Saggio
La spinta innovativa dei quadri di ristrutturazione preventiva europei sull’istituto del concordato preventivo in continuità aziendale*
Paola Vella, Consigliere della Corte di Cassazione
18 Febbraio 2022
Il saggio è stato altresì sottoposto in forma anonima alla valutazione di un refereee.
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Sommario:
1 . Il concetto di procedura concorsuale secondo il diritto dell’Unione
2 . Il nuovo approccio europeo alla ristrutturazione preventiva
3 . Le principali innovazioni necessarie
4 . Specializzazione e discrezionalità: un focus su absolute e relative priority rule
5 . Con quale strumento attuare la Direttiva (UE) 2019/1023?
6 . Lineamenti di un modello europeo di concordato in continuità
Il processo di adattamento dei singoli diritti nazionali, in vista di una sempre maggiore convergenza delle loro regole, si muove nel solco tracciato da un atto normativo dell’Unione europea che è già parte integrante del nostro sistema delle fonti (ove si colloca in posizione sovraordinata alle fonti primarie e pari ordinata alle fonti costituzionali e di rilievo costituzionale): il «Regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015 relativo alle procedure di insolvenza» - rifusione del Regolamento (CE) n. 1346/2000 del Consiglio» (di seguito Reg.), il cui ambito di applicazione, originariamente circoscritto alle sole procedure di insolvenza con implicazioni transfrontaliere, è stato esteso alle analoghe «procedure che promuovono il salvataggio delle società economicamente valide ma che si trovano in difficoltà economiche e che danno una seconda opportunità agli imprenditori» (Cons. 10 Reg.)[3].
In effetti, già prima dell’emanazione della Dir. la stessa Cassazione aveva ritenuto – con orientamento ormai consolidato sul tema della natura degli accordi di ristrutturazione dei debiti[5] – che, a seguito delle innumerevoli riforme, a livello nazionale e sovranazionale, la cifra della moderna concorsualità si sarebbe sostanzialmente ridotta a tre profili minimi, quali: «i) una qualsivoglia forma di interlocuzione con l’autorità giudiziaria, con finalità quantomeno “protettive” (nella fase iniziale) e di controllo (nella fase conclusiva); ii) il coinvolgimento formale di tutti i creditori, quantomeno a livello informativo e fosse anche solo per attribuire ad alcuni di essi un ruolo di “estranei”, da cui scaturiscono conseguenze giuridicamente predeterminate; iii) una qualche forma di pubblicità»[6].
Il dato è noto e trova eco anche in un recente studio nazionale[7], condotto su un campione di oltre tremila procedure di concordato preventivo ammesse nel periodo 2009-2015, dal quale sono emersi, tra l’altro, i seguenti elementi: i) la netta prevalenza delle procedure di fallimento, su quelle di concordato preventivo e sugli accordi di ristrutturazione dei debiti (pari rispettivamente a 13.472, 817 e 488 nell’anno 2016);ii) il progressivo aumento delle dimensioni delle imprese man mano che accedono al fallimento, o al concordato preventivo, o agli accordi di ristrutturazione (indice che solo le imprese più grandi riescono ad accedere agli strumenti “paranegoziali” di regolazione della crisi);iii) la preponderanza, all’interno della categoria dei concordati preventivi, di quelli liquidatori (circa il 70%); iv) una notevole durata della procedura (in media circa 10 mesi, 14 nel concordato preventivo cd. “con riserva”), calcolata dalla presentazione della domanda all’omologazione; v) la lunghezza dei tempi programmati di esecuzione del piano (circa 3 anni, limite peraltro quasi mai rispettato); vi)l’esiguità dei tassi di recupero per i creditori chirografari (in media 18% nei concordati preventivi liquidatori, 23% nei concordati in continuità indiretta, 37% in quelli in continuità diretta); vii) un minor scarto tra tassi di recupero proposti e tassi effettivi (questi ultimi pari in media al 60% dei primi) nei concordati in continuità, rispetto alle altre tipologie di concordato; viii) migliori performance in caso di minore “cronicità” della crisi (misurata come tempo intercorrente tra la percezione delle prime difficoltà persistenti nell’adempimento degli obblighi verso le banche e l’avvio della procedura); ix) una diminuzione dei tassi di recupero proposti, all’aumentare delle spese “di giustizia” e per i professionisti che assistono il debitore;x) una diminuzione dello scarto tra tassi di recupero proposti e tassi effettivi, all’aumentare di quelle stesse spese.
La maggiore redditività degli strumenti di ristrutturazione in continuità aziendale (specie se diretta) rispetto a quelli meramente liquidatori giustifica la concentrazione degli sforzi del legislatore europeo sui primi, che la Dir. mira ad incentivare anche attraverso un maggior coinvolgimento dei soci[8], stimolandoli ad investire nella prosecuzione dell’attività imprenditoriale in vista di una possibile partecipazione al cd. valore di continuità aziendale, inteso come valore di lungo termine dell’impresa, che, come si legge nel Cons. 49, di norma è superiore al valore di liquidazione, «poiché si basa ipotesi sull'ipotesi che l'impresa continua la sua attività̀ con il minimo di perturbazioni, ha la fiducia dei creditori finanziari, degli azionisti e dei clienti, continua a generare reddito e limita l'impatto sui lavoratori».
Di qui il dichiarato obbiettivo dei quadri di ristrutturazione preventiva unionali di «consentire ai debitori in difficoltà finanziarie di continuare a operare, in tutto o in parte» (Cons. 2 Dir.), anche mediante la vendita di attività o parti dell’impresa o, se previsto dal diritto nazionale dell’intera impresa «in regime di continuità aziendale» (art. 2 n. 1) Dir.), al fine di risanare l’impresa, «o almeno salvarne le unità che sono ancora sane» (Cons. 4).
E’ singolare che l’art. 4, par. 1, della Dir., nell’enunciare le finalità dell’accesso alla ristrutturazione preventiva, menzioni solo quella di impedire l’insolvenza e assicurare la sostenibilità economica (viability) del debitore, che a sua volta consente anche di «tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale»; manca un esplicito riferimento al soddisfacimento dei creditori, che invece campeggia nel primo comma dell’art. 84 CCII quale principale finalità del concordato preventivo (peraltro da realizzare indifferentemente sia con «la continuità aziendale» che con la «liquidazione del patrimonio»). Si ha quindi l’impressione che per la Dir. la continuità aziendale – anche se solo parziale, ed anche se non la realizzi il debitore, ma un terzo cui questi trasferisca l’azienda – sia non già un “valore-mezzo” (come tradizionalmente nelle procedure concorsuali ordinarie), bensì un “valore-fine” (come tradizionalmente nelle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi)[9].
