p.c. (soluzione, quest’ultima, indicata delle Sezioni Unite del 2015).
Stando così le cose, dato che il CCII non prevede (e, per quanto sopra si è detto, neppure potrebbe prevedere) un rito uniforme (ovvero unico) per tutte le domande di regolazione, a noi sembra che, in parte qua, la disciplina di nuovo conio poco o nulla aggiunga ai risultati già in precedenza attinti dal diritto vivente.
Si è osservato che, se anche il contenitore unitario non vi fosse, la soggezione di domande tra loro connesse (o, semplicemente, “imparentate”) a riti diversi, non sarebbe causa di impedimento della riunione, all’uopo semplicemente bastando individuare o sancire la prevalenza di uno di quei riti rispetto agli altri, ai sensi dell’art. 40 c.p.c.[12].
Vero è che – piuttosto che di “riunione” (secondo la semantica del CCII), o anche di “continenza” (secondo le indicazioni delle Sezioni Unite del 2015) – qui è a parlarsi di “coordinamento” tra domande, stante il fatto che queste ultime danno ingresso a riti tra loro non omologabili quanto a natura giuridica ed a risultati di tutela (cognizione sommaria versus cognizione piena), ed a cause non contemporaneamente trattabili.
4.2 . Il principio “di priorità” delle domande di regolazione pattizia
Fermo il principio della domanda, l’art. 7, comma 2, del Codice (come modificato dal D.Lgs. n. 83/2022) prevede che, nel caso di proposizione di più domande di regolazione avente contenuto diverso, il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, a condizione che: a) la domanda medesima non sia manifestamente inammissibile; b) il piano non sia manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati; c) nella proposta siano espressamente indicate la convenienza per i creditori o, in caso di concordato in continuità aziendale, le ragioni dell’assenza di pregiudizio per i creditori.
Il requisito sub a) èvoca valutazioni di tenore processuale; i requisiti sub b-c) implicano valutazioni di merito, tarate sulla più “evoluta” declinazione dei presupposti di omologazione degli strumenti negoziali di accesso alla soluzione della crisi (in specie il concordato con la continuità aziendale) implementati da D.Lgs. n. 83/2022.
La norma affida, pertanto, al tribunale il potere/dovere di sanzionare in limine l’abuso dello strumento di regolazione pattizia, mercé la dichiarazione d’inammissibilità delle domande “conservative” che si appalesino ad esempio: i) inconsistenti; ii) pretestuose; iii) inutilmente reiterate col medesimo contenuto; iv) manifestamente inaccoglibili.
Resta da stabilire – e sarà compito della giurisprudenza dipanare la matassa – se l’espressa indicazione, nella proposta che sorregge la soluzione non liquidatoria della crisi o dell’insolvenza d’impresa, della “convenienza” o (in caso di concordato in continuità aziendale) delle ragioni dell’assenza di pregiudizio per i creditori, rappresenti un requisito “formale” della domanda di accesso allo strumento (se basti cioè dichiarare: “è conveniente”; “non vi è pregiudizio”), oppure – come a noi sembra più plausibile – che la sorte della domanda nel caso concreto dipenda (al di là di un estrinseco controllo di legittimità) da una valutazione prima facie circa la convenienza (o l’assenza di pregiudizio) da parte del giudice: valutazione che potrebbe rivelarsi non sempre agevole, in assenza, a quel momento, di dati tecnico-contabili di riscontro. 
È altresì da ritenersi che le dichiarazioni e le verifiche in questione debbano essere effettuate in limine litis, ma in ogni caso dopo il deposito del piano e della proposta, non avendo alcuna attitudine a questi fini la documentazione di cui all’art. 39, comma 3, richiamata dall’art. 44, comma 1, del Codice, da depositarsi unitamente alla domanda cd. “con riserva”.
4.3 . I limiti temporali alla proposizione delle domande
Il D.Lgs. n. 83/2022, mercé l’introduzione dei commi 9 e 10 nell’art. 40 del Codice, ha inteso stabilire talune “decadenze” processuali alla presentazione della domanda di regolazione pattizia.
Si tratta di misure normative finalizzate al contenimento dell’abuso degli strumenti processuali di regolazione pattizia della crisi o dell’insolvenza.
Segnatamente:
a) il comma 9 prevede che, quando il procedimento unitario è già pendente, la domanda di apertura della liquidazione giudiziale è proposta nel medesimo procedimento e fino alla rimessione della causa al collegio per la decisione. Se la domanda di apertura della liquidazione giudiziale è proposta con separato giudizio, il tribunale la riunisce, anche d’ufficio, al procedimento pendente;
b) all’inverso, il comma 10 stabilisce che, quando è già pendente il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale introdotto da un soggetto diverso dal debitore, la domanda di accesso a uno strumento di regolazione pattizia può essere proposta, nel medesimo procedimento, ma ciò deve avvenire, “a pena di decadenza”, entro la prima udienza, e se entro il medesimo termine è proposta separatamente è riunita, anche d’ufficio, al procedimento pendente. Successivamente alla prima udienza, la domanda non può essere proposta autonomamente sino alla conclusione del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale (sempre che, ovviamente, non sia stata dichiarata l’apertura della liquidazione giudiziale)[13]. 
Mentre le previsioni del comma 9 non sembrano, a prima lettura, sollevare particolari problematiche interpretative (potendo essere intese alla stregua di una sorta di “allentamento” delle normali preclusioni alla proposizione endogiudiziale di domande nuove), le previsioni del comma 10 recano, invero, precisi limiti alla proposizione, anche in autonomo e separato giudizio, della domanda giudiziale avente ad oggetto gli strumenti di regolazione pattizia.
Di tale ultima previsione – della quale risulta evidente a tutti la (condivisibile) ratio di mitigare gli abusi dello strumento giudiziale regolatorio – andrebbe nondimeno valutata la coerenza con l’art. 24 Cost., posto che (da un punto di vista logico, prima ancora che giuridico) non pare che si possa predicare a priori l’astratta abusività di qualsiasi domanda di regolazione pattizia presentata dopo la prima udienza del giudizio per l’apertura della liquidazione giudiziale.
E’ perciò da chiedersi se il legislatore delegato (non compulsato verso l’una o l’altra opzione dalle previsioni del diritto eurounitario) non potesse, per caso, mettere in campo tecniche diverse di contenimento dell’abuso, ad esempio (così come è accaduto finora nella pratica) affidandosi alla valutazione giudiziale – da condurre caso per caso, anche dopo la prima udienza – dell’ammissibilità della domanda di regolazione pattizia introdotta nella pendenza del giudizio per l’apertura della liquidazione giudiziale. 
4.4 . La “passerella” tra domande e procedure
Lo sbocco del procedimento unitario può essere l’omologazione di un patto o l’apertura della liquidazione universale.
L’ultimo comma dell’art. 7 del Codice regola il passaggio dal procedimento per la soluzione pattizia a quella per la soluzione liquidatoria.
Difatti, nell’ipotesi in cui le domande pattizie di regolazione della crisi non siano accolte, ed in tutti i casi in cui la domanda è inammissibile o improcedibile (nonché nei casi previsti dall’articolo 49, comma 2[14]), il tribunale dispone l’apertura della liquidazione giudiziale, sempre che vi siano domande in tale senso e sia stato accertato lo stato di insolvenza dell’impresa.
