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Saggio

Assetti organizzativi, diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato a un (possibile) futuro*

Paolo Benazzo, Ordinario di Diritto commerciale nell’Università di Pavia

2 Gennaio 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
**Il presente saggio riprende, con le necessarie integrazioni e revisioni, il testo della relazione tenuta al Convegno di Mantova 4/5 ottobre 2024 “Le crisi delle società e dei gruppi dopo il decreto correttivo”, organizzato dalla Rivista Diritto della crisi, nella I Sessione “L’organizzazione societaria. Doveri e assetti: prospettiva aziendalistica vs ottica giuridica”.
Il tema degli assetti organizzativi adeguati costituisce una delle più significative innovazioni che il codice della crisi ha apportato allo statuto generale dell’impresa, la cui portata e il cui impatto ancora rimangono non pienamente individuati e perimetrati. 
Il presente saggio intende dunque porsi come un contributo alla riflessione, andando a ricostruire un possibile percorso di ricostruzione dell’obbligo di istituzione degli assetti, cercando di definirne i confini, focalizzando l’attenzione su profili allo stato ancora non compiutamente esplorati e interrogandosi, da ultimo, sul sistema sanzionatorio all’eventuale violazione dell’obbligo, alternativo al mero rimedio risarcitorio. 
Riproduzione riservata
1 . Gli assetti organizzativi tra scienze aziendali e scienze giuridiche: perimetro e finalità dell’indagine
L’art. 2086 c.c., nella formulazione riveniente dall’intervento normativo operato con l’art. 375, D.Lgs. 12 gennaio 2012, n. 14 (di seguito per brevità anche solo il «ccii»), è una norma nella quale sono nette e incisive la contaminazione e la cooperazione reciproche tra il mondo delle scienze giuridiche (delle norme e dei principi) e quello delle scienze economiche e aziendali, ben al di là del tradizionale (e angusto) sotto insieme costituito dalle regole in tema di bilanci e rappresentazione contabile dei fatti di gestione. Dacché la norma in parola traspone, e santifica, sul piano normativo la consapevolezza, da sempre nel bagaglio culturale degli aziendalisti, che l’impresa è, per sua natura, un ‘rischio’; dacché, al fine di dare concretezza e contenuto al dovere di istituzione degli assetti, il giurista deve idealmente rivolgersi all’aziendalista allorquando chiamato a declinare – sul piano del soggetto (imprenditore collettivo o societario) – una governance sempre più orientata, in via preventiva e prognostica, all’attenzione per il rischio operativo. 
Ma è altresì vero, per converso, come, accanto a questo ideale tributo che il giurista deve riconoscere all’aziendalista, anche quest’ultimo sia, a propria volta vincolato – in questo caso in quanto interpellato dal giurista – a uno specifico dovere di attenzione e consapevolezza rispetto alla necessità di adattarsi al nuovo mondo che, seguendo le riflessioni che si andranno a svolgere nel corso del presente intervento, l’art. 2086 c.c. potrebbe aver aperto: un mondo nuovo nel quale l’istituzione di adeguati assetti subisce una trasformazione genetica, là ove non si ferma al mero piano dei paradigmi operativi e degli standard di correttezza o diligenza cui deve conformarsi l’operato degli organi interni all’organizzazione dell’impresa (societaria o collettiva), ma risale sino al piano dell’organizzazione in sé, del centro di direzione e imputazione dell’attività d’impresa: vale a dire del soggetto stesso imprenditore. 
Di qui quelle contaminazione e cooperazione cui si alludeva in esordio; di qui, la necessità che giurista e aziendalista operino in stretto e continuo contatto, ciascuno pienamente consapevole del compito e della responsabilità cui è rispettivamente chiamato. 
Non vi è dubbio che, nel prendere le mosse dal coté giuridico e nel compulsare la letteratura, ormai di dimensioni non agevolmente governabili sul piano quantitativo [1], dedicata all’art. 2086 c.c., la sensazione che, in ultima analisi, se ne viene a trarre (o almeno così è stato per chi scrive) è poco entusiasmante, per non dire financo sconfortante. E infatti, si oscilla tra posizioni fortemente critiche per non dire ostili, altre che si limitano a riconoscere alla norma una valenza meramente dichiarativa e ricognitiva, altre infine che ne colgono una funzione puramente pedagogica. 
Vi è infatti chi muove alla disposizione in esame un’accusa di vaghezza, genericità e indeterminatezza, rilevando come «(…) la normativa, limitandosi a prescrivere che gli assetti siano adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa “palesa una disciplina per clausole generali, comunque per “concetti indeterminati”» [2]; in assonanza, vi è chi ha chiosato che per gli adeguati assetti “il formante è infante, ed il formante giurisprudenziale è quantitativamente povero” [3]. 
Vi è poi chi – collocandosi in una posizione di critica estrema – si è espresso in termini di “effetto deprimente” nella lettura della norma, la quale, per un verso, sarebbe viziata visibilmente da un “eccesso di ambizione” quando invece non avrebbe “quasi nulla da dire sulla gestione dell’impresa, mentre quel poco di forza che la norma conosce(va) riguarda solo il rapporto di lavoro”, nella misura in cui il primo comma dell’art. 2086 altro non sarebbe che una inutile ridondanza dell’art. 2094 e dell’art. 2104 c.c.. Sì che – prosegue l’’autore in parola – primo e secondo comma (dell’art. 2086 c.c.) “non hanno nulla in comune tra loro, e ambedue hanno poco da spartire con la rubrica” della norma. Per arrivare poi a concludere, da un canto, nel senso che “(…) si avverte la sensazione che l’elemento che lega tra loro i due commi possa allora essere un’ideologia non più fascista e pur sempre non liberale” e, dall’altro canto, nel senso che, là ove si inserisce in primo piano nella norma la rilevazione tempestiva della crisi della impresa, altro non si rinverrebbe se non un “carattere vagamente iettatorio” [4]. 
Infine, anche senza assumere siffatte posizioni criticamente avverse, si registrano le posizioni di chi avanza l’idea che la norma non appaia aver contenuto realmente innovativo, riducendosi, almeno sul piano giuridico, a rivestire un carattere prevalentemente ricognitivo [5]. 
Nel contempo, anche quelle opinioni che pur intendono segnalare, cogliere ed evidenziare la “novità” e la “valenza precettiva” della norma – anche quelle che, di cui si farà cenno a breve e che si esprimono nei termini di una «codificazione normativa di un principio già tipizzato» [6] –, ne circoscrivono la portata sempre, e solo, con lo sguardo rivolto all’amministrazione dell’impresa: in altri termini – e in questa direzione pare che si muovano pressoché tutti gli interpreti – la tesi sarebbe quella per la quale se, ante 2019, il dovere di istituire assetti organizzativi adeguati andava letto e declinato attraverso il prisma della diligenza e dunque, in buona sostanza, in termini di un “modo di adempimento” della più generale obbligazione di «corretta amministrazione», con il nuovo art. 2086 c.c., post ccii, detto dovere sarebbe divenuto esso stesso (e direttamente) “(…) oggetto di una prestazione e quindi oggetto di una obbligazione da adempiere in sé (sia pure da concretizzarsi poi per il tramite di una clausola generale”. Salvo poi dividersi e continuare a interrogarsi – gli interpreti – sul se e in che misura anche nell’adempimento di una siffatta obbligazione a contenuto specifico, possa trovare applicazione la Business Judgment Rule [7]. 
Per arrivare, poi, da ultimo, come si annotava poc’anzi, a quelle opinioni, verosimilmente di provenienza più prossima al mondo delle scienze aziendali, che collocano la norma in parola su di un livello metagiuridico per individuarne e declinarne così la funzione in chiave prettamente pedagogica e di sollecitazione, agli operatori economici in primis, a un mutamento culturale [8]. 
A fronte di un siffatto quadro, la finalità di codesto mio intervento è dunque quella di provare a proporre una possibile e diversa chiave di lettura nel legare, idealmente, il passato (prima del 2019) e il presente (dopo il ccii) dell’art. 2086 c.c. e muovere in questo modo verso la prospettazione di nuovi, possibili, scenari nel futuro della norma: ovviamente e in ogni caso, lo si ripete, si tratta di un esercizio intellettuale volto a tratteggiare ipotesi e non già certezze; volto a provocare stimoli di riflessione e non certo assiomi. Un esercizio, tuttavia, al quale non è possibile sottrarsi se solo si adotti un approccio intellettualmente non indolente e apaticamente schiavo della communis opinio
Orbene, nell’anticipare gli sviluppi delle mie riflessioni, parto con una prima affermazione (assertiva) e con l’evocazione del possibile spostamento della finis terrae del precetto normativo: la tesi è che con l’art. 2086 c.c. non si sia di fronte a una mera «codificazione normativa di un principio già tipizzato» (il dovere di istituzione di adeguati assetti) e di relativa (parziale) riallocazione con dettagli, quanto alla modalità di definire e valutare l’adeguatezza, quanto alle finalità dell’istituzione degli assetti; per contro, si sarebbe invece al cospetto di una «codificazione normativa innovativa con articolazione geneticamente modificata di un principio già tipizzato». 
Un principio (e non già una semplice clausola generale), a propria volta, centrale, quale fondamento per altre norme di legge (si pensi all’art. 3 ccii; agli artt. 2257, 2380 bis, 2409 novies, 2409 noviesdecies e 2475 c.c.), collocato addirittura nella parte generale della disciplina dedicata all’impresa [Sezione I («Dell’imprenditore»), del Capo I («Dell’impresa in generale»), del Titolo II («Del lavoro nella impresa») del Libro V], tra le disposizioni che disegnano la figura dell’imprenditore e i suoi tratti essenziali. 
Un principio che, in ultima analisi, afferma che in tanto l’imprenditore è titolato all’esercizio di un’attività economica in quanto organizza la gestione della propria impresa in modo che la conduzione della stessa possa (e debba) essere corretta, efficiente e programmaticamente sostenibile (nel senso di persistenza dell’impresa medesima) sul mercato. 
Un principio, dunque, che afferma una nuova cifra della rilevanza sociale dell’impresa, anzi la primordiale rilevanza sociale della stessa. Che non è (solo o tanto) quella di perseguire istanze, valori, obiettivi ESG, ma è, prima ancora (e innanzitutto), quella di non dissipare risorse di non pregiudicare l’affidamento di chi (socio o terzo creditore) quelle risorse apporta e, in ultima istanza, di non compromettere la stabilità del mercato stesso. 
Un principio, quindi, che definisce il perimetro e le condizioni entro le quali l’iniziativa economica è costituzionalmente riconosciuta e legittimata: nel rispetto dell’art. 42, comma 2, ove si afferma che “l’iniziativa economica privata (pur libera) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”; nel rispetto, altresì, dell’art. 47 co. 1, ove si statuisce che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”.
2 . Dal passato, attraverso il presente, verso il futuro dell’obbligo di istituzione di adeguati assetti: un possibile percorso
Convenzionalmente si può collocare il passato dell’art. 2086 c.c. a partire dalla riforma del diritto societario del 2003, in occasione della quale il dovere di istituzione di assetti organizzativi ha fatto il proprio ingresso nel codice civile, contestualmente – e sul punto si avrà modo di tornare – all’incisivo intervento che quella riforma ha operato anche in tema di codici organizzativi dell’impresa societaria, sostanzialmente emancipati dall’hortus clausus dell’art. 2249 c.c. e dallo statico principio della tipicità delle società e affidati invece all’irruzione – dinamica quanto impetuosa – dei modelli societari: un’irruzione che ancora oggi non pare essersi esaurita, se solo si pensi alle continue ‘innovazioni’ normative in tema di s.r.l. e alle recentissime novità in tema di dematerializzazione delle quote di cui alla legge capitali) [9]. 
Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2019, anno di entrata in vigore del ccii, il principio della necessità di assetti adeguati non era ignoto all’ordinamento, ma era affermato, per così dire, “di rimbalzo” e per “implicito”, sul piano degli standard operativi degli organi sociali e solo per (i) imprese organizzate in forma di società di capitali a scopo di lucro; (ii) imprese organizzate in forma azionarie e (iii) imprese prevalentemente complesse e di rilevanza pubblica (o perché vigilate o perché quotate). 
