Saggio
Il concordato liquidatorio: appunti introduttivi*
Alessandro Farolfi, Giudice nel Tribunale di Ravenna
7 Marzo 2022
Il saggio è stato altresì sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
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Sommario:
Quanto alla prima tesi, invece, si è obiettato che il venir meno del riferimento letterale alla cessione di “tutti” i beni non deve essere sopravvalutata; la cessione attiene piuttosto alle modalità attuative della proposta, ma non riguarda in realtà il novero dei beni da ricomprendere nell'attivo da liquidare a favore dei creditori, che continuerebbe ad essere in qualche modo oggetto di una destinazione immanente rispetto alla loro soddisfazione, in virtù della regola generale della responsabilità patrimoniale, ex art. 2740 c.c., di cui in fondo il concordato preventivo liquidatorio non è altro che una modalità di realizzazione. Non mancandosi inoltre di rilevare che la regola della responsabilità patrimoniale ha carattere generale ed occorre perciò una disposizione espressa per derogarvi (come ad esempio l’art. 186 bis l.f. che facoltizza espressamente il diritto del debitore di trattenere i beni strumentali alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale), deroga che – invece – a ben vedere non esiste nel concordato di carattere liquidatorio.
Appare vicino a questo punto di vista l’orientamento assolutamente prevalente della giurisprudenza di merito e legittimità, dovendosi ricordare a quest’ultimo riguardo il precedente rappresentato da Cassazione 14 marzo 2014, n. 6022, nonché il successivo provvedimento adottato dalla Cassazione, il 17 ottobre 2018, con la decisione n. 26005.
Il primo piano di analisi è affrontato dalla citata sentenza del 2018 che, per la verità, affronta un caso di concordato di gruppo in cui la destinazione dei beni non liquidati da una società non aveva una finalità “egoistica” dell’imprenditore o della società che esercitava i poteri di direzione e coordinamento, ma consentiva piuttosto un vantaggio per altra società dello stesso gruppo, che evidentemente era sotto-patrimonializzata ed aveva perciò meno da offrire ai creditori, con un beneficio per questi ultimi ed un correlativo pregiudizio per i creditori della prima società[7].
La risposta del S.C. è nel solco della tradizione, confermando l’obbligo di devoluzione ai creditori dell’intero patrimonio del debitore in caso di concordato liquidatorio, nonché affermando la regola della necessaria distinzione delle masse attive e passive pur a fronte di enti societari appartenenti al medesimo gruppo di imprese. Va al riguardo notato che detta risposta, probabilmente del tutto corretta a legislazione invariata, potrà mutare con l’entrata in vigore del Codice della Crisi, che il recente d.l. 188/2021 ha solo allontanato di alcuni mesi per consentirne un adeguamento ai principi della Direttiva c.d. Insolvency. L’art. 285 co. 2 CCI dispone infatti che “il piano o i piani concordatari possono altresì prevedere operazioni contrattuali e riorganizzative, inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo, purchè un professionista indipendente attesti che dette operazioni sono necessarie ai fini della continuità aziendale per le imprese per le quali essa è prevista nel piano e coerenti con l'obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo”. Si tratta di una novità importante, che deve essere salutata con favore e che comporta, probabilmente, ferma la verifica in concreto dell’interesse per i creditori in una visione unitaria, l’accoglimento quantomeno implicito della teoria dei “vantaggi compensativi”[8].
Il secondo ordine di problemi, invece, è precipuamente affrontato dalla ricordata decisione del 2014. Nella fattispecie esaminata un debitore, dopo aver alienato i propri beni in esecuzione del piano concordatario, aveva richiesto al G.D. di poter trattenere il surplus derivante dalla liquidazione, avendo già soddisfatto i creditori secondo la percentuale “promessa” con la proposta concordataria omologata. In questo caso il S.C. – investito del ricorso straordinario di legittimità avverso la decisione del tribunale in sede di reclamo ex art. 26 l.f. sulla negata autorizzazione del giudice – ha ribadito come la percentuale sia nel concordato liquidatorio una indicazione utile al fine di consentire una valutazione di convenienza da parte dei creditori, ma non abbia un effetto vincolante, sì che solo in senso improprio è possibile parlare di “obbligazione concordataria”, in quanto l’obbligazione vera e propria assunta dal debitore consiste nella cessione, nella messa a disposizione a fini satisfattivi dell’intero proprio patrimonio[9].
Del resto, ragionare diversamente significherebbe ritenere che i creditori assumano con la votazione in via esclusiva l’alea della liquidazione, mentre il debitore non avrebbe mai un tale rischio potendo – secondo la tesi qui denegata – trattenere il ricavato della liquidazione o addirittura arrestare l’attività liquidatoria una volta che in sede esecutiva si sia raggiunto il soddisfacimento prospettato ai creditori. Il che, tuttavia, volendo compiere una analogia fondata sulla matrice sicuramente anche negoziale della proposta concordataria, significherebbe “sdoganare” un accordo contrattuale con alea unilaterale posta a carico di uno solo dei contraenti, figura che, tuttavia, in altri campi del diritto civile è stata ritenuta dalla giurisprudenza corrispondente ad una causa non meritevole di tutela giuridica[10].
