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Saggio

Le norme fiscali del terzo Decreto correttivo del codice della crisi*

Giulio Andreani, Dottore commercialista e consulente fiscale in Milano

1 Agosto 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il decreto correttivo del Codice della crisi approvato in prima lettura il 10 giugno scorso dal Consiglio dei ministri (di seguito: “decreto correttivo” o anche solo “correttivo”) modifica significativamente la disciplina del trattamento dei crediti tributari e contributivi nella crisi d’impresa, attraverso l’introduzione di disposizioni che sono da considerare nel complesso certamente utili e opportune; alcune di esse possono tuttavia essere migliorate, sia chiarendone il contenuto, al fine di evitare future incertezze interpretative, sia modificandole laddove potrebbero ostacolare i risanamenti aziendali.
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1 . Le novità relative al trattamento dei debiti tributari nella composizione negoziata della crisi
Il decreto correttivo aggiunge all’art. 23 del Codice della crisi (di seguito anche solo: “Codice”) il comma 2 bis, grazie al quale anche nel corso della composizione negoziata della crisi potrà essere concluso un accordo transattivo tra il debitore e le agenzie fiscali (Entrate, Dogane e Riscossione). Tale accordo avrà a oggetto il pagamento parziale e/o dilazionato di tutti i debiti tributari, inclusi quelli relativi ai tributi e non solo gli importi dovuti a titolo di sanzioni e interessi, che attualmente sono i soli di cui l’art. 25 bis, commi da 1 a 3, del Codice consente la riduzione. L’accordo non potrà invece riguardare i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, tra i quali non rientra tuttavia l’iva, che sarà quindi falcidiabile al pari delle altre imposte. Infatti, nel corso dei lavori preparatori del correttivo era stata, sì, prospettata l’esclusione dall’accordo anche di questo tributo, ma tale previsione non ha poi avuto seguito. Del resto, i debiti tributari delle imprese in crisi derivano generalmente dall’omesso versamento delle ritenute e dell’iva: pertanto, se fosse stata esclusa la possibilità di ridurre anche il debito inerente a questa imposta, il problema che l’introduzione dell’accordo nella composizione negoziata si prefiggeva di risolvere sarebbe stato risolto solo a metà. 
Rimangono invece infalcidiabili, e non può neppure esserne dilazionato il pagamento (se non nei termini ordinari), i debiti verso gli enti previdenziali e assicurativi, i quali hanno mostrato ben poca disponibilità verso l’accordo di cui trattasi. Si tratta, tuttavia, di un’esclusione priva di giustificazione, poiché non si comprende per quale motivo i tributi (il cui pagamento è dovuto in base a uno dei principi costituzionali di maggior rango) possono essere falcidiati e i contributi previdenziali (ferma restando la loro assoluta utilità) no; così come non si comprende per quale motivo i contributi potrebbero essere falcidiati nell’ambito di altri istituti, e in alcuni anche forzosamente, mentre non dovrebbero esserlo in alcun modo, neppure escludendo il cram down,nella composizione negoziata. A questa ingiustificata disomogeneità di trattamento sarebbe quindi opportuno porre rimedio. 
Affinché le agenzie fiscali possano pronunciarsi in base a informazioni affidabili e provenienti da soggetti terzi sulla proposta formulata loro dal debitore valutando quando l’accordo è conveniente per l’Erario rispetto alla liquidazione giudiziale, è previsto che sia predisposta da un professionista indipendente una relazione che ne attesti la convenienza, la quale dovrà essere allegata alla proposta unitamente a una relazione sulla completezza e veridicità dei dati aziendali redatta dal revisore legale del soggetto proponente, se esistente, ovvero, in caso contrario, da un revisore legale a tal fine designato. 
L’accordo deve essere sottoscritto dalle parti, che devono comunicarlo all’esperto, e produce effetto con il suo deposito presso il tribunale competente. Anche se nulla viene previsto al riguardo dalla nuova norma, ove l’accordo arrechi pregiudizio ai creditori o alle prospettive di risanamento dell’impresa, l’esperto dovrebbe segnalarlo all’imprenditore e all’organo di controllo ai sensi dell’art. 21 del Codice della crisi, rilevandolo anche nella relazione finale richiesta dall’art. 17, comma 8; al contrario, l’assenza di qualsiasi censura, dovrebbe costituire implicito assenso alla transazione. Il giudice, previa verifica della regolarità dell’accordo e dei suoi allegati, ne autorizza l’esecuzione con decreto oppure, nel caso in cui non ne ravvisi la regolarità, dichiara che esso è privo di efficacia. La regolarità che il giudice è chiamato ad accertare è solo quella formale o investe anche una valutazione di merito circa gli effetti generati dall’accordo rispetto al risanamento con facoltà di avvalersi dell’esperto per eventuali approfondimenti? Dalla relazione accompagnatoria del correttivo emerge che si tratta di una regolarità formale, considerata l’esigenza di non snaturare la composizione negoziata e di evitare un procedimento giurisdizionale per sostituire il consenso dei creditori pubblici. Ciò è coerente con la considerazione che ai fini dell’efficacia dell’accordo l’autorizzazione del giudice non sarebbe necessaria e che essa è stata prevista solo per fornire all’amministrazione finanziaria, per così dire, un conforto esterno attraverso tale provvedimento. 
È quindi esclusa la possibilità di cram down fiscale e ciò non deve stupire, attesa la natura della composizione negoziata, che non consente adesioni forzose dei creditori e non prevede un procedimento di omologazione dell’accordo raggiunto tra i creditori e il debitore. 
Nonostante la possibilità di concludere nella composizione negoziata un accordo relativo ai debiti tributari, il debitore che ha avuto accesso a tale percorso potrà comunque avere interesse a formulare una proposta di transazione fiscale da attuare nell’ambito di un accordo di ristrutturazione o di un concordato preventivo, ove ritenga opportuno non privarsi della possibilità del cram down. In tale prospettiva nulla vieta che anche durante la composizione negoziata stessa possa essere presentata una proposta di transazione fiscale da attuare nell'ambito di altri istituti, quando già si prevede che la composizione negoziata sfocerà in una procedura concorsuale. 
Tuttavia, alcuni uffici delle agenzie fiscali, errando a modesto avviso di chi scrive, sostengono il contrario, poiché “l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi di natura concorsuale, di cui al comma 2 dell’art. 23 del Codice della crisi, è subordinato dal legislatore all’impraticabilità delle soluzioni di natura contrattuale individuate dal precedente comma 1, laddove le trattative non abbiano avuto esito positivo”; oppure perché “la valutazione della proposta di accordo di ristrutturazione presuppone che la procedura di composizione negoziata sia stata oggetto di archiviazione” (i due virgolettati sono di altrettanti uffici dell’amministrazione finanziaria). 
Non vi è dubbio che, quando l’accordo di ristrutturazione dei debiti, con connessa transazione fiscale, succede alla composizione negoziata, esso può essere attuato solo dopo che questo percorso è cessato, ma non che la proposta di transazione fiscale non possa essere presentata anche durante tale fase, seppur con lo scopo di concludere con il Fisco l’accordo che ne costituisce oggetto nella procedura in cui è già previsto che la composizione negoziata sfoci. 
Del resto, costringere l’impresa debitrice a presentare la proposta di transazione fiscale solo dopo la chiusura della composizione negoziata, che può avere una durata anche di trecentosessanta giorni, permettendo l’avvio della valutazione della stessa da parte dei creditori pubblici solo successivamente a tale termine, comporterebbe un ampliamento dei tempi del risanamento che non giova al risanamento né ai creditori, Erario incluso, visto che anch’esso ne subirebbe gli effetti, posticipando (e forse anche riducendo) il recupero dei propri crediti. 
Allo scopo di disciplinare espressamente la suddetta possibilità era stata prevista l’introduzione dell’art. 23 del Codice di un’apposita disposizione, che tuttavia non è presente nel testo del decreto correttivo approvato dal Cdm, poiché è stata ritenuta superflua, in quanto sarebbe già chiara la possibilità di presentare nella composizione negoziata una proposta di transazione fiscale da attuare nell’istituto di sbocco di quest’ultima. Le comunicazioni delle agenzie fiscali sopra richiamate attestano tuttavia il contrario e rendono opportuna una precisazione.
2 . Le novità relative al trattamento dei debiti tributari nell’accordo di ristrutturazione dei debiti
Con il decreto correttivo vengono introdotte nuove limitazioni alla omologazione forzosa della transazione fiscale proposta nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, dopo che, con l’art. 1 bis del decreto-legge n. 69/2023, tale forma di omologazione era già stata condizionata a un soddisfacimento minimo del debito tributario e contributivo, variabile - a seconda dell’ampiezza dell’adesione alla ristrutturazione da parte dei creditori diversi da quelli pubblici - dal 30 al 40 per cento di tale debito, comprensivo di tributi, sanzioni e interessi (il 30 in caso di adesione degli altri creditori pari almeno al 25% dell’intera esposizione debitoria e il 40 nelle altre ipotesi). Le nuove limitazioni sono di varia natura e costituiscono una sorta di “contro cram down”).
