Se la causa del concordato preventivo è la regolazione della crisi dell’imprenditore e se il procedimento di concordato è lo strumento per comporre con i creditori quella crisi, l'oggetto del giudizio di omologazione è rappresentato dall’accertamento sulla domanda, con la quale si chiede che il giudice verifichi che il conflitto che è sorto fra un imprenditore-debitore e i suoi creditori è stato composto con un accordo; un accordo che ha rispettato taluni limiti legali e nel quale trovano applicazione le regole concorsuali. Quando si è accertata la sussistenza dei requisiti che giustificano l’apertura della liquidazione giudiziale, ciò che ne segue è un procedimento esecutivo; quando si accertano i presupposti del concordato, quella che ne deriva è una composizione fondata basilarmente sui principi della autonomia privata. L’oggetto del processo è parzialmente coincidente nella parte in cui si vuole che la crisi trovi una sistemazione, ma è anche in parte diverso là dove le regole da applicare sono differenti perché i due modelli di concorso non sono equipollenti.
Un punto è certo: la natura e l’oggetto del procedimento non cambiano a seconda che siano proposte o meno opposizioni: con le opposizioni non si trasforma un procedimento di volontaria giurisdizione in un processo contenzioso, non si muta l’oggetto del giudizio, ma semplicemente si amplia la cognizione del giudice perché si introducono fatti che altrimenti il tribunale non avrebbe modo di conoscere: semplicemente, il giudice, se vi sono opposizioni, dovrà svolgere qualche accertamento in più.
Altro punto certo è la funzione del giudizio di omologazione che con la sentenza di omologazione consente che tutti gli effetti dell’accordo stipulato fra il debitore e la maggioranza dei creditori si estendano ai terzi: si pensi agli effetti rispetto ai creditori anteriori (art. 117 CCII), agli effetti sull’esenzione dalle azioni revocatorie (art. 166, 3° comma, lett. e), agli effetti ai fini dell’esimente dal reato di bancarotta (art. 324 CCII).
Meno evidente è la tipologia del giudizio. Siamo in presenza di un modello lasciato alla discrezionalità del giudice, ma in una cornice regolatoria più definita rispetto a quella tipica del procedimento camerale del codice di rito, dato che il legislatore ha previsto termini e modi del processo, tratteggiandone alcuni tempi e alcune forme. Che i tratti distintivi siano quelli dei procedimenti in camera di consiglio si ricava, sul piano formale, dal richiamo all’“udienza in camera di consiglio” contenuto nell’art. 48 comma 1° CCII: ma ci si può chiedere se, a dispetto di questa indicazione letterale, non si debba qualificare il procedimento come un processo a cognizione piena, ma semplificato, al modo di quanto era stato ritenuto, con riferimento all’art. 15 l.fall., per l’istruttoria pre-fallimentare.
L’opzione per il modello camerale, infatti, potrebbe rilevare per dimostrare che non sono in discussione diritti soggettivi e che il provvedimento conclusivo – l’omologazione assunta con sentenza – non ha natura decisoria. Tuttavia, poiché è noto che il procedimento in camera di consiglio è divenuto ormai, per la giurisprudenza costante del giudice di legittimità, un contenitore adatto ad includere anche liti su diritti, la scelta del legislatore può essere considerata neutra. E se così è, possiamo tenerci lontani da una classificazione motivata da prese di posizione preconcette, rimanere aderenti all’indicazione normativa e mantenere il giudizio di omologazione tra quelli camerali: possiamo considerare tale scelta ragionevolmente coerente con l’impostazione sistematica del concordato, del piano e degli accordi, seppure non priva di criticità sul piano applicativo, dal momento che il modello di procedimento non è né quello generale del codice di rito (artt. 737 segg. c.p.c.), né quello camerale ma arricchito previsto dall’art. 124 CCII e richiamato per il concordato di liquidazione dall’art. 245 CCII.
Sennonché, il giudizio di omologazione del concordato, degli accordi e del piano di ristrutturazione continua a sfuggire, per un verso o per l’altro, alle categorie tradizionali del processo civile.
