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Saggio

L’esercizio (non più provvisorio) dell’impresa del debitore nel quadro del codice della crisi e dell’insolvenza*

Salvo Leuzzi, Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione

31 Marzo 2019

*Edito su Il diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 3-4/2019.
Il lavoro contiene un’analisi critica sulla prosecuzione dell’impresa commerciale del debitore nella liquidazione giudiziaria regolata dal nuovo “Codice di crisi e dell’insolvenza”. L’indagine sulle regole è volta a verificare le criticità e le potenzialità dell’istituto. La riflessione sull’attualità e le prospettive dello strumento ne individua i possibili ambiti e ne riconosce la centralità nel contesto della liquidazione dell’attivo fallimentare. 
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1 . Il nuovo ambito “codicistico”
Rimasto per mesi nel grembo di Giove, il C.C.I. ha vissuto il lieto fine del suo travagliatissimo parto [1]. In anni recenti, le continue modifiche della legge fallimentare in dismissione avevano finito per correre appresso ai casi pratici, scoprendosi, alla prova dei fatti, meno salutari che nelle intenzioni, per la costante rimozione di certezza dei traffici economici che comportavano, disorientando gli investitori, avvezzi a cogliere nella stabilità delle regole un valore infungibile.
In un quadro convulso, l’istituto dell’esercizio provvisorio d’impresa ha rappresentato un singolare elemento di sicurezza, per l’invarianza che ne ha contrassegna- to lo schema. Non casuale, in tal senso, che la norma d’esordio del Capo IV del C.C.I., che specificamente lo contempla, presenti un assetto affine a quello ancora in essere all’art. 104 L. fall. Poco cambierà in tema, a testimonianza della solidità già attuale dello strumento.
L’esercizio dell’impresa risponderà, pure nel rimeditato contesto, ad una funzione “terapeutica”, teso, come sarà, a consentire la difesa dell’unitarietà dei complessi produttivi o della loro sezione ancora residualmente attiva o rivitalizzabile, nella prospettiva di attrarre su di essi possibili investimenti.
La rinnovata inclinazione dell’ordinamento concorsuale non è, d’altronde, che lo scalo conclusivo di una rotta a suo tempo intercettata, che attiene ad una più compiuta percezione dell’azienda come centro di produzione ed entità suscettibile di autonoma circolazione; percezione, questa, che aveva in precedenza pagato lo scotto di una protratta penombra nel diritto vivente del fallimento, a vantaggio dell’impellenza data dal governare, per quanto all’estremo ribasso, i rapporti di credito- debito permeati dall’insolvenza.
Se l’azienda vale in sé, come bene funzionale all’esercizio dell’attività economica, al di là e al di fuori della soggettività dell’imprenditore-debitore, che semplice- mente ne dispone, essa deve tendenzialmente esistere al netto dell’acclarata decozione e, per sua indole, alla decozione deve fin dove possibile sopravvivere, qualora ciò non nuoccia ai creditori.
2 . L’esercizio d’impresa come strumento di conservazione e riallocazione dei valori attivi
Come noto, l’ordinamento concorsuale contempla essenzialmente due strumenti deputati a serbare in funzione riallocativa, ad insolvenza accertata, l’avviamento e gli intangibles dell’azienda, quali attributi non autonomamente commerciabili, eppure cedibili insieme all’azienda, che loro tramite assume un valore esponenzialmente maggiore: l’esercizio provvisorio dell’impresa e l’affitto d’azienda (disciplinati ad oggi, rispettivamente, dagli artt. 104 e 104-bis L. fall.). Detti congegni ver- ranno riversati senza variazioni sostanziali nel nuovo C.C.I.; la staticità delle norme non è l’effetto confermativo della cesura fra processo fallimentare e mercato delle aziende insolventi, ma della circostanza che quegli istituti sono già allo stato percepiti come assolutamente moderni.
Il minimo comune denominatore che collega presente e futuro, legge fallimentare derivata dal biennio 2005-2007 e riforma concorsuale appena prodotta, e che nel- l’istituto dell’esercizio dell’impresa assurge a profilo tangibile, è l’abbandono del- l’endiadi insolvenza-dissoluzione, ossia del nesso immediato fra accertamento giudiziale dell’insolvenza e disfacimento dell’impresa. Al dissesto constatato consegue solo l’apertura del concorso, declinandosi il default, sul piano liquidatorio, al modo di mera occasione di passaggio dal mercato del compendio produttivo, ai fini di una auspicabile ricollocazione.
Al fondo, il convincimento che la negoziazione dell’azienda indivisa ed attiva – che solo l’esercizio dell’impresa permette – acconsenta all’attuazione di obiettivi altrimenti inaccessibili, quali il subentro dell’aggiudicatario nella locazione dell’immobile aziendale o negli altri rapporti negoziali indispensabili rispetto all’attività economica in essere; l’utilizzo di segni distintivi dell’impresa; il mantenimento di licenze, autorizzazioni o concessioni.