A dispetto di qualche “incertezza” sorta sul punto nel corso dei lavori preparatori della legge delega[15], il Codice ha, infatti, tenuto fermo il principio secondo cui l’apertura della liquidazione giudiziale, al pari delle regolazioni pattizie, esige sempre la proposizione di una domanda da parte dei soggetti legittimati, non essendo ammessa alcuna iniziativa officiosa.
5 . Il regime della competenza
La domanda giudiziale di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza o volta alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale si propone dinanzi al tribunale in composizione collegiale, individuato in forza dei criteri declinati dall’art. 27 del Codice, per cui sarà competente il foro nel cui circondario il debitore ha il centro dei propri interessi principali (comma 2)[16], a meno che non si tratti di imprese in amministrazione straordinaria o di imprese di rilevante dimensione, nel qual caso sarà competente il tribunale sede delle sezioni specializzate in materia di impresa (comma 1). Il tutto con la precisazione, contenuta nell’art. 28 (ma presente, seppur con un’articolazione meno raffinata, nell’art. 9 L. fall., dove si parlava, più semplicemente, di “trasferimento della sede”), per cui il trasferimento del centro degli interessi principali (come individuato dall’art. 27) non rileva ai fini della competenza quando è intervenuto nell’anno antecedente al deposito della domanda di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi o di apertura della liquidazione giudiziale.
La disposizione in parola deve essere letta congiuntamente all’art. 2, comma 1, lett. m), laddove il centro degli interessi principali del debitore” (COMI) viene definito come “il luogo in cui il debitore gestisce i suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi”[17]. 
Si registra dunque, sotto questo profilo, un’impostazione generale che si pone in linea di continuità con la legge fallimentare, nel senso che la competenza non si radica in base al al petitum od alla causa petendi (e quindi in base alla specifica procedura alla quale si richiede l'accesso) quanto piuttosto in forza dei dati oggettivi riferiti all'organizzazione dell’impresa (e, in generale, del debitore) in modo unitario per tutte le «procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza»[18].
Tali regole presidiano anche la individuazione del giudice competente a trattare le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, (ristrutturazione dei debiti del consumatore, concordato minore e liquidazione controllata del sovraindebitato), come definite dalla rubrica del Capo II del Titolo IV, atteso che l'applicazione “per quanto non specificamente previsto” delle disposizioni del Titolo III “in quanto compatibili” e dunque, tra esse, anche a quelle in tema di competenza, è disposto espressamente dagli artt. 65, comma 1° e dall’268 (a proposito della liquidazione controllata del sovraindebitato), comma, comma 1 che con disposizione forse superflua (bastevole essendo quella di cui all’art. 65), richiama esplicitamente il “tribunale competente ai sensi dell’art. 27, comma 2”.
Vanno poi richiamati gli artt. 286, comma 1, e 287, comma 4, che disciplinano, rispettivamente, la competenza per il concordato preventivo di gruppo e per la liquidazione giudiziale di gruppo[19].
In particolare, per il concordato di gruppo, il primo comma dell’art. 286 prevede che se le diverse imprese del gruppo hanno il proprio centro degli interessi principali in circoscrizioni giudiziarie diverse, è competente il tribunale nel cui circondario ha il centro degli interessi principali la società o ente o persona fisica che, in base alla pubblicità prevista dall’articolo 2497 bis c.c., esercita l’attività di direzione e coordinamento oppure, in mancanza, il tribunale in cui ha il centro degli interessi principali l’impresa che presenta la maggiore esposizione debitoria in base all’ultimo bilancio approvato prima della presentazione della domanda[20]. 
Con riferimento alla liquidazione giudiziale di gruppo, l’art. 287, comma 4, dispone che è competente il tribunale dinanzi al quale è stata depositata la prima domanda di liquidazione giudiziale; se il criterio cronologico non può operare (poiché le diverse imprese del gruppo hanno contestualmente depositato domanda di liquidazione giudiziale), soccorrono i criteri per la individuazione del tribunale competente per il concordato preventivo di gruppo, sopra richiamate.
Stesso discorso vale per la procedura di liquidazione coatta amministrativa, disciplinata dal Titolo VII del Codice, atteso che l'art. 297, comma 1, contiene sì un'autonoma disposizione in tema di competenza, ma coincidente con quella generale di cui all'art. 27, atteso che anche qui si fa riferimento al criterio di collegamento del “centro degli interessi principali”.
6 . Delibazione, sottoscrizione e presentazione della domanda
L'atto introduttivo di ogni domanda è un ricorso che, ove presentato da una società, deve essere approvato e sottoscritto a norma dell’art. 120 bis CCII[21], il quale, come si è sopra detto, a sua volta dispone che: i) l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori, unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano; ii) la decisione deve risultare da verbale redatto da notaio e deve essere depositata ed iscritta nel registro delle imprese; iii) la domanda di accesso è sottoscritta da coloro che hanno la rappresentanza della società.
È pertanto soppressa, in subiecta materia, la possibilità di deroghe statutarie alla competenza degli amministratori, e ciò in sintonia con il ridisegnato art. 2086 c.c., a mente del quale “l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale” costituisce uno specifico obbligo gestorio da adottarsi da parte dell’organo amministrativo[22]. Va avvertito, inoltre, che il verbale notarile è necessario per la sola decisione di attivare il procedimento, mentre la determinazione del contenuto del piano (che nelle ipotesi di domanda “in bianco” segue a distanza di tempo dalla prima), soggiacerà ai requisiti di forma previsti per lo specifico tipo societario.
Ove la domanda sia presentata dal debitore è necessario che alla stessa sia allegata il corposo corredo documentale di cui all’art. 39, assai più ricco di quello indicato dall’art. 14 L. fall.
Vanno fatte alcune precisazioni relative alla necessità della difesa tecnica e dell’esternazione della domanda.
6.1 . La difesa tecnica
Ogni domanda deve essere depositata con il ministero di un difensore.
Lo si comprende agevolmente leggendo l’art. 40, comma 2, del Codice, il quale richiede che il ricorso sia sottoscritto da un difensore munito di procura. Probabilmente per argomentare in tal senso sarebbe stata sufficiente la previsione di cui all’art. 9, a mente del quale "salvi i casi in cui non sia previsto altrimenti, nelle procedure disciplinate dal presente codice, il patrocinio del difensore è obbligatorio"; ad ogni buon conto, la precisazione dissipa ogni dubbio, e per una volta dormientibus iura succurrunt.
Sennonché, il successivo comma 5 dispone che (solo) nel procedimento di liquidazione giudiziale il debitore può stare in giudizio personalmente.
Questa scelta, che eredita sul punto la tradizione della legge fallimentare, desta qualche perplessità[23].
