Come visto, il panorama giurisprudenziale si presenta ad oggi piuttosto frastagliato e non manca neppure qualche spunto argomentativo del tutto innovativo. Sotto quest’ultimo profilo, tra le pronunce passate in rassegna spicca senza ombra di dubbio il precedente cosentino che, tuttavia, non pare porsi molto in linea con l’insegnamento tradizionale. Invero, i debiti oggetto di falcidia non sorgono «successivamente» al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo. Trattasi di debiti che trovano pacificamente la loro causa in fatti generatori anteriori alla promozione del ricorso giudiziale, ma che vengono ritoccati sia nel quantum che nel loro orizzonte temporale di adempimento per mezzo del concordato che, una volta omologato, “ristruttura” l’insolvenza. Ristrutturazione (o falcidia, che dir si voglia) che, nel caso in cui decorra il termine annuale utile per la richiesta di risoluzione, si stabilizza, di talché l’insolvenza – come riaffermato dalla pronuncia delle Sezioni Unite del febbraio 2022 – “non rileva più nella sua manifestazione d’origine ma, eventualmente, solo in quella rinveniente dalla mancata esecuzione del patto concordatario”.
D’altro canto, la ratio sottesa all’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 119 è piuttosto chiara ed è già stata oggetto di analisi: il legislatore ha preso posizione nel dibattito dottrinale-giurisprudenziale sul fallimento omisso medio chiarendo definitivamente che, una volta spirato il termine annuale per la risoluzione del concordato, per i creditori “falcidiati” non vi è più nessuno spazio per provocare la liquidazione giudiziale dell’imprenditore. L’interpretazione data dal giudice calabrese, com’è evidente, depotenzierebbe totalmente l’intervento riformatore, lasciando le cose esattamente come erano prima.
Prima di passare alla disamina critica degli altri orientamenti, sembra opportuno soffermare maggiormente l’attenzione sull’art. 119 e, soprattutto, sul contesto entro il quale esso risulta inserito. La disposizione è collocata nella sezione VI del capo III (disciplinante il concordato preventivo) del titolo IV (disciplinante gli strumenti di regolazione della crisi); sezione che si occupa della “omologazione del concordato preventivo” ma che detta, sia pure in maniera piuttosto scarna, anche delle norme che concernono l’esecuzione del concordato successivamente all’omologazione (precisamente dall’art. 114 all’art. 120). Diverse sono le disposizioni che dettano regole innovative (o parzialmente innovative) rispetto al tessuto normativo previgente. A mero titolo esemplificativo: - l’art. 115 sancisce espressamente che il liquidatore (nel concordato liquidatorio) è legittimato ad esercitare l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori; legittimazione invece messa in dubbio sotto il vigore della legge fallimentare[14]; - ai sensi dell’art. 118, il commissario giudiziale è tenuto ogni sei mesi a presentare una relazione di aggiornamento nel corso dell’esecuzione e, conclusa l’esecuzione, deve depositare un rapporto riepilogativo (incombenze non previste nell’art. 185 L. fall.); - sempre ai sensi dell’art. 118, il commissario giudiziale può rilevare l’inerzia del debitore nel compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta e al piano sempre, e non solo quando è stato omologato un concordato concorrente (come invece sembrava prevedere l’art. 185 L. fall.); - la legittimazione a chiedere la risoluzione o l’annullamento del concordato preventivo è attribuita anche al commissario giudiziale (artt. 119 e 120); - infine, come più volte detto, non può dichiararsi la liquidazione giudiziale se prima non sia stato risolto il concordato (art. 119, settimo ed ultimo comma).
Orbene, sembra evidente che il Codice detta una (nuova) disciplina organica, integralmente sostitutiva di quella previgente, discostandosene sotto pochi (ma non poco significativi) profili. L’art. 119 rappresenta senza ombra di dubbio il più eclatante esempio: se da un lato il legislatore ha chiarito che i creditori concorsuali possono agire per l’apertura della liquidazione giudiziale solo se prima hanno domandato la risoluzione (così responsabilizzandoli rispetto alla gestione del proprio credito nell’ambito dell’esecuzione concordataria), dall’altro lato – allo scopo di prevenire il fenomeno dei c.d. concordati dormienti – pur non avendo riesumato la categoria della “liquidazione giudiziale d’ufficio”, ha attribuito la legittimazione a chiedere la risoluzione al commissario giudiziale, previa istanza di uno o più creditori. Pare chiaro che, con queste due modifiche rispetto all’assetto previgente, il Codice delinei un nuovo bilanciamento d’interessi, determinando un mutamento molto forte del ruolo del commissario giudiziale nella fase esecutiva del concordato (come anche riprovato dalle novità inserite nell’art. 118, sopra accennate).