In questo habitat concettuale, l’esercizio provvisorio di cui all’art. 104 L. fall., ridenominato dall’art. 211 C.C.I. “Esercizio dell’impresa del fallito”, si appaga di un collaudo durato oltre un decennio e sconta mere correzioni di contorno.
Il 1° comma dell’evocato art. 211 prevede adesso che “L’apertura della liquida- zione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa quando ricorrono le condizioni di cui ai commi 2 e 3”. Due rimangono, a tenore di questi ultimi commi, le ipotesi possibili di gestione provvisoria dell’impresa fallita.
L’anzidetto 2° comma riprende il calco dell’odierno 1° comma dell’art. 104 L. fall., dal che deriva l’immutata competenza del Tribunale concorsuale ad autorizzare, con la sentenza che aprirà la liquidazione giudiziale (in luogo del fallimento), la prosecuzione dell’impresa o di “specifici rami dell’azienda”, qualora dall’interruzione possa derivare “un grave danno”, a condizione che “la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”. Con ogni evidenza, si palesa meramente linguistico il rimaneggiamento dell’attuale norma della legge fallimentare, stante l’aggiunta nel testo di quella nuova del lemma “prosecuzione”.
Apparentemente inalterato resta pure l’archetipo dell’esercizio provvisorio di- sposto nel corso della liquidazione giudiziale, su impulso del curatore, sol che si consideri che l’art. 211, 3° comma, dispone che: “Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, l’esercizio dell’impresa, anche limitatamente aspecifici rami dell’azienda, fissandone la durata”. In questo caso il riferimento alla “continuazione” proprio dell’art. 104 L. fall. è soppiantato da quello all’“eserciziotout court dell’impresa.
A ben vedere, il difficile rapporto tra salvaguardia di organismi produttivi e tutela dei creditori è risolto anche dal C.C.I. consentendo il ricorso all’esercizio d’impresa, in funzione conservativa dei complessi organizzati, su due presupposti impliciti, ma chiari: l’utilità di esso a supporto di una più proficua e redditizia liquidazione del compendio, quindi, per rifrazione, di una migliore soddisfazione del ceto creditorio; l’operatività attuale dell’impresa, che, pertanto, accertata l’insolvenza, si presta ad essere semplicemente proseguita, non anche ex novo intrapresa.
Nella delineata cornice, l’esercizio dell’impresa rimane strumento propedeutico alla massimizzazione dell’attivo, comunque ancillare alla tutela del credito e non finalizzato alla protezione dell’impresa in sé e per sé.
Sia nel quadro del secondo che del 3° comma dell’art. 211, lo strumento pare, peraltro, adoperabile anche in attesa che si realizzino le condizioni di un affitto d’azienda [2]. La gestione può, poi, giovare a favorire la presentazione di una proposta di concordato fallimentare, stimolandola proprio sulla scorta di un complesso produttivo ancora in esercizio.
3 . L’esercizio d’impresa disposto in sentenza
La prima ipotesi di prosecuzione dell’impresa dissestata continua ad imperniarsi su una decisione del tribunale assunta nella sentenza di accertamento dell’insolvenza, laddove il collegio decidente colga la necessità – senza pregiudizio per i creditori concorsuali – di evitare il “danno grave” che discenderebbe dall’interruzione drastica dell’attività d’impresa.
Il richiamo alla gravità del danno, non ulteriormente caratterizzato (esemplificativamente con l’attributo dell’irreversibilità), suggerisce l’impiego dell’esercizio d’impresa anche nell’orizzonte di una gestione in perdita a tutela di interessi distinti da quelli del ceto creditorio e correlati alla particolarità del servizio o del prodotto offerto.
Proprio la menzione testuale appartata del pregiudizio da scongiurare in capo ai creditori – i quali nulla devono soffrire in virtù della “prosecuzione” – mostra la riferibilità del “danno grave” ad un contesto estraneo al recinto delle posizioni creditorie, quindi ad una somma socialmente rilevante di situazioni soggettive e/o collettive, oppure all’impresa in re ipsa, minata nella sua esistenza, lesa da una diminuzione di valore, attinta dalla privazione repentina di ambiti di mercato, in ipotesi di improvvisa chiusura.
Anche nel C.C.I., il presupposto negativo dell’assenza d’ogni pregiudizio per i creditori, sembra implicare un riferimento all’intangibilità, non dell’interesse del singolo, ma di quello “di categoria”. La norma offre, poi, il metro della subordina- zione del mantenimento del going concern alla tutela dei creditori, ma non in quanto la continuazione debba tradursi in un vantaggio, ma nel senso che a costoro vada risparmiato ogni pregiudizio in termini di soddisfacimento, secondo una valutazione a largo spettro, che tenga conto dell’eventuale maggior realizzo prognosticamente ricavabile all’esito dell’attuata continuazione dell’attività.