2.1 . Le ulteriori limitazioni al "cram down" introdotte con il correttivo
Innanzitutto, l’omologazione forzosa sarà preclusa, quando il debito tributario o contributivo non è inferiore all’80% dell’intera esposizione debitoria dell’impresa che ha formulato la proposta di transazione, maturata sino al giorno anteriore a quello di presentazione della proposta, e al tempo stesso: a) il debito tributario e contributivo deriva prevalentemente (cioè in misura superiore al 50%) da omissioni di versamenti relativi a imposte o contributi commesse nel corso di almeno cinque anni: ne discende che tale presupposto sussiste anche ove siano stati, per assurdo, omessi solo cinque versamenti e di qualunque importo, purché in cinque periodi d’imposta differenti, oltre che non consecutivi; oppure b) nel caso in cui il debito tributario o previdenziale derivi, per almeno un terzo del complessivo debito oggetto di transazione, dall’accertamento di violazioni realizzate mediante l’utilizzo di documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente (tra queste violazioni rientrano, ad esempio, quelle relative all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti o di crediti d’imposta discendenti da agevolazioni fiscali in realtà inesistenti). Le fattispecie di cui alle lettere a) e b) sono quindi fra loro alternative e almeno una di esse deve ricorrere congiuntamente al raggiungimento della soglia debitoria del 80% di debito tributario e contributivo, il quale, precisando la norma che si tratta del debito “maturato sino al giorno anteriore a quello di deposito della proposta di transazione fiscale”, deve essere determinato considerando, oltre alle imposte e ai relativi interessi, le sanzioni irrogate a tale data e non quelle, di maggiore entità, che si rendono dovute a seguito dell’iscrizione a ruolo delle somme dovute discendente dalla presentazione della proposta di transazione (non è un caso che la norma faccia riferimento al debito “maturato sino al giorno anteriore a quello di deposito” di detta proposta). 
La disposizione di cui trattasi ha lo scopo di contrastare la condotta di quelle imprese che omettono sistematicamente il versamento di imposte e contributi, magari reperendo in tal modo le risorse finanziarie necessarie per pagare altri creditori come banche e fornitori, confidando poi di ottenere una falcidia dei loro debiti tributari e contributivi semplicemente presentando una proposta di transazione che, alla luce della situazione patrimoniale ormai deterioratasi, risulti conveniente per tali creditori rispetto alla liquidazione giudiziale, realizzando il presupposto principale del (e rendendo quindi possibile il) cram down. Pare eccessivo che la preclusione possa essere provocata anche solo da contestazioni prive del benché minimo vaglio giudiziario, a seguito del quale potrebbero rivelarsi poi prive di fondamento ed essere pertanto annullate. Per evitare tale effetto, sarebbe infatti preferibile prevedere la rilevanza, ai fini di cui trattasi, di tali contestazioni solo ove siano state confermate almeno in un grado di giudizio. Tuttavia, per precludere l’omologazione forzosa è necessario che l’importo delle violazioni contestate ecceda un terzo dell’ammontare del debito tributario e contributivo e, inoltre, che quest’ultimo rappresenti almeno l’ottanta per cento dell’esposizione debitoria complessiva: pertanto i casi ai quali la norma di cui trattasi potrà essere applicata non saranno molti e quando ricorreranno presenteranno profili patologici tali da giustificare il maggior rigore introdotto dal correttivo. 
Gli omessi versamenti che rilevano ai fini della preclusione del cram down devono essere relativi, in base alla lettera della norma, a “imposte dichiarate” e pertanto si dovrebbe trarne la conseguenza che, ove riguardino imposte non dichiarate, la preclusione non si verifichi; sarebbe tuttavia una conclusione errata, perché, se così fosse, la condotta più grave (costituita dal mancato versamento di imposte nemmeno dichiarate, del quale l’Agenzia delle Entrate non ha conoscenza) non genererebbe alcuna preclusione, al contrario di quella meno grave, costituita dal mancato versamento di tributi la cui omissione è stata dichiarata al Fisco, che invece la genererebbe. Una modifica della norma eviterebbe il rischio di interpretazioni non razionali. Le omissioni rilevano in quanto siano state commesse in cinque periodi e ineriscano a tributi oggetto della proposta di transazione fiscale, la quale, dovendo includere tutti i debiti tributari e contributivi esistenti, li deve necessariamente comprendere: significa che non sarà possibile eludere la preclusione del cram down escludendo dalla transazione alcuni debiti al fine di ridurre lo spettro temporale, entro il quale è stato omesso il versamento dei tributi oggetto dell’accordo, al di sotto della soglia temporale stabilita dalla norma (cioè quella dei cinque periodi). È precisato che tali periodi possono anche non essere consecutivi e ciò significa che le omissioni possono produrre la preclusione della omologazione forzosa anche se sono state commesse in un periodo più ampio di un quinquennio. Non essendo, infine, prevista una soglia di rilevanza minima dell’importo oggetto degli omessi versamenti, questi ultimi rilevano in ogni caso ai fini di cui trattasi e dunque anche se in un periodo d’imposta l’ammontare dei tributi non versati sia marginale. L’introduzione di una soglia minima (ad esempio del 20% dell’importo dei tributi dovuti per l’intera annualità) eviterebbe applicazioni della norma eccessivamente penalizzanti. 
Ciò nonostante, al di fuori del caso in cui siano state elevate dal Fisco contestazioni aventi a oggetto condotte fraudolente, come si è rilevato, la preclusione dell’omologazione forzosa opera solo se il debito tributario e contributivo deriva da omissioni di versamenti commesse nel corso di cinque periodi d’imposta e pertanto, per evitarne l’applicazione, sarà sufficiente che l’impresa debitrice, dopo quattro anni in cui ha omesso il pagamento di qualche tributo, presenti la proposta di transazione fiscale, evitando un’ulteriore omissione di versamento in un ulteriore anno. La norma assolverebbe comunque anche in questo caso la propria funzione, che è proprio quella di evitare la formazione del debito oggetto di transazione in un periodo troppo ampio e conseguentemente che esso assuma una dimensione ingiustificata. 
Le altre limitazioni del cram down introdotte dal decreto correttivo sono le seguenti. 
1) L’omologazione forzosa viene esclusa se, al di fuori della modifica sostanziale del piano di risanamento disciplinata dall’all’articolo 58 del Codice dopo la omologazione dell’accordo, nei cinque anni anteriori al deposito della proposta di transazione il debitore ha concluso una precedente transazione avente a oggetto debiti della stessa natura, risolta di diritto per inadempimento. Per evitare aggiramenti di tale regola, l’esclusione troverà applicazione anche quando il proponente ha proseguito, a seguito di fusione o scissione ovvero di cessione, conferimento o affitto di azienda, anche di fatto o mediante negozi equipollenti, l’attività precedentemente esercitata da un soggetto che, nel corso dei cinque anni precedenti, ha concluso una transazione risolta di diritto. 
2) In ogni caso il cram down non potrà essere disposto dal tribunale se il soddisfacimento dei crediti tributari e contributivi non sarà pari almeno: a) al 70% di tali crediti, esclusi interessi e sanzioni, qualora i creditori diversi da quelli pubblici che hanno aderito alla ristrutturazione rappresentino meno del 25% dell’intera esposizione debitoria del contribuente, ovvero b) al 60% di tali crediti, esclusi interessi e sanzioni, qualora i creditori diversi da quelli pubblici che hanno aderito alla ristrutturazione rappresentino il 25% o più dell’intera esposizione debitoria. 
La disposizione indicata al numero 1) ha lo scopo di evitare che la transazione fiscale possa essere utilizzata per evitare il pagamento delle imposte attraverso la pianificazione di plurime ristrutturazioni ed è quindi pienamente giustificata. La preclusione dell’omologazione forzosa prevista da questa norma si applica tuttavia solo se la precedente transazione fiscale è stata risolta di diritto e non se è stata invece regolarmente adempiuta. Ciò significa che il cram down non è escluso se il debitore attua una pianificazione delle ristrutturazioni dei debiti fiscali, ma soltanto se, nonostante tale pianificazione, si rivela inadempiente. Ai fini dell’applicazione della disposizione è inoltre necessario che la transazione oggetto di risoluzione di diritto sia stata attuata anch’essa nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti; pertanto, ove l’inadempimento abbia a oggetto un accordo concluso nell’ambito di una composizione negoziata, di un PRO o di un concordato preventivo, la preclusione non si produrrebbe. Così come non si produrrebbe qualora la risoluzione sia intervenuta oltre il quinquennio precedente la data dell’omologazione forzosa. Si tratta quindi di una norma di non frequente applicazione, se non verrà modificata. Potrebbe pertanto essere opportuno prevedere sia che i suoi presupposti ricorrono, qualora nei cinque anni precedenti sia stata conclusa una transazione, anche in assenza di una risoluzione della stessa, sia che l’inadempimento rileva anche se insorto relativamente ad accordi perfezionati nel contesto di istituti diversi dall’ADR. 
La disposizione indicata al numero 2) è ben poco lungimirante, perché alla elevazione di una soglia legale di soddisfacimento non corrisponde un incremento del pagamento offerto dal debitore ai propri creditori. Infatti, le imprese che si trovano in una situazione di crisi dispongono di risorse finanziarie limitate da destinare al pagamento dei loro debiti (e ciò anche quando interviene un investitore esterno, il quale non intende certo sostenere oneri sproporzionati rispetto alla remunerazione del capitale investito ritenuta congrua, la quale è quindi incompatibile con un incremento del fabbisogno); conseguentemente, se nell’ambito dell’ADR l’omologazione forzosa risulta troppo onerosa, il debitore è indotto a perseguire il risanamento mediante un diverso istituto in cui le soglie di cui trattasi non siano previste (ad esempio il concordato in continuità). La soglia troppo elevata può pertanto produrre un effetto opposto a quello desiderato e, per questo motivo, è preferibile conservare quelle del 30 e del 40 per cento introdotte con il decreto-legge n. 69/2023, che, seppur con qualche eccezione in cui si sono rivelate penalizzanti, sono risultate sufficientemente equilibrate e hanno dato prova di buon funzionamento. 
