La riforma del 2012 non aveva peraltro risolto il nodo determinante della compresenza di componenti liquidatorie e di continuità aziendale nel piano di concordato.
Con una formulazione ambigua, ad oggi immutata in attesa dell’entrata in vigore del Codice della crisi, si era previsto che il piano in continuità potesse contemplare anche la liquidazione di beni, purché non funzionali all'esercizio dell'impresa.
Nulla veniva esplicitato in merito al criterio distintivo a cui fare riferimento per la ricognizione della disciplina applicabile, anche se il richiamo alla funzionalità dei beni rispetto all’attività d’impresa pareva ancorare il discrimine tra concordato liquidatorio e in continuità ad un criterio di prevalenza non meramente quantitativo.
L’espressione utilizzata, pur esprimendo un evidente favor per la continuità quale strumento per scongiurare la dispersione del valore intrinseco dell’attività aziendale, era suscettibile di interpretazioni fortemente discrezionali, come inevitabilmente si è verificato.
Le soluzioni alternative in concreto perseguite si sono ispirate alle teorie, elaborate dalla dottrina contrattualistica, dell’assorbimento/prevalenza o della combinazione[5].
Nel primo caso[6], una volta accertato che la prosecuzione dell’attività non sia meramente funzionale alla realizzazione dell’attivo concordatario e la liquidazione sia limitata a beni da ritenersi non strategici, consegue l’applicazione in toto della disciplina della continuità[7] e l’attività liquidatoria viene affidata all’imprenditore ricorrente, seppur sotto la vigilanza del commissario giudiziale.
L’ipotesi contraria comporta l’applicazione della disciplina più coerente alle singole porzioni del piano, con nomina del liquidatore giudiziale e applicazione delle regole generali della liquidazione concorsuale[8]. Necessaria precisazione è che, comunque, l’applicazione delle regole della liquidazione può riguardare esclusivamente il contenuto liquidatorio accidentale contemplato dal piano e non le cessioni poste in essere dall’impresa nell’ambito dell’attività tipica che viene proseguita.
Il tema è divenuto ancora più delicato a seguito dell’introduzione, operata dalla L. 6 agosto 2015, n. 132 in sede di conversione del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, di nuovi e più severi presupposti di ammissibilità del concordato liquidatorio, sub specie di requisiti della proposta, in primo luogo l’assicurazione del pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari nel concordato liquidatorio: la distinzione tipologica risulta oggi decisiva anche ai fini stessi dell’ammissione del concordato preventivo, essendo previsto espressamente che la soglia minima non si applichi al concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis L. fall.
Inoltre, la distinzione tra concordato con continuità aziendale e concordato c.d. liquidatorio ha acquistato valore dirimente anche in merito alla disciplina applicabile alla fase esecutiva.
Se infatti era già originariamente previsto dall’art. 182, comma 1, L. fall. che, nell'ipotesi in cui il concordato consista nella cessione dei beni, debba procedersi alla nomina di un liquidatore giudiziale (con l’eccezione, molto controversa e di fatto quasi mai praticata, della diversa indicazione effettuata dal creditore), con le modifiche introdotte dal D.L. n. 83/2015 all’art. 185, comma 5 L. fall. è stata operata l’estensione di default alla procedura concordataria del modello liquidatorio fallimentare di cui agli artt. 105-108 ter L. fall.[9].
In tale prospettiva, nell’ambito delle pur variegate posizioni espresse[10], affievolitosi il sostegno giurisprudenziale alla tesi della combinazione con il corrispondente abbandono della prospettiva di configurare un tertium genus di concordato misto, il confronto avente ad oggetto la qualificazione del concordato si è concentrato sulla scelta tra i diversi modi di intendere la prevalenza.
Un primo orientamento, valorizzando il dato quantitativo, ritiene dirimente, ai fini dell’applicabilità della disciplina di cui all'art. 186 bis L. fall. ovvero quella del concordato liquidatorio, ivi compreso il limite minimo di soddisfacimento del 20% per i crediti chirografari di cui all’art. 160, comma 4, L. fall., verificare se il ricavato della liquidazione dei beni non funzionali rappresenti o meno la quota principale dell'attivo concordatario rispetto a quello derivante dalla prosecuzione dell'attività aziendale,[11] se del caso anche nella forma "indiretta” dell’affitto e della successiva cessione dell'azienda.
La contraria tesi della prevalenza qualitativa è stata declinata nel senso di ritenere che la presenza di elementi di continuità aziendale, purché non di irrisoria rilevanza, né creati artificiosamente, giustifichi l'applicazione della disciplina prevista dall'art. 186-bis L. fall. e dunque l'esclusione dell'obbligo di garantire ai chirografari una soddisfazione non inferiore al 20%[12].
Quest’ultima ricostruzione, statisticamente non maggioritaria tra le corti di merito, ha trovato un recente autorevole riscontro[13] a seguito della chiara posizione assunta da parte della Corte di cassazione in merito alla natura dei c.d. concordati misti, che ha così optato per una soluzione difforme rispetto a quella introdotta nel Codice della crisi: non è stato infatti seguito, in questo caso, il criterio ermeneutico della interpretazione “secondo il Codice”, pur in altre decisioni esplicitamente sostenuto ed applicato.
Ha affermato la S.C. che il concordato preventivo, in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale, deve intendersi regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso dello strumento, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis L. fall., che al primo comma espressamente contempla anche detta ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito.
La norma in parola, secondo l’orientamento affermato, non prevede pertanto alcun giudizio di prevalenza quantitativa fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità, sotto un profilo qualitativo, dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una siffatta organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.
Nella ricostruzione così operata il concordato tradizionalmente definito come misto non costituisce un tertium genus, ma, nelle intenzioni del legislatore altro non è se non un concordato in continuità che prevede la dismissione di beni. L’art. 186-bis, comma 1 L. fall. non prevede dunque alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una siffatta organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.