Ora, in un quadro che vede disarticolarsi in classi plurali ed eterogenee la “comunità delle perdite”, una volta rappresentata dalla massa dei creditori, vi è probabilmente spazio – nel panorama del C.C.I. – pure per una ponderazione del pregiudizio in una prospettiva che ne apprezzi gli eventuali vantaggi compensativi. Altri- menti detto, l’esercizio sembra ormai percorribile laddove si recuperi il gap quantitativo scontato dai creditori, mediante un’analisi dei benefici qualitativi assunti da costoro. Rilevano, cioè, non soltanto le utilità stimate sulla base di una potenziale miglior soddisfazione nominale del credito monetario, ma quelli suscettibili di correlarsi, non tanto alla percentuale numerica del credito, ma alla posizione del suo titolare, nonché della singola sotto categoria nella quale costui si iscrive: per i di- pendenti dell’impresa può essere di maggior pregio il mantenimento del posto di lavoro in un’azienda rivitalizzabile con iniezioni finanziarie di terzi, che non la serratura dell’opificio, con la perdita del posto di lavoro e l’acquisizione di un obolo in più alla borsa del riparto concorsuale.
Ovviamente, in tanto l’esercizio è adottabile con sentenza, in quanto sia già chiara la genesi strutturale oppure congiunturale della crisi. Ne deriva l’essenzialità di una istruttoria prefallimentare che su tale aspetto riesca a far lume. Imprescindibile, in particolare, che la situazione economica e finanziaria dell’impresa che l’imprenditore deve depositare nell’ambito di detta istruttoria, assuma un aspetto di “bi- lancio prefallimentare”, così da mostrarsi idonea a procurare una rappresentazione quantitativa e qualitativa delle componenti positive, quindi delle attività patrimoniali, e di quelle negative, quindi delle passività, che formano il patrimonio dell’impresa in un determinato momento, in guisa da illustrare le esigenze finanziarie sottese alla continuazione.
La situazione in parola deve, in altri termini, esprimere in dettaglio la composi- zione del patrimonio aziendale, il suo grado di patrimonializzazione, il livello dei mezzi propri investiti, il totale delle risorse finanziarie disponibili, le fonti di finanziamento, la relazione tra queste ultime il capitale impiegato. Devono apparire chiari, in definitiva, tanto il fabbisogno finanziario necessario per la continuazione del- l’attività, quanto la sua redditività attuale. Non basta “fotografare” l’insolvenza al fine di dichiararla, essendo indispensabile comprendere se quest’ultima comprometta la continuazione dell’attività di impresa su nuove basi.
Può ben accadere che la decozione sia generata da elementi estranei al “core business”, quindi collegata ad una gestione allegra e disinvolta del rapporto mezzi propri e mezzi di terzi oppure ad una diversificazione sciagurata delle attività, che abbia condotto a perdite finanziarie insopportabili. L’opportunità di un esame accurato e riclassificativo del “bilancio prefallimentare” dovrebbe lasciar comprendere se e in che termini un ramo provvisto di autonomia finanziaria possa diventare oggetto di continuazione d’attività, posto che solo quando le perdite derivano da costi e ricavi, che segnalano una incapacità strutturale di generare reddito, la continua- zione diventa un esercizio velleitario [3].
4 . L’esercizio d’impresa su proposta del curatore
Ai sensi dell’art. 211, 3° comma, C.C.I., la seconda ipotesi di utilizzazione del- l’esercizio dell’impresa del debitore fa fulcro su un decreto motivato, emesso dal giudice delegato, su proposta del curatore, corroborata dal parere obbligatorio e vincolante del comitato dei creditori, che plausibilmente andrebbe espresso secondo una prassi di riunione collegiale.
Fisiologico pure nel contesto codicistico, che il curatore somministri agli altri organi concorsuali elementi minimi su cui impostare le rispettive valutazioni; detti elementi riguarderanno la migliore negoziabilità dell’azienda ed un piano rigoroso e minuzioso delle risorse finanziarie funzionali alla continuità, delle entrate attese e dei ricavi pronosticabili.
Il 3° comma in commento, alla medesima stregua del 2° comma dell’art. 104, tralascia di descrivere i presupposti di adozione del provvedimento; se ne desume che la fattispecie postula la mera opportunità-economicità della prosecuzione d’impresa. Segnatamente, se l’esercizio è strumento confacente ad una più remunerativa liquidazione – sia per i presumibili introiti connessi alla prosecuzione dell’attività, sia per il più alto importo ricavabile dalla futura cessione di una azienda non dilaniata – esso può ritenersi rispondente all’interesse dei creditori.
Non occorre stavolta un danno grave da scongiurare, posto che le esigenze cautelari si affievoliscono e sono i creditori a valutare ciò che è più conveniente per loro. L’attribuzione di un’efficacia vincolante al parere dei titolari delle pretese disvela, del resto, una persistente voluntas legis di subordinazione dell’istituto al complesso delle valutazioni di quanti attendono soddisfazione, depurando l’impiego dell’istituto, a liquidazione giudiziale già aperta, da profili esogeni rispetto alla tra- ma di queste.