Ecco, pare del tutto ragionevole affermare che tale nuovo assetto complessivo non possa essere applicato “a singhiozzo” e quindi che, se si è pronti a sostenere che il comma settimo dell’art. 119 si applica a tutti i concordati in corso di esecuzione (come sostenuto dal primo degli orientamenti descritti), allora si debba del pari essere pronti ad affermare che anche il commissario ha legittimazione ad agire, così come ad applicare tutte le altre novità apportate dal Codice; e ciò anche a concordati che potrebbero essere stati omologati un decennio fa.
L’orientamento ad oggi maggioritario non pare aver debitamente tenuto conto di tale aspetto. Si intende con ciò rimarcare il fatto che limitare il raggio visuale al solo ultimo comma dell’art. 119 per risolvere la tematica della liquidazione giudiziale omisso medio, senza però tenere conto dei risvolti sistematici che necessariamente una simile conclusione può portare con sé, non sembra costituire un’operazione ermeneutica esaustiva. Prendendo però in debita considerazione tutte le implicazioni che discendono dall’applicazione dell’art. 119, comma 7, l’approdo interpretativo al quale perviene l’orientamento in esame pare tutt’altro che persuasivo, giacché risulta platealmente distonico sul piano sistematico applicare a concordati omologati anni fa le regole per l’esecuzione dei concordati dettate dal Codice della crisi, in primis la legittimazione del commissario giudiziale a domandare la risoluzione di un concordato.
È tenendo conto dei superiori ragionamenti che ci si deve approcciare anche allo “spartiacque” dettato dall’art. 390, comma 2, e pervenire quindi all’interpretazione più ragionevole. Tale disposizione – lo si rammenta – così recita: “le procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di cui al medesimo comma sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3”. Le procedure di cui al comma primo (oltre al fallimento) sono le seguenti: - concordato fallimentare; - accordi di ristrutturazione; - concordato preventivo; - liquidazione coatta amministrativa; - liquidazione del patrimonio del sovraindebitato; - piano del consumatore; - accordo di ristrutturazione dei debiti del sovraindebitato.
Ora, il comma 2 limita l’applicazione della disciplina previgente alle procedure “pendenti” alla data di entrata in vigore del decreto e alle “procedure aperte” a seguito del deposito di uno dei ricorsi del comma primo. Adottando una chiave di lettura squisitamente formale – che è quella seguita dal primo orientamento, ma anche dal Tribunale di Siracusa – si dovrebbe concludere che il concordato preventivo omologato prima dell’entrata in vigore del Codice non rientri nel novero di quelle procedure alle quali si applica la legge fallimentare. Ed infatti, la procedura di concordato si apre con il decreto di cui all’art. 162 L. fall. (usualmente dopo la fase c.d. in bianco) e – soprattutto – si chiude con l’omologazione (art. 181 L. fall.), cessando quindi con il provvedimento omologativo la pendenza del procedimento giurisdizionale.
Una simile interpretazione, tuttavia, risulta fin troppo semplicistica poiché non tiene debitamente conto del fatto che quando il legislatore ha parlato di “procedure pendenti” e “procedure aperte” lo ha fatto riferendosi a un’ampia congerie di strumenti di regolazione della crisi tra di loro assolutamente eterogenei sia come finalità che – ed è ciò che più rileva – come struttura procedimentale. In alcuni casi (concordato preventivo e concordato fallimentare) l’apertura della procedura determina essa stessa la pendenza e il procedimento si esaurisce non già con l’apertura di una procedura concorsuale (come accade per fallimento, liquidazione del patrimonio e liquidazione coatta amministrativa), ma con l’omologazione di un “accordo” (atecnicamente inteso) tra debitore e creditori sulla cui corretta esecuzione il Tribunale vigila con varie graduazioni di intervento. In altri casi (accordo di ristrutturazione, piano del consumatore e accordo di ristrutturazione dei debiti del sovraindebitato) non vi è mai neppure una formale apertura, e in un caso (l’accordo di ristrutturazione) l’omologazione esaurisce il compito del Tribunale, mentre negli altri casi (piano del consumatore e accordo di ristrutturazione dei debiti del sovraindebitato) si apre una fase esecutiva la cui vigilanza spetta al “giudice investito della procedura”. Una vera e propria apertura (che però coincide anche con la fase esecutiva della liquidazione), scissa in senso stretto dalla pendenza di un’altra procedura (quella “prefallimentare” o comunque pre-liquidatoria), c’è invece per il fallimento, per la liquidazione coatta amministrativa e per la liquidazione del patrimonio del sovraindebitato.
Tale considerazione deve indurre a ritenere che il termine “apertura” è stato utilizzato dal legislatore in senso atecnico e lato, intendendosi con esso l'inizio della fase immediatamente successiva alla chiusura del procedimento "pendente", e quindi, per il concordato preventivo, la fase successiva all'omologazione.
In buona sostanza, e in sostanziale adesione all’orientamento già sposato dal Tribunale di Prato, la portata omnicomprensiva del secondo comma dell’art. 390 sta a significare una cosa molto semplice: che tutti i concordati preventivi nati (vuoi perché è stata già depositata la domanda, vuoi perché il procedimento è già pendente, vuoi perché il concordato è già giunto all’omologa) sotto il vigore della legge fallimentare sono regolati solo ed esclusivamente da tale legge.
Ciò, come già accennato, evita che si facciano applicazioni “selettive” della disciplina oggi dettata per la fase esecutiva del concordato preventivo, la quale trova applicazione solo per i concordati preventivi nati nel contesto del Codice.
Come peraltro sottolineato dal Tribunale di Siracusa nella pronuncia già richiamata, tale inquadramento risulta anche maggiormente rispettoso del principio di affidamento. È ovviamente ben noto che nel nostro ordinamento non esiste il principio dello stare decisis, ma è un dato di fatto che la giurisprudenza largamente maggioritaria (prima ancora del suggello delle Sezioni Unite) interpretava l’art. 186 L. fall. nel senso che fosse ammissibile il fallimento omisso medio, ed è dunque ragionevole affermare che i creditori, nella convinzione che le regole del gioco non potessero mutare “in corsa”, abbiano fatto affidamento su un simile orientamento, tanto più dopo la pronuncia delle Sezioni Unite del febbraio 2022. È insomma ragionevole dire che i creditori, nell’orientare le proprie scelte e decidere quindi se “attaccare” subito il debitore resosi inadempiente rispetto alle tempistiche del concordato o, piuttosto, tollerare un ritardo nella speranza di una futura ripresa (e pur consci del consolidamento della falcidia, sovente per il vero pur nulla rilevante stante i gradi di soddisfazione cui usualmente i creditori possono aspirare in un fallimento conseguente a un concordato preventivo naufragato), abbiano riposto affidamento sull’applicazione del regime vigente nella data in cui era stato omologato il concordato preventivo.
La soluzione qui proposta, inoltre, pare essere stata avallata dalle stesse Sezioni Unite. Nell’ordito motivazionale, infatti, si legge che, anche qualora il Codice fosse già stato in vigore, comunque il settimo comma dell’art. 119 non avrebbe potuto governare la fattispecie lì decisa “visto il regime transitorio previsto nell’art.390, co. 1^ e l'assoggettamento delle procedure pendenti alla disciplina previgente”[15].
Tutto ciò posto, ci si potrebbe anche domandare se, una volta concluso nel senso che un concordato preventivo in fase esecutiva apertosi a definizione di una domanda depositata prima dell’entrata in vigore del Codice soggiace alle norme della legge fallimentare, si debba altresì coerentemente ritenere che l’imprenditore (con o senza previa risoluzione del concordato) sia soggetto a fallimento anziché a liquidazione giudiziale. Detto in altri termini, l’interpretazione qui propugnata, se portata alle estreme conseguenze, potrebbe comportare una sorta di ultrattività dei fallimenti poiché tutti i concordati preventivi introdotti ante Codice che dovessero finire per naufragare nei prossimi anni dovrebbero sfociare in procedure fallimentari anziché in liquidazioni giudiziali. Insomma, e tornando allo specifico oggetto del presente contributo, dovrebbe continuare a parlarsi di fallimenti omisso medio e giammai potrebbe invece parlarsi di liquidazioni giudiziali omisso medio.
Trattasi di una conclusione che non pare necessitata. Ed infatti, per quanto la fase esecutiva dei concordati preventivi depositati prima del Codice segua le vecchie regole, con la conseguenza che l’omessa risoluzione del concordato nei termini produce il solo effetto di stabilizzare la falcidia e non anche l’impossibilità di far valere in giudizio la persistenza dell’insolvenza e provocare così l’apertura della procedura concorsuale maggiore, affinché quest’ultima possa aprirsi è pur sempre necessaria un’autonoma domanda. Domanda che non può che essere introdotta sulla base delle regole vigenti, che sono quelle dettate dagli artt. 40 e seguenti del Codice, anche in virtù di quanto sancito dall’art. 390, comma 1, e cioè che la legge fallimentare si applica soltanto ai ricorsi per dichiarazione di fallimento depositati prima dell’entrata in vigore del Codice medesimo. Ciò, peraltro, senza che sia di alcun ostacolo il disposto di cui all’art. 119, comma 7, giacché, come già detto, la sua applicazione rimane confinata a quei concordati preventivi sorti a seguito di una domanda depositata dopo l’entrata in vigore del Codice.