Secondo i lavori preparatori, la sua ratio si anniderebbe nell'esigenza di "non imporre, da un lato, ad un imprenditore già impossibilitato ad adempiere alle proprie obbligazioni, di doversi necessariamente munire di un difensore per adempiere ad un vero e proprio obbligo giuridico, qual è quello di non aggravare la situazione di insolvenza e, dall'altro, in considerazione della necessaria speditezza del procedimento che ha ad oggetto l'accertamento dello stato di insolvenza. Anche la giurisprudenza ha sempre affermato che il diritto di difesa del debitore va esercitato nei limiti compatibili con le regole del procedimento, che ha carattere sommario e camerale e che a tal fine è sufficiente che egli, informato dell'iniziativa assunta nei suoi confronti e degli elementi su cui questa è fondata, compaia davanti al giudice relatore all'uopo nominato, per contestare la sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi per l'apertura della procedura concorsuale"[24].
In realtà, dalla considerazione dell’id quod plerumque accidit ci pare di poter ricavare il convincimento per cui il legislatore, certamente ispirato da nobili intenzioni, in realtà si sia posto un problema che di fatto (almeno in parte) non esiste.
Va infatti osservato che, nel procedimento prefallimentare, salvo il caso marginale in cui fosse lo stesso debitore ad attivarsi (nel qualcaso si dovrebbe immaginare un imprenditore che si prenda la briga di chiedere la propria liquidazione giudiziale senza farsi assistere da un difensore), il debitore rivestiva di norma la posizione processuale di convenuto (rectius: resistente), e la prassi ha insegnato che costui, quando non ha interesse a contestare la domanda (del creditore o del pubblico ministero) normalmente non compare neppure all’udienza fissata dal collegio, e, nei casi in cui ciò accade, la sua presenza è quella di uno spettatore mero.
Viceversa, il debitore che intenda convintamente opporsi all’iniziativa intrapresa ai suoi danni è pressoché sistematicamente assistito da un difensore.
Ed allora, se il dato fattuale riferisce di un debitore che, ove animato dal proposito di difendersi, si avvale della difesa tecnica, la deroga introdotta dal CCII introduce un distinguo tanto inutile quanto anacronistico, in quanto il procedimento unitario (ma anche l’istruttoria prefallimentare, a seguito delle riforme del 2006-2007) è un condensato di istituti e richiami ad atti (ad esempio, il deposito di memorie e l'articolazione di mezzi istruttori) e funzioni (la facoltà di deduzione ed il contraddittorio tra le parti), che esigono l’attività “tecnica” del difensore[25].
6.2 . Notificazione e pubblicità della domanda; eventuale nomina del commissario giudiziale
L’art. 40 CCII prevede la notificazione del ricorso con modalità telematiche. Si tratta di una regola che, a dispetto di quanto potrebbe ritenersi prima facie, soffre talune eccezioni.
Ad esempio, la notifica del ricorso per l’apertura della domanda di liquidazione giudiziale e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti pronunciato a norma dell’art. 41, comma 1, CCII, dovrà essere eseguita nelle forme tradizionali, e cioè presso la residenza, allorché il destinatario è soggetto non iscritto nel registro delle imprese, secondo quanto previsto dall’art. 40, comma 8, il che accadrà, ad esempio, quando si chiederà la liquidazione giudiziale di una società con soci illimitatamente responsabili, atteso che, a norma dell’art. 258 CCII (identicamente a quanto prevedeva l’art. 149 L. fall.), la liquidazione giudiziale della prima si estende ai secondi.
Solo la domanda proposta dal debitore (che sia di soluzione pattizia o liquidatoria della crisi) è soggetta alla pubblicità camerale, al fine di evitare che iniziative prese da soggetti diversi dal debitore e destinate a rivelarsi infondate vengano divulgate, causando danni anche irreversibili alla reputazione dell'impresa (art. 40, comma 3, CCII).
Parimenti, è soggetto a pubblicazione nel registro delle imprese (questa volta, ci sembra di poter dire, a cura del medesimo ricorrente, atteso che manca nel comma 4 la specificazione, che invece troviamo nel comma 3, secondo cui alla comunicazione al registro delle imprese provvede il cancelliere) l’accordo di ristrutturazione, la qualcosa deve avvenire contestualmente al deposito della domanda di omologazione.
Sempre nel caso in cui con la domanda si chieda l’omologa di uno strumento di regolazione pattizio, il comma 4 chiarisce che la nomina del commissario giudiziale (che a norma dell’art. 44, comma 1, lett. b), è sempre ammessa quando viene depositata una domanda “prenotativa”) è valutata dal tribunale caso per caso, come richiesto dall'art. 5, paragrafo 2, della Direttiva “Insolvency”, anche nel caso di contestuale pendenza di un’istanza di apertura della liquidazione giudiziale[26].
L’obiettivo, all’evidenza, è quello di introdurre un divieto di nomina automatica del professionista, sebbene non possa escludersi, in applicazione delle regole generali, la possibilità che il tribunale nomini comunque degli “ausiliari” (sulla falsariga della disposizione generale di cui all’art. 68 c.p.c.), quando lo ritenga necessario per lo svolgimento di attività latu sensu consulenziali: il che non ci sembra ipotesi peregrina, soprattutto se si tiene conto della alluvionale documentazione che deve essere allegata alla domanda a norma dell’art. 39 CCII, e che la cancelleria acquisisce ai sensi dell’art. 42 CCII.
La nomina avviene con il decreto di cui all’art. 48, comma 4, e cioè con il provvedimento con il quale il tribunale, a seguito del deposito di opposizioni all’omologazione degli accordi, fissa l’udienza innanzi a sé.
6.3 . Il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale
Come si è detto nei paragrafi precedenti, il procedimento unitario (che a questo punto continueremo a chiamare così solo per convenzione tassonomica) contempla almeno due distinti percorsi processuali, a seconda che si voglia ottenere l'omologazione di un patto o l'apertura del concorso giudiziale.
Sebbene l’art. 7 contempli un vero e proprio ordine processuale delle diverse domande confluenti nel procedimento, prevedendo, al comma 2, che vadano scrutinate prioritariamente quelle volte ad individuare una soluzione concordata della crisi, e solo successivamente quelle che approdano alla liquidazione (giudiziale o controllata), nel procedimento unitario si parte dalla disciplina del primo grado del giudizio volto all'apertura della liquidazione giudiziale.
Ciò è coerente con l’impianto complessivo del Codice, nel quale la liquidazione giudiziale, seppure disegnata quale esito ultimo e non altrimenti evitabile della crisi o dell’insolvenza, resta il paradigma di riferimento sol che si noti come vi sono disposizioni in tema di concordato preventivo che rinviano a quelle, successive, della liquidazione giudiziale: l’art. 96 CCII contiene, difatti, un rinvio agli artt. 150-162, che recano le norme in tema di effetti della liquidazione giudiziale sui creditori[27].
Il procedimento, contemplato dall’art. 41, può essere agevolmente analizzato, poiché modellato sul riuscito impianto dell’art. 15 L. fall., rispetto al quale introduce comunque talune “migliorie”.
E così, entro 45 giorni dal deposito del ricorso[28], il tribunale, con decreto, convoca le parti ad un’udienza che deve celebrarsi non prima di quindici giorni dalla data della notifica.
L’ultimo comma dell’art. 41 dispone che il collegio può delegare al giudice relatore l'audizione delle parti, ed in generale l'ammissione e l'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio. In realtà la delega può avere ad oggetto anche la fissazione della prima udienza, poiché il comma 3 prevede che i termini di cui ai commi 1 e 2 (termine di convocazione delle parti e termine minimo tra la notifica del decreto e l’udienza) possono essere abbreviati dal presidente del tribunale o dal giudice relatore da lui delegato.
Pertanto, a seconda delle scelte organizzative che intenderanno seguire i vari uffici, a seguito del ricorso potrebbero aversi: a) un decreto collegiale di fissazione dell’udienza e di delega dell’istruttoria; b) un decreto di delega alla fissazione dell’udienza ed alla conduzione dell’istruttoria; c) un decreto di fissazione dell’udienza, senza delega alcuna (ipotesi, quest’ultima, invero piuttosto improbabile).
Fino a sette giorni prima dell’udienza (anche questo termine può essere ridotto) possono essere presentate memorie[29], e fino a quando la causa non viene rimessa al collegio per la decisione è ammissibile l’intervento dei terzi.
L’art. 43 prescrive che in caso di rinuncia alla domanda il procedimento si estingue, riconoscendo ad eventuali intervenuti (ivi incluso il pubblico ministero) la facoltà di insistere per la sola apertura della liquidazione giudiziale. La precisazione ci sembra opportuna poiché l’originaria stesura dello Schema del D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, prevedendo genericamente che gli intervenuti potessero, in caso di rinuncia alla domanda, chiedere comunque di proseguire il giudizio, senza alcuna specificazione al riguardo, si prestava alla lettura interpretativa (a nostro avviso comunque non percorribile, ma in ogni caso non sbarrata dal sintagma normativo) per cui chi avesse presentato una proposta concorrente di concordato potesse portarla avanti anche in presenza della rinuncia del debitore alla propria proposta[30].
Sulla rinuncia si pronuncia il tribunale con decreto (che il cancelliere comunica immediatamente al registro delle imprese se la domanda rinunciata è stata a sua volta iscritta), con il quale può condannare la parte che vi ha dato causa alle spese.
Compiuta l’istruttoria, ai sensi dell'art. 50 CCII, se il Tribunale respinge la domanda di apertura della liquidazione giudiziale si pronuncia con decreto (comunicato alle parti ed iscritto ed iscritto nel registro delle imprese a cura del cancelliere, se è stata iscritta la relativa domanda), il quale può essere reclamato davanti alla corte d'appello, nel termine di trenta giorni. Si apre così il giudizio di gravame, soggetto alla disciplina del rito camerale, per espressa previsione del comma 2, il quale prevede che si applicano le disposizioni di cui agli artt. 737 e 738 c.p.c.
Se invece la domanda di apertura della liquidazione giudiziale è accolta, il tribunale si pronuncia con sentenza, a norma dell’art. 49 CCII, reclamabile davanti alla corte d’appello nel termine di trenta giorni, a norma dell’art. 51 CCII.
A proposito dell’apertura della liquidazione giudiziale, va sottolineato che, a differenza di quanto previsto dalla legge fallimentare, nel codice della crisi essa può essere dichiarata anche dalla corte d’appello adita in sede di reclamo avverso il decreto di rigetto. Infatti, se la corte di appello accoglie il reclamo, pronuncia essa stessa sentenza con la quale dichiara aperta la liquidazione giudiziale e rimette gli atti al tribunale per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 49, comma 3 (e quindi: nomina del giudice delegato, nomina del curatore ed eventualmente degli esperti, fissazione dell’udienza di verifica dello stato passivo, etc.).
La dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale ad opera della corte d’appello costituisce, all’evidenza, una novità, atteso che, nel regime dell’art. 22 L. fall., la corte d'appello che accogliesse il reclamo avverso il rigetto dell’istanza di fallimento rimetteva le parti dinanzi al tribunale, anche per la dichiarazione di fallimento, con un provvedimento non definitivo ma ordinatorio, in quanto produttivo di effetti interinali meramente processuali, che si inseriva in un procedimento complesso il cui momento conclusivo era rappresentato dalla sentenza di apertura di fallimento[31].
Per effetto della riforma, invece, la corte d’appello non solo viene investita dello scrutinio della legittimità del decreto di rigetto della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, ma assume anche un potere sostitutivo avente ad oggetto la verifica dei presupposti per l’apertura stessa della liquidazione giudiziale. Ad un momento rescindente segue, dunque, secondo l’impostazione del Codice, un momento rescissorio, il che è proprio del carattere devolutivo dell’appello, per come lo conosciamo nel giudizio ordinario di cognizione.
Nel ridisegnato assetto, non si ha dunque un superamento del sistema duale che fino al 14 luglio 2022 era previsto dall'articolo 22 L. fall.[32], quanto piuttosto una sua diversa declinazione, che si sostanzia in un rovesciato rapporto tra provvedimento del tribunale e provvedimento della corte d’appello; invero, è la decisione di quest'ultima ad assumere carattere definitorio, e quindi attitudine a costituire cosa giudicata, laddove il provvedimento del tribunale ha un carattere meramente processuale, in funzione della futura gestione della liquidazione giudiziale, con l'ulteriore conseguenza che è preclusa al tribunale ogni valutazione di merito, anche in relazione a fatti sopravvenuti[33].
Sotto il regime del Codice, si avrà, in definitiva, una sentenza dichiarativa dell’apertura della liquidazione giudiziale: che la corte d’appello trasmette al tribunale; che, verosimilmente, entrerà nel fascicolo del procedimento unitario che si era chiuso con il decreto di rigetto (procedimento che quindi verrà riaperto); che investirà il medesimo collegio (non vi sono, infatti, incompatibilità, atteso che il tribunale non è chiamato a rivedere la propria posizione) il quale, preso atto della sentenza, pronuncerà un decreto (atteso che v’è già la sentenza della corte d’appello) con cui nominerà il curatore e provvederà a dettare le disposizioni conseguenti alla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale[34].
7 . L’accesso al procedimento volto alla soluzione pattizia della crisi
L’art. 44 del Codice disciplina il procedimento di “Accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza con riserva di deposito di documentazione”. Questa rubrica meglio definisce la cornice applicativa della norma rispetto alla formula originariamente utilizzata dai conditores del CCII, tenuto conto degli innesti che il corpus normativo ha subito, soprattutto in relazione all’ultimo nato, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione[35].
La norma prevede che il debitore può “presentare la domanda di cui all’articolo 40 con la documentazione prevista dall’articolo 39, comma 3” (ma è ormai chiaro che si tratta di domande distinte, e che il procedimento unitario in realtà è solo un unico binario su cui viaggiano molti treni, sicché la “unitarietà” si risolve nel fatto per cui domande diverse confluiranno nel medesimo fascicolo processuale), riservandosi di presentare, nel termine (compreso tra trenta e sessanta giorni, prorogabile su istanza del debitore in presenza di giustificati motivi ed in assenza di domande per l'apertura della liquidazione giudiziale, fino ad ulteriori sessanta giorni), fissato dal tribunale con decreto: i) una proposta di concordato preventivo con il piano, l'attestazione di veridicità dei dati e di fattibilità e la documentazione di cui all'articolo 39, commi 1 e 2; ii) una domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, con la documentazione di cui all’articolo 39, comma 1; iii) una domanda di omologazione del piano di ristrutturazione di cui all’articolo 64 bis, con la documentazione di cui all’articolo 39, commi 1 e 2.