Il sindacato del giudice – che non a caso deve esprimersi, pure nel neonato 3° comma, in un “decreto motivato” – assume, tuttavia, una latitudine non angusta, rientrandovi un controllo che, se per un verso attiene alla regolarità e alla legittimità formale e sostanziale – dovendo il magistrato appurare l’osservanza delle norme di legge, l’effettività della piena informazione sulle condizioni economico-finanziarie ed industriali dell’impresa e la coerenza dell’istituto prescelto con i dati che contrassegnano l’attualità dell’azienda –, per altro verso, postula una stima di conformità della gestione provvisoria agli obiettivi strategici delineati nel programma di liquidazione.
L’obiettivo della conservazione dei valori vitali e organizzativi dell’impresa è un modo di salvaguardare ciò che rimane delle strutture aziendali, nella persistente ottica di procurare ai creditori una più ricca garanzia patrimoniale, attraverso il trasferimento a terzi del compendio.
Ma il mantenimento del complesso aziendale, in quanto strumento inevitabilmente conservativo, è pur sempre orientato allo scopo liquidatorio e l’impresa in essere, ossia l’attività economica del fallito, viene proseguita solo per mantenere in vita l’organizzazione di persone e cose che ne costituisce il mezzo di esercizio, in guisa da scongiurare la disgregazione dei fattori della produzione, nel tentativo di assicurare una migliore soddisfazione dei creditori.
La convenienza economica per il ceto creditorio, cui fa da specchio il miglior realizzo ricavabile dalla liquidazione di un’azienda attiva in luogo di quella di un insieme scomposto di beni e merci, rimane la bussola di orientamento del curatore e ridonda sull’alveo dei suoi compiti, cui appare avulsa la nozione stessa di risana- mento (quindi di eliminazione delle anomalie interne all’impresa che ne hanno comportato la crisi) e di ripristino di redditività mediante il riassetto del rapporto costi-ricavi. Pertanto, i “rimbalzi” virtuosi sul sistema economico, che siano altri e diversi rispetto al vantaggio per i creditori, sono una probabilità o un’evenienza che si palesano estranee al ventaglio delle finalità proprie delle norme sugli strumenti di gestione riallocativa dell’azienda nell’ambito dell’insolvenza.
La circostanza che il giudice delegato esprima un sindacato tanto ampio e sfaccettato, calandolo nel contesto del provvedimento che dispone l’esercizio, implica che quest’ultimo sia suscettibile d’impugnazione con reclamo ex art. 124 C.C.I. Segnatamente, i creditori e chiunque vi abbia interesse potranno formulare contesta- zioni anche di merito in ordine alla sussistenza dei presupposti.
5 . Il parametro dell’opportunità-economicità dell’esercizio d’impresa
Sebbene il C.C.I. lo confini, al pari della L. fall., al rango di parametro implicito, il criterio dell’opportunità-economicità presiede certamente all’avvio come alla prosecuzione dell’esercizio, risolvendosi in una complessa analisi comparativa costi-benefici: il giudice è tenuto a prevedere il ricavo potenziale, ritraibile dalla vendita dell’azienda cui venga associato l’esercizio, al netto delle variazioni finanziarie originate dalla continuazione, nonché a confrontare questo dato all’introito conseguibile, alternativamente, dalla monetizzazione dell’azienda non in esercizio e/o dalla dismissione parcellizzata dei singoli beni che la compongono.
Proprio la complessità della valutazione in parola continuerà a spiegare, in larga parte, la frequenza – che si prevede modesta – del ricorso all’esercizio già contestualmente alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, allorché il giudice raramente disporrà di elementi adeguati a poterla sorreggere, salvo i casi rari in cui il procedimento sia stato contraddistinto dalla adozione di misure conservative o cautelari o, comunque, investito da un’istruttoria penetrante, oppure costituisca l’approdo di tentativi alternativi di composizione della crisi, nell’ambito dei quali sia avvenuta una progressiva e complessiva disclosure.
La difficoltà di giudizio è aggravata da ciò, che il baricentro sullo sfondo, ossia l’interesse dei creditori, implica una tragitto ricostruttivo assai sdrucciolevole, per la sostanziale complessità di rintracciare, nelle congerie dei titolari di pretese, una omogeneità di intenti o comunanza di obiettivi.
Tutt’altro che ristretta, ciononostante, si mostra la casistica connessa all’esercizio provvisorio nel contesto della legge fallimentare e non v’è ragione di dubitare che il C.C.I. finisca per rieditarla. All’istituto si è fatto ricorso nel caso di un ramo d’azienda costituito da un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati e organizzati e dotati di un particolare know how [4]; se ne sono registrati impieghi volti a consenti- re l’adempimento di ordinativi in corso anche a salvaguardia dell’avviamento [5]; un’ipotesi emersa ha riguardato i fallimenti di società calcistiche che scontavano il rischio di revoca dell’affiliazione [6].
In linea di principio, l’istituto copre le eventualità in cui l’attività attenga al- l’erogazione di servizi di pubblica necessità o di pubblico interesse: si pensi alla somministrazione idrica [7], allo smaltimento di rifiuti, all’esercizio dell’attività sanitaria [8], caso, quest’ultimo, in cui soltanto l’esercizio provvisorio vale a salvaguarda- re il rapporto di convenzionamento.