I successivi commi dell’art. 84 CCII avrebbero una maggiore assonanza con la Dir. sul tema della tutela dei posti di lavoro, se non fosse che, per un verso, i livelli occupazionali imposti finiscono per ingessare oltremodo la ristrutturazione con continuità indiretta (comma 2) e, per altro verso, si esclude che un concordato preventivo cd. “misto” possa essere considerato in continuità quando la soddisfazione dei creditori avvenga prevalentemente con il ricavato dalla liquidazione, salva la relativa presunzione iuris et de iure in caso di mantenimento di determinati livelli occupazionali (comma 3), mentre la Dir. ammette la prosecuzione parziale dell’attività senza porre vincoli di prevalenza sul momento liquidatorio che lo affianchi, ritenendo comunque prioritario l’obbiettivo che le imprese continuino a operare (Cons. 1)[10].
Questo progressivo spostamento del baricentro della ristrutturazione dall’interesse dei creditori alla continuazione dell’attività imprenditoriale – in quanto capace di meglio soddisfare quell’interesse, e al tempo stesso di soddisfarne altri collaterali – trova eco anche in campo dottrinario, dove si registra la convivenza delle teorie più tradizionali, come la cd. creditors’ bargain theory – per cui le compressioni dei diritti dei creditori in ambito concorsuale non sono finalizzate all’obbiettivo politico del salvataggio delle imprese, bensì al coordinamento dell’azione dei singoli creditori sul patrimonio del debitore, al fine di massimizzare il valore a disposizione di tutti gli interessati (in tesi insufficiente), nell’assunto che il diritto della crisi sia sostanzialmente un meccanismo alternativo all’esecuzione individuale – con altre teorie più innovative “stakeholders oriented” (spesso di matrice anglosassone), che muovono invece dal principio per cui il diritto concorsuale non solo può, ma deve perseguire anche finalità diverse da quella satisfattiva[11].
Sennonché, passando dal piano teorico a quello empirico, di cui sopra si è dato conto, risulta evidente che il processo in corso di graduale osmosi tra le procedure di ristrutturazione dove la continuità è un “valore-mezzo” e quelle in cui essa è un “valore-fine”, si fonda sotto traccia sulla constatazione che la continuità aziendale è comunque uno strumento capace di aumentare il tasso di recovery dei creditori[12], sia pure in concomitanza con la tutela degli altri soggetti interessati alla ristrutturazione (lavoratori, fornitori, stakeholders, soci e lo stesso imprenditore)[13]; un simile approccio si trova preconizzato nel secondo comma dell’art. 84 CCII, per cui la prosecuzione dell’attività d’impresa assicura il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario «nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci», a testimonianza che il valore della continuità aziendale è in realtà un “valore-fonte”, da cui dipendono tutti gli altri, a cominciare dalla soddisfazione dei creditori, passando attraverso la tutela dei posti di lavoro, per finire alla preservazione della stessa imprenditorialità. Sulla medesima lunghezza d’onda, la Dir. proclama nitidamente che i quadri di ristrutturazione preventiva hanno al tempo stesso lo scopo di: i) impedire la perdita di posti di lavoro; ii) evitare la perdita delle conoscenze e competenze imprenditoriali; iii) massimizzare il valore dell’impresa a beneficio dei creditori, rispetto a quanto potrebbero ricevere nello scenario liquidatorio o in un altro scenario alternativo al piano; iv) massimizzzare quello stesso valore anche per i proprietari dell’impresa e in ultima analisi per l’economia nel suo complesso (Cons. 2).
Date queste premesse, tre sono i pilastri sui quali la Dir. ha edificato i preventive restructuring frameworks: a) la preservazione dell’attività imprenditoriale, quale volano dell’economia dell’Unione (dove le PMI costituiscono il 99% del totale delle imprese), che assicura migliori performance a vantaggio dei creditori e consente di tutelare l’occupazione (art. 4, par. 1); b) l’efficienza della procedura, finalizzata a ridurne tempi e costi (Tit. IV), che passa inevitabilmente attraverso la specializzazione tanto dell’autorità giudiziaria o amministrativa (art. 25), quanto dei professionisti nel campo della ristrutturazione da essa nominati (artt. 26 e 27); c) il dialogo tra tutte le parti interessate durante le trattative (Cons. 10) e l’intervento del giudice a tutela dei loro interessi contrapposti (art. 4, par. 6).
Di fronte a questo nuovo approccio alla ristrutturazione veicolato dalla Dir., finisce per scolorire il tema tralatizio della polarizzazione tra autonomia ed eteronomia; tema che appare obsoleto e ideologico rispetto alla visione sovraordinata del legislatore europeo, che, nell’intento di armonizzare i plurimi sistemi concorsuali nazionali, tende naturalmente a superarne le oggettive diversità di regole e principi, in una composizione bilanciata delle opposte visioni.
In tal senso vanno letti, ad esempio, gli approdi finali delle disposizioni sul ruolo del giudice (art. 4, par. 6)[14] e sulla nomina dell’insolvency practitioner (art. 5, parr. 2 e 3)[15], che all’esito dei negoziati tra gli Stati membri sono divenute ideologicamente più neutre, se viste attraverso il prisma dei tre “pilastri” di cui si è detto (preservazione dell’attività imprenditoriale, efficienza della procedura e tutela bilanciata degli interessi di tutte le parti).
E’ dunque evidente che legislatore, dottrina, giurisprudenza e operatori tutti del sistema concorsuale dovranno essere disponibili a recepire il nuovo approccio fondato sulla centralità assunta dal risanamento, che dischiude all’orizzonte un possibile allineamento tra procedure concorsuali ordinarie (giudiziali) e speciali (amministrative) – tutte invero rientranti nel campo di applicazione della Dir. – sebbene sia sinora mancata nel nostro Paese la volontà politica di includere le seconde (liquidazioni coatte amministrative e amministrazioni straordinarie) in una riforma organica dell’intero settore.
Tre sono in ogni caso gli ambiti generali che richiederanno un qualche cambio di mentalità: I) la nozione omnicomprensiva di imprenditore, che include qualsivoglia tipologia di attività imprenditoriale, compresa quella agricola e finanche quella professionale (art. 2, n. 9, Dir.); II) la svolta culturale dell’accesso alle informazioni sugli strumenti di ristrutturazione disponibili, non solo per il debitore ma anche per i lavoratori(art. 3, par. 1 e 4), ivi compresa una check-list online per la redazione piano (art. 8, par. 2); III) un maggiore protagonismo assegnato ai lavoratori e ai loro rappresentanti (artt. 1, par. 5; art. 3, parr. 2 e 5; art. 4, par. 8; art. 6, par. 5; art.8, par. 1.g; art. 9, par. 4.2; art. 13).
