Il tema dell’oggetto del processo è un tema classico del diritto processuale civile, seppure in tempi più recenti tenda ad essere meno valorizzato che in passato, tanto che taluno discute dell’utilità di una indagine di questo tipo.
Rimane ferma la necessità, comunque, di stabilire il perimetro dell’intervento del giudice e il vincolo che si forma sul provvedimento, sia esso di vero e proprio giudicato o di semplice preclusione. In questa prospettiva resta, quindi, opportuno continuare a interrogarsi sull’oggetto del giudizio anche nella materia concorsuale.
Una considerazione preliminare: sul punto, in passato e con riguardo al sistema della legge fallimentare rivisitata a partire dal 2005, abbiamo espresso idee differenti[9]; oggi, con l’introduzione del procedimento unitario, entrambe le visioni potrebbero essere messe parzialmente in discussione. È comunque utile offrire delle chiavi di lettura che tengano conto dei diversi approcci.
Il giudizio di omologazione, abbiamo detto, si inserisce nel procedimento unitario, e rappresenta, come in passato, un segmento della procedura di concordato, ma oggi è retto, diversamente dal passato, dal medesimo ricorso che avvia la procedura concordataria. Ricorso che può reggere anche il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale, anch’esso disciplinato dall’art. 40 CCII.
È proprio da qui che dobbiamo partire: dal procedimento unitario, immaginandolo avviato da una domanda di apertura della liquidazione giudiziale. Con questo ricorso, il creditore chiede che il suo credito sia tutelato con le regole dell’espropriazione concorsuale; se nel procedimento si inserisce la domanda di concordato, il debitore chiede che i suoi debiti seguano le regole del concorso, ma vengano trattati in base alle pattuizioni negoziali[10] che prevalgono su quelle del procedimento liquidatorio[11].
Ciò implica che creditore e debitore da una parte (nella liquidazione giudiziale) e debitore e creditori dall’altra (nel concordato preventivo) si collochino comunque in posizione antagonista. La contrapposizione di interessi, infatti, è intrinseca alla situazione di dissesto (o di semplice crisi, ma non risolvibile con le sole ‘forze’ del debitore) e il fatto che il debitore possa, nel caso concreto, anche aderire al ricorso per liquidazione giudiziale, o i creditori possano talora non essere interessati a proporre opposizione al concordato, non incide sulla valutazione di quale sia la natura e l’oggetto del processo.
Nel sistema anteriore alla introduzione del procedimento unitario, si poteva sostenere (è la tesi di uno dei due autori di questo saggio) che il ricorso per fallimento e il ricorso per concordato preventivo avessero in comune l’oggetto nella parte in cui il ricorrente fa valere una situazione potestativa strumentale (il passaggio dalla regolazione civilistica a quella commercialistica delle obbligazioni); dopo di che, una volta che si fosse accertata la sussistenza dei requisiti che giustificavano l’apertura del fallimento, ciò che ne seguiva era un procedimento esecutivo, mentre in caso di accertamento dei presupposti del concordato, quella che ne derivava era una composizione fondata prevalentemente sui principi della autonomia privata. Di conseguenza anche il giudizio di omologazione era inteso come un giudizio avente ad oggetto il diritto del debitore di vedere risolta la propria crisi secondo le regole negoziali.
Quella conclusione è ora messa fortemente in dubbio dall’inserimento di una previsione eterodossa che troviamo nell’art. 37 CCII là dove si attribuisce la titolarità dell’iniziativa per l’apertura della liquidazione giudiziale anche agli organi di controllo, ovvero il collegio sindacale o il sindaco unico[12]. Poiché non vi è dubbio che i controllori non siano titolari di alcuna posizione che possa qualificarsi in termini di esercizio di un potere che non sia meramente processuale[13], ribadire la tesi avanzata in passato comporta, per chi non la voglia abbandonare, uno sforzo ricostruttivo tutt’altro che semplice. Non minori criticità presenta – ma questa volta perché è il ricorso ex art. 40, che, al di fuori dell’ipotesi dei sindaci, sembra postulare che si faccia valere un diritto, a reggere anche il giudizio di omologazione - la ricostruzione di chi (è la tesi dell’altro dei due autori) preferisce escludere che nell’omologazione si decida di diritti potestativi, e ritiene che si operi, piuttosto, nel settore in cui l’intervento giudiziale serve solo a consentire all’atto dei privati di produrre un’efficacia che, in quanto tale da incidere sulla posizione di “terzi”, richiede un controllo da parte del giudice.