Voglio qui precisare il mio pensiero al fine di evitare fraintendimenti, specificando che quando ho parlato di surplus della liquidazione ho fatto riferimento al risultato, a volte insperato, più favorevole derivante dall’alienazione di beni ricompresi nell’attivo destinato ai creditori dalla proposta concordataria o l’esito più favorevole di quanto inizialmente ipotizzato delle azioni giudiziarie concluse post omologa, con le quali ad esempio si riesca ad incassare crediti che il debitore riteneva inesigibili. Non ho invece inteso parlare di surplus concordatario nel senso di apporti “esterni” forniti da terzi e che non passando attraverso il patrimonio del debitore sono stati ritenuti dalla Cassazione “finanza esterna”, come tale liberamente attribuibile ai creditori anche senza rispettare rigidamente l’ordine delle cause legittime di prelazione. Questo tema è peraltro assai sensibile se si considera che tale conclusione, probabilmente frutto di una lettura eccessivamente formalistica da parte di una decisione della Cassazione risalente al 2012[11], potrebbe in realtà sostenersi anche rispetto ai risultati utili della prosecuzione dell’attività di impresa nelle forme concordatarie con continuità (c.d. finanza esterna “dinamica”), tanto è vero che la stessa Commissione Pagni sta proprio in questo periodo valutando le connesse criticità, nell’ambito dei lavori di lettura del Codice e di possibile adeguamento dello stesso ai principi della citata direttiva comunitaria.
Tale disposizione consente in primo luogo di rilevare come il concordato preventivo liquidatorio abbia vissuto alterne fortune. Infatti, dopo essere stata per lungo tempo la figura principale delle soluzioni concordatarie della crisi di impresa, a partire dal 2012 con l’entrata in vigore dell’art. 186 bis l.f. e degli incentivi alle soluzioni volte a garantire la continuità aziendale, poi nel 2015 con l’introduzione del citato art. 160 ult., si è assistito ad un netto capovolgimento di attenzione da parte del legislatore. Tale sfavore risulta ulteriormente rimarcato nel Codice della crisi all’art. 84, ove le soluzioni liquidatorie debbono addirittura fondarsi su un attivo supplementare fornito dal debitore rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare. Peraltro, a tal proposito, si hanno notizie che nel corso dei lavori preparatori del Codice della crisi l'autorevole commissione di studio avesse discusso della possibile abrogazione di questo istituto, per poi adottare una soluzione conservativa, nell’evidente consapevolezza della possibile utilità del concordato preventivo, quantomeno nella sua funzione volta ad evitare la declaratoria di fallimento, anche quando si tratti di sottoporre ai creditori una proposta di accordo sulla crisi di contenuto puramente liquidatorio.
Orbene, tornando al tema dell’interpretazione del citato art. 160 ultimo comma, subito dopo la sua entrata in vigore si sono immediatamente fronteggiate almeno tre diverse teorie. Secondo una prima tesi, forse più “liberale”, la norma aveva uno scopo descrittivo, di moral suasion per il debitore, che avrebbe dovuto necessariamente ma – vorrei aggiungere semplicemente – avanzare una proposta concordataria che si limitasse a prospettare ai creditori chirografari un soddisfacimento almeno pari al 20%, senza alcuna assicurazione al riguardo, dovendo tale aspetto, così come quello più generale della fattibilità economica essere valutato in via esclusiva dai creditori; una seconda tesi, invece, pur ritenendo che la citata norma di nuovo conio non avesse introdotto alcun obbligo cogente per il debitore, riteneva necessaria una sorta di attestazione “rafforzata” che avrebbe dovuto prendere in esame la concreta probabilità di giungere al soddisfacimento previsto dalla ricordata disposizione, pur mantenendo la soglia ivi prevista una funzione descrittiva, idonea a consentire ai creditori una valutazione di semplice convenienza economica. Infine, un terzo orientamento ha ritenuto che la norma implicasse un vero e proprio obbligo del debitore, atto ad imporre ed a descrivere come altamente probabile se non ragionevolmente certa la possibilità di raggiungere questa soglia minimale di soddisfacimento, elevata a nuovo requisito di ammissibilità del concordato liquidatorio.
Quest’ultima, pur con alcune sfumature ulteriori che sarebbe opportuno evidenziare rispetto al grado di approfondimento che la valutazione a riguardo deve essere condotta dall’organo giudiziario, rappresenta la tesi che è stata infine accolta dalla Cassazione, da ultimo con la sentenza 17 maggio 2021, numero 13224 [12]. Tale decisione, pur partendo dalla distinzione fra fattibilità giuridica e fattibilità economica fatta propria dalle già evocate S.U. del gennaio 2013, ribadisce l'idea che anche la fattibilità economica debba essere oggetto di valutazione giudiziale, nella misura in cui risulti prima facie irrealizzabile il piano sotteso alla proposta concordataria.
Poiché, tuttavia, questa disposizione non si applica evidentemente al concordato in continuità, in forza della clausola eccettuativa riferita all’ambito di applicabilità dell’art. 186 bis l.f., negli ultimi anni si è osservata una vera e propria “corsa” di molti operatori a veder riconosciuti i tratti della continuità a proposte concordatarie avanzate, pur se contenenti porzioni più o meno ampie liquidatorie, da cui tutta la teoria della inclusione della c.d. continuità “indiretta” sotto il cono d’ombra “rassicurante” dell’art. 186 bis l.f. [13].
Note: