L’indagine del tribunale propedeutica alla pronuncia del decreto di cui al comma 3 dell’art. 18 cit., che dà impulso alla procedura di concordato semplificato, sarà quindi rivolta all’ammissibilità del contenuto di proposta e piano di concordato, nei termini testé riferiti, ma non solo. Nonostante il precedente esperimento della composizione negoziata, che assume una prima ricognizione dei relativi presupposti, oggettivo e soggettivo, da parte della commissione di nomina e da parte dell’esperto stesso, è immaginabile che il tribunale, al fine dell’apertura della procedura, rinnovi la verifica di tali presupposti [26]. Quanto al soggettivo, potrà accedere al concordato semplificato – a differenza di quanto avviene per il concordato preventivo - ogni imprenditore in quanto tale, già titolato per presentare l’istanza di nomina dell’esperto ex art. 2 c 1° D.L. cit. [27], e il comma 1 dell’art. 18 cit., infatti, legittima alla domanda di concordato “l’imprenditore”, senza particolari qualificazioni. Sarà quindi sufficiente che nell’istante si riconoscano le caratteristiche tipologiche previste dall’art. 2082 c.c., senza che ci si debba occupare di dimensioni dell’organizzazione e di natura dell’attività svolta.
Qualche dubbio in più potrebbe sollevarsi in merito al presupposto oggettivo, perché sia si potrebbe qui tornare a fare riferimento alle condizioni di accesso alla composizione negoziata previste dal comma 1 dell’art. 2 cit., ove si evocano le “condizioni di squilibrio patrimoniale o economico – finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza”, sia, ritenuta sussistente una lacuna normativa, si potrebbe invocare per analogia l’applicazione dell’art. 160 c. 1° l. fall., con il suo riferimento ad un atipico stato di crisi [28]. Alla fine, per ragioni già altrove espresse [29], sinché non entrerà in vigore il CCII, con la sua tipica nozione di crisi definita dall’art. 2.a [30], tra l’una e l’altra delle opzioni interpretative prospettate non dovrebbe cambiare molto, visto che la crisi di cui all’art. 160 cit. sembra in grado di comprendere tutte le situazioni cui si riferisce lo “squilibrio” di cui all’art. 2 cit., che si estendono dalla crisi incipiente ed “intima” sino all’insolvenza vera e propria, anche irreversibile [31]. Vero che il tribunale potrà sempre ritenere insussistente lo stato di crisi, pur “confessato” nella domanda di concordato, ma ben difficilmente – come insegna l’esperienza in materia di concordato preventivo – si darà l’effettiva possibilità di negare l’esistenza della crisi rilevante, anche considerato che al concordato semplificato si giunge dopo un inutile esperimento di composizione negoziata.
Ritengo debba invece escludersi, ai fini dell’ammissibilità della domanda di concordato semplificato e a differenza di quanto richiesto per l’apertura della fase delle trattative, che lo stato di crisi si accompagni ad una concreta prospettiva di risanamento dell’impresa, che potrà esserci, se il piano si atteggi alla continuità aziendale indiretta, ma potrà anche tranquillamente non esserci.
L’ammissibilità della domanda di concordato dipenderà altresì dalla sua tempestività, poiché potrà essere presentata, ai sensi del comma 1 dell’art. 18 cit., solo nei 60 giorni successivi alla “comunicazione” da parte dell’esperto della propria relazione finale, da redigere in ogni caso al termine della fase di composizione negoziata. Si ricorda che l’art. 5 c. 8° D.L. n. 118/2021 prevede che l’esperto sia inserisca la sua relazione finale nella piattaforma telematica istituita ex art. 3 D.L. cit., sia comunichi la stessa relazione all’imprenditore che ne ha chiesto la nomina. Considerato quanto prevede l’art. 18 cit., il dies a quo rilevante al fine di verificare la tempestività della domanda di concordato semplificato sarà solo quello della “comunicazione” all’imprenditore, a prescindere dal fatto che la stessa preceda o segua all’inserimento in piattaforma telematica.