Non del tutto disallineati rispetto alla funzione ontologica dell’istituto – coincidente con la salvaguardia del complesso attivo e dei suoi valori intangibili – si mostrano anche impieghi un po’ più dilatati: così il ricorso all’esercizio provvisorio in funzione del completamento di un ciclo produttivo iniziato, con materie prime già acquistate, che altrimenti andrebbero disperse o deprezzate; il suo utilizzo per vendere merce deperibile o di rapida obsolescenza (si pensi a materiale tecnologico); il ricorso ad esso per ultimare la costruzione di un immobile e poterlo rivendere a condizioni migliori.
6 . Il ruolo proattivo della curatela
I commi da 4° a 7° dell’art. 211 del C.C.I. riprendono l’architettura dei commi da 3 a 6 dell’art. 104 L. fall. salva qualche rettifica essenzialmente letterale.
Al pari di quanto accade ex art. 104, 3° comma, L. fall., il curatore convocherà, perlomeno trimestralmente il comitato dei creditori, al fine di informarlo sull’andamento della gestione e di consentirgli di pronunciarsi sull’opportunità della continuazione ulteriore dell’impresa. Analogamente a quanto avviene, in forza dell’attuale 4° comma della norma di riferimento della legge fallimentare, il comitato dei creditori potrà, ai sensi del 5° comma dell’art. 211 C.C.I., discrezionalmente far finire l’esercizio provvisorio, posto che, ogni qualvolta il comitato lo ritenga opportuno, il giudice delegato dovrà ordinarne la cessazione.
Sempre in linea con i dettami della legge fallimentare, il 6° comma della norma di nuovo conio, prevede che il curatore rendiconti ogni semestre in merito all’attività prestata, nondimeno informando il giudice delegato e il comitato di tutte le circostanze sopravvenute che possano influire sulla prosecuzione dell’esercizio.
La gestione conservativa del patrimonio produttivo seguita ad incentrarsi – come appare evidente – su di un ruolo proattivo del curatore, chiamato ad assumere sulla procedura il rischio di impresa e a dar corso all’attività economica dell’imprenditore fallito, non a fini di risanamento, ma di tutela dell’organizzazione di beni e persone che di quell’attività rappresenta lo strumento.
Certamente la prospettiva d’esercizio non può volgere alla ristrutturazione del- l’impresa, essendo detta categoria scollegata da una procedura mirata a governare la situazione di irrecuperabilità finanziaria in cui si risolve l’insolvenza [9]. Tuttavia, sebbene il silenzio del C.C.I. al riguardo faccia il paio con la reticenza in proposito della legge fallimentare, nulla esclude che la gestione provvisoria possa contempla- re anche un ventaglio, più o meno esteso, di interventi di tipo innovativo, qualora strettamente funzionali a rinvigorire l’impresa, a implementarne la vitalità struttura- le, a farle riguadagnare quote, in quel mercato in cui, in ultima analisi, essa ambisce a conseguire una ricollocazione.
7 . Le modalità della gestione “vicaria”
Sullo stampo dell’art. 104 L. fall., l’art. 211 C.C.I. ha inteso sorvolare sulle modalità di svolgimento dell’attività d’impresa, ad opera della curatela.
Nell’assenza di prescrizioni, sembra plausibile ritenere che l’organo concorsuale non necessiti di autorizzazioni del comitato al fine di compiere gli atti di gestione: non vi è nulla di straordinario nell’esercizio degli atti in cui si compendia la conduzione necessariamente dinamica dell’impresa, sicché, nel quadro del C.C.I., sono sufficienti a legittimarne il compimento, per un verso l’approvazione che il comitato abbia accordato al programma di liquidazione che preveda l’impiego dell’istituto (art. 213, 7° comma, C.C.I.), per altro e concomitante verso, l’autorizzazione generale e preventiva in cui si risolve il provvedimento che dispone l’esercizio.
Solo per gli atti che esulino da quanto pianificato e che si connotino, proprio per ciò, come straordinari, occorrerà l’autorizzazione di cui all’art. 132 C.C.I. (“Integrazione dei poteri del curatore”); sarà, invece, necessaria l’autorizzazione del giudice delegato per le costituzioni in giudizio ai sensi dell’art. 123, 1° comma, lett. f), C.C.I.
Sul piano pratico, prevedibili incombenze assorbiranno l’attività del curatore, che dovrà senz’altro adempiere agli obblighi connessi alla tenuta delle scritture contabili e alle scadenze fiscali e sarà tenuto a guadagnarsi la fiducia degli stakeholders attraverso un credibile piano industriale, che muova da un approfondimento di cause e circostanze del dissesto e dalla fissazione coerente di strategie future del business, anche in guisa da offrire ai potenziali acquirenti elementi di trasparenza e certezza. Indubbiamente, in virtù della supervisione del Tribunale, l’esercizio dell’impresa risulterà piuttosto rassicurante per gli interlocutori di quest’ultima: le banche saranno meglio disposte a concedere finanza necessaria per il rilancio dell’impresa; i fornitori, garantiti dal soddisfacimento dei loro crediti in prededuzione, saranno meno refrattari a riprendere le forniture delle materie prime; i clienti, confortati dal fatto che il loro nuovo referente è organo riconducibile al tribunale, torneranno a confidare in qualche misura nella governance; infine, le maestranze, informate da un soggetto super partes sulla reale condizione della società, potranno profondere energie per concorrere al rilancio aziendale. In funzione del riassetto, i costi amministrativi e le spese generali funzionali al ciclo produttivo andranno calibrati al minimo, mentre la rete vendite dovrà essere riarticolata attraverso una gestione del “portafoglio clienti” tale da assicurare un fatturato con una apprezzabile marginalità.