E infatti il dovere in parola veniva ‘estratto’, a livello di normativa primaria, dall’art. 149, comma 1, lett. c) del Testo unico dell’intermediazione finanziaria (tuif), relativo ai compiti dell’organo di controllo interno di società quotate; dall’art. 2381 c.c., nella suddivisione dei ruoli dei delegati (i quali “curano” l’adeguatezza degli assetti) e del consiglio di amministrazione (il quale “valuta” l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile); dall’art. 2403 c.c., infine, relativo ai compiti di vigilanza (in particolare sull’adeguatezza dell’assetto medesimo) spettanti all’organo di controllo interno di società azionarie. Nonché, a livello di normativa secondaria, sostanzialmente dalle specifiche previsione dettate, per gli enti bancari, dalle Disposizioni di vigilanza della Banca d’Italia. 
Con l’art. 375 CCII – e si arriva così al 2019 – il dovere trae origine nell’ambito e in funzione dell’(anticipazione della) crisi d’impresa, ma dalla stessa poi diparte, se è vero che, da un canto, viene allocato in una norma apposita, collocata, come si notava poc’anzi, nella parte relativa alla disciplina generale dell’impresa; nel mentre, dall’altro canto, viene contestualmente modificata la rubrica della norma nella quale il precetto è allocato (che passa, come è noto, dalla «Direzione e gerarchia nell’impresa» a «Gestione dell’impresa»); dall’altro canto ancora, se è vero che il rischio della crisi non costituisce il solo ed esclusivo fine degli assetti, dal momento che, come testimoniato dall’inserimento della congiunzione “anche” nell’art. 2086 c.c., questi ultimi vengono eretti a presidio di tutti i possibili rischi cui potrebbe essere esposta, in ragione della sua natura e delle sue dimensioni, l’impresa stessa. E ciò allorquando, ai fini della previsione, dell’intercettazione e della soluzione, tempestive, della crisi, rimane comunque destinata una norma, distinta e autonoma, contenuta nell’art. 3 del codice della crisi, la quale, a propria volta, si appoggia, nel fare ad esso richiamo, sull’art. 2086 c.c. 
Su queste basi, si può ben comprendere e condividere la fondatezza del primo approdo interpretativo cui, come si chiosava in precedenza, la quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza è pervenuta e che, nel ‘nuovo’ art. 2086 c.c., rinviene il passaggio da una mera ipostatizzazione della categoria della diligenza professionale a una codificazione normativa di un’obbligazione a carattere e a contenuto autonomo [10]. 
In estrema sintesi, l’obbligo di istituzione degli assetti, quale declinazione specifica del più ampio canone generale di corretta amministrazione – tratto dall’art. 2403 c.c. là ove si statuisce che il collegio sindacale vigila sull’osservanza dei principi di corretta amministrazione e, in particolare, sull’adeguatezza e sul concreto funzionamento degli assetti – da valutare (quanto al relativo adempimento) secondo il parametro della diligenza professionale, viene ad essere, con il codice della crisi, identificato e qualificato come un obbligo autonomo, da declinarsi e da adempiersi secondo la correttezza tecnica, ispirata ai parametri di razionalità economica posti dalle scienze aziendalistiche e alla ragionevolezza [11]. 
Ed è per l’appunto in questo processo che si collocherebbe quella codificazione di un principio già tipizzato cui si faceva riferimento, unitamente all’intervento di un processo di raffinazione della sua portata, in punto sia di elasticità, governata dal principio della proporzionalità rispetto alla natura e alle dimensioni della singola impresa, che di finalità, dovendo l’adeguatezza orientarsi, prognosticamente e proattivamente, secondo una visione forward looking, verso un controllo preventivo e dinamico, oltre che continuo, rispetto ai possibili rischi d’impresa, in termini di accertamento, previsione, intercettazione e gestione, tempestivi. 
Sebbene un siffatto approdo segni un rilevante passo, là ove si va a sostituire a un semplice standard una vera e propria rule, la conclusione è che, pur sempre, la portata dell’art. 2086 c.c. rimarrebbe allocata sul solo piano gestorio
Ed è proprio da questo punto che si potrebbero però prendere le mosse e aprire invece un nuovo e ulteriore scenario, non già sostitutivo o novativo del medesimo, quanto, piuttosto, con esso diatonicamente integrativo: un passo che era quello che si preannunciava in esordio e che, in codesta sede, si vuole, quanto meno, ‘illuminare’. 
Sono infatti dell’avviso che diversi sono gli elementi e i fattori che possono (e debbono) venire in ausilio per ipotizzare che l’obbligo di istituzione di assetti adeguati abbia subìto un processo non solo di raffinazione, ma anche di litificazione, di consolidazione: ovverosia, si sarebbe spostato dal piano dell’agire (amministrativo) alla sfera dell’essere (organizzativo) dell’imprenditore, per muovere così da principio di vertice di corretta amministrazione e divenire, anche, un principio di vertice di legittima persecuzione del programma imprenditoriale, affidato a un’impresa non più (e solo) efficiente, quanto invece (anche e prima ancora) sostenibile
Diversi (e consonanti) sono gli indizi, anche testuali, normativi che si possono cogliere e legare tra loro in una siffatta direzione, ordinabili secondo una scala di rilevanza crescente. Vediamo dunque di passarli in rassegna e di leggerli in chiave sinottica. 
Innanzi tutto, va rilevato come l’adeguatezza debba muoversi e articolarsi nella triade degli assetti contabili, amministrativi e organizzativi, lasciando così intendere che la stessa non debba esaurirsi con i soli assetti strettamente ‘aziendali’ ma indirizzarsi a coprire anche profili eccedenti la stretta amministrazione e contabilità ed attinenti, per contro, all’organizzazione complessiva dell’impresa. 
Inoltre, non privo di rilievo è anche l’utilizzo del sostantivo “istituzione” che è semanticamente diverso, e più ampio, dei sintagmi “cura” e “valutazione” cui fa ricorso l’art. 2381 c.c., nonché, comunque, anche più rigido (e incisivo) dell’altro termine “adozione” cui fa ricorso l’art. 3, primo co., ccii con riferimento all’imprenditore individuale e alle misure cui quest’ultimo deve fare ricorso per rilevare tempestivamente lo stato di crisi. E infatti, mentre quest’ultimo termine evoca profili di contingenza ed episodicità, istituire reca con sé profili di stabilità, di strutturalità e di procedimentalizzazione [12]. 
Una pregnanza e una pervasività che si delineano e si corroborano con maggior nitore se solo si pensi alla diversità dei sostantivi utilizzati, rispettivamente, nel D.Lgs. n. 2001/231, ove si parla di «modelli organizzativi», e nell’art. 2086 c.c. ove si utilizza invece l’espressione «assetti organizzativi». Gli uni – i modelli – la cui etimologia e il cui significato portano con sé i concetti di ampiezza e generalità tipici di classi di ipotesi; di astrattezza (si pensi ai modelli matematici), di semplificazione (si pensi ai modelli economici) e di serialità (si pensi ai modelli industriali); gli altri – gli assetti – che si connotano viceversa per i caratteri di specificità, stabilità e ordine. Assetto significa infatti “disposizione ordinata degli oggetti”; nell’aeronautica, esso indica una posizione di equilibrio risultante da forze e reazioni contrastanti. Non a caso, per utilizzare una metafora automobilistica, si fa riferimento, da una parte, ai modelli di autovetture e, dall’altra parte, agli assetti (da gara o altro), secondo cui i modelli stessi possono essere di volta in volta precisamente preparati e configurati. 
Ancora – nel riprendere l’ideale percorso sinottico e sempre in ordine crescente – particolare rilevanza assume la, più volte richiamata, collocazione topografica della norma in esame la quale non è inserita nel codice della crisi, non è neppure allocata nel titolo V («Delle società»), Capo I («Disposizioni generali») del Libro V, ma è posta invece nel Titolo II, Capo I, Sezione I delle disposizioni generali dell’impresa. 
Una collocazione alla quale si affianca, altresì, una duplice estensione del precetto. In primo luogo, in termini soggettivi, là ove lo stesso afferma un principio che si estende a tutte le ipotesi di imprese nelle quali ricorra una consustanziale dissociazione tra titolarità (dell’impresa) e conduzione (dell’impresa): in questo senso, va infatti letta l’endiadi imprese societarie e collettive utilizzata dall’art. 2086 c.c., le une e le altre caratterizzate, diversamente da quanto accade per le persone fisiche, dall’essere imprese articolate sul principio della divisione del lavoro e della delega di funzioni, le quali, non potendo certo vivere e operare nell’anarchia, necessitano di un’articolazione interna di uffici, competenze e procedure, sia pur governate dalla regola della proporzionalità necessariamente esistente tra le dimensioni dell’impresa e la natura delle attività. 
Un principio che, a ben vedere, si estende altresì alle imprese individuali, per le quali il momento organizzativo rimane comunque immanente, per quanto più ‘evanescente’ in ragione dell’immedesimazione tra organizzazione d’impresa e titolarità della stessa: e in questo senso, si può allora cogliere la valenza semantica del primo comma, nonché la sua stretta correlazione con il secondo comma, della norma sopra citata, là ove ribadisce che, nell’impresa individuale, l’imprenditore è il capo gerarchico dell’impresa: ovverosia – e in questo andrebbe rinvenuta la pregnanza della precisazione – quale presidio, primario ed essenziale, per una struttura, sia pur minimale, ordinata e organizzata. Una struttura che, come non per caso ha cura di precisare l’art. 3 ccii, si viene quindi a fondare su misure idonee e non già su assetti, dal momento che nella gerarchia si rinviene il fattore stesso di ordine e di indirizzo [13]. 
In secondo luogo – nel tornare all’estensione di cui si diceva poc’anzi – in termini funzionali, dacché, come anche in precedenza ricordato, l’istituzione degli assetti non deve leggersi e declinarsi in una chiave esclusivamente “fallimentare”, legata cioè alla sola «crisi» dell’impresa: e ciò lo si deve alla congiunzione “anche” che compare nell’art. 2086 c.c.; e ciò lo si deve dedurre altresì dalla compresenza nell’ordinamento di una norma apposita e specifica dedicata agli assetti, nel contesto (e in funzione) della possibile crisi dell’impresa, vale a dire l’art. 3 CCII [14]. 
In altri termini, la riaffermazione, nel codice civile, in via testuale della crisi e della possibile perdita di continuità aziendale sta solo a significare (e a richiamarvi l’attenzione in sede di istituzione e di manutenzione degli adeguati assetti su) la centralità del primo cardine essenziale ai fini della sopravvivenza (e dunque della sostenibilità) dell’impresa medesima: infatti, come autorevole dottrina aziendalistica ha da tempo annotato, «è la continuità della gestione che costituisce la condizioni di esistenza dell’azienda stessa» [15]. 
Altro fattore (sinotticamente) rilevante – in terzo luogo – è costituito dal ruolo della norma in esame, la quale, a ben vedere, si presenta e opera quale “perno strutturale” su cui poggiano altri precetti che, a loro volta, ai diversi livelli di normativa (primaria, secondaria e financo volontaria) ne puntualizzano o ne precisano, alternativamente (i) la ownership, vale a dire la titolarità (e la responsabilità) quanto al procedimento istitutivo; o (ii) la declinazione sul piano dello specifico contesto funzionale. 
Quanto al primo punto, sul piano delle norme primarie, si pensi agli articoli 2257, 2380 bis, 2381 e 2475 c.c.; sul quello secondario, si pensi ancora alle Istruzioni di Vigilanza bancaria; e infine, sul piano della Soft Law, il riferimento ultimo va al Codice di Corporate Governance per le società quotate e alle indicazioni su ruolo, doveri e responsabilità spettanti all’organo amministrativo nel quadro di un corretto governo di imprese complesse che fanno ricorso al mercato dei capitali. 
Quanto al secondo punto, si pensi all’art. 3 CCII nello statuto speciale della crisi; si pensi al D.Lgs. 6 settembre 2024, n. 125, in tema di relazione di sostenibilità e perseguimento degli obiettivi ESG [16].
3 . Dal piano dell’agire al piano dell’essere
Una serie di indizi «gravi, precisi e concordanti» la cui lettura sinottica conduce a quella “codificazione normativa e geneticamente innovativa” di cui si è detto nel paragrafo precedente in forza della quale l’art. 2086 c.c. sarebbe così venuto, oggi, post 2019, a collocarsi non più sul piano gestorio dell’agire, ma, financo, e prima ancora, sul piano organizzativo dell’essere
Una collocazione la quale, a ben vedere, verrebbe a completare e chiudere, se così ci si può esprimere, lo statuto generale dell’impresa, sancendo la necessità del paradigma organizzativo anche all’ultimo e sovraordinato e sovrastante piano: quello cioè del soggetto (imprenditore) che esercita l’attività d’impresa. 