Come enunciato, si può indagare sull’oggetto dando per condiviso che la causa del concordato preventivo sia la regolazione della crisi secondo le regole del concorso concordatario. Il concordato è al servizio della sistemazione della crisi che ha investito un imprenditore e la sistemazione della crisi può avvenire, pur con ampia flessibilità, in base ad una serie di regole che disciplinano il concorso fra i creditori e che sono ben diverse rispetto agli accordi di ristrutturazione e al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, non fosse altro che per il fatto che solo nel concordato sono stabilite regole di distribuzione del valore (v., artt. 84 e 112 CCII).
Ora, se è vero che la causa del concordato preventivo è la regolazione della crisi e che la procedura di concordato è lo strumento per comporre con i creditori quella crisi, cionondimeno non si dev’essere troppo condizionati, nel ricavare l’oggetto del giudizio di omologazione, dalla causa (e dall’oggetto) del procedimento di concordato. Poiché il giudizio di omologazione è servente rispetto alla procedura concordataria, della quale rappresenta soltanto un segmento, l’oggetto dell’uno ben può essere ricostruito senza eccessivi condizionamenti che derivino dalla seconda.
Altri punti fermi. Oggetto del processo di concordato e oggetto del giudizio di omologazione non sono né la qualità di imprenditore commerciale non sotto-soglia del debitore, né lo stato di crisi o di insolvenza, né i diritti dei creditori. I primi due, al più, rappresentano i presupposti perché ci possa essere una procedura concordataria.
Ciò di cui si discute nel giudizio di omologazione è se la crisi del debitore - crisi che come detto rappresenta un presupposto del procedimento - può essere composta col concordato o se deve essere risolta con la procedura di liquidazione giudiziale o comunque con una soluzione di carattere espropriativo. Formulata la questione in questi termini, si potrebbe dire che al fondo si tratta di porre il focus del processo nel controllo sull’esercizio di quello che può essere definito un potere processuale: il potere di chiedere al giudice di verificare che la crisi può essere regolata con la disciplina del sistema concorsuale-concordatario. In questa chiave, si tratterebbe in particolare di capire se oggetto del giudizio sia la conformazione di un potere, un diritto, o invece se si tratti semplicemente di attribuire efficacia a un accordo, senza che si possa ragionare in termini di oggetto del processo perché un vero e proprio oggetto del processo non c’è.
Il potere di chiedere (e dunque di ottenere) che la crisi sia regolata secondo la disciplina del concordato, sussiste quando si verificano una serie di circostanze che costituiscono i presupposti, o forse meglio, gli antecedenti logici perché quel potere sia riconosciuto.
Ma l’oggetto del processo non si compendia in un diritto soggettivo potestativo, né in un potere di conformazione dell’altrui sfera giuridica, perché le modificazioni dei diritti di coloro che si trovano in posizione antagonista presuppongono che l’esercizio del potere intercetti il consenso della maggioranza di coloro che subiscono l’effetto. Il consenso che viene prestato dai creditori è un presupposto di legittimità del procedimento nonché un presupposto su cui il potere del debitore è fondato.
Il giudizio di omologazione si inserisce nel procedimento unitario, e rappresenta, come un tempo, un segmento della procedura di concordato, ma oggi è retto, diversamente dal passato, dal medesimo ricorso che avvia la procedura concordataria. Ricorso che può reggere anche il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale, anch’esso disciplinato dall’art. 40 CCII. È proprio da qui che dobbiamo partire: dal procedimento unitario, immaginandolo avviato da una domanda di apertura della liquidazione giudiziale. Con questo ricorso, il creditore chiede che il suo credito sia tutelato con le regole dell’espropriazione concorsuale; se nel procedimento si inserisce la domanda di concordato, il debitore chiede che i suoi debiti seguano le regole del concorso, ma vengano trattati in base alle pattuizioni negoziali che prevalgono su quelle del procedimento liquidatorio.
Ciò implica che creditore e debitore da una parte (nella liquidazione giudiziale) e debitore e creditori dall’altra (nel concordato preventivo) si collochino comunque in posizione antagonista. La contrapposizione di interessi, infatti, è intrinseca nella situazione di dissesto (o di semplice crisi, ma non risolvibile con le sole ‘forze’ del debitore) e il fatto che costui possa, nel caso concreto, anche aderire al ricorso per la liquidazione giudiziale, o i creditori possano talora non essere interessati a proporre opposizione al concordato, non incide sulla valutazione di quale siano la natura e l’oggetto del processo.
