Nel prosieguo ci si soffermerà solo sulle integrazioni (di diritto sostanziale)[29] più significative, che talora sfuggono ad una ricerca testuale per parole-chiave (non comparendo nelle norme interpolate il sopra citato sintagma[30]), ma che, se “messe a sistema”, rafforzano il Leitmotiv della salvaguardia del going concern e paiono davvero in grado di rappresentare un cambio di paradigma.
Per comodità dei Lettori, il paragrafo è stato suddiviso in brevi punti[31], che non seguono necessariamente la numerazione codicistica e nei quali si è cercato di raggruppare le novità più significative nell’ottica della preservazione della continuità aziendale.
A) A parità di approvazione, prevale la proposta in continuità
Ad “instilla[re] il dubbio che la continuità sia, solo, un ‘valore-mezzo’”[32] è il comma 5 bis aggiunto all’art. 109 CCII, ai sensi del quale, “in caso di approvazione di più proposte di concordato” (preventivo, ma forse anche di concordato nella liquidazione giudiziale, quantomeno di gruppo[33]) “che si fondano su piani differenti è sottoposta a omologazione la proposta che prevede la continuità aziendale” e “se sono approvate più proposte in continuità aziendale è sottoposta a omologazione quella che ha ottenuto la maggioranza più elevata dei crediti chirografari ammessi al voto”.
È un’innovativa regola tecnica che può non essere condivisa perché riduce la libertà decisionale dei creditori[34] portando all’omologa la proposta, non già più votata (id est, “che abbia conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto” come prescrive il comma 2), bensì fondata su un piano in continuità aziendale. Se non si commettono errori d’interpretazione, anche laddove la proposta liquidatoria offrisse un soddisfacimento superiore o uguale, dovrebbe comunque essere preferita quella in continuità, il che potrebbe comportare effetti distorsivi sulle dinamiche competitive[35] e trasformare il going concern in un dogma assoluto, trascurando le situazioni nelle quali la liquidazione potrebbe garantire un miglior risultato per i creditori, la cui volontà negoziale viene sacrificata sull’altare dell’interesse (superiore) alla salvaguardia dell’impresa ancora viable.
Nonostante tali rilievi critici e aspetti problematici, la nuova previsione può essere compresa e giustificata alla luce dell’obiettivo di privilegiare la continuità aziendale, scelta coerente con la Direttiva Insolvency e tutt’altro che arbitraria, in quanto fondata sulla constatazione che la continuità preserva il valore aziendale e garantisce maggiore soddisfazione per il ceto creditorio nel medio-lungo periodo. Non è poi del tutto esatto affermare che il comma 5 bis “pon[ga] nel nulla”[36] il voto dei creditori, in quanto detta un criterio di selezione finale tra proposte plurime disomogenee. La volontà dei creditori resta, quindi, determinante per l’approvazione delle singole proposte e rientra tra le prerogative del Legislatore orientare le scelte in base a finalità di politica economica.
B) L’affiancamento dei revisori ai sindaci e dei liquidatori agli amministratori
La crescente attenzione per la preservazione della continuità, non solo aziendale, ma anche sociale, emerge anche dall’affiancamento ai sindaci dei revisori legali nel dovere di segnalare uno stato di crisi o di insolvenza (art. 25 octies CCII) e agli amministratori dei liquidatori “civilistici” nella riserva di competenza a decidere l’accesso a uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza (art. 120 bis, comma 1, CCII).
Entrambi gli accostamenti, sebbene non perfettamente coordinati tra loro e all’interno della stessa norma[37], sono densi d’implicazioni sistematiche.