Vi sono poi alcune nuove regole tecniche da recepire, che, se sapientemente integrate nell’ordinamento nazionale, potranno dare un volto più moderno e flessibile alla ristrutturazione preventiva in continuità aziendale.
La disciplina generale delle misure protettive richiede solo qualche ritocco, con una più dettagliata regolamentazione dei casi di proroga o revoca della sospensione delle azioni esecutive individuali, su richiesta del debitore o del professionista nominato, in linea con quanto dispone dettagliatamente l’art. 6, par. 7 e 9, Dir.
Analoga messa a punto riguarda la disciplina dei contratti essenziali– estendibile a quelli non essenziali – con il divieto per i creditori soggetti allo stay di modificarli, risolverli, anticiparne la scadenza o anche sollevare eccezione di inadempimento, per il solo fatto di non essere stati pagati (art. 7, par. 4, Cons. 41, Dir.).
Di maggiore impatto appare la necessità di eliminare la fase di ammissione alla procedura, con l’obbiettivo di ridurne i tempi[16], fatta salva la possibilità – tutta da verificare – di applicare analogicamente la facoltà degli Stati membri di prevedere alcuni interventi anticipati del giudice in tema di formazione delle classi e diritto di voto (art. 9, par. 5, co. 2 e Cons. 46, Dir.), ad esempio estendendola ad ipotesi di manifesta o macroscopica inutilità della prosecuzione della procedura sino alla fase dell’omologazione.
Sul tema rovente del giudizio di fattibilità, la formula adottata dall’art. 10, par. 3, Dir. – che assicura il potere del giudice di rifiutare l’omologazione del piano di ristrutturazione «che risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa»[17] – va incontro, per la sua maggiore elasticità, alle esigenze da più parti rappresentate di considerare la difficoltà, peraltro aumentata nel contesto economico attuale (e che si protrarrà anche dopo l’uscita dall’emergenza Covid-19) di attestare in positivo la fattibilità di piani di concordato in continuità aziendale, ordinariamente proiettati in un arco temporale pluriennale.
In sede di omologa[18] (e non prima, non esistendo come detto una fase preliminare di ammissione alla procedura) il tribunale dovrà sempre verificare d’ufficio, anche in caso di approvazione unanime delle classi: i) la regolarità della procedura; ii) la corretta formazione delle classi e il regolare esercizio del diritto di voto; iii) che alle parti incluse nella medesima classe sia attribuito, proporzionalmente, un pari trattamento; iv) che qualsiasi nuovo finanziamento previsto dal piano non pregiudichi ingiustamente gli interessi dei creditori.
Al di là di possibili deroghe per le PMI, diventa obbligatoria (perché essenziale nella nuova dinamica dell’approvazione del piano) la formazione di classi che rispecchino una sufficiente comunanza di interessi, secondo criteri verificabili, dovendosi quantomeno distinguere i creditori chirografari dai privilegiati ed essendo fortemente incoraggiata la formazione di ulteriori classi, specie per tutelare i diritti dei creditori particolarmente vulnerabili, come i lavoratori e i piccoli fornitori (art. 9, par. 4, Cons. 44 Dir.).
Nell’ambito contiguo della votazione, una importante novità è l’eliminazione della maggioranza dei crediti ammessi al voto, rilevando solo (in prima battuta) la maggioranza dell’importo dei crediti all’interno di ciascuna classe, da fissare entro la forbice del 50-75%, fatta salva la facoltà di introdurre anche un criterio di calcolo delle maggioranze “per teste” (art. 9 par. 6, Dir.). Invero, l’ipotesi prioritaria presa in considerazione dalla Dir. è che il piano di ristrutturazione sia approvato da tutte le classi (sia pure a maggioranza interna). Solo in difetto si potrà accedere – su richiesta del debitore o (quantomeno per le PMI) con il suo accordo, se il piano è stato presentato da un terzo – al meccanismo della cd. ristrutturazione trasversale (cross-class cram-down), attraverso la quale è possibile vincolare anche le classi dissenzienti, secondo regole che differiscono dal nostro sistema vigente.
Invero, è necessario che il piano sia approvato dalla maggioranza delle classi, di cui almeno una di rango privilegiato, ma in mancanza è sufficiente l’approvazione di almeno una o più classi cd. in the money, per tali intendendosi quelle che riceverebbero (o si può ragionevolmente presumere che riceverebbero) una qualche soddisfazione applicando l’ordinaria graduazione dei crediti al valore di continuità dell’impresa.
In tal caso, fermo il rispetto delle condizioni poste dall’art. 11 Dir. – e del principio fondamentale per cui nessuna classe può ricevere più dell’importo integrale del credito o, se si tratta di detentori di strumenti di capitale, più dell’interesse detenuto –il tribunale può omologare il piano se ritiene, d’ufficio, che le classi di voto dissenzienti ricevono un trattamento «almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango[19] e più favorevole di quello delle classi inferiori» (cd. relative priority rule, di seguito RPR)[20].
Il par. 2 dell’art. 11 Dir. consente in via di eccezione agli Stati membri di subordinare l’omologazione del piano alla diversa regola per cui non può essere attribuita alcuna soddisfazione alla classe di rango inferiore se quella dissenziente di grado poziore non sia stata «pienamente soddisfatta con mezzi uguali o equivalenti» (cd. absolute priority rule, di seguito APR)[21]. Peraltro, il comma successivo contempla un’eccezione all’eccezione, consentendo agli Stati membri di prevedere deroghe alla stessa APR «qualora queste siano necessarie per conseguire gli obbiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate».
Un ulteriore aspetto di impatto sul nostro sistema delle ristrutturazioni in continuità aziendale è che, eliminato il riferimento al miglior soddisfacimento dei creditori, resta a tutela dei loro interessi il rispetto del cd. best-interest-of-creditors-test (art. 2, par. 1, n. 6 Dir.)[22]; Cons. 49, Dir.), detto anche test di convenienza, che andrebbe piuttosto tradotto come test di non pregiudizio, poiché è sufficiente che la loro soddisfazione non sia inferiore – potendo perciò essere anche pari – a quella ritraibile nello scenario liquidatorio alternativo.