Nulla esplicita la legge, ma l’interpretazione già ricorrente fa del termine di 60 giorni un termine di decadenza [32], il cui mancato rispetto provoca l’inammissibilità della domanda di concordato, ciò che rende plasticamente l’idea di questa nuova procedura concorsuale come un’appendice facoltativa delle trattative condotte dall’esperto, nelle quali deve trovare un antecedente necessario. Poiché si tratta di termine il cui rispetto condiziona l’ammissibilità di un procedimento, sembra trattarsi di un termine “processuale” nel senso di cui all’art. 1 L.n. 742/1969, che potrà fruire quindi della sospensione feriale salvo che, sulla scia dell’insegnamento della Suprema Corte [33], non sia già pendente un’istanza di fallimento [34].
Come già ritenuto da buona parte della giurisprudenza per il concordato preventivo [35], ed oggi esplicitato dall’art. 40 c. 2° CCII, la domanda di concordato, redatta nella forma del ricorso con cui si chiede la sola omologazione del concordato [36], dovrà essere sottoscritta da difensore abilitato ai sensi dell’art. 82 c. 3° c.p.c. Avrei invece forti dubbi circa la necessità che la domanda debba anche essere corredata dalla determinazione adottata con le modalità previste dall’art. 152 l. fall. Ferma la necessità che il tribunale accerti i poteri di chi ha rilasciato la procura al difensore (e la possibilità di loro integrazione ex art. 182 c.p.c.), mi sembra che non sussista in realtà una lacuna legis che imponga la ricerca di una norma preanalogica e che, dunque, non ci sia spazio per invocare l’applicazione al concordato semplificato della disciplina in parte qua dettata per il concordato preventivo [37]. I formalismi procedurali imposti dall’art. 152 l. fall., d’altra parte, mal si attaglierebbero alle istanze di semplificazione di cui l’art. 18 cit. si fa portatore.
La domanda di omologazione del concordato andrà quindi presentata “al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale”, in assonanza con quanto previsto dal comma 1 dell’art. 161 l. fall. per il concordato preventivo. Resta però il dubbio se anche per il concordato semplificato vadano o non sterilizzati, ai fini della competenza territoriale, i trasferimenti della sede intervenuti nell’anno precedente al deposito del ricorso [38]. Non dovrebbe invece entrare in gioco, per le imprese attratte, quanto a requisiti dimensionali, dalla disciplina in materia di amministrazione straordinaria, l’art. 350 del D. Lgs. n. 14/2019, già in vigore, che prevede la competenza del tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese per l’accertamento dello stato d’insolvenza ma che la Suprema Corte ha recentemente limitato, nel suo ambito di applicazione, solo ai procedimenti relativi ad imprese che già si trovino “in” amministrazione straordinaria [39], quale non potrebbe mai essere un imprenditore che chieda l’omologazione di un concordato semplificato.
Quella tuttavia più controversa, tra le condizioni di ammissibilità della domanda di concordato semplificato, consiste nella necessità che l’esperto dichiari, nella sua relazione finale, che: (i) le trattative si sono svolte secondo correttezza e buona fede; (ii) le trattative non hanno avuto esito positivo; (iii) le soluzioni (negoziali o quasi) individuate ai sensi dell’art. 11, commi 1 e 2, D.L. n. 118/2021 non sono praticabili.
Sull’esito negativo delle trattative, nulla quaestio: si tratta di un dato oggettivo, che dovrebbe corrispondere al fatto che le trattative non sono sfociate in alcuna delle soluzioni della crisi previste dai commi 1 e 2 dell’art. 11 D.L. cit., le soluzioni veramente “finali” (recte: non bisognose di altra, consecutiva procedura concorsuale) e che consentono all’esperto di maturare un compenso doppio ai sensi del comma 5 dell’art. 16 D.L. cit.
Dubbi, invece, e consistenti, possono sorgere circa lo svolgimento delle trattative secondo correttezza e buona fede, requisito introdotto nell’art. 18 solo con la legge di conversione.