L’organizzazione diverrebbe allora fattore essenziale e consustanziale a (tutti e) tre i differenti livelli immanenti e strumentali all’intrapresa di un’iniziativa economica. Quello dei fattori produttivi: cioè a dire l’azienda che l’art. 2555 c.c. individua nel “complesso organizzato di beni”. Quello dell’attività: cioè l’impresa, quale attività finalizzata alla creazione di nuova ricchezza (la produzione o lo scambio di beni o servizi) che deve essere esercitata con i caratteri della stabilità (professionalmente) e organizzata secondo il metodo economico (art. 2082 c.c.). Ovverosia per essere in grado, prospetticamente, di (quanto meno) remunerare con i ricavi il costo dei fattori produttivi impiegati. Quello, infine, sancito con l’art. 2086 c.c., del soggetto (individuale, collettivo o societario) che organizza e utilizza i fattori produttivi, per lo svolgimento dell’attività organizzata dell’impresa: soggetto la cui attività economica potrà e dovrà essere svolta nel perseguimento dell’oggetto costituente il perimetro dell’attività economica medesima, solo a condizione che la struttura all’uopo dedicata sia preventivamente organizzata in modo tale che detta attività sia condotta, indirizzata e svolta secondo criteri e condizioni tali da renderla capace di resistere ai rischi e quindi di proiettarsi e preservarsi nel tempo. 
In altre parole, l’imprenditore – o, per meglio dire, il codice organizzativo prescelto, delineato e configurato quale centro di imputazione e direzione dell’impresa e del complesso aziendale – sia cioè in grado (per lo meno secondo una valutazione ex ante) di svolgere e condurre l’impresa in modo sostenibile; vale a dire potenzialmente perpetrando la propria esistenza sul mercato in condizioni di equilibrio patrimoniale, economico e finanziario. 
D’altro canto, non mi pare che si possa accantonare un siffatto assunto, limitandosi ad affermare che la sostenibilità, in senso economico, sia concetto già di per sé essenziale all’attività d’impresa per sua definizione e che, dunque, l’organizzazione del soggetto imprenditore nulla aggiungerebbe al requisito proprio dell’art. 2082 c.c.: a mio avviso, infatti, l’organizzazione dell’attività d’impresa e l’organizzazione dell’imprenditore sono due aspetti e due profili irrelati, ancorché strettamente correlati. 
Il primo – vale a dire l’organizzazione dei fattori produttivi e dell’attività dell’impresa – costituisce un principio a valenza produttivo-efficientistica, a presidio della capacità del complesso aziendale, in quanto “organizzato”, a esprimere un valore aggiuntivo rispetto alla mera somma dei valori dei singoli beni e costituito dall’avviamento; nonché, ancora – con riferimento all’organizzazione dell’attività – a presidio pur sempre della medesima istanza produttivo-efficientistica come presupposto del “metodo economico” e dunque della mera capacità dell’attività a generare, prospetticamente, ricavi che coprano il costo dei fattori produttivi. 
Per contro, l’organizzazione del soggetto è un precetto a valenza più ampia e non strettamente economica; una valenza “relazionale”, a presidio della capacità dell’impresa a rimanere e mantenersi in equilibrio nel tempo, a salvaguardia di interessi, di valori, di affidamenti anche di soggetti terzi rispetto alla titolarità dell’impresa e del programma di iniziativa imprenditoriale, ma egualmente messi a repentaglio, là ove l’impresa non fosse prospetticamente in grado di (auto)sostenersi. 
Ma se si condivide quanto testé rappresentato, si andrebbe a profilare un passo ulteriore rispetto al panorama interpretativo comune, quanto indolentemente e acriticamente condiviso dalla maggioranza degli interpretai e giungere invece a concludere come l’art. 2086 c.c. possa (e debba) essere decrittata quale norma dotata di una valenza precettiva innovativa nello statuire una (la) “condizione di legittimazione all’esercizio della (libera) iniziativa economica” [17]. 
In questo senso divine allora corretto e condivisibile cogliere, leggere e condividere quell’accusa di «ideologia non liberale» che la dottrina cui si è fatto ampio riferimento nelle pagine di esordio ha inteso rinvenire nell’art. 2086 c.c.: non vi è dubbio che la previsione legale ponga un limite all’iniziativa economica e alla libertà d’impresa; ma – e questo è il passaggio che si è inteso invocare – lo fa in coerenza con, e sul fondamento e in funzione di, valori costituzionalmente rilevanti: (i) quello che l’impresa non si svolga in contrasto con l’utilità sociale (art. 41, comma 2, Cost.) e con la tutela del risparmio (art. 47, co. 1, Cost.). 
E tale – vale a dire un’impresa costituzionalmente compliant – non può certo essere quella la cui “organizzazione” non fosse (in ragione della natura e delle dimensioni della stessa) astrattamente e in via prognostica idonea e adeguata ad assicurarne la capacità di sopravvivenza: a operare cioè in condizioni di equilibrio rispetto ai diversi rischi che l’impresa stessa è (sempre per la sua natura e per le sue dimensioni) esposta e, primo fra tutti, il rischio di non operare in condizioni tali da assicurarne la sostenibilità economica, finanziaria e patrimoniale. 
Donde, quella ‘nuova’ sostenibilità sociale cui si alludeva in principio. Equilibrio economico, finanziario e patrimoniale significa infatti, nell’ordine, assicurare: a) rispetto ai soci, la salvaguardia del valore dell’investimento e quindi della titolarità stessa, in caso di impresa societaria, dei loro diritti proprietari, altrimenti destinati, in uno scenario di crisi, ad essere ‘sacrificati’ e, anche in via eteronoma, diversamente (ri)allocati «ai fini del buon esito della ristrutturazione» (arg. ex art. 120 bis e seguenti del nuovo Capo III-bis CCII , così come emendato dall’ultimo decreto correttivo approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 settembre 2024) [18]; b) rispetto ai creditori e finanziatori esterni, sociali, la salvaguardia dinamica della garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) e dunque la prevenzione di fenomeni di Moral Hazard [19]; c) rispetto, infine, al mercato, la salvaguardia dell’integrità dei complessi aziendali e della continuità operativa quale baluardo rispetto al pericolo di crisi endemiche nonché sistemiche. 
Quasi che – si potrebbe aggiungere – si sia passati da un approccio, tradizionale secondo il quale, dacché (e in quanto) focalizzato unicamente sull’assetto dei poteri e sulle regole di governo interni all’impresa, l’organizzazione avrebbe dovuto conformarsi al precetto Keine Herrschaft ohne Haftung, a un approccio, socialmente orientato, secondo il quale, viceversa, nel guardare all’impresa e alla sua organizzazione dall’esterno, quale componente quindi di una più ampia trama di soggetti, rapporti e valori, a prescindere dai criteri di allocazione e di equilibrio interni del potere e delle responsabilità, si dovrebbe concludere nel senso che, addirittura, verrebbe a profilarsi una situazione di Keine Gesellshaft ohne Haftung, là ove la responsabilità risiederebbe non tanto in una statica garanzia patrimoniale, quanto piuttosto nella mancata istituzione e, quindi, programmazione, di un’attività dotata di assetti adeguati a consentirne, nel tempo e in via prospettica, la resilienza. 
E così – sempre per compiere un ulteriore passo nel nuovo mondo – dalla constatazione che la libertà di iniziativa economica è un privilegio non già assoluto, quanto condizionato, si potrebbe anche prefigurare una nuova collocazione sistematica, e sistemica, dell’imprenditore sul mercato, quale soggetto chiamato ad assumere (e a farsi carico) di una posizione di garanzia e di protezione della stabilità del mercato medesimo [20]: con le conseguenze che, come si avrà modo di rilevare a breve, si avranno sul piano sanzionatorio rispetto alle ipotesi di mancata istituzione di un assetto organizzativo, oltre che amministrativo e contabile, adeguato. 
Arrivati a questo punto, tuttavia, altrettanto breve è anche il successivo passaggio a un ulteriore (e ultimo) approdo, sempre in punto di sistema, per condividere lo spunto di chi [21] ha evocato l’idea che dal generico principio di neminem laedere, l’art. 2086 c.c. venga a segnare «(…) invece l’affermazione di un principio speciale (e positivo) per l’imprenditore in forza del quale egli deve approntare appositi presidi per non ledere»: e dunque, sul piano giuridico, a posizionarsi da un generico dovere negativo, a uno specifico obbligo positivo in capo a chi si presenti sul mercato a ricercare risorse e a impiegare fattori. 
D’altro canto – e qui torniamo per un attimo al passato della norma in parola – vi è un ulteriore (e ultimo) argomento a conforto della lettura che si sta proponendo e che, come si annotava poc’anzi, è annidato nella successione temporale nella quale l’innovazione legislativa, che pur origina dallo statuto speciale della crisi d’impresa, si è venuta a collocare e che, a bene vedere, consente di rinvenire un’ideale ‘saldatura’ tra il processo che, con la riforma del diritto societario del 2003, si è avviato (e ancora non pare essere destinato a fermarsi) proprio con riguardo allo statuto dell’imprenditore societario e l’obbligo di istituzione (non episodica e non singolare, ma presidiata, monitorata e aggiornata nel continuum dell’evoluzione della singola impresa nella sua natura e nelle sue dimensioni) di assetti adeguati. 
Un processo che – come si ricordava, recuperando lo spunto che già non è sfuggito ad attenta dottrina [22] – nel perseguire l’obiettivo ultimo di accrescere la flessibilità e la competitività dei codici organizzativi societari domestici, ha coniugato, per un verso, una serie di interventi legislativi finalizzati ad accrescere e a modernizzare le capacità dell’impresa di arricchire e incrementare la propria struttura finanziaria (favorendo, in tal modo, l’afflusso e la raccolta di risorse da, e sul, mercato), e, per un altro verso, lo ‘sgretolamento’ della tassatività dei codici organizzativi societari anelasticamente bloccati dal principio di tipicità (art. 2249 c.c.) in favore di un sistema aperto all’articolazione di modelli flessibili e intercambiabili. Un percorso, dunque, nel quale ben si colloca (e se ne coglie l’essenza) l’art. 2086 c.c., là ove – a contrappeso di questa ‘rinvigorita’ libertà e autonomia statutaria – pone l’imperativo (inderogabile) che l’impresa societaria abbia assetti adeguati, quale condizione di legittimazione in punto di attuazione del programma sociale. 
In ultima istanza, da una statica (e astratta) prefigurazione della struttura societaria, il tipo, cui conformarsi in sede costitutiva, in forza dell’art. 2086 c.c. si sarebbe passati, viceversa, a una dinamica (e specifica) regolamentazione dell’attività esercitata e delle modalità concrete di perseguimento dell’oggetto sociale, imponendo, ad attività avviata, l’istituzione e la conservazione di presidi (organizzativi, amministrativi e contabili) di salvaguardia della (auto) sostenibilità (e non della sola e mera efficienza produttiva) dell’impresa societaria. 
Un approdo cui, ancora una volta, non potranno non seguire, per doverosa consequenzialità, riflessi sul piano vuoi dell’oggetto dell’obbligo di istituzione, vuoi delle sanzioni correlate all’eventuale violazione dell’obbligo medesimo: riflessi cui saranno dedicate infatti le prossime pagine.
4 . Dei principali impatti e corollari conseguenti alla lettura costituzionalmente orientata
Si tratta allora di muovere all’analisi di alcuni dei possibili corollari che, sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme di diritto societario, possono cogliersi a valle dell’approdo testé ipotizzato, quanto meno di quelli che, a mio avviso, possono ritenersi i più rilevanti: vuoi perché già oggetto di interrogativi affrontati dalla dottrina più autorevole e sui quali diviene tuttavia necessario tornare al cospetto dello scenario testé illuminato, vuoi perché, viceversa, non ancora compiutamente indagati e, prima ancora, prospettati nel dibattito apertosi sulla norma in esame. 
Tre sono sostanzialmente gli aspetti sui quali vorrei concentrarmi, sempre con lo sguardo rivolto alle imprese societarie: nell’ordine, il possibile perimetro dell’obbligo di istituzione degli assetti adeguati; l’estendibilità della Business Judgment Rule nello scrutinare l’adempimento dell’obbligo e, infine, i possibili meccanismi sanzionatori azionabili in caso di non adempimento dell’obbligo in parola. 