Con il medesimo decreto il tribunale, similmente a quanto accadeva a norma dell’art. 161 comma 6, L. fall. nel caso di domanda di concordato con riserva: nomina un commissario giudiziale[36], disponendo che questi riferisca immediatamente al tribunale su ogni atto di frode ai creditori non dichiarato nella domanda, ovvero su ogni circostanza o condotta del debitore tali da pregiudicare una soluzione efficace della crisi; dispone gli obblighi informativi periodici, che il debitore deve assolvere, con periodicità almeno mensile e sotto la vigilanza del commissario giudiziale, sino alla scadenza del termine fissato per il deposito della domanda[37]; ordina al debitore il versamento, entro un termine perentorio non superiore a dieci giorni, di una somma per le spese della procedura.
Utile è altresì la precisazione, atteso che nel vigore della legge fallimentare la questione aveva sollevato non poche incertezze, per la quale i termini per il deposito della domanda e quelli entro cui devono essere assolti gli obblighi informativi periodici non soggiacciono al regime della sospensione feriale dei termini processuali[38].
Le conclusioni sopra prese impongono un raccordo normativo.
L’art. 46, comma 1, dispone che dalla data di deposito della domanda di concordato preventivo (anche con riserva) e sino alla pronuncia del decreto di apertura di cui all’art. 47, il debitore può compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione del tribunale, pena l’inefficacia dell’atto e la revoca del decreto di concessione del termine.
Di contro, l’art. 64 bis, comma 2, prevede che a seguito del deposito della domanda “in bianco” volta ad ottenere l’omologazione di un piano di ristrutturazione si applichino (solo) i commi 4 e 5 dell’art. 46, e dunque non anche il citato comma 1 dell’art. 46; prova ne sia che, a norma del successivo comma 6, il compimento degli atti di straordinaria amministrazione è soggetto al più blando onere di informazione preventiva al commissario.
Dunque, se si ammette il deposito di una domanda ex art. 44, comma 1, con cui l’imprenditore non indica se presenterà una domanda di concordato o un piano di ristrutturazione, occorre stabilire se debba trovare applicazione la più rigida misura precauzionale di cui al comma 1 dell’art. 46 in luogo di quella meno rigorosa prevista dall’art. 64 bis, comma 6.
A noi pare che il nodo possa essere sciolto predicando l’applicazione della disposizione prevista per il concordato. Infatti, se la domanda è “in bianco”, ne deriva che, all’esito, l’imprenditore potrebbe imboccare la via concordataria; ciò porta a ritenere che, nel caso all’esame, egli non potrà sottrarsi alle più penetranti previsioni che regolano il preconcordato per il solo fatto che abbia opzionato una formula dubitativa.
Il rinvio (contenuto nell’art. 64 bis, comma 2) ai commi 4 e 5 dell’art. 46 è da intendersi, pertanto, come riferito all’ipotesi in cui il debitore, unitamente alla domanda di omologazione del piano di ristrutturazione, depositi anche la proposta ed il piano.
8 . Sul momento in cui deve essere compiuta la scelta dello strumento di regolazione pattizia
Urgono alcune precisazioni in ordine alle scelte, rimesse al debitore, dello strumento di soluzione pattizia che egli ritiene più appropriato.
La possibilità per l’imprenditore di formulare una domanda “in bianco” riservandosi, nel termine concesso dal tribunale, di accedere, alternativamente, ad un concordato preventivo piuttosto che ad un accordo di ristrutturazione o ad un piano di ristrutturazione, pone l’interrogativo di stabilire se la scelta di campo debba essere compiuta sin dall’inizio, ovvero se l’imprenditore abbia le mani libere, sì da poter valutare strada facendo la soluzione regolatoria più acconcia alla sua condizione.
Il problema rileva giacché i precipitati delle due opzioni ricostruttive potrebbero divergere in quanto, se si predicasse la prima soluzione, una domanda in bianco nella quale il debitore non tracciasse ex ante la rotta dovrebbe essere dichiarata inammissibile.
A nostro avviso, la seconda opzione (quella delle “mani libere”) merita di essere favorita, sia per ragioni sistematiche che per motivi di stretto diritto.
Dal primo punto di vista, va osservato che la domanda con riserva ha proprio la funzione di assicurare al debitore di anticipare gli effetti protettivi che l’avvio del procedimento gli garantisce, offrendogli comunque la possibilità di sondare il da farsi nel termine concesso dal tribunale, sicché obbligarlo, già ai blocchi di partenza, ad individuare ed indicare al tribunale un obiettivo specifico sarebbe distonico rispetto all’esigenza che il termine accordato tende a presidiare: difatti, ex post lo strumento originariamente immaginato potrebbe non rivelarsi il più idoneo a comporre la situazione di crisi o di insolvenza.
Sul versante strettamente normativo va registrato che la domanda con riserva produce, in ogni caso, i medesimi effetti sostanziali e processuali (e cioè quelli di cui agli artt. 44 e 45 e 54[39]), sicché non v’è ragione di imporre al debitore una prematura scelta di campo, atteso che, nelle more del termine concesso, ciò non produrrebbe nessuna variazione della cornice normativa di riferimento.
Infine, ed in assonanza rispetto a quanto sopra detto, vengono in rilievo i commi 2 e 5 dell’art. 64 ter. Il primo dispone che “Il debitore può, in ogni momento, modificare la domanda, formulando la proposta di concordato”, sicché, per un elementare principio di continenza, se un debitore che abbia presentato un piano di ristrutturazione è facultizzato a fare marcia indietro, a maggior ragione potrà riservarsi di decidere, nel momento della presentazione di una domanda con riserva, quale strada percorrere. 
Il medesimo precipitato si ricava dalla lettura del comma 5, che riconosce al debitore che ha presentato la domanda di concordato preventivo il diritto di modificarla chiedendo l’omologazione del piano di ristrutturazione, sino a che non sono iniziate le operazioni di voto.
9 . I criteri di valutazione dell'ammissibilità della domanda di regolazione pattizia
La disciplina dei vaglio della proposta di concordato preventivo è quella che ha subito i più penetranti interventi ad opera del D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, che si è fatto carico marcare (sia rispetto alla legge fallimentare che rispetto alla originaria tessitura del CCII) distingui netti tra concordato liquidatorio e concordato in continuità aziendale, la qualcosa viene plasticamente testimoniata già dalla rubrica dell’art. 84 CCII, non più denominata, semplicemente, “finalità del concordato preventivo”, ma “finalità del concordato preventivo e tipologie di piano”.
Siffatta intentio, ancor prima, si ritrova nella fase di ammissibilità della proposta, laddove il primo comma dell’art. 47 è stato completamente riscritto ed arricchito.
Alla generica e monolitica previsione per cui, a seguito del deposito del piano e della proposta, il tribunale valuta “l’ammissibilità giuridica e la fattibilità economica del piano” (espressione che trasuda gli echi del dibattito dottrinario e giurisprudenziale che era divampato attorno alla nozione di fattibilità evocata dall’art. 161 L. fall.[40]), si è sostituita una disciplina che scolpisce requisiti di ammissibilità differenziati per il concordato liquidatorio e per quello in continuità.