Al fondo, nel più lato procedimento unitario, ci troviamo dinanzi ad un procedimento sui generis, nel quale la ‘domanda’ serve ad aprire un processo (come la rinuncia serve a chiuderlo) ma una volta che questo è stato aperto, il suo oggetto è la verifica di quella situazione di crisi/insolvenza la quale giustifica che il trattamento delle relazioni tra debitore e creditori e tra creditori sia disciplinato da regole di tutela collettiva e non solo individuale come accade nell’espropriazione forzata.
Al fine di giungere ad una conclusione razionale occorre, ancora, ricordare che il provvedimento che conclude il giudizio di omologazione assume la forma di sentenza ed è ricorribile per cassazione: la scelta è stata originata soprattutto dalla volontà di prevedere un unico modello di provvedimento, qualunque sia la soluzione della crisi, in linea con la previsione di un procedimento unitario nel quale confluiscono le opposte domande di regolazione della crisi o dell’insolvenza. In questo modo, non abbiamo più, come nell’art. 180 ult. co. l.fall., l’eventualità di una dichiarazione di insolvenza resa con sentenza contestuale alla pronuncia di un decreto di rigetto della domanda di omologazione; vi sarà un’unica pronuncia (eventualmente suddivisa in capi) emessa sempre in forma di sentenza, sulle diverse domande introdotte nell’unico giudizio, impugnabile unitariamente nei modi dell’art. 51 CCII. Peraltro, se si può reputare più coerente il modello ‘sentenza’ per l’omologazione del concordato rispetto al modello ‘sentenza’ per l’omologazione degli accordi, là dove l’assetto privatistico – non scalfito dalla teoria, per vero ancora controversa, della concorsualità degli accordi – avrebbe giustificato forse la persistenza di un provvedimento con forma di decreto, non vale neppure troppo la pena di indugiare su questioni nominalistiche se si guarda al fatto che nel concordato di liquidazione (art. 246 CCII) il tribunale decide con decreto e nel concordato coattivo (art. 314 CCII) decide invece con sentenza.
Se invece si vuole ricavare una qualche indicazione dall’adozione della forma della sentenza, se ne potrebbe desumere la volontà del legislatore di sottolineare che, qualunque sia la regola da applicare alla crisi del debitore (siano le regole più pervasive della liquidazione giudiziale, quelle ampiamente flessibili degli accordi di ristrutturazione o quelle intermedie del concordato preventivo), siamo dinanzi a un giudizio promosso da un soggetto che reagisce ad una situazione di crisi chiedendo l’apertura di un procedimento che deve chiudersi con un provvedimento che certifica quali sono le regole da applicare a quella specifica crisi. Così ragionando, allora, ne verrebbe ribadita la tesi secondo cui oggetto del giudizio di omologazione del concordato preventivo sia la verifica del corretto esercizio del potere del debitore di vedere regolata la propria crisi in base allo schema del ‘concorso concordatario’: un concorso vero e proprio, nel quale esiste un ordine di distribuzione verticale delle risorse che non è imposto dal giudice ma negoziato dalle parti e certificato dal tribunale.
Per la giurisprudenza il provvedimento emesso dal tribunale all’esito del giudizio di omologazione ha natura decisoria: ma non dimentichiamo che il giudice di legittimità, pur muovendo dalla premessa tradizionale per la quale la “decisorietà” consiste nell’attitudine del provvedimento del giudice non solo ad incidere su diritti soggettivi delle parti, ma ad incidervi con la particolare efficacia del giudicato, declina quella idea individuando l’elemento discretivo tra ciò che è decisorio e ciò che non lo è, nella previsione di un contraddittorio con coloro che si ritengono avere interesse contrario alla decisione richiesta. Ed allora, dove il contraddittorio non è previsto (come avveniva per il decreto reso ex art. 162 l. fall., che contempla solo l’audizione del debitore), manca la controversia e dunque non può affermarsi che la sentenza decida su diritti soggettivi di parti contrapposte e sia destinato al giudicato.