Prendiamo dunque le mosse dal primo. Quanto all’oggetto, infatti, in coerenza con quanto testé rilevato là ove si annotava come l’art. 2086 c.c. abbia innalzato il momento ‘organizzativo’ al piano del soggetto rispetto a quello della sola attività, pare ragionevole mettere in discussione la tesi secondo la quale la portata della triade di assetti menzionata dalla norma (organizzativi, amministrativi e contabili) sia da intendersi restrittivamente e dunque nel senso di negare la stretta e immediata interrelazione tra gli assetti relativi all’impresa (cui secondo la posizione in parola la norma si limiterebbe) e gli assetti relativi alla società [23]. 
Nel qual caso – vale a dire nell’ipotesi in cui, al contrario, si dovesse propendere per una lettura estensiva e pervasiva del precetto tale da ricondurre nel relativo alveo anche gli assetti societari – la prospettiva sarebbe duplice, dal momento che l’adeguatezza di questi ultimi andrebbe predicata e misurata da due diverse angolature: quella patrimoniale e quella amministrativa. 
Ovverosia, con riguardo alla prima, ci si dovrebbe interrogare sulla necessità di ripensare alla funzione del capitale sociale e delle regole del patrimonio netto e ipotizzare l’esistenza di un dovere, per i soci e per gli amministratori, di adeguata patrimonializzazione della società, non tanto nella fase di costituzione, quanto invece nel durante del perseguimento del programma comune, che dovrebbe così tradursi nella necessità (della persistenza) di un nesso di proporzionalità tra patrimonio netto e oggetto sociale. 
Dopo tutto, lo stesso codice della crisi ha cura di precisare, viepiù nella sua formulazione a valle del recente intervento correttivo, che la condizione di accesso alla composizione negoziata, che rappresenta il percorso antergato rispetto agli strumenti di regolazione della crisi, destinato a intercettare in via anticipata la possibilità della crisi, è costituita dal trovarsi l’imprenditore o nelle condizioni di cui all’art. 2, comma 1, lettera a) o b) (lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettivi a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi ovvero lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni) oppure «(…) anche soltanto in condizioni di squilibrio patrimoniale» (art. 12, comma 1, CCII ). Ed è ancora lo stesso codice della crisi a statuire che in tanto si possa predicare l’adeguatezza degli assetti in quanto gli stessi, in primis, consentano di «rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale» [art. 3, comma 3, lett. a), CCII]. 
Nel contempo, è sempre il CCII della crisi, con i già citati articoli 120 bis e seguenti, a testimoniare come sia proprio la perdita del patrimonio netto a rendere lecita (e doverosa) la funzionalizzazione dei diritti proprietari dei soci alla soluzione della crisi medesima [24]. 
Per altro verso – quanto al piano amministrativo – si aprirebbe la prospettiva che vede la declinazione degli assetti di governance e di esercizio dei diritti corporativi, anche ad opera dell’autonomia statutaria, attraverso il prisma della relativa ‘adeguatezza’ in chiave di sostenibilità, nel senso sopra precisato, dell’organizzazione d’impresa. 
D’altro canto, non pare che, dinanzi alle considerazioni sino a qui rassegnate, possa costituire validi argomenti in senso contrario quelli cui la dottrina – che si è arroccata su una posizione restrittiva – ha fatto ricorso. 
Innanzi tutto, la sequenza degli articoli 2257, 2380 bis, 2409 novies, 2409 septiesdecies e 2475 c.c. ove statuisce la competenza esclusiva in capo all’organo amministrativo quanto all’implementazione degli assetti e dunque ne limiterebbe l’estensione al piano strettamente amministrativo, l’unico entro il quale (e per il quale) avrebbe legittimazione l’organo amministrativo. Una riserva che, nel contempo, si giustificherebbe in ragione del carattere prettamente ‘tecnico’ inerente alle decisioni organizzative e che dunque richiederebbe una non ingerenza da parte dei soci su siffatta materia [25]. 
Inoltre, la modifica, operata nel 2003, alle competenze assembleari dei soci con il passaggio dal previgente art. 2364, n. 4, c.c., a detta del quale l’assemblea ordinaria «delibera sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società riservati alla sua competenza dall’atto costitutivo o sottoposti al suo esame dagli amministratori», al nuovo art. 2364 n. 5, ove si afferma che la medesima assemblea «delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori (…)». 
E infatti, per quanto concerne, quest’ultimo argomento, esso, quand’anche conclusivo, potrebbe valere al più per il solo modello azionario, ma non certo per i modelli delle società di persone e della s.r.l. ove forte e immutata rimane l’immanenza dei soci anche, e soprattutto, in materie e decisioni tipicamente gestorie. 
Quanto poi al primo argomento, la sequenza andrebbe a operare su un piano distinto da quello dell’art. 2086 c.c.: la prima agirebbe infatti sul piano che si denominato dell’agire, la seconda su quello dell’essere
Anzi, a ben vedere, svariati sono gli indici normativi che propendono nella direzione che consustanziale e inevitabile siano comunque la possibile interferenza e ingerenza dei soci in punto di governance e adeguatezza degli assetti organizzativi. Si pensi, nel modello azionario, alla possibilità di attivazione dello strumento delle deleghe, che pur costituisce un tassello da tutti considerato essenziale ai fini dell’esistenza di un assetto adeguato (v. giurisprudenza sull’art. 2409 c.c.), testualmente subordinata dall’art. 2381 c.c. a una espressa riserva statutaria o assembleare e, dunque, in ultima analisi, affidata a una scelta sottratta all’autonomia dell’organo amministrativo. Si pensi, nel venire al modello non azionario, alla possibilità per i soci di sostanzialmente depotenziare l’art. 25 octies CCII , che, anche in questo caso pur rappresenta un altro tassello essenziale su cui la legge punta per assicurare assetti capaci di tempestivamente reagire a possibili sintomi di una possibile crisi, attraverso l’implementazione di sistemi di amministrazioni disgiuntive e comunque non collegiali, coniugate a una declinazione forte, a livello statutario, della possibile ingerenza dei soci in materia gestoria sfruttando la possibilità offerta dall’art. 2479 c.c. 
O ancora, si pensi alla serie di pattuizioni che, sempre a livello di statuto – e dunque nella competenza dei soci – potrebbero impattare sugli assetti organizzativi e amministrativi dell’impresa societaria: quali, ad esempio, le clausole antistallo, in termini di “shoot-out provisions”, con riallocazione degli assetti proprietari e con impatti finanziari pregiudizievoli per la continuità aziendale [26]; ovvero, alle clausole che demandano all’assemblea la decisione di adesione a codici di corporate governance, la nomina del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili (ex art. 154 bis, Tuif) e dell’organismo di vigilanza, o, ancora, la facoltà di approvare regolamenti di funzionamento degli altri organi sociali [27]. 
D’altro canto – sempre con un occhio rivolto alla crisi – è un dato di fatto che i soci mantengano una piena competenza e libertà di azione con riguardo a tutte le leve (di capitale e di debito) anche in prossimità della crisi e nell’ottica di superamento della stessa: si pensi al percorso della composizione negoziata, a sua volta collocato dal CCII in una ideale posizione antergata e favorita nella panoplia dei rimedi e delle soluzioni tipiche della crisi (cfr. gli articoli 3 e 12, CCII). 
Ma soprattutto – a testimonianza dell’impossibilità di escludere dagli assetti organizzativi il piano strettamente societario – vale la circostanza che i diritti corporativi (e dunque gli assetti proprietari) sono divenuti, con il codice della crisi, essi stessi strumento e oggetto di regolazione della crisi e, come tali, funzionali (e asserviti) al buon esito dei processi di ristrutturazione finanziaria attraverso operazioni di riorganizzazione aziendale [28]. 
5 . Segue. Assetti organizzativi, assetti societari e autonomia statutaria
Nella misura in cui l’obbligo di istituzione di assetti adeguati sale sino al piano degli assetti societari, si dovrebbe allora, congiuntamente: a) accettare anche l’idea di un necessario coinvolgimento dei soci, in termini di competenze decisorie, sia pure da declinarsi poi secondo le modalità e le aree indicate nella disciplina legale dei diversi codici organizzativi [29]; b) ripensare altresì il ruolo e la portata spettanti all’autonomia statutaria. 
E dunque, con riferimento al primo profilo, nel trovare il necessario bilanciamento tra l’art. 2086 c.c. e le norme del diritto societario che riservano la competenza esclusiva (e ultima) in capo agli amministratori, non resterebbe altra soluzione se non quella, come già da altri puntualmente rilevato, della necessità di (ri)affermare un dovere degli amministratori di resistenza (e di attivazione per quanto loro consentito dalla legge) rispetto a decisioni e deliberazioni dei soci incompatibili con l’obbligo legale di istituzione di assetti adeguati. 
Nel contempo, con riferimento invece al secondo profilo, si potrebbero avanzare due diversi (ma congiunti) approcci: l’uno di ordine restrittivo, l’altro invece amplificativo. Vale a dire, nel primo caso, la necessità di una interpretazione e di una applicazione (rectius cristallizzazione) delle regole e delle pattuizioni statutarie che si dovessero tradurre in ostacoli irragionevoli rispetto ad assetti adeguati e, sempre nel prisma della crisi d’impresa, al tempestivo ed efficace superamento della stessa in continuità aziendale. E, nel secondo caso, l’opportunità del riconoscimento di una legittimazione in capo all’autonomia privata a interventi funzionali alla gestione e al superamento della crisi se non financo alla prevenzione stessa di possibili situazioni di disequilibrio e quindi di imprese con assetti socialmente non compliant
Con riferimento al primo corno, quali esempi di possibili clausole statutarie a potenzialità negativa sul piano dell’adeguatezza degli assetti e dunque con un potenziale rischio di utilizzo impeditivo e abusivamente opportunistico specialmente in situazioni di prossimità della crisi, si potrebbero menzionare quelle previsioni che: riconoscano voti determinanti o deliberazioni unanimi in sede consiliare; prevedano variazioni del sistema di amministrazione al verificarsi di determinati eventi; in caso del sistema monistico, facilitino la revoca dei componenti del comitato interno per il controllo sulla gestione; coniughino deleghe gestorie e diritti particolari ai sensi dell’art. 2468, terzo co., c.c.; facciano scattare meccanismi di riscatto o recesso in caso di stalli decisionali. Situazioni e previsioni dinanzi alle quali, come peraltro già ho avuto occasione di interrogarmi, se ne potrebbe predicare l’inibizione e la disapplicazione in presenza della crisi o comunque un’applicazione coerenti con la superiore istanza di superamento tempestivo della crisi nella conservazione della continuità aziendale (Benazzo). 
Quanto invece alla seconda opzione – quella rivolta all’ampliamento degli spazi di manovra per l’autonomia privata in ottica funzionale ad assetti societari adeguati – si potrebbero ipotizzare delle clausole che, alternativamente, interverrebbero vuoi sulla voice, dei soci e degli amministratori, vuoi sull’exit dei soci. 
Nel primo caso, relativamente alla possibilità di una maggior inferenza dei soci, il riferimento corre a quelle previsioni statutarie aventi la finalità di rafforzare l’interferenza dei soci in chiave proattiva rispetto al superamento del rischio di crisi, elidendo o quanto meno mitigando quelle situazioni di asimmetria informativa che spesso si realizzano nei rapporti endosocietari e che si traducono in un ostacolo a un’effettiva e tempestiva iniziativa dei soci finalizzata a recuperare le necessarie condizioni di equilibrio. 
Si potrebbe allora propendere per la legittimità di clausole che impongano l’obbligo per gli amministratori di convocare o comunque coinvolgere i soci in decisioni funzionali a un siffatto obiettivo, abbattendo le soglie di richiesta di convocazione ad opera delle minoranze (di cui agli articoli 2367 e 2479 c.c.). Del pari, si potrebbe ipotizzare la legittimità di una clausola che intendesse attribuire, anche nelle imprese organizzate in forma azionaria, un diritto di accesso diretto alla documentazione sociale, in linea con quanto previsto negli articoli 2261 e 2476 c.c., ai soci che detengano una partecipazione pari ad almeno il dieci per cento del capitale sociale: soglia pari a quella che legittima i soci medesimi alla presentazione di proposte di concordato preventivo concorrenti (art. 120-bis, quinto co., CCII ). 
Quanto poi ai membri dell’organo amministrativo, in un’ottica di favore per la simmetria informativa e per il contenimento di comportamenti opportunistici ed egoistici, non si vedono ostacoli per le clausole che dovessero richiedere la necessaria collegialità e non delegabilità in ordine alle decisioni aventi ad oggetto vuoi, in prossimità della crisi, l’accesso a uno degli strumenti di regolazione testé richiamati, vuoi, prima ancora, in tema di istituzione degli assetti organizzativi medesimi. Ovvero, nelle ipotesi di consiglio di amministrazione a numero pari, la possibilità della deroga alla collegialità e quindi alla inevitabile unanimità. O, infine, clausole che dovessero istituzionalizzare e rafforzare flussi informativi a favore degli amministratori non esecutivi, in particolare all’interno di imprese complesse o che imponessero una deliberazione motivata e con quozienti qualificati e con giusta causa, in caso di sistema monistico, per l’eventuale revoca del Comitato per il controllo sulla gestione. 
Con riferimento invece alla seconda ipotesi cui si faceva cenno – ovverosia quella di clausole a potenzialità positiva sugli assetti organizzativi che dovessero intervenire sull’exit dei soci – si potrebbe ipotizzare la legittimità di introdurre in statuto ipotesi di recesso convenzionale a valore di liquidazione nullo, a salvaguardia della posizione del singolo socio, in particolare in caso di società senza il beneficio della responsabilità limitata, sul piano patrimoniale se non anche reputazionale. O, per contro, si potrebbe anche concludere per la legittimità di clausole di exit non volontaria, ma forzata, statuenti l’esclusione (nel caso di società di persone o di s.r.l.) ovvero di riscatto delle azioni (nel modello azionario) del socio che dovesse assumere atteggiamenti o determinazioni ostili rispetto a, e determinare lo stallo in caso di, deliberazioni su operazioni finalizzate alla prevenzione o alla soluzione del rischio di crisi, il tutto sempre a valore di liquidazione se non nullo, quanto meno al di sotto del floor minimo stabilito dalla legge. Ovvero, da ultimo, ipotizzare la configurabilità di clausole volte a inibire e sterilizzare il diritto di exit stesso, sotto forma di recesso o di riscatto, ovviamente se da esercitarsi per valori di liquidazione positivi e non al di sotto del floor minimo, allorquando conseguente e giustificato in presenza dell’adozione di operazioni straordinarie o di modificazione degli assetti proprietari, ancora una volta funzionali al superamento del rischio della crisi.
6 . Istituzione di assetti, Business Judgment Rule e sanzioni: il rimedio risarcitorio
Nel passare al secondo corollario che, a valle di quanto prospettato sulla valenza e sulla portata precettive dell’art. 2086 c.c., sia pur – lo si ripete – qui avanzate quale spunto di più attenta riflessione, e nel tornare su uno dei temi maggiormente discussi con la santificazione dell’obbligo di istituzione degli assetti, quello relativo all’applicabilità o meno della Business Judgment Rule, mi pare che la risposta possa essere negativa. 
E ciò non solo perché, come autorevole dottrina ha già avuto modo di porre in evidenza, l’obbligo in parola pertocchi una sfera da ascriversi alla diligenza tecnica nell’adempimento di un dovere antergato rispetto alla (mera) libertà di adottare decisioni strategiche e commerciali nell’interesse dell’impresa e dunque, in quanto tale, da considerarsi non già un libero atto di gestione dell’impresa, ma un doveroso atto di adempimento di un obbligo legale a contenuto specifico [30]. Cosicché il criterio di valutazione della scelta operata non sarebbe costituito dal parametro del miglior soddisfacimento dell’interesse dell’impresa, ma dal criterio del miglior adempimento all’obbligo di istituzione di assetti adeguati, da valutare secondo i parametri della diligenza tecnica e professionale. 
La ragione vera – almeno in coerenza con quanto sino a qui ipotizzato e argomentato – è quella che l’adempimento di un siffatto obbligo non sarebbe un atto nell’esclusivo interesse dell’impresa, quanto piuttosto, e prima ancora, un atto a protezione di interessi generali, a rilevanza costituzionale, gerarchicamente sovraordinato rispetto al principio della BJR, vocato invece alla protezione dell’interesse, egoistico e comunque privato, degli amministratori dell’impresa. In altri termini, l’osservanza dell’obbligo di istituzione (e manutenzione) di assetti adeguati risponde(rebbe) a quella prospettiva di garanzia per il mercato che, nell’esercizio del privilegio condizionato della libera iniziativa economica, l’imprenditore verrebbe così ad assumere. E come tale insuscettibile di aree di esenzione e di affrancamento. 
Una posizione di garanzia dalla quale – come si accennava in precedenza – diviene doveroso prendere le mosse per analizzare il terzo e ultimo corollario cui si intendono concentrare le battute finali di questo intervento: vale a dire quello attinente ai possibili meccanismi sanzionatori. 
Si tratta di un ambito nel quale l’attenzione degli interpreti si è venuta a concentrare esclusivamente su sanzioni di ordine obbligatorio, a contenuto risarcitorio e ad attivazione meramente reattiva: in buona sostanza, la posizione dominante è infatti nel senso che la sanzione in caso di violazione dell’obbligo di istituzione degli assetti sia da indentificarsi per antonomasia – anzi, a dirla tutta, in via esclusiva [31] –nella responsabilità civile degli amministratori (e con loro dei membri dell’organo interno di controllo societario) per il risarcimento del danno (tutto da provare nel suo ammontare e, prima ancora, nel nesso di causalità) conseguente all’inesistenza o all’inadeguatezza degli assetti. 
La prospettiva e la tesi che viceversa s’intendono indicare e rappresentare vanno oltre, per aprirsi all’attivazione anche – e quindi impregiudicata la sanzione risarcitoria – di meccanismi alternativi, di ordine reale, a contenuto invalidatorio e ad attivazione antergata e anticipata. Meccanismi che, nell’anticipare quanto si dirà a breve, possono individuarsi, in un ordine decrescente di attenzione ad essi prestata dagli operatori del diritto: (i) nell’ormai consolidata sul piano giurisprudenziale, applicazione della procedura dell’art. 2409 c.c. e dunque nella qualificazione della violazione dell’art. 2086 c.c. tra le gravi irregolarità che possano (anche solo in potenza) arrecare un danno alla società e come tali condurre anche alla revoca degli organi sociali e alla nomina di un amministratore giudiziario cui attribuire il compito di implementare adeguati assetti [32]; (ii) nella riconduzione della violazione dell’obbligo di istituzione degli assetti nell’alveo dei vizi (per contenuto) di legalità degli atti deliberativi sì da assurgere a causa di illiceità dell’oggetto della deliberazione e, in questo modo, condurre alla nullità della deliberazione assembleare ai sensi dell’art. 2479 c.c. se non finanche della deliberazione consiliare nella misura in cui vi sia ancora spazio per una siffatta ipotesi nell’art. 2388, c.c.; (iii) nonché, infine – sebbene, va detto senza remore, da qui in poi si entri in un campo ad oggi totalmente inesplorato [33] – sino a spingersi nel qualificare la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2086 c.c. quale vizio organizzativo tale da condurre alla impossibilità giuridica di conseguimento del programma sociale e quindi a una causa di scioglimento dell’ente societario stesso (ai sensi degli articoli 2274 n. 2 e 2484 n. 2 c.c.). 
Per quanto concerne la sanzione di tipo risarcitorio, la cui applicabilità non può e non deve certo essere messa in discussione, mi limiterei ad alcune precisazioni che, ancora una volta, mi paiono consequenziali a quanto sino a qui prospettato [34]. 
La prima è che l’affermazione secondo cui la sanzione principe sia la responsabilità civile è corretta nella misura in cui di “obblighi sugli assetti” se ne discorra nel prisma delle norme interne al singolo modello organizzativo di impresa societaria (o collettiva): intendo dire, nel caso delle imprese societarie, con lo sguardo rivolto all’adempimento dei doveri di diligenza o, meglio, di corretta amministrazione di cui ai più volte citati articoli 2257, 2380 bis e 2475 c.c., ma non già nel prisma dell’art. 2086 c.c. che è norma di organizzazione e di legittimazione al perseguimento del programma sociale. 
La seconda precisazione è che l’affermazione debba essere estesa al di là delle sole azioni di cui agli articoli 2393 (quella sociale) e 2394 (quella dei creditori sociali) c.c.: del non corretto, diligente, adempimento dell’obbligo di istituzione e di presidio di assetti adeguati, tanto gli amministratori quanto i sindaci (e i membri dell’organo di controllo interno) possono essere chiamati a rispondere – ovviamente al netto delle difficoltà di ottemperare agli oneri probatori connessi – anche ai sensi dell’art. 2395 c.c. a titolo di danno diretto arrecato ai soci, in particolare, là ove questi ultimi dovessero vedersi pregiudicati nei propri diritti proprietari in ragione di una crisi non presidiata, non intercettata e non evitata per carenza di assetti adeguati e dunque con conseguente accesso a strumenti di regolazione della crisi che diano spazio al sacrificio dei diritti corporativi [35]. 
Un’affermazione – quella qui in esame – che, nel venire a una terza precisazione, sul piano soggettivo, andrebbe estesa sino a configurare la possibilità di un’applicazione estensiva e trans-tipica dell’art. 2476, ottavo co., c.c., se è corretta e fondata, come si annotava in precedenza, la tesi che vi sia, e vi debba essere, una “interlocuzione con i soci” [36] nell’approntamento e nel funzionamento degli assetti. 
Un’affermazione infine – e si tratta di un profilo tanto delicato quanto ancora tutto da esplorare a fondo – che andrebbe estesa anche sul piano oggettivo, per la precisione con riferimento al titolo in forza del quale attivare una siffatta sanzione risarcitoria e dunque, in ultima analisi, della natura da attribuirsi a una siffatta responsabilità: se infatti è condivisibile l’idea che dal precetto generale e negativo del neminem laedere si sia, con l’art. 2086 c.c., passati alla codificazione di un precetto positivo e speciale di istituire assetti e presidi per non ledere, quale misura imposta dalla legge a garanzia e salvaguardia di valori costituzionalmente rilevanti, sarebbe allora legittimo, e forse anche consequenziale, inferirne la natura indistintamente contrattuale, anche per l’ipotesi di iniziative avviate ad opera di terzi. E ciò in forza di una posizione di garanzia, espressione di un vincolo da ‘contatto’ sociale che l’ordinamento erige a presidio di detti valori [37]. 
Nel venire ora ai meccanismi alternativi sopra evocati, lascerei da parte quello di cui all’art. 2409 c.c., sul quale si stanno via via susseguendo prese di posizioni e arresti nella giurisprudenza di merito e sul quale altresì anche la dottrina, a propria volta, si è interrogata ed è intervenuta pure con opinioni e prese di posizione non allineate con le corti (Benazzo), per concentrare le ultime battute sulle altre due ipotesi in relazione alle quali, per un verso, una prima riflessione è stata avviata in dottrina e, per un altro verso, invece alcuna voce si è levata al riguardo.
7 . Segue. La sanzione della nullità degli atti deliberativi
Nel principiare dalla prima ipotesi, la direzione lungo la quale muoversi è strettamente consequenziale a quel mutamento di prospettiva che si è in precedenza propugnato e che, nell’enfatizzare la ‘rivoluzionaria’ collocazione della norma, rinviene nell’art. 2086 c.c. non (tanto e soltanto) una regola di responsabilità – il cui fondamento rimane collocato nelle norme speciali relative al singolo modello d’impresa prescelto e al combinato disposto delle norme in tema di competenza, doveri e responsabilità degli organi interni – quanto (ed esclusivamente) una regola di validità dell’organizzazione e dei suoi atti deliberativi: con il che, si aprirebbe il varco per affiancare a una tutela risarcitoria anche una tutela demolitoria, idealmente anticipabile poi anche a livello cautelare [38]. 
Se è corretto, infatti, affermare che – tirando le file di quello che si è sin qui ipotizzato – con il ‘nuovo’ art. 2086 c.c. si sarebbe addivenuti a una vera e propria nozione normativa di gestione, quanto meno nel suo nucleo primario e prodromico rispetto all’attività di attuazione e perseguimento dell’oggetto sociale, da identificarsi (la gestione) nelle valutazioni e nelle determinazioni di programmazione, prima, e conseguente organizzazione, poi, del soggetto (imprenditore societario o collettivo), a loro volta (programmazione e organizzazione) necessariamente adeguate alla natura e alle dimensioni dell’impresa; se, ancora, è corretto inferire che in questo modo il legislatore abbia dato vita a un’obbligazione autonoma e a contenuto specifico, da puntualizzarsi non secondo i generici parametri della diligenza professionale, quanto piuttosto (e invece) secondo parametri specifici di perizia a contenuto tecnico; se è corretto, altresì, aggiungere che è in questi termini e da questo angolo di visuale che si deve cogliere la valenza precettiva del sintagma ‘istituzione’ cui ricorre l’art. 2086 c.c., che, a sua volta, evoca l’osservanza di una regola di necessaria formalizzazione dei presidi, degli strumenti e degli assetti di organizzazione; se è corretto, poi, assumere che una siffatta formalizzazione presuppone (e richiede) atti deliberativi, eventualmente ascrivibili all’organo amministrativo nel suo plenum e, nella misura in cui di atti di organizzazione si possa (e si debba) parlare anche con riferimento a deliberazioni assembleari, nell’uno e nell’altro caso, comunque, frutto di un confronto e di una dialettica sostanzialmente collegiale, capace di assicurare adeguati momenti di ponderazione, misurazione e motivazione; se, infine, è corretto concludere che un siffatto momento gestorio (e il suo corretto adempimento) dia concretezza a una condizione (legale) di legittimazione all’esercizio di un’attività economica, a salvaguardia della sostenibilità dell’impresa e dunque a garantire la legalità stessa dell’agire dell’impresa, breve (per non dire finanche inevitabile) è il passo verso una duplice conclusione: per un verso, quella secondo cui ad essere salvaguardati sono valori e istanze a valenza generale, trascendenti gli interessi dei singoli proprietari dell’impresa e, per un altro verso, quella che ogni atto deliberativo che, nel concreto, pertocchi un siffatto momento gestorio, sia esposto all’illiceità del proprio oggetto ogni qual volta si esprima per l’istituzione di assetti non adeguati (alla natura e alle dimensioni della singola impresa). 
Illiceità dell’oggetto che – nel seguire lo statuto speciale delle invalidità delle deliberazioni nel caso di imprese societarie di capitali – dovrebbe tradursi nella nullità stessa dell’atto deliberativo. 
Una nullità che, nel caso delle deliberazioni assembleari, là ove si condivida la tesi secondo cui vi possono essere deliberazioni dei soci che abbiano interferenza con gli assetti adeguati, non avrebbe difficoltà sul piano del diritto positivo a coordinarsi con, e a trovare la propria disciplina ne, l’art. 2379 c.c. 
Una nullità che, per contro, sempre sul piano astratto dello statuto normativo, con maggior difficoltà potrebbe predicarsi nel caso di deliberazioni consiliari, per le quali, forte, è l’ostacolo costituito dalla necessità di riuscire a coordinare l’ipotesi di decisioni aventi ad oggetto l’istituzione di assetti non adeguati (e quindi a oggetto illecito dacché in violazione di precetto imperativo a valenza generale) con le strettoie della disciplina legale di cui all’art. 2388, commi quarto e quinto, c.c., testualmente orientata verso una invalidità debole, chiaramente pensata, nelle intenzioni del legislatore, per favorire la stabilità e la certezza delle scelte d’impresa. 
Nel caso delle deliberazioni consiliari, non pochi e di non poco momento sarebbero infatti gli interrogativi cui occorrerebbe dare una risposta, ovviamente al netto del potere/dovere di impugnativa di deliberazioni siffatte, anche solo invocandone la mera annullabilità, che la legge comunque impone in capo agli amministratori singolarmente e all’organo di controllo interno, collegialmente. 
Il primo, più immediato, sarebbe quello relativo alla configurabilità di uno spazio per la fattispecie della nullità, per contenuto, delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, posto che l’art. 2379 non è espressamente richiamato dall’art. 2388 c.c.: un interrogativo cui la posizione attualmente dominante è schierata in senso negativo (). 
Il secondo quesito attiene invece alla possibilità di ipotizzare un interesse ad agire del singolo socio, cui peraltro la norma in commento riserva un ambito sia pur a determinate condizioni: in altri termini, la domanda cui dare risposta è se sia legittimo inferire che una deliberazione istitutiva di assetti non adeguati possa considerarsi lesiva dei diritti del socio singolo. Posto infatti che nel caso del socio, di per sé sola la non conformità alla legge o all’atto costitutivo non conduce ex lege all’impugnabilità ad opera del socio, la risposta da dare è se sia lecito rinvenire un’ipotesi di violazione qualificata dei diritti patrimoniali o amministrativi del socio in presenza di deliberazioni istitutive di assetti organizzativi. 
In questo caso, la risposta mi parrebbe più agevole rispetto all’interrogativo precedente e da indirizzarsi in senso affermativo dacché, nell’ordine, l’inadeguatezza degli assetti è, come si è detto, condizione preclusiva e ostativa alla legittimazione all’esercizio dell’attività economica; la stessa è, come si aggiungerà a breve, anche possibile causa di scioglimento dell’intrapresa comune; la stessa ancora è potenzialmente in grado di tradursi, in situazioni di crisi non tempestivamente e preventivamente presidiate in ragione di assetti non adeguati, in un danno diretto per il socio, nella misura in cui l’incapacità di intercettamento e prevenzione degli assetti divenga essa stessa causa di allocazione eteronoma dei diritti corporativi (e il riferimento corre nuovamente ai più volte citati articoli 120 bis e seguenti, CCII ). 
Vi è poi un terzo interrogativo che deve essere affrontato e che assume una particolare pregnanza nel, anch’esso nuovo, mondo disegnato dal codice della crisi: vale a dire quello se l’eventuale legittimazione all’impugnazione di deliberazioni consiliari (verosimilmente nulle e dunque nel rispetto dei termini anche temporali di cui alla disciplina della nullità delle deliberazioni assembleari) sia da circoscriversi ai soli soci ovvero se non debba essere estesa anche ai terzi, quali soggetti interessati a far valere la nullità come predicato dall’art. 2379 c.c. Una prospettiva di grande rilevanza in caso di risposta affermativa per due ragioni: perché verrebbe ad attribuire all’adeguatezza degli assetti un’inflessione non solo interna ma anche esterna; perché andrebbe attentamente valutata e non negletta ad opera di quel particolare gruppo di terzi estranei all’impresa, leggasi le banche e gli operatori finanziari, cui, quali creditori, da un canto, qualificati e, dall’altro canto, in ragione dell’attività esercitata e della posizione rivestita sul mercato, la giurisprudenza prima e il codice della crisi poi assegnano il dovere di verificare l’adeguatezza degli assetti nel prisma, in particolare, del potenziale rischio di crisi per incapienza patrimoniale o per incapacità di reggere (e ripagare) l’indebitamento finanziario (arg., con riguardo al CCII , agli articoli 3, 4, comma quarto, e 16, commi quinto e sesto) [39]. 
Nella misura, infatti, in cui si dovesse propendere per una risposta in senso estensivo, ne conseguirebbe, necessariamente, che, ai fini della valutazione di possibili responsabilità ascrivibili a detti creditori per aver dato credito e sostegno a imprese ad assetti non adeguati, non si potrebbe fare a meno di non considerare anche il mancato ricorso, tempestivo e anticipato, al rimedio demolitorio di deliberazioni, consiliari e assembleari, a contenuto illecito. 
Un ultimo interrogativo va infine messo sul tavolo della riflessione ed è connesso alla particolare natura e articolazione del procedimento di istituzione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili; un procedimento, potenzialmente, a struttura granulare e disassata, in termini vuoi di centri di allocazione della competenza e dell’atto decisorio nella programmazione e istituzione degli assetti, vuoi di momenti lungo i quali i diversi atti istitutivi vengono assunti. Con il che si potrebbe obiettare la difficoltà di ipotizzare l’applicazione della sanzione della nullità in assenza di un momento decisorio e deliberativo collegiale, ascrivibile nella fattispecie della deliberazione consiliare cui fa riferimento l’art. 2388 c.c., allorquando le determinazioni in tema di assetti vengano assunte aliunde, ad esempio ad opera di comitati esecutivi o degli stessi amministratori delegati. 
Per contro, una possibile replica andrebbe quanto meno vagliata. Senza arrivare all’affermazione secondo cui ogni e qualsiasi decisione avente per oggetto l’istituzione degli assetti in ottemperanza all’art. 2086 c.c. non possa che transitare ab origine da una deliberazione assunta dal plenum consiliare, non potrebbero infatti obliarsi due fattori che la legge stessa predica: quello costituito dal dovere per ciascun amministratore di agire in modo informato e quello che riporta, comunque, in capo all’organo amministrativo nel suo complesso, il compito di valutare, sulla base delle informazioni ricevute o, per l’appunto, sollecitate in forza del dovere di cui all’ultimo comma dell’art. 2381 c.c., l’adeguatezza degli assetti e quindi, in quanto tale, legittimato, in via cumulativa e concorrente, a sostituirsi ai delegati. 
E con ciò per arrivare alla conclusione secondo cui, per un verso, vi sarebbe comunque un dovere di attivazione in capo a ciascun amministratore nel sollecitare un momento di confronto collegiale, capace di ricondurre a sintesi quella granularità e dispersione secondo cui si potrebbe frazionare il processo istitutivo degli assetti, e, per un altro verso, andrebbe comunque rinvenuta nella deliberazione con la quale, nel continuum dell’attività di gestione, il Consiglio di Amministrazione esprima la propria valutazione sugli assetti complessivamente disegnati e implementati il momento deliberativo, consiliare, avente ad oggetto l’istituzione, nel suo complesso, degli assetti e, in quanto tale, potenzialmente a oggetto illecito. 
Dopo tutto, proprio con riferimento agli assetti organizzativi, il sistema legale pare orientarsi in modo reciso verso un momento, ancorché finale, di natura e portata unitarie, come portato, complessivo, del confronto e della dialettica, intra e inter-organica, tra i diversi organi sociali: si pensi al coinvolgimento nel processo dei diversi organi, di amministrazione e di controllo, imperativamente declinato dalla sinottica degli articoli 2381 e 2403 c.c. (e 149 tuif per le società quotate); si pensi viepiù ai flussi informativi che la legge stessa sollecita, tanto all’interno del Consiglio e di cui sono fatti parte oltre agli amministratori non esecutivi anche i membri del collegio sindacale, del Consiglio di sorveglianza nonché, nel monistico, con maggior immediatezza, i membri del comitato per il controllo interno, quanto, all’esterno dell’organo consiliare, con l’organo di controllo interno e il soggetto incaricato della revisione legale dei conti (art. 2409 septies, c.c.; art. 28 octies, CCII e 8 e segg., D.Lgs. n. 125/2024).
8 . Segue. Assetti inadeguati e lo scioglimento dell’impresa societaria
Siamo così giunti all’estremo confine cui ho annunciato di voler portare il perimetro delle riflessioni: quello ancora non esplorato dagli interpreti; quello però che, a mio avviso, difficilmente può essere pretermesso, almeno in una più attenta disamina, eccedenti i limiti di questo intervento e le capacità di chi scrive. 
Il limite è quello di spostare la possibile sanzione per la violazione dell’obbligo di istituzione di assetti adeguati dalla prospettiva dell’organo di amministrazione a quello della struttura (dell’impresa societaria); ovverosia dal piano dell’agire a quello dell’essere. 
E, in questo modo, arrivare a individuare nell’assenza di assetti adeguati in generale e nell’assenza di assetti adeguati in relazione alla natura e alle dimensioni della specifica impresa, una ipotesi di scioglimento della società ai sensi e per gli effetti, rispettivamente, dell’art. 2272, n. 2 e 2484 n. 2, c.c., per ravvisarvi così una causa di scioglimento per impossibilità giuridica di conseguimento dell’oggetto sociale, in ragione dell’assenza di quelle condizioni che la legge richiede affinché l’attività economica (così come configurata e programmata nell’oggetto sociale statutario) possa perseguirsi in termini di accrescimento di ricchezza sostenibile. 
Si tratterebbe, a ben vedere, di una sanzione che, sebbene dirompente, avrebbe, in termini potenziali, alcuni vantaggi. Perché, in primo luogo, si tradurrebbe in un incentivo per l’organo amministrativo a un tempestivo quanto puntuale adempimento dell’obbligo di istituzione di assetti adeguati. Perché, in secondo luogo, accrescerebbe la deterrenza effettiva che verrebbe così ad acquisire la minaccia del meccanismo risarcitorio. Meccanismo che infatti scatterebbe non già per la violazione del generale dovere di istituire assetti adeguati e, come tale, minato in radice dalle connesse difficoltà sul piano probatorio del nesso di causalità, quanto, viceversa, per la violazione di due obblighi specifici e non mediati. L’obbligo di attivazione tempestiva nell’accertamento della causa di scioglimento e nell’adempimento di quanto previsto dall’art. 2484, con quanto ne conseguirebbe così in tema di risarcimento dei danni; l’obbligo, poi, di orientare il potere di gestire la società verso un’amministrazione conservativa dell’integrità del valore del patrimonio sociale, pena, ancora una volta, il risarcimento dei danni subiti dalla società, dai soci e dai terzi (art. 2486 c.c.). 
Né d’altro canto, si mostrerebbero così insuperabili i possibili argomenti di segno contrario. Certamente non quello che una siffatta ipotesi andrebbe a porsi in contrasto con l’esigenza di salvaguardia e di conservazione dell’impresa: dacché tutto da dimostrare è che una siffatta esigenza sia sovraordinata rispetto a quella di garantire la presenza e la sopravvivenza soltanto di imprese sostenibili dacché ad assetti adeguati; dacché comunque la situazione, stando alle norme di legge testé richiamate, non sarebbe preclusiva di interventi risolutivi a rimozione della causa stessa di scioglimento. 
Del pari, proprio in ragione di quanto testé rilevato, difficilmente si potrebbe evocare una sorta di possibile cortocircuito decisorio in ragione dell’esclusiva competenza riservata in capo agli amministratori in tema di istituzione degli assetti organizzativi e intervento dei soci: proprio l’art. 2484 n. 2 c.c. ne segna il punto di possibile equilibrio là ove riconduce in capo ai soci il potere di rimuovere la causa di scioglimento agendo sullo statuto sociale per ‘riparametrare’ l’oggetto sociale e quindi il programma dell’iniziativa economica in modo sostenibile per la natura e le dimensioni dell’impresa medesima. 
Né, infine, andrebbe sopravvalutata l’accusa di un possibile rischio che l’ipotesi in discussione aprirebbe in termini di incertezza e di arbitrarietà nell’individuazione e nella valutazione di una non adeguatezza degli assetti organizzativi e dunque nell’essersi verificata una causa di scioglimento. Vero è infatti che anche nelle ipotesi di scioglimento per perdita del capitale sociale sarebbe comunque ineliminabile e insopprimibile un profilo di discrezionalità, anche qualitativa, in relazione alle appostazioni di bilancio e alla quantificazione dei relativi valori. Vero, infine, è che sarebbe la stessa professionalità sancita dall’art. 2086 c.c. a garantire «(…) la ragionevolezza del controllo giudiziale dell’applicazione del principio di “adeguatezza degli assetti”» [40]. 
In altre parole – e qui, nell’avviarmi alla conclusione del mio intervento, mi ricollego a quanto scritto in esordio con riguardo al reciproco ruolo delle scienze giuridiche e aziendali – il testimone non può che passare nelle mani degli aziendalisti, alla cui responsabilità pertiene il compito di declinare in modo puntuale modelli di riferimento rispetto ai quali, secondo una valutazione prognostica ex ante, si andrà poi a misurare (nel concreto) vuoi il rispetto della diligenza tecnica e quindi l’osservanza della condizione di legittimazione al perseguimento di quel determinato programma sociale sancito nell’oggetto sociale, vuoi la perseguibilità giuridica del programma medesimo.

Note:

[1] 
Sull’art. 2086 c.c. e sull’obbligo di istituzione degli assetti, la letteratura ha ormai raggiunto dimensioni tali da rendere impossibile un richiamo puntuale e completo; nel limitarsi quindi ad alcuni lavori di ultima pubblicazione, cui fare rinvio anche per le ulteriori citazioni, cfr., oltre agli autori citati nelle successive note: P. Bastia, La continuità aziendale e la dimensione strategica degli assetti, in Ristrutturazioni aziendali, 31 ottobre 2024; M. Peta, Gli adeguati assetti societari nel binomio “crisi – risanamento” d’impresa, responsabilità per gravi irregolarità in situazione di “non crisi”. Spunti operativi per PMI, in Diritto della crisi, 21 ottobre 2024; G. Buffelli, Gli adeguati assetti alla luce del correttivo ter (d.lgs. n. 136/2024), ivi, 17 ottobre 2024; P. Riva, Gli adeguati assetti organizzativi. La mappa di riferimento dei ruoli e dei compiti, in Ruoli di Corporate Governance. Adeguati assetti e sostenibilità2, a cura di P. Riva, Egea, 2023, 3 ss.; S. Cerrato, Crisi, assetti adeguati e business judgement rule, in Corporate Governance, 2022, 303 ss.; M. Binelli, Gli adeguati assetti e la responsabilità degli amministratori in caso di liquidazione giudiziale, 23 agosto 2022, consultabile in www.dirittodellacrisi.it; M. Libertini, Principio di adeguatezza organizzativa e disciplina dell’organizzazione delle società a controllo pubblico, in Giur. comm., 2021, I, 55 ss.; M. Onza, Gli “adeguati assetti” organizzativi: tra impresa, azienda e società (appunti per uno studio), 11 ottobre 2021, consultabile in https://ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it nonché in Riv. dir. comm., 2022, II, 1 ss.; M. Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in Nuove leggi civ., 2019, 1160 ss.; S. Ambrosini, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato, 15 ottobre 2019, www.ilcaso.it; M.S. Spolidoro, Note critiche sulla « gestione dell’impresa » nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, 253 ss. 
In nota a Trib. Cagliari, 19 gennaio 2022, v., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, I. Capelli, Gli assetti organizzativi adeguati e la prevenzione della crisi, in Società, 2022, 1430 ss. Intenso è poi il dibattito che si è altresì sviluppato in ordine alla possibilità di scriminare le scelte organizzative con la Business Judgement Rule. Tema quest’ultimo in ordine al quale, in questa sede, è solo possibile fare rinvio alle voci più autorevoli: V. Calandra Buonaura, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nella società per azioni, in Giur. comm., 2020, I, 439 ss.; P. Montalenti, Il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Giur. comm., 2020, I, 829 ss.; C. Angelici, La società per azioni. I. Principi e problemi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu - F. Messineo - L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2012, 407; C. Amatucci, Adeguatezza degli assetti, responsabilità degli amministratori e Business Judgement Rule, in Giur. comm., 2016, I, 667; R. Rordorf, Doveri e responsabilità degli amministratori delle società in crisi, in Società, 2013, 669; R. Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Giur. comm., 2014, I, 309. Adde, F. Bordiga, Gli obblighi degli amministratori nel contesto del codice della crisi e dell’insolvenza, in Ristrutturazioni Aziendali, 19 aprile 2023, ivi, in particolare, 17 ss.; S. Fortunato, Atti di organizzazione, principi di correttezza amministrativa e Business Judgment Rule, in Giur. comm., 2021, II, 358 ss., nonché, con ampia rilettura del tema, di recente, E. Barcellona, Business judgment rule e interesse sociale nella “crisi”. L’adeguatezza degli assetti organizzativi alla luce della riforma del diritto concorsuale, Milano, 2020, passim
[2] 
L. Nazzicone, L’art. 2086 c.c.: uno sguardo d’insieme, in Gli assetti organizzativi dell’impresa, Quaderno n. 18 delle Scuola Superiore della Magistratura, a cura di L. Calcagno – F. Di Marzio, Roma, 2022, 20. 
[3] 
M. Onza, “Gestione sostenibile” dell’impresa, “adeguati assetti” e (una annotazione su) “interesse sociale”: spunti di riflessione, in Aa.Vv., Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, a cura di S. Ambrosini, Pacini, 2023, 11. 
[4] 
Così M.S. Spolidoro, Note critiche sulla «gestione dell’impresa» nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci, in Riv. soc., 2019, 253 ss. 
[5] 
In questo senso, M. Irrera, Adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, nel Trattato delle società, diretto da V. Donativi, t. II, Società per azioni, Utet, 2022, 1149 ss., ivi 1552. 
[6] 
Così A.M. Benedetti, Gli «assetti organizzativi adeguati» tra principi e clausole generali. Appunti sul nuovo art. 2086 c.c., in Riv. soc., 2023, 964 ss., 968. 
[7] 
Sul tema, oltre agli autori citati nella precedente nota (1), v., per tutti, P. Montalenti, Assetti organizzativi e organizzazione dell’impresa tra principi di corretta amministrazione e business judgment rule: una questione di sistema, in Il Nuovo diritto delle società, 2021, 11 ss., e, da ultimo, A.M. Benedetti, nota (6), 975 ss. Per la giurisprudenza, cfr. l’ordinanza della Cass., 24 gennaio 2023, n. 2172, nella quale parrebbe estendersi l’applicazione della BJR anche alle scelte “organizzative”. E in tal senso, cfr. V. De Sensi, Adeguati assetti e business judgment rule, in Dirittodellacrisi.it, 16 aprile 2021. V. anche infra § 6. 
[8] 
Cfr. ex multis, P. Riva, nota (1), 4. 
[9] 
V. sul punto E. Ginevra – C. Presciani, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 c.c., in Nuove Leggi Civili Commentate, 2019, 1210 ss. E v. anche, P. Montalenti, I modelli di impresa societaria fra tradizione e innovazione nel contesto europeo, Milano, 2016, 14. 
[10] 
Sul tema, si deve fare rinvio agli autori citati in nota (1), oltre, da ultimo, A.M. Benedetti, nota (6), 967 ss. 
[11] 
V. M. Irrera, nota (5), 1554. 
[12] 
Sul punto, cfr. pure A. Palazzolo, Adeguatezza, legalità e sostenibilità. La delibera istitutiva degli assetti organizzativi e le sue “patologie”, in Giur. comm., 2024, 323 ss. 
[13] 
In questo senso, per tutti, anche M. Onza, nota (1), 6. 
[14] 
Non è dunque condivisibile l’affermazione secondo la quale (M. Onza, nota (3), 21] «l’elemento centrale degli “adeguati assetti” dell’art. 2086 comma 2 è (e resta) la di essi funzionalizzazione alla rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita di continuità aziendale». Va certamente accantonata quella lettura leopardianamente iettatoria e pessimistica che si è citata in esordio, senza peraltro dover optare per un approccio vanitosamente ottimistico come nel razionalismo leibniziano: piuttosto, nel voler proseguire in queste citazioni letterarie, si potrebbe dire che l’art. 2086 c.c. invita al medesimo approccio con il quale Voltaire narra le mirabolanti avventure del povero Candido e ad acquisire così la consapevolezza circa l’intrinseca e consustanziale natura rischio dell’attività d’impresa. 
[15] 
Così, F. Superti Furga, Il bilancio di esercizio italiano secondo la normativa europea, Milano, 2017, 18. V. anche V. De Sensi, nota (7), 22. 
[16] 
Sulla tematica della rilevanza sociale dell’impresa e degli imperativi di ESG, nell’impossibilità di dar conto di tutti i contributi, il rinvio viene limitato a: M. Campobasso, Gli amministratori, il successo sostenibile e la pietra di Spinoza, in Banca, borsa, tit. cred., 2024, I, 1 ss.; M. Libertini, Gestione “sostenibile” delle imprese e limiti alla discrezionalità imprenditoriale, in Contr. e impr., 2023, 54 ss.; M. Maugeri, Soci istituzionali e capitalismo “responsabile”, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2023, 3, 836 ss.; A. Perrone, D. Semeghini, Oltre lo shareholder value. Verso nuove regole per la composizione deli interessi nella grande impresa azionaria, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2023, 3, 805 ss.; M. Cossu, Shareholders Theory, obiettivi ESG e interesse sociale, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2023, 3, 783 ss.; M. C. Angelici, A proposito di shareholders, stakeholders e statuti, in La nuova società quotata: tutela degli stakeholders, sostenibilità e nuova governance (Atti del Convegno di Courmayeur, 9 aprile 2021), a cura di Montalenti e Notari, Milano, Giuffrè, 2022, 47 ss.; F. D’Alessandro, Il mantello di San Martino, la benevolenza del birraio e la Ford modello T, senza dimenticare Robin Hood (divagazioni semi-serie sulla c.d. responsabilità sociale dell'impresa e dintorni), in Riv. dir. civ., 2022, 409 ss.; A. Genovese, La gestione ecosostenibile dell'impresa azionaria, Bologna, Il Mulino, 2022, spec. 142 ss.; F. Denozza, Lo scopo della società tra short-termism e stakeholder empowerment, in Orizzonti del dir. comm., 2021,29 ss. e in Studi di diritto commerciale per Vincenzo Di Cataldo, II, t. I, Torino, Giappichelli, 2021, 281 ss.; P. Montalenti, La società per azioni: dallo shareholder value al successo sostenibile. Appunti, ivi, vol. II, t. II, 671 ss.; U. Tombari, “Potere” e “interessi” nella grande impresa azionaria, Milano, Giuffrè, 2019, spec. 78. V. anche Il lucro sostenibile. Obiettivi e ruolo delle imprese tra comunicazione e realtà, nel volume collettaneo di AGE n. 1/2022. 
Su governance, adeguati assetti organizzativi e gestione dei rischi di sostenibilità, prettamente nell’ottica di prevenzione della crisi, cfr., da ultimo: S. Pacchi Pesucci, Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, in Ristrutturazioni aziendali, 26 maggio 2023, 16 ss.; G. Schneider, Prevenzione della crisi d’impresa e rischi ESG: il ruolo della finanza sostenibile, in Riv. dir. bancario, Aprile/Giugno, 2023, 327 ss.; G. Amatucci, Responsabilità sociale dell’impresa e nuovi obblighi degli amministratori. La giustizia di alcuni legislatori, in Giur. comm., 2022, I, 612 ss. V. infine E. Stabile, Gli standard di rendicontazione tra Dichiarazione non Finanziaria e “informazioni sulla sostenibilità”, paper presentato al XIV Convegno Annuale dell’Associazione Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale “Orizzonti del Diritto Commerciale”, “Imprese, mercati e sostenibilità: nuove sfide per il diritto commerciale” (Roma, 26-27 maggio 2023). 
[17] 
Cfr. P. Benazzo, Gli strumenti di regolazione della crisi delle società e i diritti “corporativi”: che ne resta dei soci?, in Dirittodellacrisi.it, 4 dicembre 2023 e prima S. Patriarca - P. Benazzo, Diritto delle imprese e delle società, Bologna, 2022, 2 ss. 
[18] 
Si rinvia ancora a P. Benazzo, nota (17). Di organizzazione adeguata e funzionale alla realizzazione di un fine predeterminato e individuato, in primo luogo, nella «remunerazione del capitale investito», parla M. Libertini, nota (1), 56. 
[19] 
In questa direzione, pare muoversi anche B. Inzitari, Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, in Riv. dir. comm., 2020, I, 199 ss., ivi 204. V. anche A.M. Benedetti, nota (6), 969. 
[20] 
Un cenno alla posizione di garanzia, anche in A. Palazzolo, nota (12). Di «dovere di salvaguardia» parla P. Bastia, Assetti organizzativi e scienze aziendali: principi di organizzazione, principi contabili, indici di rilevazione, in Gli assetti organizzativi dell’impresa. Quaderno n. 18, nota (2), 303 ss., 306. 
[21] 
Così, lucidamente, M. Onza, nota (3), 26. 
[22] 
Sul punto, il rinvio è a E. Ginevra – C. Presciani, nota (1), 1218 ss. 
[23] 
In questo senso, per tutti, v. V. Di Cataldo, Assetti organizzativi della società per azioni e adeguatezza. Alcuni profili fin qui un po' trascurati, in Giur. comm., 2024, 250 ss., e E. Ginevra, Tre questioni applicative in tema di assetti adeguati nella s.p.a., in Banca, borsa e tit. cred., 2021, 552 ss. Ma v. P. Benazzo, Gli assetti proprietari e la circolazione delle partecipazioni sociali nel prisma del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Riv. soc., 2023, 8 ss. In senso restrittivo, paiono porsi le Norme di comportamento del collegio sindacale delle società non quotate, Art. 3; in senso più estensivo, tale da ricomprendere anche profili di ordine societario, v. invece il Codice di Autodisciplina, Borsa Italiana S.p.A, 2020, Art. 1 e Art. 6, Principio XVIII. 
[24] 
Sul punto, ancora da ultimo, E. Ginevra, Obblighi e responsabilità nella rilevazione tempestiva della perdita di continuità aziendali ai sensi del CCII, in Dirittodellacrisi.it, 22 luglio 2024. V. anche P. Benazzo, nota (17). 
[25] 
In questo senso, in particolare V. Di Cataldo, nota (23), 6. 
[26] 
Rinvio a P. Benazzo, nota (17), 8 ss. 
[27] 
Così A. Mirone, Assetti organizzativi, riparti di competenze e modelli di amministrazione: appunti alla luce del “decreto correttivo” al Codice della crisi e dell’insolvenza, in Giur. comm., 2022, 183 ss. 
[28] 
Anche per ulteriori riferimenti, rinvio a P. Benazzo, nota (17), 25 ss. 
[29] 
Cfr. A. Mirone, nota (27), 191 ss. e M. Onza, nota (3), 8. 
[30] 
Sul punto si rinvia agli autori di cui alla precedente nota (7). 
[31] 
Così da ultimo A.M. Benedetti, nota (6), 979 ss., ma già prima v. M. Onza, nota (3), a detta del quale «(…) gli “obblighi sugli assetti” sono obblighi il cui inadempimento è reclamabile secondo l’apparato della responsabilità (risarcitoria) degli amministratori e dei sindaci». 
[32] 
Cfr. al riguardo: P. Benazzo, La denunzia al Tribunale di gravi irregolarità e l’adozione di assetti organizzativi adeguati: da prevenzione della crisi a “condizione di esercizio dell’attività d’impresa, in nota a Trib. Catania, 8.02.2023, in Il Fallimento, 2023, 817 ss., cui adde, da ultimo, anche per ulteriori riferimenti, O. Cagnasso, Denuncia di gravi irregolarità e omissione dell’istituzione di assetti adeguati, a commento di Trib. Milano, 29 febbraio 2024, in Società, 2024, 707 ss. V. anche Trib. Milano, 21 ottobre 2019, in Società, 2020, 988, con nota di I. Capelli, Assetti adeguati, controllo dei sindaci e denunzia al tribunale ex art. 2409; Trib Milano, 3 dicembre 2019; Trib. Roma, 8 aprile 2020; Trib. Roma, 15 settembre 2020, in Giur. comm., 2021, II, 1358, con nota di S. Fortunato (nt. 1), oltre a Trib. Cagliari, 19 gennaio 2022. 
[33] 
Per un primo cenno in tale direzione, v. P. Benazzo, La perdita della continuità aziendale quale causa di scioglimento di società per azioni per «sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale» ai sensi dell’art. 2484, co 1, n. 2, c.c., in Società, 2024, 1089 ss., ivi 1099. 
[34] 
Sul tema della responsabilità degli organi societari, da ultimo, per un quadro di ricostruzione sintetica, v. R. Del Porto, Le azioni di responsabilità nei confronti degli organi di amministrazione e controllo delle società di capitali nella giurisprudenza di legittimità più recente, in Ristrutturazioni aziendali, 28 ottobre 2024. 
[35] 
Cfr. P. Benazzo, nota (23), 4 ss., e Id., nota (20), 8 ss. Sul tema, v. anche il lavoro monografico di F. Sudiero, La tutela risarcitoria del socio tra danno diretto e danno riflesso, Torino, 2020, passim. Adde, da ultimo, Trib. Milano, 18 novembre 2021, n. 9505, con esauriente nota non solo di commento di L. Muttini, La responsabilità diretta dell’amministratore di società verso i singoli soci e i terzi: questioni applicative nel prisma della giurisprudenza del Tribunale di Milano, in Resp. civ. e prev., 2022, 5, 1642 ss., ove anche ulteriori riferimenti bibliografici. Ritiene invece che il ricorso all’art. 2395 c.c. costituisca una “prospettiva poco realistica” F. Guerrera, L’espansione della regola di competenza esclusiva degli amministratori nel diritto societario della crisi fra dogmatismo del legislatore e criticità operative, in Riv. Soc., 2022, 1271 ss.,1288 s. 
[36] 
Così M. Onza, nota (1), 8. 
[37] 
In altri termini, si tratterrebbe di una responsabilità da contatto sociale qualificato, in ragione dell’affidamento che la legge verrebbe così a garantire in capo ai soggetti terzi, in buona fede, nel fatto che l’imprenditore operi in coerenza con l’obbligo di aver istituito presidi atti a garantire il rispetto del precetto positivo di protezione nei confronti della generalità dei soggetti operanti sul mercato. Per una siffatta figura, in generale, nella giurisprudenza si vedano, per tutte: Cass., SS.UU., 28 aprile 2020, n. 8236; Cass., 25 luglio 2018, n. 19775; Cass., 12 luglio 2016, n. 14188. Con riguardo al caso specifico dell’obbligo di istituzione di assetti adeguati, in senso contrario, A.M. Benedetti, nota (6), 981, e, seppur dubitativo, M. Onza, nota (3), 28. Con riferimento invece all’art. 2497 c.c. e alla responsabilità da direzione e coordinamento, v. A. Mambriani, Alcune questioni in tema di responsabilità da abuso di direzione e coordinamento nella interpretazione giurisprudenziale, Relazione al Convegno «La riforma del diritto societario nella “giurisprudenza delle imprese”» svoltosi a Milano il 26 novembre 2015V. anche R. Martino, La responsabilità degli amministratori, in Crisi d’impresa e responsabilità nelle società di capitali, a cura di L. Balestra e M. Martino, Milano, 2022, 110 ss. C on riguardo, infine, alla vexata quaestio della concessione abusiva di credito e al ruolo delle banche, v., anche per ulteriori riferimenti, L. Castelli – S. Tina, Concessione abusiva del credito e legittimazione attiva del curatore: il punto della Suprema Corte, in Contratti, 2022, 176 ss., ivi 180 ss., a commento di Cass., 30 giugno 2021, n. 18610. 
[38] 
Sul punto, il rinvio d’obbligo è a altresì A. Palazzolo, nota (12), 323 ss. 
[39] 
Sul tema del rapporto tra banca (finanziatrice) e impresa (debitrice) e sui doveri delle banche nel processo di valutazione del merito creditizio e di affidamento delle imprese, nell’impossibilità di dar conto di tutti i riferimenti, il rinvio è al saggio di E. Andreani, Adeguati assetti ex art. 2086 c.c., valutazione creditizia ed evoluzione della relazione banca impresa, in Ristrutturazioni aziendali, 24 ottobre 2023. Sul punto cfr. altresì S. Ambrosini, Adeguatezza degli assetti, sostenibilità della gestione, crisi d’impresa e responsabilità della banca: alla ricerca di un fil rouge (un’introduzione), in Ristrutturazioni aziendali, 19 maggio 2023, nonché il volume Aa.Vv., Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, a cura di S. Ambrosini, Pacini, 2023, in particolare 289 ss. Adde altresì, con riferimento alle criticità insite nell’attività di erogazione del credito, e sempre per limitarsi alle citazioni essenziali: G. Fauceglia, Riflessioni sulla responsabilità delle banche nel Codice della crisi con particolare riguardo all’abusiva concessione del credito, in Dirittodellacrisi.it, 4 gennaio 2023; F. Baiguera, Concessione abusiva di credito: le riflessioni di un aziendalista, in Ristrutturazioni aziendali, 23 febbraio 2023; L. Castelli - M. Creuso, I recenti orientamenti in tema di concessione abusiva del credito, in I Contratti, 2024, 195 ss.; M. Irrera, L’abusiva concessione di credito ovvero del dilemma del buon banchiere, in Dialoghi di Diritto dell’Economia, Maggio, 2022; R. Del Porto, Brevi note in tema di concessione abusiva di credito, in Ristrutturazioni aziendali, 3 ottobre 2022; S. Delle Monache, Concessione abusiva di credito e legittimazione del curatore, in Il Fallimento, 2021, 1329 ss. 
Da ultimo, rinvio anche a P. Benazzo, Gli adeguati assetti delle imprese e il sistema bancario: tra relazioni fisiologiche e ristrutturazioni finanziarie, in corso di pubblicazione in Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese, a cura di P. Bastia, per i tipi della Giuffré. 
[40] 
Cfr. A.M. Benedetti, nota (6), 979. 

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