In Italia con il tradizionale detto “ho famiglia” e ora anche “in nome della salvaguardia della continuità aziendale” (divenuto il nuovo adagio) “si giustificano o si spiegano tante cose”[1], tra cui:
a) lo stop all’autotutela contrattuale accordata dagli artt. 1186, 1460 e 1461 c.c., ma anche, per esempio, dal meccanismo di ritenzione della caparra confirmatoria consentito dall’art. 1385 c.c.;
b) la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione del capitale sociale (artt. 2446-2447 e 2482 bis e ter c.c.) e della conseguente causa di scioglimento prevista dagli artt. 2484, n. 4, 2545 duodecies c.c., a prescindere dall’apertura di una vera e propria procedura concorsuale e, per queste ragioni, criticamente definita una misura “fai da te” o “autopoietica”[2];
c) la deroga alla regola della postergazione dei finanziamenti anomali sancita dall’art. 2467 c.c. e richiamata, in tema di gruppi, dall’art. 2497 quinquies c.c.;
d) la disapplicazione della responsabilità solidale del cessionario dell’azienda (commerciale) per i debiti risultanti dalla contabilità prevista dall’art. 2560, comma 2, c.c.;
e) la spinta (non troppo gentile) alla rinegoziazione dei contratti laddove le prestazioni siano divenute eccessivamente onerose, inedito dovere suscettibile di esecuzione giudiziale coattiva.
Sono tutte “misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale”, alcune già presenti nella legislazione e altre inedite, varate dal d.l. n. 118/2021, convertito, con modifiche, nella legge n. 147/2021.
Il riferimento – giova ricordarlo per comodità del Lettore - è, rispettivamente alle seguenti disposizioni, fresche di stampa:
a) art. 6, comma 5: “I creditori interessati” (ossia concretamente colpiti) “dalle misure protettive” (e come tali legittimati a chiederne la revoca, nel contraddittorio che si aprirà davanti al giudice, ai sensi dell’art. 7) “non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori rispetto alla pubblicazione dell’istanza” di applicazione di dette misure avanzata dall’imprenditore con la richiesta di nomina dell’esperto o con dichiarazione successivamente presentata tramite la piattaforma telematica;
b) art. 8: con le stesse modalità di cui sopra, ma con obbligatoria pubblicazione dell’istanza/dichiarazione nel registro delle imprese[3], l’imprenditore può ottenere che, “sino alla conclusione delle trattative” (e quindi per un massimo di 180 giorni, prorogabili per un uguale periodo) “o all’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata”, non si applichino nei suoi confronti le norme sulla riduzione del capitale sociale per perdite;
c) art. 10, comma 1, lett. b) e c): il tribunale, “verificata la funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori”, può autorizzare l’imprenditore o una o più società del gruppo a contrarre finanziamenti-soci prededucibili;
d) art. 10, comma 1, lett. d): il tribunale - previa verifica dei due presupposti che precedono - può altresì autorizzare l’imprenditore a trasferire l’azienda o uno o più rami della stessa senza l’accollo cumulativo dei debiti da parte del cessionario, ma “dettando le misure ritenute opportune, tenuto conto delle istanze delle parti interessate, al fine di tutelare gli interessi coinvolti” e ferma restando l’applicazione dell’art. 2112 c.c. a tutela dei lavoratori[4];
e) art. 10, comma 2, rimasto invariato, al quale sono dedicate le riflessioni che seguono.
Verrebbe da chiedersi, parafrasando il titolo di un commento all’art. 182 septies l. fall.[5], fino a che punto la legge (nella specie il d.l. n. 118/2021) possa derogare a se stessa?
Il limite intangibile dovrebbe essere il rispetto di principi sovraordinati, quali la solidarietà (art. 2 Cost.), la coerenza dell’ordinamento e l’uguaglianza (art. 3 Cost.) perché altrimenti si rischierebbe di creare un effetto domino dal quale si potrebbe uscirne sempre e solo costringendo il contraente inizialmente in bonis (magari messo in crisi dalla rinegoziazione ope giudicis) che sia, a sua volta, imprenditore, a ricorrere alla composizione negoziata della crisi e, attraverso tale percorso, costringere altri a subire la rinegoziazione.
Scopo di questo breve contributo è soffermarsi sull’introduzione della norma che - prima facie e per stessa ammissione della Presidente e di un autorevole membro della c.d. Commissione Pagni – potrebbe apparire più eversiva e “pericolosa”[6] al fine di ricondurla a sistema, senza addentrarsi nei temi di politica legislativa, economica e sociale che richiederebbero ben altro approfondimento.