L’argomento della ricorribilità per cassazione della sentenza non è decisivo per suffragare la tesi della natura contenziosa del procedimento: si può sostenere, infatti, che al termine del giudizio non si formi un vero e proprio giudicato, ma si realizzi semmai una forma di stabilità del provvedimento volta a rendere irretrattabili i diritti e gli interessi coinvolti nella procedura concorsuale.
Questa stabilità, in un processo nel quale il presupposto è un dissesto e, dunque, una lesione inferta alle relazioni economiche tra più soggetti, giustifica largamente che non vi sia spazio per ripensamenti (cioè per la revoca del provvedimento).
Per concludere, la distinzione, confermata espressamente nell’art. 87 CCII, fra “piano”, “proposta” e “domanda”, chiarisce che il debitore formula una domanda giudiziale sin dal deposito del ricorso ex art. 40 CCII, e che è necessario tenere separato il profilo, per così dire, volitivo-giudiziale della domanda dal profilo conciliativo-negoziale della proposta. Col ricorso viene sollecitata l’apertura della procedura di concordato preventivo ma anche la sua omologazione, cui però si dà seguito solo per effetto della approvazione dei creditori. Per decidere sulla richiesta di omologazione il tribunale dapprima è tenuto ad accertare che sussistono i presupposti e questi in parte preesistono alla domanda e in parte si formano all’interno del procedimento. È solo per effetto dell’approvazione dei creditori, infatti, che si passa all’esame della domanda di omologazione.
In questa prospettiva il giudizio di omologazione, che si innesta nel procedimento unitario, può essere visto come il contenitore nel quale si deve verificare, innanzi tutto, se è stato legittimamente esercitato da parte dell’imprenditore il potere di chiedere che la sua crisi venga regolata con gli strumenti del concorso concordatario; un concorso che, pur se rientra nelle forme di attuazione della responsabilità patrimoniale, è dotato di regole autonome, come si ricava ad esempio dal fatto che non sono esercitabili le azioni revocatorie concorsuali.
Il potere di ottenere che la crisi sia regolata secondo la disciplina del concordato sussiste quando si verificano una serie di circostanze che costituiscono i presupposti perché quel potere sia riconosciuto. Non un vero e proprio potere di conformazione dell’altrui sfera giuridica, perché la modificazione dei diritti di coloro che si trovano in posizione antagonista presuppone che l’esercizio del potere intercetti il consenso della maggioranza di coloro che “subiscono” l’effetto. Se non fosse prevista la votazione si avrebbe ragione di sostenere che si tratti di un diritto potestativo del debitore di conformare la situazione altrui, da esercitarsi all’interno del processo, e perciò a necessario esercizio giudiziale; tuttavia, poiché la votazione è necessaria e deve dare un risultato di consenso alla proposta, non è neppure sufficiente che il diritto – che altri ordinamenti riconoscono anche ai creditori - sia esercitato nel processo per produrre i propri effetti.
Vi sono, dunque, motivi che spingono nella direzione della cognizione su poteri (tesi ‘A’), come appare dal fatto che il procedimento si chiude con una sentenza ed è previsto il ricorso per cassazione; ma ve ne sono anche altri per non discostarsi, all’opposto, dalla tesi che scorge nel procedimento una fattispecie autorizzatoria-omologatoria (tesi ‘B’): e ciò perché il potere è sui generis, non c’è lesione di un diritto, né un mutamento di status, e perché la previsione espressa della ricorribilità per cassazione può dipendere sì dalla situazione soggettiva (tesi ‘A’) ma anche, più semplicemente, dalla esigenza di stabilizzazione degli effetti dell’accordo raggiunto (tesi ‘B’). In questo caso, si deve concludere che al giudice è rimesso semplicemente il controllo della legittimità della volontà delle parti (fissata nel patto da omologare) a protezione dei soggetti estranei all’accordo, e che la sentenza entra a far parte della fattispecie negoziale cui è chiamata ad attribuire efficacia. È la natura non meramente individuale degli interessi in gioco che spinge a non rinunciare al favore per una soluzione negoziata, ma insieme a negarle forza conclusiva del processo e a collegare invece tale conclusione al sopraggiungere di un provvedimento che, chiudendo il procedimento avviato con il ricorso ex art. 40, si combina ab externo con la volontà dei soggetti stipulanti.