Le misure forfettarie non costituiscono generalmente sotto il profilo concettuale il miglior strumento antiabuso, ma hanno il pregio di essere facilmente applicabili, e sono dunque utilmente impiegabili; a patto, tuttavia, che rientrino nell’alveo della ragionevolezza. Quelle del 30 e del 40 per cento dell’intero debito sono tali, perché non è irragionevole imporre, peraltro solo ai fini dell’approvazione forzosa e non di quella ordinaria, un simile soddisfacimento, essendo evidente che, se un’impresa non è in grado di assicurare il pagamento almeno in tale misura di crediti privilegiati, significa che ha affrontato la crisi con colpevole ritardo e ha il più delle volte dato corso a condotte abusive, giustificando tale sorta di sanzione. Queste considerazioni non possono però essere espresse con riguardo a soglie più elevate, anche se quelle del 60 e del 70 per cento sono applicabili al debito al netto di sanzioni e interessi e mediamente equivalgono quindi, per quanto attiene ai debiti tributari, rispettivamente a circa il 42 e al 50 per cento del debito complessivo. La loro introduzione non è coerente con i soddisfacimenti minimi previsti da varie disposizioni del Codice ed evoca una sorta di giudizio di meritevolezza, che è stato però espunto dal diritto della crisi da quasi vent’anni e non può essere surrettiziamente reintrodotto ai fini del trattamento dei crediti tributari e contributivi.
2.2 . Ulteriori disposizioni procedurali
Il decreto correttivo prevede inoltre che: 
a) sono oggetto della proposta di transazione i debiti tributari e contributivi sorti sino alla data di presentazione della proposta stessa. Ciò non significa che per ragioni di praticità la proposta non possa riguardare solo i debiti sorti a una data prossima a quella di presentazione (ad esempio quella del 30 giugno se il deposito ha luogo il 19 luglio), ma, attesa la sua funzione, dovrebbe avere a oggetto tali debiti, con effetto analogo a quello che si produce a seguito del deposito della proposta di transazione formulata contestualmente a quella di concordato, pur non sussistendo nell’accordo di ristrutturazione un discrimine temporale puntualmente stabilito dalla legge; 
b) qualora, successivamente alla sua presentazione, la proposta di transazione venga modificata, il termine di novanta giorni, previsto ai fini dell’omologazione forzosa della stessa, viene aumentato di sessanta giorni decorrenti dal deposito della modifica originaria. Questa disposizione ha lo scopo di evitare le incertezze manifestatesi, a seguito della modifica della proposta, circa la permanenza del termine ordinario di novanta giorni o il decorso ex novo di tale termine dalla data della modifica. In effetti, entrambe tali soluzioni appaiono irragionevoli, poiché la modifica della domanda di transazione, da un lato, non può essere irrilevante rispetto ai tempi occorrenti per l’esame della proposta ma, dall’altro lato, non può tuttavia nemmeno giustificare un raddoppio dei termini ordinari. La disposizione introdotta fa chiarezza, anche se un termine di quarantacinque giorni sarebbe più equilibrato e ciò anche in considerazione del fatto che, qualora la modifica consista in una proposta completamente diversa da quella precedentemente presentata, non trova applicazione tale norma (da cui deriva un incremento del termine originario), ma decorre ex novo il termine di ordinario di novanta giorni. 
2.3 . Criticità non affrontate dal correttivo
Nel corso dei lavori preparatori del decreto correttivo è stata considerata l’introduzione di una norma che prevedesse: 1) la preclusione, per le agenzie fiscali e gli enti previdenziali, di avviare o proseguire - nei novanta giorni successivi alla presentazione della proposta di transazione - azioni esecutive e cautelari relative ai crediti oggetto di tale proposta; 2) l’esclusione dell’applicazione, per il medesimo periodo, delle disposizioni recate dall’articolo 48 bis del D.P.R. 29 settembre 1993, n. 602 relativamente ai predetti crediti (tale norma stabilisce che le amministrazioni pubbliche e le società a prevalente partecipazione pubblica non provvedono al pagamento dei debiti nei confronti dei contribuenti che sono inadempienti all’obbligo di versamento di somme oggetto di cartelle di pagamento); 3) che il mancato pagamento delle imposte non costituisse irregolarità fiscale ai fini delle disposizioni di cui al decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36, che disciplina gli appalti pubblici. Scopo di tale norma era quello di impedire - per il periodo strettamente necessario affinché i creditori pubblici si pronuncino sulla proposta di transazione - che, sebbene l’impresa debitrice abbia formulato detta proposta corredata da tutta la relativa documentazione, l’agente della riscossione promuova o prosegua azioni esecutive e cautelari, o possa avvalersi delle disposizioni recate dal citato art. 48 bis, poiché tali iniziative ostacolano inevitabilmente la ristrutturazione dei debiti avviata dal contribuente, con ricadute negative anche rispetto al recupero degli stessi crediti erariali. Ciò in quanto non sempre le misure protettive disciplinate dall’art. 54 del Codice della crisi sono prive di effetti controproducenti in ordine alla regolare prosecuzione dell’attività dell’impresa, né sono pienamente efficaci, atteso che non rilevano ai fini della conservazione della regolarità fiscale richiesta per la partecipazione a gare di appalto né in merito alla sospensione degli effetti previsti dal citato art. 48 bis, i quali sono analoghi a quelli prodotti da un’azione esecutiva o cautelare. Tali disposizioni non sono previste dal correttivo, anche se appaiono assai opportune, attesa, per gli indicati motivi, la loro utilità e considerato che esse corrispondono in fin dei conti a un principio di civiltà giuridica, essendo difficilmente giustificato l’esercizio di azioni esecutive e cautelari da parte della pubblica amministrazione nel corso delle trattative avviate dal contribuente, tranne che in ipotesi di condotte fraudolente o improntate a mala fede da parte di quest’ultimo. Per quanto attiene, inoltre, al mantenimento della regolarità fiscale ai fini dell’aggiudicazione di appalti pubblici, è evidente che, se un’impresa ne viene privata, ben difficilmente riesce a proseguire l’attività e a conseguire il proprio riequilibrio economico e finanziario, traducendosi il più delle volte tale privazione in un fattore che genera ulteriore squilibrio ostacolando il risanamento. 
Sarebbe inoltre opportuno escludere sotto ogni profilo, ai fini della omologazione forzosa della transazione fiscale nel contesto dell’accordo di ristrutturazione, la necessità che l’adesione dei creditori pubblici sia determinante per raggiungere le soglie di adesione del 60 e del 30 per cento stabilite dagli articoli 57 e 60 del Codice della crisi ai fini dell’efficacia dell’accordo. Infatti, tale necessità trova giustificazione nell’ambito del concordato preventivo, ogni qualvolta la proposta concordataria nel suo complesso risulti già approvata dalla maggioranza dei creditori nonostante la mancata adesione del Fisco o degli enti previdenziali ovvero tale maggioranza non sia raggiungibile nonostante l’adesione dei creditori pubblici; non ne ha tuttavia alcuna con riguardo all’accordo di ristrutturazione dei debiti, atteso che, se una proposta è conveniente per l’Erario, non vi è motivo di consentirne o escluderne la omologazione forzosa in dipendenza delle adesioni degli altri creditori, fermo restando il necessario rispetto delle suddette soglie, rispetto alle quali l’adesione dei creditori pubblici, tanto volontaria quanto forzosa, può tuttavia essere anche irrilevante. In virtù di tale auspicabile disposizione, l’omologazione forzosa dovrebbe poter essere disposta dal tribunale, ricorrendone i presupposti, anche se le suddette soglie siano state già raggiunte grazie agli accordi conclusi con creditori diversi da quelli pubblici, rimanendo preclusa solo se, nonostante l’adesione dei creditori pubblici, tali soglie non vengano comunque raggiunte. Del resto se sussistono i presupposti per la riforma, da parte del tribunale, della decisione di rigetto della proposta di transazione espressa (esplicitamente o implicitamente) dalle agenzie fiscali o dagli enti previdenziali, in quanto assunta nonostante la convenienza della proposta, non si comprende per quale motivo tale riforma non dovrebbe essere disposta, nell’interesse dei creditori pubblici (e quindi dello Stato) oltre che del risanamento, anche qualora l’adesione di tali creditori non sia determinante ai fini del raggiungimento delle suddette soglie, sussistendo comunque tale interesse. 
Sarebbe infine opportuno escludere le limitazioni alla omologazione forzosa previste dai commi 4 e 5 dell’art. 63 novellati dal correttivo, quando ricorre anche una sola delle seguenti condizioni: 1) l'amministrazione finanziaria o gli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie non instaurano con il debitore il contraddittorio avente a oggetto la proposta di transazione; 2) il rigetto della proposta di transazione fiscale o contributiva è fondato sulla eccessiva durata della dilazione richiesta dal debitore ovvero sul fatto che l’accordo di ristrutturazione abbia a oggetto esclusivamente i crediti tributari o contributivi e non sia stato concluso alcun accordo con altri creditori, se la proposta di transazione comunque rispetta le disposizioni recate dai citati commi 4 e 5. Nel primo di tali casi, infatti, l’amministrazione finanziaria non può dolersi del comportamento del debitore se nemmeno istaura con questi un confronto reale, violando tra l’altro il principio di leale collaborazione e buona fede sancito dal cd. “Statuto del contribuente”; nel secondo caso, invece, è da escludersi una condotta abusiva da parte del debitore, se la proposta supera il vaglio del rispetto delle disposizioni recate dalle suddette norme, che assolvono una dichiarata funzione antiabusiva: sussiste infatti abuso se tali disposizioni non sono rispettate e, per contro, non vi è abuso se invece la proposta è a esse conforme per quanto attiene sia alla misura del soddisfacimento offerto a seconda della partecipazione di altri creditori o meno all’accordo di ristrutturazione dei debiti, sia alla durata della dilazione di pagamento delle somme dovute in base alla transazione. Ciò in considerazione della ratio di tali norme, che sono state introdotte per stabilire quali condotte sono da considerare abusive e quali invece non sono da ritenere tali, evitando che gli interpreti debbano di volta in volta domandarsi se ricorra o meno l’abuso, approdando a conclusioni diverse e generando indirizzi contrastanti; contrasterebbe quindi con la loro ratio escluderne il carattere assorbente che il legislatore ha inteso attribuire loro.
3 . Le novità relative al trattamento dei debiti tributari nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione
L’art. 64 bis, che disciplina il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO), non esclude dal voto l’amministrazione finanziaria e gli enti di previdenza, ma non contiene una norma che permetta a tali creditori di disporre la falcidia dei crediti fiscali e previdenziali di cui sono titolari: ne discende che la legislazione vigente non ne consente la falcidia. Infatti, il pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti tributari e contributivi è consentito nei vari istituti previsti dal Codice della crisi, in deroga al principio della indisponibilità dei relativi crediti, solo in presenza: (i) di apposite norme che lo permettano attraverso uno specifico procedimento, qual è quello della transazione fiscale, che è allo stato è previsto solo dagli articoli 63 e 88 del Codice esclusivamente nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo, oppure (ii) di una disposizione che, seppur non introducendo uno specifico procedimento, consente la falcidia di tutti i crediti e quindi anche dei debiti di cui trattasi, quali sono ad esempio quella stabilita dal comma 3 dell’art. 80 del Codice, che prevede l’omologazione del concordato minore nonostante la mancata adesione dei creditori pubblici, e quella prevista dall’art. 25 sexies relativamente alla falcidia della generalità dei debiti nel concordato semplificato. 
Conseguentemente nel PRO i debiti tributari e previdenziali devono essere soddisfatti integralmente, potendo il debitore fruire, per il loro pagamento, solo delle dilazioni previste in via ordinaria per la generalità delle imprese (fatte salve quelle introdotte in via straordinaria da eventuali definizioni agevolate). Nulla impedisce l’approvazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate e degli Enti di previdenza, di un piano che preveda il pagamento integrale dei debiti tributari e contributivi, non sussistendo alcun motivo per escludere che anche tali creditori possano esprimere un voto favorevole a una proposta che escluda stralci e dilazioni diverse da quelle già consentite dalla legge; ciò che non possono approvare è la falcidia e la dilazione straordinaria. Ne discende che ogniqualvolta il piano di ristrutturazione preveda il soddisfacimento parziale di tali debiti, esso non può essere approvato dai creditori pubblici e, poiché la sua omologazione non può essere disposta senza l’adesione di tutte le classi di creditori, il piano è in tal caso destinato a non essere omologato. È vero che i crediti devono essere suddivisi in classi omogenee e che pertanto, se quelli tributari e contributivi fossero inseriti in una classe insieme ad altri crediti di maggior entità, il voto della classe potrebbe essere favorevole nonostante la mancata adesione del Fisco e degli Enti previdenziali; tuttavia, una classe così costituita non potrebbe essere considerata omogenea per posizione giuridica e interessi economici, così come è richiesto dal comma 1 dell’art. 64 bis
Secondo un diverso indirizzo il semplice fatto che le norme dedicate al PRO non disciplinino specificamente il trattamento di tali crediti non potrebbe consentire “di escludere la possibilità per il debitore di proporre un pagamento parziale o dilazionato di tali crediti” (Trib. Udine). Tuttavia, ciò che rileva non è la mancanza di una norma che escluda tale possibilità, ma l’assenza di una norma che fornisca all’amministrazione finanziaria e agli enti previdenziali lo strumento di cui necessitano per approvare, nell’ambito del PRO, la falcidia dei crediti di cui sono titolari. 
La riduzione dei crediti tributari e contributivi non è quindi di per sé incompatibile con la disciplina del PRO ed è, anzi, del tutto irragionevole che la transazione fiscale, sebbene prevista nel contesto dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo, sia esclusa da tale procedura. Infatti, il PRO, pur costituendo un istituto autonomo e non una specie di altro strumento di regolazione della crisi, è per certi versi collocabile nella sostanza proprio fra l’accordo di ristrutturazione e il concordato preventivo, prevede anch’esso la nomina di un commissario giudiziale, l’attestazione di un professionista indipendente e la omologazione del piano da parte del tribunale. 
Il decreto correttivo pone rimedio a questa lacuna, estendendo, nella sostanza, la transazione fiscale e contributiva al PRO e prevedendo, con l’inserimento del comma 1 bis nell’art. 64 bis, che il debitore può proporre il pagamento parziale e/o dilazionato dei tributi e dei contributi, nonché di sanzioni e interessi, depositando agli uffici territorialmente competenti delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali un’apposita proposta, a cui deve essere allegata la relazione di un professionista indipendente che attesta, oltre alla veridicità dei dati aziendali, anche la sussistenza di un trattamento non deteriore di tali crediti rispetto all’alternativa liquidatoria. Significa che tale proposta deve prevedere un trattamento dei crediti tributari e contributivi non inferiore a quello che questi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale e che ciò rileva, rispetto a tali crediti, come condizione di efficacia della proposta, che sarebbe altrimenti inammissibile, e non solo in caso di opposizione del creditore dissenziente, come prevede il comma 8 del citato art. 64 bis con riguardo alla generalità di creditori. 
È stata tuttavia esclusa la possibilità di cram down fiscale, ancorché la omologazione forzosa sia consentita nell’accordo di ristrutturazione e nel concordato preventivo, in considerazione della natura del PRO, che è fondato sull’adesione di tutte le classi di creditori.
4 . Le novità relative al trattamento dei debiti tributari nel concordato preventivo
Il decreto correttivo risolve i contrasti interpretativi emersi nei primi due anni di applicazione delle norme che disciplinano il trattamento dei crediti tributari e contributivi nel concordato preventivo con continuità aziendale. 
4.1 . Il "cram down" fiscale nel concordato in continuità
Il primo è quello concernente la possibilità di omologazione forzosa della transazione fiscale e contributiva anche in tale tipo di concordato, la quale è esclusa dal prevalente (ancorché non unanime) orientamento dottrinale e giurisprudenziale principalmente per le seguenti ragioni (per un esame più completo dei motivi su cui si fondano le due contrapposte tesi sia consentito il rinvio a. G. Andreani, “Il cram down fiscale nel concordato preventivo in continuità”, in Diritto della crisi, 3 ottobre 2023): 
1) per l’incipit del comma 1 dell’art. 88 del Codice, il quale precisa che resta fermo “quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dall’articolo 112, comma 2”: si pone dunque l’interrogativo se le disposizioni di cui all’art. 112 si aggiungano a quelle dell’art. 88 che disciplinano l’omologazione forzosa oppure le sostituiscano; 
2) per la lettera del comma 2 bis del medesimo art. 88, il quale, richiamando solo il comma 1 dell’art. 109, che riguarda solo il concordato liquidatorio, indurrebbe a escludere il cram down in quello in continuità; dall’altro lato, tuttavia, stabilisce che l’omologazione forzosa è disposta se la proposta di transazione è conveniente o non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria e ciò, poiché il concetto di non deteriorità è connesso al concordato in continuità, indurrebbe a ritenere ammissibile l’omologazione forzosa anche in questo caso; 
3) perché la Direttiva Insolvency riconoscerebbe la legittimità della ristrutturazione trasversale solo a condizione che sussista un’approvazione del piano di ristrutturazione esplicita, effettiva e riferibile ad una manifestazione di volontà delle classi di creditori: si pone dunque l’interrogativo circa gli effetti della omologazione forzosa sul voto negativo dei creditori pubblici e cioè se tale voto viene convertito da contrario in favorevole, nel qual caso potrebbe sussistere un contrasto con la Direttiva poiché sarebbe il tribunale il esprimere il voto anziché il creditore, ovvero se con il cram down tale voto viene solo escluso dal computo della maggioranza necessaria per l’approvazione della proposta concordataria, il che non contrasterebbe con la Direttiva. 
Al fine di scongiurare incertezze su un tema così rilevante, il correttivo prevede la modifica del citato art. 88, disciplinando l’omologazione forzosa in due distinti commi. 
Il comma 3 è dedicato al concordato liquidatorio e stabilisce che in tale ambito il tribunale omologa il concordato anche in mancanza di adesione delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali, quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all’art. 109, comma 1, e il soddisfacimento di detti creditori è conveniente rispetto alla liquidazione giudiziale. 
Il comma 4 è dedicato, invece, esclusivamente al concordato in continuità e stabilisce che il tribunale omologa il concordato anche in mancanza di adesione delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali, se il soddisfacimento di detti creditori risulta non deteriore rispetto all'alternativa liquidatoria. Ricorrendo questa ipotesi (cioè quella della non deteriorità della proposta) – prosegue la norma – “il tribunale omologa se tale adesione (n. d. a.: quella del Fisco o degli enti) è determinante ai fini del raggiungimento della maggioranza delle classi prevista, ai fini della omologazione, dal primo periodo dell’art. 112, comma 2, lett. d), oppure se la stessa maggioranza è raggiunta escludendo dal computo le classi dei creditori di cui al comma 1” (cioè quelle dei creditori pubblici). 
Attesa la natura del contrasto interpretativo che si prefigge di risolvere, la nuova disposizione intende certamente affermare che il tribunale può disporre l’omologazione forzosa anche nel concordato in continuità; tuttavia, l’uso della congiunzione (con valore disgiuntivo) “oppure” rischia di generare nuove incertezze sugli effetti del provvedimento del tribunale sul voto (provvedimento che sotto il profilo logico si compone di più fasi: una prima fase che concerne la verifica dei presupposti del cram down, una seconda fase che, qualora i presupposti sussistano, rileva gli effetti del cram down sul voto e la terza consistente nella omologazione forzosa vera e propria). Così scritta, infatti, la norma sembra porre in alternativa la prima parte del secondo periodo del comma 4 con la seconda parte del medesimo periodo. La questione concerne l’effetto del cram down sul voto, a cui si è poc’anzi già fatto cenno. Infatti, in assenza di una specifica previsione può ritenersi che esso sia costituito sia dalla conversione del voto negativo dei creditori pubblici in un voto positivo, sia la sterilizzazione di tale voto, cioè il suo scomputo dal calcolo della maggioranza: la differenza non è di poco conto, perché in presenza di una situazione in cui, ad esempio, su cinque classi due hanno espresso un voto favorevole e tre, tra le quali quella relativa ai crediti tributari, un voto contrario, se si applica il criterio della conversione, il voto della classe del Fisco è da intendersi favorevole e quindi la maggioranza risulta raggiunta con il voto positivo di tre classi su due; con il criterio della sterilizzazione, invece, la maggioranza non risulta raggiunta poiché, a fronte di due voti negativi, solo due sono da intendersi positivi. In base alla lettera della norma sembrano previsti entrambi i criteri, ma, se così fosse, la previsione del secondo sarebbe del tutto inutile, poiché non sarebbe mai necessario farvi ricorso, attesa la sufficienza del primo a consentire tutte le omologazioni consentite dal secondo. Il testo attuale della norma appare pertanto illogico, perché le due parti del secondo periodo del citato comma 4 sono necessariamente complementari, apparendo più ragionevole ritenere che la disposizione debba essere letta nel senso che, quando la proposta di transazione è non deteriore e l’adesione dei creditori pubblici è determinante ai fini del raggiungimento della maggioranza di legge, il tribunale omologa il concordato se tale maggioranza risulta raggiunta escludendo dal computo le classi formate da detti creditori. A scanso di equivoci, sarebbe quindi opportuno che la congiunzione “oppure” (con funzione disgiuntiva) venisse sostituita con la congiunzione “e” (con funzione aggiuntiva fra le due parti del menzionato secondo periodo). 
La previsione della sterilizzazione del voto dei creditori pubblici, anziché quella della “conversione” dello stesso da negativo a positivo, impedirebbe direttamente sia che l’omologazione possa essere disposta anche senza il voto favorevole di alcuna classe, sia che la ristrutturazione trasversale possa derivare dal voto favorevole della “classe svantaggiata” costituita dal Fisco o dagli enti contributivi, il quale risulti tale, non in quanto espresso da detti creditori, ma per effetto della conversione dello stesso discendente dal cram down fiscale. In ogni caso, per superare anche in questo caso una possibile criticità, il novellato art. 88 prevede anche che ai fini della ristrutturazione trasversale il voto della “classe svantaggiata” costituita dai creditori pubblici deve essere espresso e non derivare dal cram down
La disposizione recata dal comma 3 dell’art. 88, dedicata - come si è già rilevato - al concordato liquidatorio, non contiene un’analoga precisazione circa gli effetti del provvedimento forzoso del tribunale e pertanto si potrebbe ritenere che relativamente a tale fattispecie l’incertezza interpretativa non sia stata risolta o, addirittura, che il legislatore, non facendo alcun riferimento alla sterilizzazione, abbia voluto prevedere l’opposto criterio della conversione del voto. Tuttavia, sarebbe illogico assumere due diversi effetti del provvedimento forzoso del tribunale, in quanto non giustificati dal differente tipo di concordato, e quindi anche nel concordato liquidatorio pare doversi adottare il medesimo criterio della sterilizzazione del voto stabilito per quello in continuità, nonostante manchi al riguardo una precisazione (che non sarebbe del tutto fuori luogo introdurre). 
4.2 . Il rapporto fra la RPR e il divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari e contributivi
Il decreto correttivo intende risolvere, infine, anche il rapporto problematico che, nel concordato preventivo in continuità aziendale, sussiste fra la regola della priorità relativa e il divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari e contributivi.
Infatti, il secondo e il terzo periodo del comma 1 dell’art. 88 del Codice stabiliscono, con riguardo al concordato preventivo, che tali crediti non possono ricevere un trattamento peggiore di quello riservato a crediti omogenei o di rango inferiore, prevedendo quindi un principio contrastante con la regola della priorità relativa di cui al comma 6 dell’art. 84 e con il disposto dell’art. 112, comma 2, lett. b), ai sensi del quale, ai fini della omologazione del concordato, è necessario che i creditori inclusi nelle classi eventualmente dissenzienti ricevano un trattamento conforme a detta regola. 
Ne consegue che nel caso in cui crediti privilegiati di grado superiore a quelli fiscali (o contributivi) debbano essere in tutto o in parte degradati al chirografo per incapienza dell’attivo in caso di liquidazione giudiziale, il trattamento della quota (divenuta) chirografaria del creditore insoddisfatto a cui è offerto il soddisfacimento più elevato condiziona il trattamento di tutti gli altri crediti (necessariamente degradati); ciò a differenza delle disposizioni degli artt. 84, comma 6, e 112, comma 2 lett. b), che invece impongono di attribuire ai crediti (anche fiscali e contributivi) degradati un trattamento peggiore di quello riservato ai crediti privilegiati degradati di rango superiore. Si consideri esemplificativamente il caso di crediti privilegiati di cui siano titolari Sace, INPS, l’Agenzia delle Entrate (per ritenute e IVA) e l’Agenzia delle Dogane per dazi (ex art. 2783 ter c.c.), tutti degradati al chirografo per incapienza: (i) in base agli artt. 84 e 112 il loro trattamento dovrebbe essere gradato per la quota chirografaria (ad esempio: 16% per Sace, 14% per INPS, 12% per l’Agenzia delle Entrate in relazione alle ritenute e, infine, 10% per l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane (rispettivamente per iva e dazi); (ii) al contrario, in base all’art. 88, comma 1, terzo periodo, il credito delle agenzie fiscali non potrebbe ricevere un trattamento differenziato rispetto a quello attribuito a tutti gli altri crediti chirografari (ancorché per degrado), con la conseguenza che Sace, INPS e Fisco dovrebbero essere trattati nella medesima misura (ad esempio con un pagamento di tali crediti nella misura del 14%, del 13% o del 12%, ma comunque unitaria). 
Il conflitto fra le suddette norme potrebbe ritenersi superato attribuendo alle disposizioni dell’art. 88 efficacia derogatoria di quelle previste dall’art. 84 e dell’art. 112 con riferimento al solo concordato in continuità aziendale. Tuttavia, l’incipit dell’art. 88, comma 1 (”fermo restando …..”) può essere inteso anche come un rinvio alle norme sostanziali del concordato in continuità aziendale e ciò consente di ritenere che il conflitto tra le suddette disposizioni debba essere risolto rendendo prevalenti quelle che si rivelino in contrasto con l’art. 88. Conseguentemente già in base alle norme vigenti pare possibile affermare che: 
a) nel concordato in continuità il disposto dell’art. 84, comma 6, che ha introdotto la regola della priorità relativa (RPR), e della lett. b) del comma 2 dell’art. 112 prevale sul divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari e contributivi stabilito dal comma 1 dell’art. 88, relativamente ai crediti tributari e contributivi assistiti da privilegio generale degradati al chirografo; 
b) la regola della priorità relativa (RPR) deve essere infatti limitata ai soli creditori che godono di privilegio generale mobiliare e, quindi, con riferimento ai debiti di impresa, ai crediti di lavoro (diversi da quelli di lavoro subordinato, che devono essere trattati in conformità all’art. 84, comma 7, del Codice) e a quelli contributivi e tributari, beneficiando tali crediti, nonostante il loro degrado al chirografo, di una sorta di ultrattività del privilegio ancorché attenuato, da far valere sul cd. “valore di ristrutturazione” (cioè sul valore che eccede quello di liquidazione); 
c) il secondo periodo del comma 1 dell’art. 88 trova applicazione relativamente ai crediti tributari e contributivi assistiti da privilegio (generale e speciale) non degradati; 
d) il terzo periodo del comma 1 dell’art. 88 trova invece applicazione per la quota degradata dei crediti contributivi e tributari assistiti da privilegio speciale, per i quali la predetta ultrattività non opera, oltre che per quelli chirografari ab origine e, nel concordato liquidatorio, per tutti i crediti tributari e contributivi privilegiati degradati al chirografo. 
L’affermazione contenuta nella precedente lett. c) richiede tuttavia alcune precisazioni. Infatti essa, da un lato, è perfettamente compatibile con il riferimento che il secondo periodo del comma 1 dell’art. 88 fa ai tempi di pagamento e alle garanzie, potendo tale riferimento attenere anche ai crediti (o alla quota di crediti) soddisfatti integralmente; dall’altro lato, la suddetta affermazione può però apparire in contrasto con la parte della predetta norma che, menzionando anche la percentuale di soddisfacimento, dovrebbe disciplinare necessariamente la quota degradata di tali crediti, posto che, se non vi è degrado, il credito non è soddisfatto in percentuale ma integralmente, nel qual caso il riferimento alla percentuale di pagamento si rivelerebbe fuori luogo. Tuttavia, in merito al trattamento della quota di credito degradata dispone il terzo periodo del medesimo comma 1 e quindi il secondo periodo potrebbe rilevare solo in relazione ai tempi di pagamento e alle garanzie relativi ai crediti privilegiati soddisfatti integralmente, ma non in relazione alla percentuale di soddisfacimento; il che renderebbe la suddetta affermazione corretta solo in parte. Del resto, se a causa dell’incapienza dell’attivo la classe dei crediti tributari (pari, ad esempio, a 100) non può essere pagata per intero (ma, ad esempio, solo per 40), non si crea una sola classe che viene soddisfatta nella misura del 40 per cento, ma una classe per l’importo di 40 che viene soddisfatta integralmente (fino a capienza dell’attivo) e una classe degradata al chirografo da soddisfare in percentuale. Ciononostante, il riferimento alla percentuale può rilevare in presenza di un apporto di finanza esterna (il quale in base alle regole generali può essere attribuito ai creditori in deroga all’ordine delle cause di prelazione), per impedire che i crediti assistiti da un grado di privilegio inferiore a quelli che assistono i crediti contributivi e fiscali possano ricevere, grazie all’apporto, un trattamento migliore di quello riservato a questi ultimi (per evitare cioè, riprendendo l’esempio che precede in cui un credito di 100 è pagato integralmente solo per 40, che un creditore di rango inferiore sia soddisfatto integralmente – o in misura superiore al 40% - mediante impiego della finanza esterna). Il secondo periodo del comma 1 dell’art. 88 può quindi assolvere nella sua interezza una funzione con riguardo ai crediti privilegiati non degradati, senza sovrapporsi al successivo terzo periodo, che per espressa previsione si applica non solo ai crediti chirografari ab origine, ma anche a quelli chirografari per degrado.
Per risolvere legislativamente il descritto conflitto fra l’art. 88, comma 1, da un lato, e gli artt. 84, comma 6, e 112, comma 2, lett. b), dall’altro lato, il decreto correttivo introduce nel comma 1 del citato art. 88 una disposizione che, facendo in ogni caso salvo il rispetto del comma 6 (e del comma 7) dell’art. 84, stabilisce la prevalenza della regola della priorità relativa su quella che vieta il trattamento deteriore dei crediti tributari e contributivi. Tuttavia, tale prevalenza è prevista solo con riguardo al divieto di trattamento deteriore di cui al secondo periodo dell’art. 88, avente a oggetto i crediti tributari e contributivi assistiti da privilegio, mentre un’analoga disposizione non è stata introdotta con riguardo al divieto concernente i crediti chirografari (ab origine e per degradazione) previsto dal terzo periodo del medesimo comma, tra i quali rientrano sia i crediti assistiti da privilegio generale il cui ammontare eccede il valore di liquidazione, sia i crediti assistiti da previlegio speciale che eccede il valore dei beni su cui tale privilegio insiste, sia i crediti chirografari ab origine. Manca, quindi, una disposizione che affermi, nel terzo periodo del citato comma 1, la prevalenza della RPR con riguardo ai crediti privilegiati degradati al chirografo; escluderne l’applicazione avrebbe però ben poco senso, poiché lo scopo della norma inserita nel suddetto secondo periodo non può che essere quello di stabilire che i crediti, inclusi quelli tributari e contributivi, assistiti da privilegio generale che non trovano capienza nell’attivo di liquidazione (cioè quelli degradati) devono essere soddisfatti rispettando la RPR, anche se per far ciò è necessario derogare alla disposizione dell’art. 88 che vieta il trattamento deteriore dei crediti tributari e contributivi, in quanto contrastante con detta regola. Non sarebbe stato forse superfluo scriverlo in modo più chiaro, ma non si comprende quale utilità possa avere il riferimento alla prevalenza dell’art. 84, comma 6, contenuto nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 88, se non con riguardo ai crediti privilegiati che vengono degradati a causa dell’incapienza del valore di liquidazione, atteso che, relativamente a quelli che non subiscono tale degrado essendo il valore di liquidazione capiente, la RPR non trova applicazione. 
Il divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari e contributivi previsto dovrebbe riguardare quindi i crediti assistiti da privilegio speciale degradati e a quelli chirografari ab origine (per effetto del terzo periodo del citato comma 1) e i crediti assistiti da privilegio (generale e speciale) rispetto ai quali il valore di liquidazione risulta capiente (per effetto del secondo periodo del citato comma 1), mentre su di esso prevale il rispetto della RPR con riguardo a quelli con privilegio generale incapiente, operando per questi una sorta di ultrattività attenuata del privilegio. Un’integrazione della norma sarebbe tuttavia utile anche a questo riguardo. 
5 . Le novità relative al trattamento dei debiti tributari nel concordato attuato nella liquidazione giudiziale
Il decreto correttivo ha, inoltre, sostanzialmente introdotto la transazione fiscale con cram down anche nella liquidazione giudiziale, mediante la sostituzione del comma 5 dell’art. 245 del Codice, dando luogo alla seguente disciplina: 
1) il concordato è approvato con la maggioranza dei crediti ammessi al voto; 
2) ove siano previste classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica anche nel maggior numero delle classi; 
3) il tribunale omologa il concordato anche in caso di voto contrario delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali, quando il voto è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui ai precedenti punti 1) e 2) e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione di un professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento dei predetti creditori pubblici è conveniente rispetto all’alternativa della prosecuzione della liquidazione giudiziale. 
Non viene quindi introdotto un sub-procedimento avente a oggetto la proposta di transazione fiscale e contributiva, ma il concordato potrà essere omologato nonostante il voto contrario del Fisco e degli enti previdenziali, non solo quando tale voto non è necessario per raggiungere le maggioranze di legge e queste sono state comunque raggiunte, com’è attualmente già previsto, ma anche quando è indispensabile per raggiungerle, se la proposta è conveniente per i creditori pubblici e ciò risulta da un’attestazione speciale resa da un professionista indipendente. Che l’omologazione forzosa sia stata introdotta anche nel concordato che sino a poco tempo fa si definiva “fallimentare” è del tutto logico, atteso che in questa circostanza la valutazione della convenienza della proposta concordataria è più agevole che in qualsiasi altra circostanza, dovendo emergere dal confronto fra il soddisfacimento dei creditori pubblici previsto da tale proposta e quello corrispondente allo scenario della liquidazione giudiziale, scenario che, almeno in parte, nel momento in cui detta valutazione deve essere eseguita, si è già verificato.
6 . Il trattamento dei debiti tributari nel concordato semplificato, nel concordato minore e nella ristrutturazione dei debiti del consumatore
La transazione fiscale non è stata estesa al concordato semplificato liquidatorio di cui all’art. 25 sexies del Codice e alla ristrutturazione dei debiti del consumatore di cui agli articoli 67 e seguenti, in considerazione della diversa struttura di tali istituti, che non prevedono un accordo con i creditori né l’espressione di un voto da parte di questi ultimi, ma solo la possibilità di opporsi alla omologazione o di formulare osservazioni al tribunale, il quale, eseguite le necessarie verifiche, ha in ogni caso il potere di omologare la proposta di concordato e il piano presentati dal debitore. 
La transazione fiscale non è stata inoltre estesa al concordato minore di cui all’art. 74 del Codice, ancorché in questa procedura sia previsto il voto dei creditori, sul presupposto che non ne sussista la necessità. Non tanto perché l’ultimo comma del medesimo art. 74 dispone che “per quanto non previsto dalla presente sezione si applicano le disposizioni del capo III del presente titolo in quanto compatibili”, tra le quali rientrano quelle recate dall’art. 88, che disciplina la transazione fiscale nel concordato preventivo, con la conseguenza che il sub-procedimento stabilito da tale norma sarebbe applicabile anche nel concordato minore; bensì perché l’art. 80 già prevede l’omologazione forzosa del concordato minore anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti previdenziali e assicurativi, quando tale adesione è determinante ai fini del raggiungimento della percentuale di cui all’art. 79, comma 1, e la proposta di soddisfacimento dei predetti creditori è conveniente rispetto alla liquidazione giudiziale. Ciò significa che questa norma già prevede espressamente il cram down fiscale nel concordato minore e, implicitamente, anche il potere dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali di esprimere il proprio voto (rectius: “la dichiarazione di adesione o di mancata adesione della proposta di concordato”) ai sensi del comma 1, lett. c), dell’art. 78, in deroga al principio della indisponibilità dei crediti di cui sono titolari; infatti, se il tribunale può omologare forzosamente il concordato “anche in mancanza di adesione” da parte di tali creditori, ne deve necessariamente discendere che anche nella procedura di cui trattasi (come nel concordato preventivo) un’adesione possa essere espressa dalle agenzie fiscali e dagli enti previdenziali, nonostante la falcidia dei crediti prevista dalla proposta di concordato. 
Occorre tuttavia evidenziare che il rinvio alle norme del concordato preventivo “in quanto compatibili” non è stato finora interpretato in maniera univoca dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito, a causa della previsione relativa alla omologazione forzosa della proposta concordataria in caso di mancata adesione dei creditori pubblici (quando questa è determinante ai fini del raggiungimento della percentuale di cui all’art. 79, comma 1 e la proposta di soddisfacimento è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria). Infatti, atteso che il potere attribuito al giudice di omologare in tal caso la procedura presuppone evidentemente la possibilità di soddisfare in misura parziale i crediti tributari e contributivi (al pari degli altri crediti privilegiati), questa previsione “monca”, siccome priva di qualsiasi riferimento ai criteri con cui trattare i creditori pubblici e con cui formulare la proposta (invece espressamente delineati dall’art. 88 con riguardo al concordato preventivo), è stata interpretata in almeno tre modi diversi: 
1) un primo orientamento ritiene che le prescrizioni contenute nell’art. 88 sarebbero applicabili in toto al concordato minore, fatta eccezione per quelle concernenti il contenuto dell’attestazione dell’OCC e il cram down, in quanto specificamente e autonomamente disciplinati, per il che la proposta di transazione fiscale dovrebbe essere presentata secondo le medesime regole delineate per il concordato preventivo e dovrebbe essere formulata rispettando il criterio del divieto di trattamento deteriore per i crediti privilegiati e quello del trattamento più favorevole per i crediti chirografari (compresi i crediti degradati per incapienza); 
2) un secondo orientamento (“intermedio”) assume che le ulteriori prescrizioni contenute nell’art. 88 sarebbero applicabili al concordato minore solo per quanto concerne i criteri di trattamento dei crediti tributari e contributivi, in quanto consistenti in norme di natura sostanziale, sancite in deroga al principio di indisponibilità del credito tributario e la cui applicazione non presenterebbe alcuna incompatibilità strutturale o funzionale con la regolamentazione “semplificata” del concordato minore. Per la medesima ragione sarebbe invece da escludere l’applicazione delle disposizioni di natura procedurale presenti nell’art. 88 (come quella che prevede la presentazione di un’apposita proposta di transazione fiscale), poiché incompatibili con una disciplina che, rispetto al concordato preventivo, è strutturata in maniera dichiaratamente semplificata e a cui possono perciò aderire anche soggetti giuridici non “fallibili” (e dunque di dimensioni minime); 
3) un terzo orientamento, infine, ritiene non applicabili al concordato minore le regole sancite nell’art. 88 con riguardo alla transazione fiscale nel concordato preventivo, poiché l’assenza di norme ad hoc svelerebbe l’intenzione del legislatore di applicare ai crediti tributari e contributivi le stesse regole previste per la generalità dei crediti da soddisfare, proprio in ragione della struttura semplificata del concordato minore. Peraltro la pretesa di applicare i criteri di trattamento indicati nell’art. 88, comma 1, (i) richiederebbe la creazione di un’apposita classe per i crediti tributari e previdenziali privilegiati degradati (in contrasto con quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 74 che contempla una sola fattispecie di classamento obbligatorio con riferimento ai creditori titolari di garanzie prestate da terzi) e (ii) implicherebbe - ancorché solo per i creditori pubblici - l’applicazione della regola della priorità relativa nel concordato minore (ivi non prevista). 
A quanto consta, il secondo orientamento è stato finora condiviso dal Tribunale di Avellino, con provvedimento del 18 gennaio 2023, il quale ha appunto rilevato che, pur non essendo obbligatoria la sua presentazione ai creditori pubblici, la proposta di soddisfacimento parziale non può limitarsi ad essere “conveniente” rispetto all’alternativa liquidatoria, ma deve rispettare i canoni del comma 1 dell’art. 88 con conseguente classamento obbligatorio per i crediti degradati (quest’ultima prescrizione, invero, non vede d’accordo tutta la dottrina che aderisce a detta posizione). Al terzo orientamento ha invece aderito il Tribunale di La Spezia, con provvedimento del 12 dicembre 2022, il quale ha dichiarato ammissibile e ha poi omologato un concordato minore in cui il credito privilegiato dell’Agenzia delle Entrate, totalmente degradato in chirografo, è stato soddisfatto con una percentuale di pagamento decisamente inferiore a quella offerta ad altro creditore chirografario (invece l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 88 avrebbe imposto di riservare all’Agenzia delle Entrate il miglior trattamento accordato tra i creditori chirografari). 
Ciò precisato, la semplificazione che caratterizza il concordato minore non richiede l’applicazione di un sub-procedimento articolato qual è quello disciplinato dall’art. 88, ma, ciò nonostante, consente l’espressione di un voto da parte dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali e assicurativi e prevede, in caso di mancata adesione, l’omologazione forzosa. Conseguentemente l’estensione della transazione fiscale a questa procedura non avrebbe mutato granché nella sostanza, ma ne avrebbe per contro reso più complessa e meno spedita la gestione: avrebbe pertanto generato uno svantaggio in assenza di alcun vantaggio reale e ciò ne giustifica la mancata attuazione. 
Tuttavia, considerati i diversi orientamenti espressi in dottrina e in giurisprudenza sul trattamento dei debiti tributari e contributivi nel concordato minore e sull’applicabilità della transazione fiscale a questa procedura in virtù del rinvio disposto dal già citato ultimo comma dell’art. 74, l’introduzione di una norma che chiarisca tale trattamento, anche semplicemente per prevedere espressamente la disciplina che emerge dalla ricostruzione poc’anzi esposta, sarebbe tutt’altro che superflua. 
7 . La transazione fiscale di gruppo
Con il Codice è stata introdotta anche nell’ambito concorsuale una regolazione della crisi e dell’insolvenza dei gruppi d’imprese, di cui la legge fallimentare era priva. L’art. 284 del Codice prevede, infatti, che la domanda di accesso al concordato preventivo e alla procedura di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti può essere presentata unitariamente, anziché singolarmente, da più imprese in stato di crisi o d’insolvenza che appartengano al medesimo gruppo e, in tale circostanza, la domanda di accesso alla procedura deve contenere l’illustrazione delle ragioni di maggior convenienza, in funzione del miglior soddisfacimento dei creditori delle singole imprese, della decisione di presentare una proposta unitaria; quest’ultima deve essere inoltre corredata da un unico piano ovvero da più piani collegati e reciprocamente interferenti, anziché da un piano distinto e autonomo per ciascuna impresa. 
L’art. 287 prevede inoltre la possibilità di assoggettare a una procedura di liquidazione giudiziale unitaria le imprese appartenenti a un unico gruppo, in accoglimento di un unico ricorso, quando risultino opportune forme di coordinamento nella liquidazione degli attivi, in funzione dell’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori delle diverse imprese del gruppo, ferma rimanendo l’autonomia delle rispettive masse attive e passive. 
Nonostante tali disposizioni consentano, in presenza dei presupposti testé indicati, l’apertura di una procedura unitaria con riguardo alle imprese che appartengono a un unico gruppo, le norme del Codice che disciplinano il trattamento dei crediti tributari e contributivi in tali procedure non prevedono un’analoga possibilità. Conseguentemente, anche quando la procedura è unitaria, pur trovando essa attuazione dinanzi a un solo tribunale (quello della sezione specializzata in materia di imprese competente in base al centro degli interessi principali dell’impresa che esercita l’attività di direzione e coordinamento), con la nomina dei medesimi organi giudiziali, ed essendo fondata su un piano unitario, le proposte di transazione fiscale di cui agli articoli 63 e 88 del Codice della crisi devono essere presentate separatamente, in base a piani distinti (o a una segmentazione del piano unitario), agli uffici delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali competenti in ragione del domicilio fiscale di ciascuna delle imprese del gruppo. In questi casi, specialmente se tali imprese hanno domicili fiscali differenti - e a maggior ragione se questi ricadono in regioni diverse – ne discendono sia la necessità di una rielaborazione del piano concordatario, sia il rischio di valutazioni contrastanti delle proposte da parte degli uffici competenti, sia la necessità di un coordinamento fra più uffici che non agevola la gestione delle proposte di transazione e la speditezza della procedura. 
Da qui l’esigenza di introdurre una procedura unitaria di gruppo anche relativamente alla transazione fiscale e contributiva, nell’ambito del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e del concordato attuato nella liquidazione giudiziale, atteso che la procedura unitaria di cui trattasi è prevista dagli articoli 284 e 287 del Codice della crisi esclusivamente in tali procedure, nonché nella composizione negoziata della crisi, atteso il disposto dell’art. 25. 
È stato pertanto introdotto l’art. 284 bis, il quale prevede che le imprese appartenenti a un gruppo possono presentare unitariamente le proposte di transazione fiscale di cui agli articoli 63, 64 bis, comma 1 bis, e 88, nell’ambito, rispettivamente, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione e del concordato preventivo, stabilendo che, se, a causa del loro diverso domicilio, gli uffici delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali competenti a ricevere le suddette proposte sono differenti, la proposta unitaria deve essere presentata agli uffici di tali agenzie ed enti competenti in relazione al domicilio fiscale della società, ente o persona fisica che, in base alla pubblicità prevista dall’articolo 2497 bis del codice civile, esercita l’attività di direzione e coordinamento oppure, in mancanza, dell’impresa che, alla data di presentazione della proposta unitaria, presenta la maggiore esposizione debitoria nei confronti di ciascuno degli uffici delle agenzie fiscali o degli enti previdenziali e assicurativi distintamente competenti ai sensi delle ordinarie disposizioni di legge. Resta in ogni caso ferma, anche ai fini del trattamento dei crediti tributari, l’autonomia delle rispettive masse attive e passive delle imprese di cui al comma 1 dell’articolo 284. 
La norma richiama, oltre agli articoli 63 e 88, anche il comma 1 bis dell’art. 64 bis, che disciplina la transazione fiscale e contributiva nell’ambito del PRO, assumendo evidentemente in tal modo il legislatore che la transazione di gruppo possa essere presentata anche nel contesto di tale strumento, sebbene la possibilità di presentare un piano di ristrutturazione soggetto a omologazione di gruppo non paia emergere dalla lettera degli articoli 284 e 285 del Codice. L’art. 284 bis non cita invece l’art. 245 né l’art. 25, che disciplinano rispettivamente il concordato attuato nella liquidazione giudiziale e la composizione negoziata di gruppo, né l’art. 287, che disciplina la procedura unitaria di liquidazione giudiziale, nonostante che, come si è già rilevato, con il novellato comma 5 dell’art. 245 e con il comma 1 bis dell’art. 23 sia stata introdotta nel concordato relativo alla liquidazione giudiziale e nella composizione negoziale una sorta di transazione fiscale. Una volta stabilito che anche il concordato “fallimentare” e la composizione negoziata possono riguardare il gruppo e che pure in tali ambiti è previsto uno specifico trattamento dei crediti tributari e contributivi, anche con riguardo a tali istituti dovrebbe essere consentita la formulazione di una proposta unitaria avente a oggetto il trattamento di tali crediti. Pertanto, un’integrazione di queste norme pare opportuna.
8 . Le novità relative alla responsabilità del soggetto acquirente di un’azienda per i debiti tributari del cedente
L’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997, dopo aver stabilito con il comma 1 che il cessionario di un’azienda risponde solidalmente (entro certi limiti quantitativi e temporali, fatto salvo il caso di frode) del pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse dal cedente, con il comma 5 bis esclude detta responsabilità se il trasferimento d’azienda avviene nell’ambito di una procedura concorsuale, di un accordo di ristrutturazione dei debiti, di un piano attestato di risanamento, di un procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento o di liquidazione del patrimonio. Tale esclusione risponde a una evidente finalità agevolativa, ovverosia quella di facilitare la soluzione negoziale della crisi in cui si trova l’impresa cedente, attraverso l’eliminazione dei rischi fiscali che altrimenti graverebbero sull’acquirente, costituendo un ostacolo al trasferimento dell’azienda e quindi al risanamento dell’impresa in crisi. 
A detta esclusione oggettiva non corrisponde però un’analoga esclusione della responsabilità per i debiti del cedente che l’art. 2560, comma 2, c.c. fa ricadere su chi acquista un’azienda relativamente ai debiti tributari risultanti dai libri contabili obbligatori del cedente. Infatti, mentre quest’ultima è esclusa con riguardo alla composizione negoziata (previa autorizzazione del tribunale ex art. 22 del Codice), al concordato preventivo, al concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, al concordato minore e alla liquidazione giudiziale (per effetto rispettivamente degli articoli 118, comma 8, 25 sexies, comma 8, 74, ultimo comma, e 214, comma 3), quella disciplinata dal citato comma 5 bis rileva per la liquidazione giudiziale, per il concordato preventivo, per il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio ex art. 25 sexies, per il concordato minore ex art. 74, per l’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 del Codice, per il piano attestato di risanamento ex art. 56 del Codice, per “il procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento” (cioè la ristrutturazione dei debiti del consumatore di cui all’art. 67 del Codice) e per quello di “liquidazione del patrimonio”. 
Da un assetto normativo siffatto discende, per esempio, che relativamente alle cessioni di complessi aziendali autorizzate dal tribunale nella composizione negoziata della crisi è esclusa la responsabilità civilistica dell’acquirente, ma sussiste quella tributaria; del pari, relativamente alle cessioni di complessi aziendali perfezionate in attuazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, di un piano attestato di risanamento o nell’ambito di un piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, è allo stato esclusa la solidarietà dell’acquirente, prevista dal citato art. 14, ma permane quella prevista dal codice civile. 
La responsabilità solidale del cessionario non dovrebbe per sua natura attenere alle cessioni attuate nell’ambito di procedimenti che presentano profili pubblicistici o per consentire il risanamento di un’impresa che ha fatto ricorso a strumenti di regolazione della crisi d’impresa; pertanto, la differenziata regolamentazione della responsabilità dell’acquirente attualmente vigente si rivela illogica e del tutto asistematica, non essendo rinvenibili argomentazioni atte a giustificazione l’applicazione di regole diverse a seconda dell’istituto cui ha fatto ricorso l’impresa in crisi che cede l’azienda. 
Alla soluzione di questa incoerente situazione ha inteso porre rimedio l’art. 9 della Legge n. 111/2023, avente a oggetto la revisione del sistema tributario, con cui il Governo è stato delegato a estendere a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi l’esclusione delle responsabilità previste tanto dall’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 quanto dall’art. 2560 c.c. e, con l’art. 3, comma 1, lett. h), del D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, contenente la revisione della disciplina delle sanzioni tributarie, è stato modificato il comma 5 bis del citato art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 così come segue: “Salva l’applicazione del comma 4 (n. d. a.: che concerne il caso di cessione in frode), la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione quando la cessione avviene nell’ambito della composizione negoziata della crisi o di uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza giudiziale di cui al Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14”. 
Pertanto, a decorrere dal 29 giugno 2024 (data di entrata in vigore del menzionato decreto legislativo) la responsabilità solidale del cessionario per i debiti tributari relativi all’azienda ceduta prevista dall’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 è esclusa ogniqualvolta l’azienda venga trasferita nell’ambito di uno degli strumenti di regolazione della crisi dell’insolvenza disciplinati dal Codice, nonché nell’ambito della composizione negoziata (distintamente menzionata, non costituendo propriamente essa uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza giudiziale disciplinati dal Codice della crisi). Conseguentemente l’esclusione della responsabilità per l’acquirente è allo stato differenziata sul piano civilistico e tributario, così come emerge dal prospetto di raffronto che segue:

Come si legge nella relazione illustrativa che ha accompagnato l’iter di approvazione del decreto sulle sanzioni tributarie, con la modifica all’art. 14, comma 5 bis, del D.Lgs. n. 472/1997 il legislatore ha inteso “recepire la specifica previsione contemplata dall’art. 20, comma 1, lettera c, numero 1) della Legge delega, laddove è chiesto di ‘migliorare la proporzionalità delle sanzioni tributarie, attenuandone il carico e riconducendolo ai livelli esistenti in altri Stati europei”‘ e, nello specifico, il suddetto comma 5 bis è stato sostituito “al fine di escludere, nel rispetto del principio di proporzionalità, la responsabilità solidale del cessionario quando la cessione di azienda sia avvenuta nell’ambito di procedure concorsuali affidate all’Autorità Giudiziaria Ordinaria”. In realtà la modifica normativa testé menzionata ha dato attuazione anche al criterio direttivo sancito dall’art. 9, comma 1, n. 3), della Legge delega n. 111/2023 con riguardo all’ambito oggettivo di esonero dalla responsabilità solidale per i debiti tributari, sostituendo l’elencazione puntuale dapprima presente nel comma 5 bis con un rinvio generale agli istituti disciplinati dal Codice. 
In quanto riferito alla revisione delle sanzioni tributarie, con il medesimo provvedimento normativo non si è invece potuto dare attuazione all’altro criterio direttivo prescritto dall’art. 9, comma 1, n. 3), della Legge n. 111/2023, concernente l’estensione delle deroghe all’art. 2560, comma 2, c.c. ai nuovi istituti disciplinati dal Codice della crisi. Pertanto, come emerge anche dal prospetto che precede, al momento l’esclusione della responsabilità del cessionario per i debiti tributari del cedente riguarda unicamente le cessioni d’azienda che avvengono in sede di: a) composizione negoziata della crisi; b) concordato preventivo; c) concordato semplificato liquidatorio; d) concordato minore; e) liquidazione giudiziale. 
Il decreto correttivo (art. 17, comma 1, lett. e) introduce la facoltà del tribunale di autorizzare il trasferimento dell’azienda con l’esclusione della responsabilità stabilita dall’art. 2560, comma 2, del codice civile al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO), ma non all’accordo di ristrutturazione dei debiti né al piano attestato di risanamento, che rimangono quindi i soli istituti con riguardo ai quali manca la possibilità di un’esclusione integrale (prevista cioè da norme tributarie e da norme civilistiche al tempo stesso) delle suddette responsabilità. Come si è già osservato, non sussistono tuttavia valide ragioni che ne giustifichino una differente disciplina. Così stando le cose, poiché in virtù del novellato comma 5 bis del citato art. 14 l’esonero della responsabilità per i debiti tributari del cedente prevista dal comma 1 del medesimo articolo già riguarda, come si è visto, tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi e la composizione negoziata, ne discende la necessità di estendere l’esonero dalle responsabilità stabilite dall’art. 2560, comma 2, c.c. all’accordo di ristrutturazione dei debiti e al piano attestato: è quindi a tal fine opportuno un ampliamento delle disposizioni introdotte dal citato art. 17 del decreto correttivo. 
Occorre al tempo stesso un’ulteriore integrazione. Infatti, il già citato art. 3, lett. h), del D.Lgs. n. 87/2024, ha aggiunto al comma 5 bis dell’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 un secondo periodo, al fine di stabilire che l’esclusione della responsabilità di cui al comma 1 del medesimo art. 14 “si applica anche quando la cessione è effettuata nei confronti di terzi da una società controllata, ai sensi dell’art. 2359 del Codice civile, dall’impresa o dalla società che ha fatto ricorso oppure è assoggettata a uno dei suddetti istituti (n. d. a.: cioè degli istituti disciplinati dal Codice della crisi), a condizione che la cessione: 
a) sia autorizzata dall’autorità giudiziaria ovvero sia prevista in un piano omologato dalla medesima autorità; 
b) sia funzionale al risanamento dell’impresa o del soggetto controllante la società cedente o al soddisfacimento dei creditori di tali soggetti”. 
Pertanto, l’esclusione di responsabilità opera anche per i debiti tributari della società cedente che non si trova in uno stato di crisi, ma che è controllata da un’impresa che versa in tale stato e ha fatto ricorso (o è stata assoggettata) a uno degli istituti disciplinati dal Codice, purché la cessione dell’azienda sia autorizzata dal tribunale ovvero sia stata prevista per consentire il risanamento della posizione debitoria della controllante. Si tratta di una integrazione normativa opportuna, perché spesso la ristrutturazione dell’impresa in crisi coinvolge anche società non in crisi del gruppo di cui fa parte l’impresa in crisi, le quali, pur non trovandosi in una situazione di squilibrio, possono cedere la propria azienda o un ramo aziendale per rendere possibile il risanamento di un’altra società del gruppo. L’esclusione di cui trattasi è tuttavia limitata: 1) sotto il profilo del soggetto cedente, al caso in cui l’impresa in crisi sia la società controllante, poiché solo in questa ipotesi è come se l’azienda venisse ceduta da quest’ultima, determinandosi un effetto analogo sul patrimonio del debitore e di conseguenza sulla relativa tutela dei creditori; 2) sotto il profilo del contesto in cui la cessione è effettuata, poiché è necessario che la cessione sia autorizzata dall’autorità giudiziaria ovvero che sia prevista in un piano omologato dalla medesima autorità e conseguentemente l’esclusione non può operare nell’ambito degli istituti, come il piano attestato di risanamento, in cui tale autorizzazione non può essere rilasciata né è previsto un procedimento di omologazione. 
La previsione recata dal secondo periodo del più volte citato comma 5 bis, nonostante tali limitazioni, dettate dall’evidente esigenza di evitare abusi della norma, è certamente utile e sarebbe quindi opportuno che anche la sua applicazione venisse estesa alle responsabilità previste dall’art. 2560, comma 2, c.c., mediante un’ulteriore integrazione del decreto correttivo, rendendo più omogeneo e coerente il regime delle responsabilità che gravano sull’acquirente dell’azienda ceduta nell’ambito della composizione negoziata o di uno strumento di regolazione della crisi disciplinato dal Codice.

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