Tale regola informa anche il giudizio di cram down italiano (art. 180, co. 4, l.fall.), ma nel concordato preventivo con continuità aziendale opera il diverso criterio per cui il professionista indipendente deve anche attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa è funzionale «al miglior soddisfacimento dei creditori» ( art. 182-bis, co. 2, lett. b) l.fall.; art. 87 co. 1 lett. f) CCII)[23].
Inoltre, dovrà essere garantito ad ogni singolo creditore, a prescindere dalla classe di appartenenza, il diritto di chiedere tale verifica sul proprio trattamento. Il test di convenienza europeo (come quello statunitense) integra infatti una forma di tutela individuale[24], a differenza delle regole di RPR/APR, che operano come tutela di classe.
Infine, il test di convenienza non può essere verificato d’ufficio, ma solo su eccezione della parte interessata (a differenza della RPR/APR che va verificata d’ufficio, sia pure solo nei confronti delle classi dissenzienti, sempre in sede di omologazione). Il legislatore europeo vuole infatti recisamente evitare che tali costose valutazioni siano fatte di default, anche in assenza di specifiche contestazioni (art. 10, par. 2, lett. d); Cons. 50; art. 14, Dir.).
Da ciò consegue che la ristrutturazione in continuità aziendale non potrà mantenere, così come è attualmente configurato, il cd. cram-down fiscale d’ufficio, in ipotesi di mancata adesione determinante dei creditori fiscali e previdenziali[25], la cui operatività potrà invece essere recuperata – stante la sua indiscussa funzione agevolativa della ristrutturazione – proprio attraverso la regola (pressoché identica, ma più protettiva) della RPR[26].
Invero, per contenere i tempi e i costi della procedura, il tribunale può effettuare una valutazione dell’impresa – secondo il valore di liquidazione, ai fini del test di convenienza; secondo il valore di ristrutturazione, ai fini della individuazione della classe in the money –solo quando vi sia una parte dissenziente che lo contesati, giammai d’ufficio (art. 14 Dir.)
Un ulteriore aspetto va esaminato: nel proporre l’opzione tra RPR e APR, l’art. 11 Dir. non detta espressamente una regola specifica (simile a quella prevista dall’art. 160, co. 1, prima parte l.fall., ripetuto nell’art. 85, co. 7 CCII) sul trattamento dei «creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca»[27], rendendo perciò legittimo il dubbio che tutte le forme di prelazione debbano essere indifferentemente trattate secondo la APR o la RPR.
Tuttavia, il penultimo periodo del Cons. 44 precisa che «gli Stati membri dovrebbero poter stabilire che i crediti garantiti possano essere suddivisi in parti garantite e non garantite in base alla valutazione della garanzia reale» (cd. bifurcation), sicché quella regola può essere mantenuta – s’intende per il privilegio speciale (non generale) – anche tenuto conto della sua sostanziale coincidenza con il criterio del best-interest-of-creditors-test (infatti, anche in sua assenza il giudice ben potrebbe omologare un piano che non prevedesse l’integrale soddisfazione del creditore munito di garanzia reale il cui trattamento non fosse inferiore a quello ricavabile in caso di liquidazione).
Il problema si pone semmai nell’ipotesi opposta, in cui alla classe di creditori garantiti da garanzia reale (o privilegio speciale) fosse attribuito un soddisfacimento superiore a quanto ricavabile dalla liquidazione del bene su cui grava il diritto di prelazione, ma inferiore all’ammontare integrale del credito.
In tal caso non sarebbe nemmeno violato l’ulteriore “paletto” distributivo per cui «nessuna classe di parti interessate può ricevere o conservare in base al piano di ristrutturazione più dell’importo integrale dei crediti o interessi che rappresenta» (art. 11, co. 1, lett. d) Dir.). In effetti, la ristrutturazione preventiva europea non consente di attribuire meno di quanto si conseguirebbe con la liquidazione, né più dell’ammontare integrale del credito, ma all’interno di quella forbice lascia spazio alla negoziazione tra debitore e creditori, i cui esiti sono sottoposti al vaglio giudiziale solo in presenza di una classe dissenziente, secondo la regola della RPR ovvero della APR (pura o “temperata”).
Per concludere, la regola assimilabile alla bifurcation – nata nel fallimento (art. 54 co. 1 l.fall.), importata nel concordato preventivo con la riforma del 2007 (art. 160 co. 2 l.fall.) e ribadita nel concordato in continuità aziendale introdotto nel 2012 (art. 186-bis co. 2 lett. c) l.fall. – può essere mantenuta, anche se sembra attagliarsi piuttosto a un sistema improntato alla APR che non alla RPR. Invero, solo nella prima ipotesi la soddisfazione della classe di rango inferiore richiede l’integrale soddisfazione di quella superiore (che risulterebbe unfair in caso di incapienza del bene), mentre nella seconda ipotesi è consentita di default la soddisfazione non integrale della classe poziore, purché in misura maggiore di quella di rango inferiore, sicché il limite a priori del valore di liquidazione del bene sarebbe solo un vincolo imposto alla negoziazione del consenso, peraltro nemmeno necessario a tutela del singolo creditore, che a tal fine si può avvalere del best-interest-of-creditors-test.
È bene comunque evidenziare che, nella prospettiva della Dir., il criterio della bifurcation non è incompatibile nemmeno con la RPR, la quale potrebbe operare tanto sulla parte privilegiata del credito (rispetto alle classi di rango inferiore) quanto sulla parte del credito degradata a chirografo (rispetto alle altre classi chirografarie), in applicazione della no unfair discrimination rule (v. sopra).
Anche per questa ragione – oltre che per ben più decisive esigenze deflattive – l’intero quadro potrebbe trovare una composizione di compromesso attraverso una applicazione bipartita e combinata delle due regole di APR e RPR, la prima limitatamente al valore di liquidazione (per prevenire ogni possibile contestazione del best-interest-of-creditors-test), la seconda sul valore ulteriore generato dal piano di ristrutturazione (plan value).
In tal modo, la distribuzione del valore di liquidazione sarebbe governata dalla regola del best-interest-of-creditors-test e quella del valore di continuità o ristrutturazione (plan value) dalle regole di RPR o APR; fermo restando che tutte queste regole vanno applicate solo in sede di omologa, la prima su eccezione del creditore dissenziente, le altre due d’ufficio ma solo rispetto alla classe dissenziente.
La scelta finale, indubbiamente non facile tenuto conto di tutte le variabili implicate, spetterà ovviamente al legislatore.