L’inserimento del soggetto incaricato della revisione legale dei conti consente la segnalazione tempestiva della crisi anche nelle S.r.l. che abbiano optato, ai sensi dell’art. 2477, comma 2, c.c. per la sola nomina di un revisore e (contrariamente a quanto sostenuto da coloro che criticano l’integrazione) non va letto come un’indebita equiparazione tra organo di controllo sulla gestione e soggetto deputato al controllo contabile in quanto la segnalazione deve essere effettuata “nell’esercizio delle rispettive funzioni” e tra i compiti del revisore rientra anche quello di “acquisire elementi probativi sufficienti e appropriati per verificare l’utilizzo appropriato del presupposto della continuità aziendale nel bilancio e giungere a una conclusione al riguardo” (cfr. il principio 570 Continuità Aziendale ISA Italia). A ben vedere, anche la precisazione (aggiunta all’ultimo periodo del comma 2) secondo la quale “la segnalazione è in ogni caso considerata tempestiva se interviene nel termine di sessanta giorni dalla conoscenza” (o, come si evince dalla Relazione illustrativa, conoscibilità) del solo stato di crisi è volta ad accelerare i tempi e a stimolare una vigilanza proattiva, in quanto, secondo l’id quod plerumque accidit, la segnalazione avente ad oggetto lo stato di insolvenza non potrebbe, per definizione, considerarsi tempestiva e, quindi, non sarebbe valutabile ai fini dell’attenuazione o esclusione della responsabilità prevista dagli artt. 2407 c.c. e 15 del D.Lgs. n. 39/2010.
La seconda integrazione, se portata alle estreme conseguenze, comporta diversi corollari[38]:
i) il venir meno della libertà dei soci di decidere lo scioglimento anticipato e volontario della società in crisi[39] e di nominare i liquidatori per svolgere il loro tradizionale compito, insito nel nomen della qualifica;
ii) il riconoscimento ai liquidatori del potere-dovere di revocare lo stato di liquidazione a prescindere dalla volontà dei soci e di accedere così al percorso della CNC purché risulti ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa[40].
Senza ipotizzare un esercizio extra-societario (id est, oltre i confini della singola società) dei doveri gravanti sugli organi societari di controllo della holding nel contesto dei gruppi di imprese e una rivisitazione della nozione di “interesse sociale” (continuando a far oscillare il pendolo tra la tesi istituzionalistica e la teoria dello Shareholder Value) occorre rileggere l’art. 41 Cost. prendendo atto che, in nome dei limiti alla libertà d’iniziativa economica privata, il Legislatore (prima ancora del Giudice) consente di sacrificare gli interessi dei creditori, ma anche dei soci, realizzando una sorta di personificazione della “funzione sociale” della proprietà (art. 42 Cost.) e bilanciando la tutela del credito con quella del lavoro (art. 35 Cost.).
C) Sull’ammissibilità di un risanamento parzialmente liquidatorio e di un concordato “finale” a supporto della continuità aziendale
Riallacciandoci al corollario sub ii), l’ultimo decreto correttivo, pur senza snaturare gli istituti, dovrebbe consentire un risanamento parzialmente liquidatorio, ossia perseguito tramite la dismissione dei cespiti non strumentali alla prosecuzione dell’attività.
Questa era almeno la voluntas legis espressa dalla Relazione di accompagnamento al decreto del 2024[41], che si è tradotta nella possibilità di nominare un liquidatore a prescindere dal tipo di concordato[42], mentre rischia di essere tradita dalla formulazione dell’art. 64 bis, comma 9, CCII, che, a ben vedere, non ha reso applicabile l’art. 114 bis, bensì l’art. 114 CCII.
L’equivoco ingenerato dal rinvio alle “disposizioni sulla liquidazione nel concordato liquidatorio” (C.p.Li) e non a quelle sulla liquidazione nel concordato in continuità (c.p.Co) è, probabilmente, alla base di alcune pronunce giurisprudenziali che ammettono un piano di ristrutturazione di natura eminentemente liquidatoria[43], che, rispetto al C.p.Li, sarebbe sottratto al doppio vincolo sancito dall’art. 84, comma 4, CCII (apporto di risorse esterne che incrementino di almeno il 10% l’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda e soddisfacimento dei creditori sia chirografari che privilegiati degradati per incapienza in misura non inferiore al 20% del loro ammontare complessivo).
Lo stesso interrogativo continua a porsi per la CNC, ma in questo caso, nonostante il concordato semplificato liquidatorio abbia perso (almeno sulla carta) la sua accezione di esito negativo[44], la giurisprudenza più recente ha ritenuto “maggiormente condivisibili gli assunti sottesi all’orientamento giurisprudenziale di merito che esclude la conferma delle misure protettive del patrimonio in ipotesi di un piano squisitamente liquidatorio, all’esito del quale non sussista una ragionevole possibilità di perseguire l'obiettivo del risanamento dell'impresa e la prosecuzione della sua attività, al cui perseguimento dette misure possano ritenersi strumentali. Difatti l’obiettivo del risanamento, perseguibile anche indirettamente mediante la cessione o l’affitto dell’azienda stessa (art. 12, comma 2), in coerenza con la disciplina attualmente vigente in ambito di concordato preventivo, non può che essere perseguito con soli strumenti che consentano la conservazione dei valori aziendali”[45].
Riallacciandoci alle considerazioni svolte sub a), una lettura in filigrana delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 136/2024 al concordato nella liquidazione giudiziale (c.d. finale o incidentale) consente di concepirlo come uno strumento di risoluzione dell’insolvenza a supporto della continuità aziendale, soprattutto indiretta, attraverso la previa stipulazione di un contratto d’affitto ovvero l’esercizio (non più provvisorio) dell’impresa[46] e l’affidamento al curatore del potere di compiere gli atti e le operazioni riguardanti l’organizzazione e la struttura finanziaria della società previsti nel programma di liquidazione, dandone adeguata e tempestiva informazione ai soci ed ai creditori sociali (art. 264 CCII). Avremmo così un “concordato endoconcorsuale in continuità aziendale”[47] (che potremmo ribattezzare un concordato ‘evolutivo’ o ‘di transizione’), che, fino a poco tempo fa, sarebbe apparso un ossimoro e che oggi rientrerebbe nella nozione di strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza offerta dall’art. 2, lett. m-bis, CCII.
D) Purgazione “funzionale”
Altra novità in linea con il dichiarato favor per la continuità aziendale è senza dubbio la deroga al capoverso dell’art. 2560 c.c., anticipata dalla giurisprudenza alla fase introdotta da una domanda con riserva[48] ed estesa dall’ultimo decreto correttivo anche al PRO (cfr. l’art. 64 bis, comma 9 bis CCII che, al pari degli artt. 22, comma 1, lett. d, e 52, comma 2, CCII, considera la salvaguardia della continuità aziendale e la migliore soddisfazione dei creditori valori pari-ordinati).
Questo parallelismo, unito alla circostanza che al PRO si applica l’art. 114 CCII potrebbe forse offrire un (sia pur debole) appiglio per riconoscere alle vendite operate nel contesto della CNC, sebbene non coattive, un “effetto purgativo” (non in senso tecnico, ma) “funzionale” alla preservazione del going concern.
Altro ‘scudo incentivante’ la prosecuzione dell’attività è ricavabile dall’ampia formulazione dell’art. 16, comma 6, del D.Lgs. n. 173/2024, che deroga alla responsabilità solidale per i debiti fiscali ogniqualvolta la cessione avvenga nell’ambito della composizione negoziata della crisi “o di uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza giudiziale” (dizione che sembrerebbe ricomprendere anche agli a.d.r.).
E) Coinvolgimento delle parti interessate e contro(interessate)
Altro indice normativo “pro” (id est, “a favore” della) continuità aziendale è poi l’art. 116 CCII (ora applicabile anche agli a.d.r. in forza del richiamo contenuto nell’art. 57, comma 2, CCIII) che, in un delicato gioco di checks and balances[49], coinvolge nel processo di superamento della crisi persino i creditori sociali di società non in crisi, parti delle operazioni straordinarie di fusione e scissione, “costretti” al solo rimedio dell’opposizione in ambito extra-societario e all’interno del procedimento di cui all’art. 48 CCII (lasciando intendere, a fortiori, che una siffatta limitazione dovrebbe operare anche per i soci).
Ragionando sul combinato disposto degli artt. 116 e 118 bis CCII si potrebbe applicare la prima norma in via estensiva anche in casi diversi dalle operazioni espressamente contemplate[50], inibendo ai soci il diritto di exit, che finirebbe per ostacolare il risanamento.
In merito al coinvolgimento di terzi nel processo di ristrutturazione, non può poi sfuggire l’estensione dei doveri di cui all’art. 4 CCII anche ai “soggetti interessati” (per esempio, soci e garanti[51]), che possono stipulare i contratti e gli accordi di cui agli artt. 23 e 24 quater, lett. a, e c), CCII e gli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento ai sensi dell’art. 56, comma 4, CCII.
F) Superamento del principio dell’intangibilità del debito tributario e doppio cram down (fiscale e generale)
Oltre alla transizione dal principio della “neutralità” a quello della “centralità” organizzativa[52], l’ultimo decreto correttivo ha, altresì, infranto anche il dogma dell’intangibilità del debito tributario, contemperando le ragioni del fisco con quelle dell’impresa.
Il sistema che ne scaturisce presenta sensibili differenze:
- nel contesto del percorso camerale della CNC, la proposta non può riguardare risorse proprie dell’Unione europea;
-il cram down non è ammesso nella (fase negoziale della) CNC e nel PRO perché ontologicamente incompatibile con, rispettivamente, la mancanza di una fase di votazione e la richiesta dell’unanimità dei consensi ed è disciplinato in maniera diversa nel c.p. (art. 88 CCII), negli a.d.r. (art. 63, comma 2, CCII) e nel c.l.g. (art. 245, comma 5, CCII).
Sebbene siano tutte differenze comprensibili e giustificabili anche ponendo mente a noti casi (v. Reggina Calcio), l’entità e le caratteristiche del debito erariale finiscono così per diventare un fattore decisivo nella scelta dello strumento di regolazione della crisi.
Altro nodo gordiano sciolto dal correttivo concerne il vecchio (s)combinato disposto dell’originaria formulazione degli artt. 88, comma 2 bis e 112 CCII, ossia il connubio fra cram down fiscale-contributivo e cross-class-cram-down o ristrutturazione trasversale dei debiti (breviter, RTD).
Come il Lettore ricorderà, l’iniziale formulazione del comma 2 bis dell’art. 88[53] e quella, non facilmente intellegibile, della lett. d) dell’art. 112 CCII[54] aveva sollevato il dubbio sull’applicabilità del cram down fiscale anche al concordato preventivo in continuità, già agevolato dalla RTD.
La nuova stesura delle norme è più didascalica[55]:
- il comma 4 aggiunto all’art. 88 CCII ha sciolto il dilemma concernente l’applicazione del cram down anche al concordato preventivo in continuità, nel qual caso il parametro è rappresentato (non dalla convenienza, ma) dalla non deteriorità;
- la lett. d) del comma 2 dell’art. 112 CCII continua a ritenere sufficiente per la ristrutturazione trasversale il placet sulla proposta della maggioranza delle classi, una delle quali composta di prelatizi, ma interviene sull’ipotesi subordinata in cui una maggioranza non si formi affatto, accontentandosi del voto di una sola classe di creditori c.d. in the money.
Dal combinato disposto delle nuove norme (ora perfettamente coordinate tra loro) si evince che il dissenso del creditore pubblico non può essere superato al fine di omologare il concordato secondo le regole previste per l’unanimità o per far scattare l’approvazione monoclasse[56], mentre il capovolgimento (o la neutralizzazione) del voto del creditore fiscale o contributivo può servire per conseguire l’approvazione a maggioranza. Riprendendo un’osservazione proposta in altro scritto, questo doppio cram down non dovrebbe risolversi in un “doppio salto mor(t)ale”[57] giacché dalle modifiche normative sopra sinteticamente ricordate si desume che non è mai consentito omologare un concordato in continuità mediante il sistema delle ristrutturazioni trasversali quando vi è solo il consenso forzato del creditore fiscale o contributivo (indipendentemente dalla suddivisione in classi e dal numero di classi coinvolte). In futuro, non dovrebbe quindi più essere consentito ‘spacchettare’ la categoria dei creditori pubblici in più classi, così da ritenere formalmente rispettato il requisito della maggioranza delle classi (il cui voto è stato convertito) e poi omologare un concordato bocciato all’unanimità, senza ricorrere all’approvazione monoclasse[58].
Sempre a proposito del cross-class cram-down l’art. 112, modificando il comma 2, CCII ha chiarito che il consenso del debitore (che avrebbe potuto essere un fattore ostativo all’omologazione, tramite la ristrutturazione trasversale, di una proposta concorrente) è necessario solo qualora l’impresa sia piccola nell’accezione europea, ossia non superi i requisiti di cui all’art. 85, comma 3, secondo periodo, CCII.
Resta il dubbio sull’applicabilità della RTD al concordato minore laddove sia prevista la divisione in classi come sembrerebbe consentire il richiamo all’art. 112 contenuto nell’art. 78, comma 2 bis, lett. b, CCII.