Il curatore si occuperà, poi, di selezionare i contratti compiutamente funzionali alla continuità, sospendendo o sciogliendo unilateralmente quelli che tali non siano, a tenore di quanto consentitogli dal comma 8° dell’art. 211 C.C.I.
Detta disposizione va, peraltro, raccordata con gli artt. 172 ss. C.C.I.. Il coordinamento sta in ciò, che le norme generali vedono riespandere la propria incidenza applicativa una volta concluso l’esercizio della curatela e in relazione ai contratti che, nelle more, non siano stati sciolti. In ogni caso, deve ritenersi applicabile ana- logicamente, in costanza di esercizio, la prerogativa di cui al 2° comma dell’art. 172 richiamato, che consente al privato contraente di mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, de- corso il quale, ove l’organo concorsuale non comunichi di voler subentrare nel rap- porto negoziale, quest’ultimo si intende risolto.
Il medesimo 8° comma in parola è chiaro nel riconoscere l’inerenza alla massa, quindi la prededucibilità, ai crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio [10].
8 . Informazione e controllo sull’attività
Proprio in quanto a condizionarlo vi è l’allineamento alla stella polare dell’interesse creditorio, l’esercizio d’impresa – tanto disposto coevamente alla sentenza d’apertura della liquidazione, quanto statuito in costanza di quest’ultima – anche nell’ambito incipiente del C.C.I. esige come persistenti i presupposti che lo hanno giustificato, di talché la convenienza (in negativo, l’assenza di pregiudizio) per i creditori, oggetto di apprezzamento nella fase genetica, è tema di riprova incessante, in una assidua attività di osservazione e verifica.
All’uopo, in forza dell’art. 211, 4° comma, C.C.I. (che tiene pedissequamente la scia dell’attuale art. 104, 3° comma, L. fall.), il comitato dei creditori sarà convoca- to dal curatore almeno ogni tre mesi ed informato sull’andamento della gestione, così da potersi pronunciare sull’opportunità di continuare l’esercizio.
Sempre in funzione del monitoraggio sul corso (e sui costi) dell’esercizio, il 6° comma della norma codicistica in parola richiede al curatore la presentazione di un rendiconto semestrale, sotto forma di bilancio intermedio [11], e di uno finale, diretti entrambi a fare ostensione dei risultati complessivi della continuazione aziendale.
Ancora in una cornice informativa, deve leggersi la previsione, di cui al mede- simo comma, in base alla quale il curatore è tenuto ad informare “senza indugio il giudice delegato ed il comitato dei creditori di circostanze sopravvenute che possa- no influire sulla prosecuzione dell’esercizio provvisorio”.
Giova considerare che il ruolo del comitato, tanto in fase d’avvio, che di controllo, che – infine e come si vedrà (par. 9.) – di cessazione dell’esercizio, si giustifica per ciò, che detto istituto serba una intrinseca rischiosità per il ceto creditorio, in quanto fa subentrare il curatore nella gestione di una impresa la cui titolarità rimane in capo al fallito, con il conseguente cimento, da parte dell’organo motore della liquidazione, in un’attività imprenditoriale suscettibile di innescare, sul piano dei rapporti obbligatori che si correlano alla gestione, una responsabilità diretta del fallimento.
9 . La cessazione dell’esercizio
La chiusura dell’esercizio continua a scontare, anche nel C.C.I., le sue tradizionali criticità: l’ancoraggio al criterio asettico e inespressivo dell’opportunità della chiusura e una evidente asimmetria di governo della fase di epilogo rispetto a quella di avvio.
In effetti, il giudice dovrà disporre la cessazione, con provvedimento reclamabile, sol che il comitato reputi opportuno non proseguire oltre (art. 211, 5° comma). Il tribunale, dal canto suo, potrà far cessare motu proprio l’esercizio, con provvedi- mento non assoggettabile ad impugnazione, sentiti curatore e comitato dei creditori (7° comma).
Se ne ricava che il giudice delegato, quand’anche autorizzi l’esercizio, non avrà potere di impedirne la fine; il tribunale, di contro, potrà scandire sia l’inizio (con sentenza) che la cessazione dell’esercizio; il comitato disporrà di un potere di veto sia sull’avvio (in costanza di liquidazione giudiziale), su impulso del curatore, che sulla prosecuzione dell’esercizio in ogni caso, mentre non potrà, comunque, opporsi alla valutazione autonoma che il tribunale dovesse decidere di compiere, decretando autoritativamente la conclusione della gestione provvisoria.