Un ultimo aspetto, di non eccessivo impatto ma di grande utilità per il nostro sistema, che peraltro testimonia l’approccio sostanziale e concreto del legislatore europeo, è l’obbligo per gli Stati membri di consentire al giudice di secondo grado la possibilità di confermare il provvedimento di omologa del piano – eventualmente anche apportandovi le necessarie modifiche – nonostante l’accoglimento dell’impugnazione, con l’ulteriore facoltà di prevedere una tutela risarcitoria (in luogo di quella reale) a favore della parte vittoriosa, realizzabile anche mediante accantonamenti in appositi fondi contemplati dal piano (art. 16 par. 4 Dir.).
Tra le tante novità non vincolanti ma solo facoltative della Dir. – le quali rappresentano comunque una chance da cogliere senza timori, per ammodernare e rendere competitivo il sistema concorsuale italiano – meritano qui un cenno: a) la legittimazione a presentare una domanda di concordato preventivo in capo a creditori e rappresentanti dei lavoratori, con il «previo accordo del debitore», quantomeno se PMI (art. 4, par. 8 Dir.), fatto salvo il diritto del debitore di presentare un piano di ristrutturazione concorrente (art. 9 par. 1 Dir.); ii) la presentazione di piani di ristrutturazione concorrenti da parte del commissario giudiziale (art. 9 par. 1, co. 2, Dir.).
In particolare, l’art. 25 Dir. prescrive che sia garantita una formazione adeguata ai componenti delle autorità giudiziarie o amministrative che trattano le procedure di ristrutturazione, di insolvenza e di esdebitazione, tale da assicurare il possesso delle competenze necessarie e appropriate alle loro responsabilità, fermo restando che tali competenze possono essere acquisite anche durante l'esercizio stesso della professione, così come prima della nomina, o durante l'esercizio di altro incarico rilevante.
Gli obbiettivi sottesi sono: i) che le procedure siano trattate in modo efficiente, in vista del loro sollecito svolgimento, in quanto la loro durata eccessiva «determina incertezza giuridica per i creditori e gli investitori e bassi tassi di recupero» (Cons. 85); ii) che le «decisioni aventi ripercussioni economiche e sociali potenzialmente significative» siano adottate in modo appropriato (Cons. 86).
Peraltro, al fine di non interferire oltremodo con l’autonomia organizzativa del potere giudiziario all’interno dell’Unione, la Dir. non si è spinta fino al punto di imporre una forma di specializzazione assoluta, secondo i canoni di esclusività e concentrazione[28], dando espressamente atto che non è necessario prevedere che «un'autorità giudiziaria debba occuparsi esclusivamente di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione», e che non vi è nemmeno obbligo per gli Stati membri di «dare priorità alle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione rispetto ad altre».
Tuttavia, il legislatore europeo non ha rinunciato a suggerire che un modo efficace per raggiungere gli obiettivi di efficienza perseguiti dalla Dir. potrebbe essere proprio «la creazione di organi giudiziari o sezioni specializzati, o la nomina di giudici specializzati conformemente alla legislazione nazionale, nonché la concentrazione della competenza in un numero limitato di autorità giudiziarie o amministrative» (Cons. 86).
Sul punto si registra – con rammarico – il mancato recepimento, nel d.lgs 12 gennaio 2019, n. 14 (il CCII di prossima applicazione)[29], del principio di cui all’art. 2, co. 1, lett. n), della legge delega n. 155 del 2017, il quale era appunto volto ad «assicurare la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, con adeguamento degli organici degli uffici giudiziari la cui competenza risulti attuata». Ad oggi, è stata implementata solo la competenza dei tribunali sede di sezioni specializzate in materia d’impresa per le procedure di amministrazione straordinaria e le cause che ne derivano, a norma dell’art. 27, co. 1, CCII, la cui entrata in vigore è stata peraltro anticipata dall’art. 389, co. 2, CCII). I tribunali concorsuali ordinari invece erano e restano centoquaranta.
Nel panorama europeo invece, al di là degli ordinamenti già tradizionalmente fondati sulla giurisdizione specializzata in materia commerciale e concorsuale, come quello francese (les tribunaux de commerce)[30], molti Stati membri hanno adottato – con estrema lungimiranza – il principio della specializzazione dei giudici, attuando lo spirito, prima ancora che la lettera, della Dir.; ad esempio, il Confirmation of Extragiudicial Restructuring Plan olandese (cd. CERP) ha affidato le procedure di ristrutturazione a un panel di giudici specializzati ed esperti che si occupano esclusivamente di quel tipo di procedure, per assicurare certezza, prevedibilità e uniformità delle decisioni; analogamente, la Unternehmens Stabilisierungs und Restrukturierungs Gesetz tedesca (cd. StaRUG) ha istituito un vero e proprio “Tribunale della Ristrutturazione”.
Scorrendo i testi normativi delle riforme di quei Paesi, che godono notoriamente di ampia credibilità nel contesto economico internazionale, emerge la nitida consapevolezza – del resto unanimemente condivisa, quantomeno a livello teorico – che un elevato livello di specializzazione dei giudici (e delle autorità amministrative) addetti alla materia concorsuale produce senza ombra di dubbio una maggiore efficienza delle procedure, perché consente di ridurre i tempi e i costi della ristrutturazione (così come della liquidazione giudiziale), grazie all’attribuzione ai giudici di quel tasso di discrezionalità necessario a rendere più flessibili le procedure e più snelle le norme che le disciplinano.
Ad esempio, tanto il legislatore olandese quanto quello francese si sono avvalsi della facoltà di derogare al principio della RPR e hanno optato per la regola facoltativa della APR. Tuttavia entrambi, per superare le evidenti rigidità della seconda, hanno attinto a piene mani alla possibilità, prevista dall’art. 11, par. 2 , co. 2, Dir., di prevedere deroghe alla APR «qualora queste siano necessarie per conseguire gli obbiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate». E per far ciò hanno rimesso alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria –con norme la cui linearità è direttamente proporzionale alla generalità che le caratterizza – il compito di individuare i casi in cui sussistano ragionevoli motivi per discostarsene, senza pregiudizio per i creditori (o i soci) delle classi dissenzienti interessate[31], ovvero il potere di derogare a quella regola, su istanza del debitore o dell’amministratore giudiziario (con l’accordo del primo) quando è necessario per conseguire gli obbiettivi del piano, sempre che esso non pregiudichi eccessivamente i diritti delle parti interessate[32]. Una analoga – ma più circoscritta – discrezionalità giudiziale è prevista dal legislatore tedesco nella Sezione 28(1) della StaRUG, che consente una deroga alla APR se giustificata dalle concrete difficoltà economiche da superare, tenuto conto delle circostanze del caso[33].