G) Garanzia patrimoniale e par condicio creditorum recessive rispetto all’esigenza di risanamento
In questa rapida carrellata delle principali correzioni/integrazioni apportate dal D.Lgs. n. 136/2024 per favorire la continuità aziendale non si può dimenticare:
- l’estensione della facoltà di dividere i creditori in classi (anche c.d. “a zero”, in cui l’utilità sia rappresentata dalla salvezza dei rapporti commerciali) anche al c.l.s. (art. 25 sexies, comma 1, CCII) e al concordato minore (art. 74, comma 3, CCII);
- il chiarimento circa l’ammissibilità di una moratoria nel pagamento dei crediti privilegiati o garantiti nell’ambito del piano di ristrutturazione del consumatore (art. 67, comma 4, ultima parte, CCII) con la previsione del termine massimo di due anni (anziché uno, come nella legge n. 3/2012) per contemperare l’esigenza di agevolare i processi di ristrutturazione con la necessità di approntare idonea tutela delle ragioni dei creditori che, nel piano del consumatore, non sono chiamati a votare, mentre detto limite temporale è stato opportunamente depennato per il concordato in continuità, che richiede solo il pagamento dei lavoratori nel termine di sei mesi (art. 86 CCII);
- l’estensione dell’esenzione dall’azione revocatoria prevista dalla lett. e) del comma 3 dell’art. 166 CCII anche agli atti (pagamenti e garanzie) esecutivi del c.l.s.[59].
Tutte queste integrazioni potrebbero essere (e, generalmente, sono) lette come un’ulteriore deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c.; in realtà, anticipando le conclusioni, anche tale garanzia risulta rafforzata grazie alla sopravvivenza dell’impresa.
H) Potere del debitore di sciogliersi dai rapporti giuridici pendenti vs il rafforzamento del divieto delle clausole ipso facto
Come si è anticipato nel § 3, anche la disparità di trattamento tra, da un lato, l’imprenditore in crisi o insolvente, che può sciogliersi dai rapporti pendenti (artt. 97 e 172 CCII dettati, rispettivamente, per il c.p. e la l.g.) e, dall’altro, i creditori, che invece vedono paralizzati i loro poteri di autotutela contrattuale (arg. desunto dagli artt. 18, comma 5; 64, commi 3 e 4 e 94 bis, commi 1 e 2, CCII) serve a favorire la continuità aziendale.
La formulazione delle norme che vietano le clausole ipso facto non è del tutto equivalente. Il minimo comun denominatore consiste nel divieto di unilateralmente: rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti (in corso di esecuzione) o provocarne la risoluzione, anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell'imprenditore.
Solo l’art. 18, comma 5, CCII ricomprende espressamente nella categoria dei creditori anche “le banche e gli intermediari finanziari, i loro mandatari e i cessionari dei loro crediti”[60], inibendo di “revocare in tutto o in parte le linee di credito già concesse” per il solo fatto del mancato pagamento di crediti anteriori rispetto alla pubblicazione dell’istanza di cui al comma 1. Analoga precisazione non è stata inserita negli artt. 64, comma 3 e 94 bis, comma 1, CCII che parlano genericamente di creditori, vietando loro le reazioni sopra elencate “per il solo fatto del deposito della domanda di accesso” allo SRCI o della richiesta della concessione di misure protettive e cautelari.
Infine, in base alla formulazione degli artt. 64, comma 4, CCII (in tema di a.d.r.) e 94 bis, comma 2, CCII (dettato per il C.P.Co., ma applicabile anche al PRO), nel caso di “contratti essenziali” per la prosecuzione degli approvvigionamenti dell’impresa (ivi espressamente definiti), i creditori non possono azionare gli strumenti di autotutela negoziale neppure qualora non siano stati pagati[61].
Sempre nell’ottica di favorire la ristrutturazione, il D.Lgs. n. 136/2024, ha cercato di tranquillizzare le banche rispetto al rischio di essere convenute in giudizio con un’azione di responsabilità per concessione abusiva di credito (v. gli artt. 16, comma 5 e 18, commi 5 e 5 bis CCII) e, richiamandole al dovere di motivare le loro decisioni prese in ossequio alla disciplina sulla vigilanza prudenziale, dovrebbe aver ottenuto anche l’effetto (indiretto) di scoraggiarle dall’effettuare interruzioni brutali di credito, ferma restando la possibilità di porvi rimedio tramite la riattivazione delle linee di credito sospese (art. 22, comma 1, lett. a, CCII).
I) PdL “virtuale”, strategico ed “alternativo” degli stakeholders
Un’altra novità dell’ultimo decreto correttivo che, sia pure indirettamente, dovrebbe agevolare il superamento del test di non deteriorità del trattamento offerto ai creditori rispetto a quello ritraibile dalla l.g. è l’aver definito (nell’art. 87, comma 1, lett. c, CCII) la nozione di valore di liquidazione (VL) in termini realistici, precisando i criteri di calcolo e il parametro temporale (momento della presentazione della domanda di accesso ad uno SRCI alternativo alla liquidazione concorsuale). Per la precisione, la citata lettera lo definisce come “corrispondente al valore realizzabile, in sede di liquidazione giudiziale, dalla liquidazione dei beni e dei diritti, comprensivo dell’eventuale maggior valore economico realizzabile nella medesima sede dalla cessione dell’azienda in esercizio nonché delle ragionevoli prospettive di realizzo delle azioni esperibili, al netto delle spese”. Dalle parole evidenziate in corsivo si evince che non può essere una cifra scritta nel libro dei sogni, irrealisticamente ottimistica; al contrario, occorre tener conto della difficoltà di riuscire a cedere l’azienda in esercizio; dei tempi e dei costi della liquidazione; delle reali prospettive di realizzo delle azioni giudiziarie esperibili, parametrate alla solvibilità dei convenuti (sarebbe inutile ed anzi controproducente agire in responsabilità nei confronti di soggetti nullatenenti essendo la tassa di registro calcolata sulle somme oggetto di condanna).
La nozione di VL acquista una rilevanza sistematica centrale, essendo richiamata in numerose altre norme e dovrebbe auspicabilmente comportare un diverso modus procedendi dei professionisti degli altri SRCI che (prima del curatore della l.g.) dovranno redigere un programma di liquidazione “virtuale”[62].
Forse, de jure condendo, per favorire un effettivo cambio di paradigma e di mentalità (oggi la l.g. è ancora vista come una fase terminale e, nonostante il mutamento lessicale, quasi “punitiva”) servirebbe incentivare una ‘liquidazione rigenerativa’, ‘guidata’ in modo più proattivo dagli stakeholders coinvolti (ad esempio, tramite un coinvolgimento diretto dei creditori strategici nella pianificazione del programma). Come già accade per le proposte concorrenti (ammissibili anche per il c.l.g. senza restrizioni temporali: art. 240, comma 1, CCII), si potrebbe permettere ai creditori[63] di proporre un loro programma di liquidazione alternativo, ‘sfidando’ quello del curatore, il cui contenuto andrebbe integrato con l’analisi del potenziale valore prospettico degli asset e non solo del loro valore di realizzo immediato (una sorta di “programma di liquidazione strategica” o “rigenerativa”)[64].
Si realizzerebbe così una “continuità concettuale” tra strumenti di regolazione negoziata della crisi e una liquidazione giudiziale “negoziata”.
L) Potere di modificare il piano di c.p.Co. senza tradire la scommessa sulla continuità aziendale
Last but not least, il Legislatore, assecondando una richiesta proveniente dagli operatori del settore, ha previsto (attraverso il nuovo art. 118 bis CCII) la possibilità di modificare il piano di c.p.Co (e di concordato minore[65]) eventualmente anche con l’ausilio del commissario giudiziale (art. 92, comma 3, ultimo periodo, aggiunto dal D.Lgs. n. 136/2024).
Si tratta di una previsione alquanto opportuna che non può giustificare un “tradimento della continuità aziendale” tramite la “sostituzione” del tipo di piano, che richiederebbe, oltre ad una verifica del tribunale e all’esame delle eventuali opposizioni dei creditori, una rinnovazione del loro voto basata sulle differenti regole per l’approvazione applicabili al concordato liquidatorio (che ammette anche la RTD) rispetto a quelle dettate per il concordato in continuità[66].
Se ben si riflette, la ratio di tale previsione (id est, bilanciare i precetti sintetizzabili nei due brocardi pacta sunt servanda e rebus sic stantibus) è simile a quella sottostante la rinegoziazione dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita in cui la prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa o sia alterato l’equilibrio del rapporto in ragione di circostanze sopravvenute (art. 17, comma 5, CCII).