Ed infatti, in caso di concordato liquidatorio, il tribunale “verifica l’ammissibilità della proposta e la fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati”. Di contro, in caso di concordato in continuità aziendale, l’autorità giudiziaria analizza (solo) “la ritualità della proposta”, precisandosi che “La domanda di accesso al concordato in continuità aziendale è comunque inammissibile se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali”: col che si incornicia un requisito di (prima?) ammissibilità della domanda, che rampolla non già all’esito di una valutazione in positivo di due valori paritetici (e cioè la soddisfazione dei creditori, per come proposta, e la conservazione dei valori aziendali) bensì sulla scorta di una valutazione, da compiere ex actis[41], circa la non manifesta inattitudine del piano a salvaguardare i citati obiettivi.
A tali valutazioni si affiancano quelle di cui all’art. 84, che a proposito della continuità aziendale prevede che essa debba “tutela(re) l’interesse dei creditore e preserva(re), nella misura possibile, i posti di lavoro” (si noti che qui lo scrutinio deve essere compiuto in positivo, sicché sembrerebbe non bastevole un vaglio di non palmare inidoneità). Quest’ultima disposizione è nata con il chiaro proposito di allargare (e di molto) le maglie del concordato in continuità previste dall’originaria lettera dell’art. 48, comma 2, ma certamente introduce un ulteriore requisito di ammissibilità della proposta, per quanto di generalissima portata, sicché dal punto di vista topografico meglio sarebbe stato incastonarla nel corpo dell’art. 47.
Ma, al netto di questo aspetto, tutto sommato anodino, ciò che in questa sede rileva è l’analisi del momento ultimo entro il quale può e deve essere esercitato, dal tribunale, un sindacato di ammissibilità della domanda.
L’art. 47 prevede infatti che il tribunale, depositata la proposta concordataria, ne vaglia l’ammissibilità, e se questo vaglio ha esito positivo dichiara aperta la procedura impartendo le disposizioni (previste dal medesimo art. 47) per l’ulteriore corso della medesima; in caso contrario, il procedimento di arresta con la pronuncia di un decreto di inammissibilità.
Se poi il concordato preventivo è ammesso e successivamente approvato dai creditori, il tribunale fissa l'udienza in camera di consiglio per l'omologazione, una volta decise, nel contraddittorio processuale, le eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti e degli altri interessati.
Orbene, il comma 3 dell'art. 48, nel testo originario del Codice, imponeva al tribunale di verificare, in sede di omologa del concordato preventivo, tra l'altro, l'ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale: la qualcosa era stata ritenuta “curiosa”, ponendosi in luce la necessità di meglio chiarire entro quali termini il tribunale, al momento dell’omologa ed in assenza di contestazioni (le quali ben potrebbero avere ad oggetto anche il giudizio di ammissibilità preliminarmente compiuto) a voto avvenuto, potesse ancora valutare la fattibilità del piano, anche nell’invarianza delle sottostanti condizioni, potendo così ritornare sui propri passi rispetto agli esiti delle analisi già in precedenza effettuate, con una verifica di fatto sovrapponibile a quella già svolta nella sede sommaria di apertura[42].
Questi rilievi sono stati considerati dal legislatore, che dal testo del comma 3 dell’art. 48 ha espunto la previsione per cui in sede di omologa il tribunale dovesse tornare a verificare l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano.
Sennonché, nell’art. 112, al comma 1, lett. a), ritroviamo la previsione per cui il tribunale omologa il concordato verificati, tra l’altro, “l’ammissibilità della proposta”, il che ripropone, in altra parte del codice, lo stesso interrogativo appena ricordato.
Probabilmente, non resta, allo stato, che affermare, anche alla luce del sopravvenuto quadro normativo, che sul piano sistematico nulla impedisce al tribunale, re melius perpensa, di rimeditare, in sede di cognizione piena, decisioni prese in sede sommaria, a meno di non voler immaginare la formazione di un (improbabile) giudicato implicito sul punto.
Si tratta, comunque, di questioni attorno alle quali è doveroso attendere che la giurisprudenza vada formando i suoi primi orientamenti.
Assai più blanda, infine, appare la disciplina della valutazione di ammissibilità del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, atteso che nella fase preliminare all’ammissione il tribunale deve solo valutare la ritualità della proposta e dei criteri di formazione delle classi in termini di omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici, ma non dei criteri di rispetto della par condicio, stante la possibilità di deroga agli stessi[43].
10 . I rimedi esperibili avverso il decreto di revoca del termine per la presentazione della proposta e del piano
L'articolo 44, comma 2, CCII (sul quale il D.Lgs. n. 83/2022 è sì intervenuto, ma con modifiche che paiono di semplice sistemazione terminologica, atteso che si esplicitano concetti già raggiungibili per via ermeneutica sulla scorta del preesistente tessuto normativo) prevede (con una disciplina sostanzialmente analoga a quella contenuta nelle legge fallimentare, salvo quanto tra un attimo si dirà) che il tribunale, su segnalazione di un creditore, del commissario giudiziale o del pubblico ministero, con decreto non soggetto a reclamo, sentiti il debitore e i creditori che hanno proposto ricorso per l'apertura della liquidazione giudiziale e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, revoca il provvedimento di concessione dei termini quando accerta il compimento di atti in frode ai creditori o altre circostanze o condotte del debitore tali da pregiudicare una soluzione efficace della crisi.
Il legislatore qualifica il decreto non reclamabile, scelta che nasce dalla considerazione per cui esso non ha attitudine a costituire cosa giudicata, determinando semplicemente un arresto procedimentale non ostativo alla riproposizione della domanda.
Va registrato a tal proposito che qui il CCII ha inteso disciplinare la situazione con uno strumento più “leggero” di quello previsto nella legge fallimentare. Non si è scelto infatti di dichiarare la domanda improcedibile, come previsto dall'articolo 161, comma 8, L. fall. (attraverso il richiamo all’art. 162, commi 2 e 3), ma semplicemente di revocare il decreto con il quale veniva concesso il termine per la presentazione del piano.
Questa soluzione si colloca nel solco tracciato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che avevano sancito la non impugnabilità con il ricorso per cassazione del decreto con il quale il tribunale dichiara l'inammissibilità della proposta concordataria, proprio in ragione del suo carattere non decisorio e non definitivo[44].
Di contro, e sempre traducendo in norma una conclusione cui la Corte di cassazione era già intervenuta per via interpretativa[45], viene sancito all'art. 51, comma 1, che “contro la sentenza del tribunale che pronuncia sull'omologazione del concordato preventivo, del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione o degli accordi di ristrutturazione e oppure dispone l'apertura della liquidazione giudiziale le parti possono proporre reclamo. La sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale può essere impugnata anche da qualunque interessato. Il reclamo è proposto con ricorso da depositare nella cancelleria della corte di appello nel termine di trenta giorni”.