E’ dunque evidente che le deroghe alla APR integrano una discrezionalità – ed un conseguente margine di incertezza – assai maggiore di quanto non sia applicando direttamente la RPR, che integra una regola più elastica, ma almeno predeterminata.
Ciò significa che, in assenza di una completa specializzazione degli organi giudiziari o amministrativi che si occupano della materia concorsuale – non limitata cioè alla formazione, ma estesa alla esclusività e alla concentrazione, aspetti invero essenziali per la certezza e prevedibilità delle decisioni – è sconsigliabile mantenere ferma la regola della APR (più adatta alle ristrutturazioni liquidatorie, per la loro maggiore assimilabilità alle liquidazioni giudiziali) per poi dover necessariamente indulgere ad inevitabili deroghe, fondate su margini di discrezionalità elevati; è invece preferibile adottare una regola che possa recepire gli indiscutibili vantaggi, in termini di flessibilità (e dunque di incentivazione alla ristrutturazione in continuità aziendale) della RPR, senza essere poi costretti ad introdurre deroghe con ampi margini di discrezionalità che, in assenza di un nucleo ristretto di organi giudiziari dedicati in via esclusiva alla trattazione della materia, finirebbero per mettere a rischio le esigenze di certezza e prevedibilità delle decisioni e così la stessa efficienza delle procedure di ristrutturazione.
Un ulteriore terreno di confronto sui temi interconnessi della specializzazione e della discrezionalità dell’autorità giudiziaria sono i criteri di omologazione del piano.
Emblematico è il caso del CERP olandese, che nell’elencare i criteri di omologabilità del piano, non solo li distingue tra quelli obbligatori («the court shall deny a request to confirm») e quelli facoltativi («the court may refuse to confirm the plan»), ma contempla tra i primi – con una formula la cui latitudine farebbe rabbrividire non pochi giuristi italiani – il fatto che «other reasons militate against confirmation» (art. 384, comma 2, lett. i): vale adire assoluta discrezionalità, appunto, di quel ristretto panel di giudici specializzati ed esperti che si occupano esclusivamente di procedure concorsuali di ristrutturazione.
Per non dire dell’affidamento che viene riposto nell’alta specializzazione di quegli stessi giudici dei Paesi Bassi, sempre al fine di assicurare certezza, prevedibilità e uniformità delle decisioni nelle procedure di ristrutturazione: l’art. 369, co. 10 del CERP dispone infatti– con una previsione quasi inconcepibile nel nostro ordinamento – che, salva diversa e specifica disposizione, le decisioni del tribunale non sono soggette ad alcuna forma di impugnazione («Unless determined otherwise, decisions of the court in the context of this Section are not subject to any ordinary remedies»).
Al momento, infatti, al di là degli istituti vigenti della l.fall., il panorama del nostro ordinamento concorsuale consta di una lunga serie di istituti e strumenti già in vigore, o di applicazione imminente o rinviata, la cui tassonomia può essere così riepilogata:
1) il contratto concluso nell’ambito della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa che secondo la relazione dell’esperto facilitatore assicuri la continuità aziendale per almeno due anni (art. 11 lett. a), d.l. 118/2021), accessibile da qualsiasi imprenditore ma con norme speciali dettate per l’imprenditore “sotto soglia” (art. 17) e per i gruppi di imprese (art. 13), con le misure premiali previste dal successivo art. 14;
2) l’accordo raggiunto nel procedimento di composizione assistita della crisi dinanzi all’OCRI (artt.19-20 CCII), con esonero da revocatoria equivalente al piano attestato di risanamento e con la possibilità, su richiesta, di sospensione delle azioni esecutive e cautelari e degli obblighi di ricapitalizzazione, fruibile da qualsiasi imprenditore ma con norme speciali per l’imprenditore agricolo e quello “minore” (art. 12, co. 7, CCII);
3) l’accordo in esecuzione di un piano attestato di risanamento (art. 56 CCII), con esonero da revocatoria ex art. 166, co. 3, lett. d), destinato a qualsiasi imprenditore;
4) l’accordo di ristrutturazione ordinario con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (artt. 57-59 CCII), con le medesime sospensioni, l’esonero da revocatoria ex art. 166, co. 3, lett. e) e la prededucibilità dei finanziamenti in funzione o in esecuzione ex artt. 99 e 101, che nella vigente versione dell’art. 182-bis l.fall. è stato già reso più fluido dall’art. 20, co. 1, lett. a) e b), d.l. 118/2021, con i nuovi commi 4 (possibilità di adesione entro novanta giorni) e 8 (modifiche del piano ante e post omologa), anch’esso rivolto a qualsiasi imprenditore che non sia però “sotto soglia”;
5) l’accordo di ristrutturazione agevolato (art. 60 CCII), con percentuale dimezzata al 30% dei crediti in assenza di stay e moratorie, anticipato dall’art. 20, co. 1, lett. f), d.l. 118/2021, che ha introdotto l’art. 182-novies l.fall., anch’esso rivolto a qualsiasi imprenditore non minore;
6) l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61 CCII) raggiunto con il 75% dei crediti di creditori appartenenti ad un’unica categoria, che solo in presenza di banche e intermediari finanziari rappresentanti oltre la metà dell’indebitamento può essere di tipo liquidatorio, anticipato dall’art. 20, co. 1, lett. e), d.l. 118/2021, che ha modificato l’originario art. 182-septies l.fall., destinato a qualsiasi imprenditore non minore;
7) l’accordo di ristrutturazione a efficacia estesa “rinforzato” ex art. 11, co. 2, d.l. 118/2021, che ha ridotto la soglia al 60% dei crediti se il raggiungimento dell’accordo risulta dalla relazione finale dell’esperto, rivolto a qualsiasi imprenditore non minore;
8) la convenzione di moratoria (art. 62 CCII), fruibile da qualsiasi imprenditore[35] e anticipata dall’art. 20, co. 1, lett. f), d.l. 118/2021, con il nuovo art. 182-octies l.fall.;
9) la transazione fiscale e gli accordi su crediti contributivi nell’ambito delle trattative che precedono l’accordo di ristrutturazione (art. 63 CCII), con il cram down d’ufficio per i crediti fiscali e previdenziali, introdotto nell’art. 182-bis, co. 4, l.fall. dal d.l. 7 ottobre 2020 n. 125, convertito dalla l. n. 248/2020 (in vigore dal 4 dicembre 2020) e da ultimo corretto dall’art. 20, co. 1, lett. a), d.l.118/2021, che ha sostituito la «mancanza di voto» con «mancanza di adesione», fruibile da qualsiasi imprenditore non minore;
10) il concordato preventivo liquidatorio (art. 84 co. 4CCII) o con assuntore (art. 85 co. 3 lett. b) CCII);