Su questo orchestrazione concettuale così dissonante fa premio l’opportunità di una virtuosa condivisione di scelte strategiche tra gli organi concorsuali coinvolti.
In ogni caso, un problema continuerà ad afferire alla spettanza del potere di disporre l’esercizio d’impresa nel lasso intercorrente tra la sentenza dichiarativa di apertura della liquidazione giudiziale e l’approvazione del programma di liquida- zione. L’istituto sembrerebbe attivabile per decreto del giudice delegato, su istanza del curatore che gli dovesse rappresentare le ragioni di urgenza, previo parere del comitato dei creditori qualora già costituito. Il tribunale, d’altronde, nell’alveo del 2° comma dell’art. 211 C.C.I., vede esaurirsi il potere di unilaterale statuizione della gestione provvisoria in coincidenza con il deposito della sentenza che apre la liquidazione.
10 . Esercizio d’impresa e appalti pubblici
I commi 8° e 10° dell’art. 211 del C.C.I. espongono opportune le precisazioni in punto di rapporti fra l’impresa in esercizio e gli enti pubblici appaltanti.
Il comma 8° della nuova norma, nel conservare, in linea di continuità con il 7° comma dell’art. 104 L. fall., la prerogativa di sciogliere o sospendere i contratti pendenti in essere e la prededucibilità dei crediti generati in corso di esercizio, soggiunge che “è fatto salvo il disposto dell’articolo 110, comma 3, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”. Tale ultima disposizione, acclusa nel c.d. “Contratto de- gli appalti pubblici”, prevede che il curatore del fallimento in esercizio provvisorio, possa, dietro autorizzazione del giudice delegato “a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto; b) eseguire i contratti già stipulati dall’impresa fallita o ammessa al concordato con continuità aziendale”.
Ove si consideri che, il successivo 10° comma dell’art. 211 C.C.I. dispone che “Il curatore autorizzato all’esercizio dell’impresa non può partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto”, complessivamente se ne ricava come l’organo concorsuale in menzione necessiterà sempre di un titolo autorizzatorio, resogli dal giudice delegato, al fine di instaurare rapporti negoziali con stazioni appaltanti pubbliche, accedendo previamente alle procedure di gara da queste indette.
11 . Considerazioni conclusive
La circostanza che la norma sull’esercizio d’impresa sia quella che apre il nove- ro delle disposizioni dedicate alla liquidazione dell’attivo rende plastica l’idea di incentivare, rispetto alle soluzioni liquidatorie, quelle che mantengono il going concern, non senza condizionarle, tuttavia, al limite della corrispondenza della continuazione dell’azienda al miglior interesse dei creditori coinvolti. Non è un caso che a costoro non possa essere arrecato pregiudizio dall’esercizio disposto in sentenza (art. 211, 2° comma, C.C.I.); né è accidentale che essi possano ottenere la cessazione dell’esercizio ogni qualvolta lo sentano “opportuno” (5° comma, art. 211 C.C.I.). La tutela dell’impresa rimane, in altri termini, sotto ordinata rispetto a quella dei creditori, posto che il delicato rapporto tra conservazione dell’impresa e modalità di soddisfacimento dei creditori, è bilanciato a favore di questi ultimi, se non stabilito da essi stessi, in virtù della prerogativa di far cessare ad libitum la continuazione dell’impresa sul presupposto, a dir poco evanescente, di una avvertita “opportunità” (art. 211, 5° comma).
La questione cruciale rimane netta ed attiene al se oggi questa regola giuridica corrisponda o meno all’esigenza economica. Se si osserva la struttura della impresa e la complessità delle sue articolazioni, se si considerano i rapporti economici che si organizzano in funzione di essa o in cui essa si trova coinvolta, viene naturale dubi- tare che i soggetti su cui la crisi maggiormente impatta siano solo quelli o essenzialmente quelli che, hic et nunc, si palesano titolari di un credito liquido ed esigibile. Altri soggetti, portatori di istanze ulteriori, rivelano una posizione non meno esposta ai contraccolpi della crisi dell’impresa: sono i lavoratori che aspirano a conservare il posto, i partners commerciali, gli utenti dei beni e dei servizi forniti dall’impresa, le realtà dell’indotto. Tutti questi soggetti, non potendo vantare una obbligazione inadempiuta dal debitore, si collocano ai margini del contesto dell’insolvenza, rimanendo condannati a subire le decisioni dei creditori sul destino del- l’impresa in esercizio.
Questa fisionomia complessiva si proietta sullo strumento cardine di conservazione del going concern in funzione liquidatoria: l’esercizio d’impresa non viene, nel contesto della Riforma, inciso nelle sue sembianze. Ed allora è agevole individuare alcuni profili certi: identica rimane la prospettiva della salvaguardia ad appannaggio dei creditori degli organismi produttivi, in vista di una loro riallocazione imprenditoriale, mediante forme e moduli rimessi alla selezione del curatore; le prerogative gestorie seguitano a far capo a quest’ultimo; invariato resta il rapporto tra gli organi; un compito sostanzialmente decisorio viene conservato in capo al comitato dei creditori; il giudice mantiene una terzietà di ruolo e d’approccio.