Ora, a questa (apparente) asimmetria processuale (che il D.Lgs. n. 83/2022 ha confermato) si potrebbe replicare obiettando che, anche quando il tribunale nega l'omologazione del concordato preventivo, dei piani o degli accordi, la domanda può essere riproposta, così come quando viene revocato il termine originariamente concesso. Sennonché, a nostro avviso, la differente disciplina si giustifica in ragione del fatto per cui, arrivati al capolinea della procedura, la riproponibilità di una domanda di soluzione pattizia della crisi, per quanto non formalmente esclusa, diverrebbe particolarmente gravosa e distonica rispetto ad esigenze di celerità del procedimento e di economia processuale. Insomma, giunti a questa fase, il legislatore ha saggiamente ritenuto che il sacrificio per l'imprenditore derivante da una sentenza che neghi l'omologazione, fosse così oneroso da giustificare la previsione di un mezzo di gravame.
Allo stesso modo, a norma del comma 5 dell'articolo 47, è reclamabile dinanzi alla corte d’appello nel termine di 30 giorni (prima delle modifiche introdotte dallo schema del decreto legislativo il termine era di 15 giorni) il decreto con il quale il tribunale, sentiti il debitore, i creditori che hanno proposto domanda di apertura della liquidazione giudiziale ed il pubblico ministero, dichiara inammissibile la proposta, a meno che non ritenga di concedere al debitore un termine non superiore a 15 giorni per apportare integrazioni al piano o per produrre nuovi documenti. Va da sé che, se è stata presentata anche una domanda di apertura della liquidazione giudiziale ed il tribunale la dichiara con sentenza, sarà quest’ultima ad essere oggetto dell'impugnazione.
Tornando, infine, al decreto di revoca del termine per il deposito della proposta e del piano, nel caso di domanda “in bianco”, vi è da chiedersi se davvero quella domanda, una volta revocato il termine (senza che, stando al tenore letterale della norma, venga dichiarata inammissibile la domanda medesima), potrà essere ripresentata.
L’interrogativo si pone perché qui manca la previsione, contenuta nell'articolo 47, comma 6, secondo cui la domanda può essere riproposta, dopo la declaratoria di inammissibilità, quando si verificano mutamenti di circostanze, sicché a rigore deve ritenersi che il debitore, benché decaduto dal termine, possa presentare nuovamente la medesima proposta, salvi gli effetti derivanti dalla coeva pendenza o dalla successiva presentazione di domande di apertura della liquidazione giudiziale.
Probabilmente in questi casi occorrerà fare applicazione della previsione di cui all'art. 7, comma 2, che abdica alla prioritaria trattazione delle domande di regolazione della crisi con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale, nei casi di manifesta in ammissibilità o inadeguatezza delle domande medesime.

Note:

[1] 
V. Lemma col quale il legislatore interno ha “tradotto” la corrispondente espressione “quadri di ristrutturazione preventiva” (nella versione ufficiale in lingua italiana) della direttiva (UE) n. 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno2019 (cd. Direttiva Insolvency).
[2] 
A proposito della norma di delega v. F. De Santis, Il processo uniforme per l’accesso alle procedure concorsuali, in Fall., 2016, 1045 ss.
[3] 
In data 14 novembre 2018 (Atto Camera n. 53).
[4] 
Così I. Pagni, L’accesso alle procedure di regolazione nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Fall., 2019, 550.
[5] 
M. Montanari, Il cosiddetto procedimento unitario per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza, Fall., 2019, 564.
[6] 
Sul punto v. F. De Santis, Il procedimento cd. unitario per la regolazione della crisi o dell’insolvenza: effetti virtuosi ed aporie sistematiche, in Fall., 2020, 157 ss.
[7] 
La norma soggiunge che la decisione deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata ed iscritta nel registro delle imprese; che gli amministratori sono tenuti a informare i soci dell’avvenuta decisione di accedere a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza e a riferire periodicamente del suo andamento.
[8] 
Si rammenta che l’art. 1 del Codice prevede che esso si applichi alle le situazioni di crisi o insolvenza del debitore, consumatore o professionista che sia, ovvero imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un’attività commerciale, artigiana o agricola, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici.
[9] 
Ai sensi del successivo comma 4, il rappresentante del pubblico ministero intervenuto può chiedere di partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la Corte di appello. La partecipazione è disposta dal procuratore generale presso la Corte di appello qualora lo ritenga opportuno. Gli avvisi spettano in ogni caso al procuratore generale.
[10] 
In tema si veda F. De Santis, Il ricorso del pubblico ministero per l’apertura della liquidazione giudiziale: tra interesse pubblico e modelli processuali comuni, in www.dirittodellacrisi.it 27.5.2021, ed ivi riferimenti autoriali e giurisprudenziali. 
[11] 
Ci si riferisce a Cass., Sez. Un., 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936, in Il Fall., 2015, 890, annotata, tra gli altri, da F. De Santis, Principio di prevenzione ed abuso della domanda di concordato: molte conferme e qualche novità dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, e da I. Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell’istruttoria fallimentare dopo le Sezioni unite del maggio 2015.
[12] 
Così M. Montanari, Profili processuali, cit., 873.
[13] 
Il termine di decadenza non si applica se la domanda di accesso allo strumento di regolazione pattizia è proposta all’esito della composizione negoziata, “entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui all’articolo 17, comma 8”, ossia – a quanto è dato di comprendere dal non chiarissimo costrutto normativo – prima che siano trascorsi sessanta giorni dalla comunicazione dell’esperto alla camera di commercio ai fini dell’archiviazione della domanda di composizione negoziata.
[14] 
Ossia quando è decorso inutilmente o è stato revocato il termine per il deposito della documentazione nei casi di domanda “con riserva” ex art. 44, oppure quando il debitore che ha presentato tale domanda non ha depositato le spese di procedura, o ancora nei casi previsti di revoca del termine a causa del compimento di atti di frode, o in caso di mancata approvazione del concordato preventivo o quando il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione non sono stati omologati. La norma fa altresì salve le previsioni speciali delle “passerelle” dal piano omologato del consumatore o dal concordato minore alla liquidazione controllata (artt. 73 e 83 CCII).
[15] 
Sul punto si rinvia a F. De Santis, Il processo uniforme per l’accesso alle procedure concorsuali, cit., 1048 ss.
[16] 
Si ricordi, a questo proposito, che il comma 3 dell’art. 27 introduce la presunzione, già lungamente elaborata dalla giurisprudenza (cfr., ex multis, Cass., 8 aprile 1998, n. 3652), per cui il centro principale degli interessi del debitore coincide: per la persona fisica esercente attività d’impresa, con la sede legale risultante dal registro delle imprese o, in mancanza, con la sede effettiva dell’attività abituale; per la persona fisica non esercente attività d’impresa, con la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, con l’ultima dimora nota o, in mancanza, con il luogo di nascita (con l’avvertenza che se questo non è in Italia, la competenza è del Tribunale di Roma); per la persona giuridica e gli enti, con la sede legale risultante dal registro delle imprese o, in mancanza, con la sede effettiva dell’attività abituale. Se quest’ultima è sconosciuta, si applicheranno i criteri previsti per le persone fisiche avuto riguardo alla figura del legale rappresentante.