La previsione di una iniziativa dell’organo di controllo, nel nostro sistema, si ritrova anche in vicende che presentano una qualche simmetria rispetto a quella della legittimazione all’apertura della liquidazione giudiziale, come la denuncia di cui all’art. 2409 c.c. Una simmetria che si può cogliere anche nel fatto che in entrambi i casi concorre con quella, sebbene con riferimento ad alcune categorie soltanto di società, l’iniziativa del pubblico ministero.
A proposito del procedimento di cui all’art. 2409 c.c. vi è chi discorre di ‘giurisdizione obiettiva’, rispetto alla quale non si controverte né su diritti, né su poteri, ma sul dovere di provvedere[14].
Per altri, si tratta di giurisdizione volontaria a tutto tondo.
Secondo la Cassazione, la denuncia di cui all’art. 2409 c.c. “dà vita ad un procedimento di amministrazione di interessi privati, definito di volontaria giurisdizione, il quale comporta un’attività oggettivamente amministrativa, connotata dalla modificabilità e revocabilità dei provvedimenti i quali, se pure incidenti sui diritti di terzi come gli amministratori, cui, dunque, è consentita la partecipazione al procedimento a tutela del loro interesse legittimo, non decidono in ordine ad alcun rapporto di diritto sostanziale fra i soci denunzianti ed i terzi”[15].
Di certo siamo dinanzi ad una ipotesi di giurisdizione non necessitata[16], di quelle, cioè, che vedono al centro del giudizio gli interessi di minori, incapaci, patrimoni separati, gruppi collettivi, rispetto alla quale i diritti dei soci o dei terzi, lesi dalla violazione dei doveri in capo agli amministratori e ai sindaci, ricevono, nella sede camerale, unicamente la tutela indiretta derivante dall’eliminazione delle gravi irregolarità. In questa prospettiva non vi è dunque un processo nel quale al giudice è demandato il compito di risolvere una controversia tra parti contrapposte, ma un intervento giudiziale che, nelle forme della giurisdizione non contenziosa, è volto a “gestire” l’interesse della società ad una corretta amministrazione, peraltro incidendo, in caso di revoca, sui diritti soggettivi di amministratori e sindaci. E se pure il procedimento per irregolarità di gestione presenta rilevantissima delicatezza per i temi dibattuti[17], ne è pacifica, almeno in giurisprudenza, la non ricorribilità per cassazione.
Qualunque sia la ricostruzione che si ritenga preferibile, il procedimento non si focalizza sull’accertamento della lesione di un diritto ma sulla corretta gestione della società: variano le sfumature, ma nella sostanza i valori in gioco restano gli stessi e cioè l’assenza di una lesione e la presenza di interessi generali che giustificano la tipologia di iniziativa.
Nel caso della apertura della liquidazione giudiziale le cose non stanno in modo troppo diverso. Se l’iniziativa del P.M. serve a bilanciare il venir meno dell’iniziativa ufficiosa, l’attribuzione all’organo di controllo nell’art. 37 CCII avvicina il ricorso, allo stesso modo di quel che avviene nell’art. 2409 c.c., alla categoria della segnalazione, facendogli perdere, almeno per quanto attiene al ricorso dei sindaci, il valore tipico della domanda giudiziale. In questi casi è difficile sostenere che il processo ruoti attorno ad una domanda su un diritto/potere: piuttosto, esso si sviluppa su una ‘mera’ richiesta di apertura, cui corrisponde, per altro verso, un potere di rinuncia. Così che al fondo ci troviamo dinanzi ad un procedimento sui generis, nel quale la ‘domanda’ serve ad aprire un processo (come la rinuncia serve a chiuderlo) ma una volta che questo è stato aperto, oggetto del processo è la verifica di quella situazione di crisi o insolvenza che giustifica che il trattamento delle relazioni tra debitore e creditori e tra creditori sia disciplinato da regole di tutela collettiva e non solo individuale come accade nell’espropriazione forzata.