In quest’ottica, il C.C.I. costituisce un’implicita risposta affermativa sulla ritenuta sufficienza dello strumento in parola, secondo la foggia che lo contrassegna da tredici anni. All’altro corno del dilemma, quindi alla domanda sul se i protagonisti della gestione dell’insolvenza abbiano saputo adoperarlo, il responso è sempre sottinteso, ma stavolta di tenore negativo. E si afferra nell’esigenza di rimeditare – che il C.C.I. disvela – non tanto lo schema della conservazione prodromica alla liquida- zione dell’azienda insolvente, ma il luogo e il tempo della negoziazione della crisi, che secondo il Riformatore non può non avvenire prima e non può non compiersi sotto l’egida di organi neutrali di composizione dei problemi connessi al ciclo economico. Il che sembrerebbe un segnale di immaturità del sistema, se non fosse, come in effetti verosimilmente è, il sintomo di un sistema che cerca nel confronto consapevole in un contesto imparziale e degiurisdizionalizzato il suo nuovo punto di equilibrio: da qui l’approdo ai meccanismi di allerta, con le copiose incognite sulla loro funzionalità e prima ancora su mezzi e connotati di una loro ragionevole messa a regime.

 


* Edito su Il diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 3-4/2019.

Note:

[1] 
Con riferimento allo “schema” di decreto v. le efficaci e propositive considerazioni di Ambrosini, Strumenti di allerta, accesso alle procedure e concordato preventivo nella bozza di codice della crisi e dell’insolvenza: un risultato importante, ma non marginalmente perfettibile, in ilcaso.it. Sulla legge delega di rilievo, per la prospettiva incisivamente offerta, si vedano i contributi di F. DI MARZIO, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Osservazioni sulla legge delega, Mila- no, 2018; S. DE MATTEIS, I principi generali della legge delega di riforma delle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2017, I, p. 1295; M. FABIANI, Di un ordinato ma timido disegno di legge delega sulla crisi d’impresa, in Fall., 2016, p. 263. 
[2] 
L’affitto è suscettibile di integrarsi reciprocamente con l’esercizio, allo scopo del conseguimento di una vendita unitaria del compendio. 
[3] 
In ultima analisi, occorrerebbe che, già in sede istruttoria prefallimentare, l’Ufficio fosse messo nelle condizioni di verificare la natura delle immobilizzazioni immateriali, la consistenza effettiva del magazzino, lo stato dei crediti, quindi di sondare il margine di tesoreria, il capitale circolante netto e, in definitiva, la capacità dell’impresa di produrre reddito sostenendo il debito.
[4] 
Cass. 7 marzo 2013, n. 5678; Trib. Piacenza, 10 agosto 2012 in www.ilcaso.it; Trib. Udine, 12 dicembre 2011, in www.ilcaso.it; Trib. Bologna, 14 agosto 2009, in www.ilcaso.it
[5] 
Trib. Lecco, 9 luglio 2013, in www.ilcaso.it.
[6] 
Trib. Parma, 19 marzo 2015, in www.ilcaso.it
[7] 
Trib. Siracusa, 26 novembre 2013, in Fallimentarista, con nota di ANGELI. 
[8] 
Trib. Siracusa, 13 novembre 2013, in Fallimentarista, con nota di AMATORE. 
[9] 
Cass. 9 gennaio 1987, n. 71. 
[10] 
Nel quadro dell’attuale art. 104, 8° comma, L. fall., omologo sul punto alla norma del C.C.I., Cass. 25 settembre 2017, n. 22274 e Cass. 19 marzo 2012, n. 4303, ambedue relative a contratti di somministrazione, hanno evidenziato che in caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica pendenti al momento della dichiarazione di fallimento ed in presenza di esercizio provvisorio dell’impresa fallita, i relativi crediti maturati ante fallimento, sono o meno prededucibili, a seconda che, al termine dell’esercizio provvisorio, il curatore abbia scelto di subentrare o sciogliersi dal contratto, mentre solo quelli maturati in pendenza di esercizio provvisorio sono sempre prededucibili, al pari di quelli, successivi al termine dell’esercizio provvisorio, in caso di subentro nel contratto da parte del curatore; infatti, l’eccezionalità delle disposizioni dettate dalla legge fallimentare per i contratti di durata, ex artt. 74 e 82 L. fall., in ragione dell’indivisibilità delle prestazioni, con il diritto alla prededuzione dei crediti anche preesistenti va contemperata con la ratio della disciplina dell’esercizio provvisorio, che limita la stessa prededucibilità quando la prosecuzione del rapporto è l’effetto diretto del provvedimento giudiziale, non della scelta del curatore.
[11] 
Occorreranno, segnatamente, stato patrimoniale, conto economico, nota integrativa di accompagnamento. 

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