11) il concordato preventivo con continuità aziendale, diretta o indiretta (artt. 84 co. 2 e 3 CCII) – in cui i creditori devono essere «soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità», condizione che si presume «quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso»[36] – non accessibile da imprenditori agricoli e minori;
12) il trattamento dei crediti tributari e contributivi nel concordato preventivo (art. 88 CCII) con il cram down d’ufficio per i crediti fiscali e previdenziali, introdotto nell’art. 180, co. 4, l.fall. dal d.l. 7 ottobre 2020 n. 125, convertito dalla l. n. 248/2020 (in vigore dal 4 dicembre 2020) e da ultimo corretto dall’art. 20, comma 1, lett. a), d.l. 118/2021, con analoga sostituzione della «mancanza di voto» con «mancanza di adesione», cui parimenti non hanno accesso l’imprenditore agricolo e quello minore;
13) il concordato liquidatorio semplificato (comprensivo della continuità indiretta) fruibile da qualsiasi imprenditore ma solo all’esito della composizione negoziata (artt. 18 e 19 d.l. 118/2021), con norme speciali dettate dall’art. 17 per quello minore;
14) il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati di risanamento dei gruppi di imprese (artt. 284 ss. CCII);
15) il concordato minore (art. 74 ss. CCII), cui se non diversamene disposto si applicano le disposizioni del concordato preventivo in quanto compatibili (art. 74, co. 4 CCII), destinato a imprenditore agricolo, imprenditore minore, professionista e start-up;
16) la ristrutturazione dei debiti del consumatore (art. 67 ss. CCII), che assorbirà l’accordo di ristrutturazione del sovraindebitato ex art. 7, l. n. 3 del 2012;
17) la liquidazione giudiziale (artt. 121 ss. CCII), destinata a sostituire il fallimento, e il concordato nella liquidazione giudiziale (artt. 240 ss. CCII), ex concordato fallimentare;
18) la liquidazione giudiziale delle società (artt. 254 ss. CCII) e il concordato nella relativa procedura (artt. 265 ss. CCII);
19) la procedura unitaria di liquidazione giudiziale dei gruppi (artt. 286 s. CCII);
20) la liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268 ss. CCII), destinata ad assorbire la liquidazione dei beni ex art. 14-ter, l. n. 3 del 2012;
21) le procedure di esdebitazione (artt. 278 ss. CCII);
22) la liquidazione coatta amministrativa e il relativo concordato (artt. 293 ss. CCII);
23) le liquidazioni coatte amministrative disciplinate da leggi speciali;
24) le amministrazioni straordinarie disciplinate da leggi speciali.
Il semplice elenco di questo armamentario di procedure dà la misura di quanto l’introduzione di un ulteriore strumento esporrebbe il nostro ordinamento a comprensibili critiche di elefantiasi o bizantinismo, essendo innegabile il valore aggiunto degli ordinamenti giuridici caratterizzati da chiarezza, semplicità e linearità[37].
Peraltro, tra alcuni di questi strumenti si è instaurata una sorta di “circolarità”[38], inizialmente circoscritta ai rapporti tra accordi di ristrutturazione e concordato preventivo, ma da ultimo estesa, con la normazione da emergenza Covid-19, ai piani attestati di risanamento. Infatti, fino al 31 dicembre 2022 (termine così prorogato dall’art. 21 del d.l. 118/2021), tanto il concordato preventivo con riserva, quanto le trattative sull’accordo di ristrutturazione, potranno sfociare in un piano attestato di risanamento, previa rinuncia del debitore alle originarie domande e ai termini concessi ex artt. 161 co. 6, o 182-bis, co. 7, l.fall., con conseguente declaratoria di improcedibilità delle relative procedure, qualora egli documenti la pubblicazione del piano attestato nel registro delle imprese[39].
E’ evidente che questa chance data agli Stati membri di implementare la Dir. in modo “diffuso” – purché esaustivo e coerente –, se da un lato può avere un minor impatto sui sistemi concorsuali nazionali (poiché consente di innovare il meno possibile, ricucendo all’interno dei diversi strumenti esistenti le caratteristiche della nuova ristrutturazione preventiva unionale), dall’altro presenta sicuramente un maggior grado di complessità tecnica – con inevitabili riflessi anche a livello attuativo – poiché richiede l’adozione di specifici raccordi processuali tra i singoli strumenti coinvolti, diretti a preservarne la modularità, onde assicurare effettiva continuità all’iniziativa del debitore. Deve infatti garantirsi che il percorso di ristrutturazione preventiva del debitore sia effettivamente rapido e unitario, non già frammentato in segmenti caratterizzati da diversi presupposti, poiché ciò contravverrebbe all’obbiettivo prioritario di evitare l’allungamento dei tempi e l’aumento dei costi della ristrutturazione a carico del debitore, i quali si riverberano negativamente sui creditori per i minori tassi di recupero (cfr. Cons. 15, 17, 29 Dir.).
E’ invero un dato acquisito che le regole dettate dal Tit. II della Dir. si attagliano ora all’uno ora all’altro degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza italiani, ed in particolare ai due istituti maggiormente assimilabili ai preventive restructuring frameworks, il concordato preventivo in continuità aziendale e gli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa. Ad esempio, la possibilità di non coinvolgere tutti i creditori nelle trattative e nel piano (art. 8, par. 1, lett. e) Dir.) è coerente con i secondi ma non con il primo, mentre la possibilità di omologazione a maggioranza delle classi (art. 11 Dir., cd. cross-class cram-down) è presente nel primo ma non nei secondi.
Sennonché, gli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa (art. 61 CCII) richiederebbero maggiori adattamenti, che finirebbero per imbrigliarne la preziosa snellezza e flessibilità. Tra essi, accanto all’estensione dell’applicazione in caso di continuità aziendale non prevalente (profilo comunque da riformare anche nel concordato preventivo ex art. 84 CCII), possono menzionarsi: la previsione di ulteriori casi di nomina obbligatoria del commissario giudiziale; l’introduzione di una disciplina specifica per i contratti pendenti e di un articolato regime delle autorizzazioni giudiziali; una disciplina più stringente del giudizio di omologazione; l’introduzione del meccanismo della ristrutturazione trasversale (cross-class cram-down); l’introduzione di vincoli distributivi, quantomeno in termini di RPR; la possibilità di falcidia dei prelatizi incapienti; il coinvolgimento dei soci o comunque meccanismi per impedire manovre ostruzionistiche.