Innanzitutto, deve ritenersi che il concordato semplificato sia ammissibile solo se le trattative siano state effettivamente avviate dall’esperto, che abbia constatato ex art 5 c. 5° D.L. cit. la concretezza delle prospettive di risanamento (nell’ampia accezione di cui al par. 2 del “Protocollo di conduzione della composizione negoziata”, sezione III del documento recepito dal Decreto Dirigenziale del 28 settembre 2021). Se, quindi, l’esperto proceda immantinente alla richiesta di archiviazione dell’istanza di composizione negoziata, senza dare ingresso alle trattative, non ci sarà spazio per l’imprenditore per procedere poi alla presentazione di una domanda di concordato semplificato [40].
Ma l’apertura delle trattative, pur necessaria, non è certo sufficiente, perché queste dovranno altresì essere state condotte “secondo correttezza e buona fede”. Ci si deve quindi interrogare su quale sia il comportamento esigibile, evidentemente dal solo debitore, affinché possa dirsi che questi, nello svolgimento delle trattative coadiuvate dall’esperto, ha rispettato i canoni della correttezza e della buona fede.
La risposta può essere data su due livelli: il primo piuttosto arretrato ma poco discutibile, il secondo più avanzato ma anche dotato di un maggiore grado di opinabilità.
Al primo livello, è imprescindibile il rispetto dei principi che, per legge, devono guidare il comportamento dell’imprenditore nel corso della composizione negoziata; in particolare: “L’imprenditore ha il dovere di rappresentare la propria situazione all’esperto, ai creditori e agli altri soggetti interessati in modo completo e trasparente e di gestire il patrimonio dell’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori” (art. 4 c. 5° D.L. cit.). Quanto alla gestione dell’impresa, ai sensi del comma 1 del’art. 9 D.L. cit., l’imprenditore dovrà evitare di pregiudicare la “sostenibilità economico – finanziaria dell’attività” nonché, se insolvente, dovrà orientare la gestione al “prevalente interesse dei creditori”.
Non è questa la sede per dare maggiore concretezza a tali criteri gestionali, ma sembra imprescindibile che le trattative possano considerarsi condotte correttamente e in buona fede se (e solo se) l’imprenditore impieghi tempo e risorse non a vuoto e brancolando affannosamente tra ipotesi astratte ed irrealistiche di soluzione della crisi ma destinando questi fattori di creazione del valore alla costruzione di una seria proposta da veicolare a beneficio dei creditori o, comunque, di quelle parti la cui adesione sia in sé necessaria - ma anche sufficiente - al buon esito delle trattative (nel senso sopra precisato).
Qualche dubbio può porsi circa la rilevanza del comportamento del debitore anteriore alla presentazione dell’istanza di nomina del’esperto e, quindi, all’avvio delle trattative. Non può escludersi, infatti, che l’imprenditore “astuto” si prepari adeguatamente alla composizione negoziata ponendosi in condizioni tali da presentarsi ai creditori in una situazione già ex ante compromessa da atti distrattivi o anche solo “protettivi” (tipicamente: un contratto di affitto d’azienda stipulato a condizioni non eque). In questo caso, a stretto rigore, le trattative potrebbero essere anche condotte secondo buona fede, ma muovendo da posizioni di partenza che sarebbero il frutto di un comportamento malevolo del debitore, e non mi sembra che l’esperto potrebbe omettere di rappresentare nella sua relazione finale gli antefatti (rilevanti) della composizione negoziata e la loro eventuale incidenza sul giudizio di complessiva correttezza da riservare all’imprenditore.
Sembra tuttavia che si possa e si debba andare oltre, nella qualificazione del comportamento del debitore nel corso delle trattative, e qui interviene il secondo livello della risposta al quesito affrontato, la cui analisi presuppone di interrogarsi circa le ragioni che possano avere portato il legislatore a sottrarre ai creditori il diritto di votare sulla proposta di concordato semplificato. Non mi sembra che queste ragioni attengano ad esigenze di semplificazione della procedura: l’adozione di modalità analoghe a quelle previste per il concordato fallimentare (assenza dell’adunanza dei creditori e silenzio – assenso) non avrebbe comportato un appesantimento eccessivo e forse si sarebbe potuta accompagnare alla previsione di qualche condizione legittimante l’opposizione all’omologazione del concordato (e dipendente, ad esempio, dal dissenso dei creditori, che però presuppone il diritto di voto). Ritengo, invece, che, anche considerata la necessaria propedeuticità di un serio tentativo di composizione negoziata della crisi dell’imprenditore, ai creditori sia negato il voto perché (e solo se) hanno già avuto la possibilità di esercitare il diritto di voice nel corso delle trattative, ma questa possibilità non ha consentito il conseguimento del risultato della soluzione negoziale della crisi. Potrebbe cioè ritenersi che il concordato semplificato presupponga che i creditori abbiano già giocato la loro partita nel corso delle trattative coadiuvate dall’esperto ma l’abbiano giocata male [41], e questo spiegherebbe perché, chiusa senza esito positivo la fase della composizione negoziata, nel corso della procedura di concordato semplificato l’interlocuzione avvenga esclusivamente tra imprenditore e tribunale, con l’esclusione di una partecipazione attiva dei creditori (salva sempre la facoltà di opposizione all’omologazione spettante ad ogni creditore).
Se così è, però, le trattative possono dirsi condotte secondo buona fede solo se i creditori abbiano potuto esprimersi effettivamente su una proposta di soddisfacimento dei loro crediti che sia stata prima “individuata” [42] e poi anche presentata dall’imprenditore nel corso delle trattative stesse. Ancor di più: la buona fede dell’imprenditore dipende dal fatto che la proposta avrebbe assicurato ai creditori un livello di soddisfacimento almeno equivalente a quello che gli stessi potrebbero ricevere dalla liquidazione fallimentare (e quindi da un concordato semplificato), sì che il diniego di accettazione della proposta stessa da parte dei creditori sarebbe stato irrazionale.
Sarà altresì rilevante il modo con il quale la proposta sarà veicolata ai creditori, e a ciò fa riferimento il comma 1 dell’art. 18 cit. laddove richiede (anche) che nessuna delle soluzioni negoziali previste dai commi 1 e 2 dell’art. 11 D.L. cit. sia “praticabile”. A tal proposito, assume grande rilievo il richiamo, da parte dell’art 18 cit., anche del comma 2 dell’art. 11 cit., che prevede un “esito positivo” delle trattative anche se queste sono funzionali alla presentazione di una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti. La disciplina posta dall’art. 11 c. 2° cit., infatti, esalta ulteriormente il principio maggioritario nell’accordo di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa, consentendo la riduzione della maggioranza richiesta per l’estensione degli effetti ai creditori dissenzienti dal 75% al 60%. Ciò significa però che l’imprenditore non può accontentarsi di presentare la proposta “giusta” ai suoi creditori, affinché il suo comportamento nel corso delle trattative sia considerato corretto e secondo buona fede, ma deve altresì utilizzare lo strumento “giusto” per scavalcare eventuali dinieghi opposti da alcuni creditori in maniera irrazionale, quale potrebbe essere per l’appunto l’accordo ad efficacia super-estesa di cui al comma 2 dell’art. 11 cit.
In ultima analisi, nella opzione interpretativa qui esposta, potrà dirsi veramente corretto e conforme a buona fede l’atteggiamento dell’imprenditore nello svolgimento delle trattative solo se queste saranno sfociate nella individuazione di una soluzione: i) effettivamente sottoposta ai creditori [43]; ii) recante un soddisfacimento almeno equivalente a quello atteso da un’eventuale liquidazione fallimentare; iii) veicolata attraverso lo strumento giuridico, fra quelli disponibili ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 11 D.L. cit., più adatto a consentirne l’approvazione.
Tutto questo dovrà essere esplicitato nella relazione finale dell’esperto, affinché questi possa poi concludere riconoscendo all’imprenditore di avere svolto le trattative “secondo correttezza e buona fede” e, qualora si accolga questo secondo livello della risposta che qui si propone al quesito iniziale, la via di accesso al concordato semplificato dovrà ritenersi molto più stretta di quanto non fosse nella versione dell’art. 18 cit. anteriore alla legge di conversione, con una selezione all’ingresso estremamente rigorosa e tale da rendere il nuovo istituto strumento di governo della crisi d’impresa non così generalizzato quale lo si immaginava all’alba del D.L. n. 118/2021.