[17] 
La disposizione ricalca l'identica formulazione di cui all'art. 3, comma 1, del Regolamento (UE) n. 2015/848 in tema di procedure di insolvenza transfrontaliere. Lo stesso acronimo “COMI è riconducibile al ”Centre Of Main Interests of the Debtor”, di cui discorre il Regolamento.
[18] 
F. Marelli, Novità in tema di competenza nel nuovo codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Riv. dir. proc., 2021, 1, 260.
[19] 
Il gruppo di imprese è definito all’art. 2, comma 1, lett. h), come “l’insieme delle società, delle imprese e degli enti, esclusi lo Stato e gli enti territoriali, che, ai sensi degli articoli 2497 e 2545 septies del codice civile, esercitano o sono sottoposti alla direzione e coordinamento di una società, di un ente o di una persona fisica; a tal fine si presume, salvo prova contraria, che l’attività di direzione e coordinamento sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci oppure dalla società o ente che le controlla, direttamente o indirettamente, anche nei casi di controllo congiunto”.
[20] 
La norma detta un criterio analogo a quello previsto, dall’art. 25, comma 2, CCII (il quale a sua volta costituisce la trasposizione della medesima disposizione contenuta nell’art. 13, comma 3, D.L. n. 18/2021) per l’individuazione della camera di commercio dinanzi alla quale presentare l’istanza di nomina dell’esperto per accedere ad un procedimento di composizione negoziata della crisi. Può solo registrarsi sul punto un difetto di coordinamento (che va interpretato come mero lapsus calami del legislatore) poiché l’art. 25, nel fare riferimento all’esposizione debitoria dell’ultimo bilancio approvato, specifica che si tratta di quella “costituita dalla voce D del passivo nello stato patrimoniale prevista dall'articolo 2424 del codice civile”.
[21] 
Gli artt. da 10 bis a 120 quinquies CCII sono stati introdotti dall’art. 25, e costituiscono, nel Capo III del Titolo IV della Parte Prima, la Sezione VI bis, che detta disposizioni specifiche sull’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza da parte delle società, al fine di recepire i principi dettati dall’articolo 12 della direttiva (UE) n. 2019/1023 (direttiva “insolvency”) e così di favorire l’utilizzo delle procedure di ristrutturazione da parte della società quale forma più diffusa di impresa interessata dalla ristrutturazione.
[22] 
Per vero, l’art. 120 bis va anche oltre l’orizzonte prefigurato dall’art. 2086 c.c., atteso che prevede una competenza esclusiva inderogabile per tutti gli «strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza», e dunque, stando all’art. 2, lett. m bis), CCII, anche per la liquidazione giudiziale, che certamente non è volta al superamento della crisi in vista del recupero della continuità aziendale). Sulla riforma dell’art. 2086 c.c. cfr. F. Macario La riforma dell’art. 2086 c.c. nel contesto del codice della crisi e dell’insolvenza e sui suoi riflessi sul sistema della responsabilità degli organi sociali, in www.dirittodellacrisi.it 26.5.2022. 
[23] 
F. De Santis, Il processo uniforme, cit., 159
[24] 
Cfr. Relazione governativa allo Schema di D.Lgs., presentato alle Camere al fine di riceverne il prescritto parere parlamentare il 14 novembre 2018.
[25] 
F. De Santis, Il processo uniforme, cit. 160.
[26] 
In un primo momento, lo schema di D.Lgs. prevedeva che la nomina del commissario giudiziale fosse sempre possibile in caso di pendenza di procedimenti per l’apertura della liquidazione giudiziale.
[27] 
Così M. Fabiani, L’avvio del codice della crisi, in www.dirittodellacrisi.it 5 maggio 2022. 
[28] 
Termine non soggetto al regime della sospensione feriale, a norma dell’art. 9 CCII.
[29] 
Il debitore, nel costituirsi, deve depositare i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi o, se non è soggetto all’obbligo di redazione del bilancio, le dichiarazioni dei redditi concernenti i tre esercizi precedenti.
[30] 
Cfr. V. Zanichelli, Commento a prima lettura del decreto legislativo 17 giugno 2022 n. 83 pubblicato in G.U. il 1 luglio 2022, in www.dirittodellacrisi.it 1 luglio 2022. 
[31] 
Cfr. Cass. 14 dicembre 2006, n. 26831.
[32] 
Che tanto era stato criticato da una parte della dottrina: cfr., P. Pajardi, A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 149.
[33] 
La qualcosa, invece, con riferimento all'articolo 22 L. fall., era stata ritenuta da taluni autori (così G.U. Tedeschi, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2006, 69).
[34] 
Cfr. R. d’Alonzo, La disciplina del procedimento unitario in sede di appello, in www.dirittodellacrisi.it 23.6.2022. 
[35] 
Su cui v. G. Bozza, Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, in www.dirittodellacrisi.it 7.6.2022.
[36] 
Nomina che qui, a differenza di quanto previsto per gli accordi di ristrutturazione dall’art. 40, comma 4, CCII, è sempre ammessa, e ricorre in tutti i casi, e dunque non solo nell’ipotesi di domanda di accesso alla procedura di concordato preventivo, com’era nella originaria previsione dell’art. 44, prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs n. 83/2002.
[37] 
La norma specifica che con la medesima periodicità, il debitore deposita una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria che, entro il giorno successivo al deposito, è iscritta nel registro delle imprese su richiesta del cancelliere. 
[38] 
La norma specifica che con la medesima periodicità, il debitore deposita una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria che, entro il giorno successivo al deposito, è iscritta nel registro delle imprese su richiesta del cancelliere.
[39] 
In ordine all’applicazione dell’art. 54 anche in relazione ai piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione cfr. G. Bozza, Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, cit.
[40] 
La letteratura, sul tema, è vastissima. Ci si limita in questa sede a richiamare F. De Santis, Causa in concreto della proposta di concordato preventivo e giudizio permanente di fattibilità del piano, in Fall., 2013, 279 ss.; A. Didone, Le Sezioni unite e la fattibilità del concordato preventivo, in Dir. fall., 2013, II, 1 ss.; A. Di Majo, Il percorso lungo della fattibilità del piano proposto nel concordato, in Fall., 2013, 291 ss.; M. Fabiani, La questione "fattibilità" del concordato preventivo e la lettura delle Sezioni Unite, ib., 2013, 149 ss.; Id., Concordato preventivo e giudizio di fattibilità: le Sezioni Unite un po' oltre la metà del guado, in Foro it., 2013, I, 1573 ss.; G.B. Nardecchia, La fattibilità del concordato preventivo al vaglio delle Sezioni Unite, in Dir. fall. 2013, II, 185 ss.; I. Pagni, Il controllo di fattibilità del piano concordatario dopo la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521: la prospettiva funzionale aperta dal richiamo alla causa concreta, in Il Fall., 2013, 279 ss.
[41] 
Eventualmente concedendo al debitore, a norma del comma 4 del medesimo art. 47, un termine non superiore a 15 giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti.
[42] 
F. De Santis, Il processo uniforme, cit. 161.
[43] 
Così V. Zanichelli, Commento a prima lettura, cit.
[44] 
Cass., Sez. Un., 28 dicembre 2016, n. 27073.
[45] 
Con la sentenza 5 dicembre 2018, n. 31477.

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