In ultima analisi, lo strumento che allo stato sembra più facilmente assoggettabile alle innovazioni rese necessarie dalla Dir., in quanto più vicino per ratio e disciplina ai preventive restructuring frameworks, è certamente il concordato preventivo in continuità aziendale.
Per operare questo adattamento – e soprattutto per farlo in modo lineare, rinunciando a complicazioni di carattere processuale dettate da un attaccamento alla tradizione giuridica, che dovrà cedere giocoforza al processo di armonizzazione in corso – occorre una buona dose di moderno spirito innovativo, capace di realizzare il duplice obbiettivo di una fedele implementazione della Dir. e di una coraggiosa semplificazione del nostro ormai ipertrofico (per quanto raffinato) sistema concorsuale.
Ne consegue che, volendo giocare la partita sul terreno del concordato preventivo, quello in continuità aziendale (le cui origini risalgono al d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla l. n. 134 del 2012, che ha introdotto nell’ordinamento italiano l’art. 186-bis l.fall.) dovrà più nitidamente assumere la fisionomia di uno strumento distinto e differenziato – per finalità, principi e regole – dal concordato meramente liquidatorio, al quale potranno invece continuarsi ad applicare le regole della nostra tradizione giuridica.
In questo nuovo tipo di ristrutturazione preventiva caratterizzata dalla continuazione dell’attività imprenditoriale – fortemente agevolata per i benefici che può arrecare non solo ai creditori, ma anche a lavoratori e altri stakeholders, soci, lo stesso imprenditore e l’intero sistema economico – la flessibilità data al debitore è estrema, poiché egli può costruire l’architettura del piano di concordato senza essere vincolato a priori dalle consuete regole distributive (prima fra tutte quella consacrata dall’art. 160, co. 2, seconda parte l.fall., ripetuta nell’art. 85, co. 6, CCII), puntando in prima battuta ad ottenere, attraverso un accorto dosaggio di proposte parametrate alle peculiarità delle classi (obbligatoriamente) formate, il consenso della maggioranza dei creditori di ciascuna di esse (senza alcuna necessità di ottenere anche la maggioranza dei crediti complessivamente ammessi al voto, come richiesto dall’art. 177 co. 1, l.fall., ripetuto nell’art. 109 co. 1 CCII).
Ove questo primo obbiettivo fosse realizzato (con il raggiungimento di un equilibrio paretiano tra le varie riduzioni e dilazioni possibili, in vista di una ristrutturazione efficiente per tutte le parti interessate, proprio grazie al “fattore continuità”), il piano andrebbe comunque sottoposto all’omologazione del tribunale, il quale dovrebbe controllare d’ufficio, in tempi perentoriamente rapidi: i) l’osservanza di tutte le regole procedurali; ii) la corretta formazione delle classi e il rispetto della regola di pari trattamento all’interno di ciascuna classe; iii) che il piano non risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore, o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa; iv) che qualsiasi nuovo finanziamento previsto dal piano non pregiudichi ingiustamente gli interessi dei creditori.
Il tribunale dovrebbe altresì verificare – ma solo se ne faccia richiesta un creditore dissenziente – che questi non riceva una soddisfazione inferiore a quella che potrebbe conseguire in caso di liquidazione giudiziale (test di non pregiudizio).
Qualora invece quella felice “alchimia” non riuscisse, il debitore dovrebbe poter chiedere al tribunale – senza soluzione di continuità – l’omologazione con ristrutturazione trasversale, per rendere il piano vincolante per le classi dissenzienti. In quel caso il tribunale, oltre a svolgere le verifiche richieste in caso di unanimità delle classi, dovrebbe altresì appurare: v) che il piano sia stato approvato dalla maggioranza delle classi, di cui almeno una privilegiata o, in difetto, da almeno una classe (il legislatore ne potrà preveder anche più, purché non tutte) che sia “in the money”; vi) che rispetto alle classi dissenzienti sia rispettata la RPR (o la APR, pura o temperata, ovvero una combinazione delle due regole); vii) che nessuna classe riceva più dell’importo integrale ad essa spettante.
Anche in tal caso resterebbe ferma la possibilità per qualsiasi creditore dissenziente (appartenente a qualsiasi classe) di richiedere il best-interest-of-creditors-test.
Il fatto che il tribunale possa procedere alle complesse e costose stime del valore di liquidità o del valore di continuità solo su richiesta della parte che abbia sollevato le correlate contestazioni di cui sopra, contribuisce – insieme all’eliminazione della fase di ammissione – a rendere la procedura concordataria più rapida, accessibile ed efficiente.
Inoltre, la possibilità per la corte d’appello di confermare l’omologazione del piano nonostante la fondatezza dell’opposizione – semmai apportandovi le necessarie modifiche – e di disporre, se del caso, un indennizzo a favore della parte vittoriosa (attingibile da appositi fondi previsti nel piano), consente al nostro ordinamento di attingere a quella maggiore pragmaticità che caratterizza l’ordinamento europeo (e quello di molti Stati membri) la quale è quanto mai opportuna in una materia, come quella concorsuale, in cui i profili giuridici sono inscindibilmente intrecciati con quelli economici.
In ultima analisi, l’aspetto più qualificante di questo nuovo modello europeo di concordato in continuità aziendale è l’estrema libertà e flessibilità del piano, con l’eliminazione di vincoli distributivi precostituiti che potrebbero far abortire sul nascere una ristrutturazione capace in ipotesi di raccogliere il consenso dei creditori interessati, proprio grazie al valore aggiunto della continuità aziendale. E’ ovvio che la presenza, a valle, di alcuni di quei vincoli – per quanto attivabili solo su richiesta dei creditori dissenzienti (test di non pregiudizio) o in presenza di classi dissenzienti (RPR o APR) – orienterebbero lo stesso debitore a non discostarsene oltremodo nella proposta. Ma ciò non toglie che si tratta di un notevole impulso alla ristrutturazione preventiva in continuità aziendale, dove il debitore, essendo un imprenditore che resta sul mercato, deve necessariamente disporre di una maggiore libertà d’azione rispetto a quello che si limiti a liquidare la propria attività.
In questa cornice, l’autorità giudiziaria resta saldamente presente ma interviene in modo più incisivo solo negli spazi non colmati dal consenso (anche maggioritario) delle parti interessate, restando a presidio di principi invalicabili laddove gli interessi siano ingiustamente pregiudicati. Si tratta infondo di un inedito mix di autonomia ed eteronomia che potrebbe consentire una ottimale (o almeno migliore) allocazione delle risorse.
Note: