Convenzionalmente si può collocare il passato dell’art. 2086 c.c. a partire dalla riforma del diritto societario del 2003, in occasione della quale il dovere di istituzione di assetti organizzativi ha fatto il proprio ingresso nel codice civile, contestualmente – e sul punto si avrà modo di tornare – all’incisivo intervento che quella riforma ha operato anche in tema di codici organizzativi dell’impresa societaria, sostanzialmente emancipati dall’hortus clausus dell’art. 2249 c.c. e dallo statico principio della tipicità delle società e affidati invece all’irruzione – dinamica quanto impetuosa – dei modelli societari: un’irruzione che ancora oggi non pare essersi esaurita, se solo si pensi alle continue ‘innovazioni’ normative in tema di s.r.l. e alle recentissime novità in tema di dematerializzazione delle quote di cui alla legge capitali) [9].
Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2019, anno di entrata in vigore del ccii, il principio della necessità di assetti adeguati non era ignoto all’ordinamento, ma era affermato, per così dire, “di rimbalzo” e per “implicito”, sul piano degli standard operativi degli organi sociali e solo per (i) imprese organizzate in forma di società di capitali a scopo di lucro; (ii) imprese organizzate in forma azionarie e (iii) imprese prevalentemente complesse e di rilevanza pubblica (o perché vigilate o perché quotate).
E infatti il dovere in parola veniva ‘estratto’, a livello di normativa primaria, dall’art. 149, comma 1, lett. c) del Testo unico dell’intermediazione finanziaria (tuif), relativo ai compiti dell’organo di controllo interno di società quotate; dall’art. 2381 c.c., nella suddivisione dei ruoli dei delegati (i quali “curano” l’adeguatezza degli assetti) e del consiglio di amministrazione (il quale “valuta” l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile); dall’art. 2403 c.c., infine, relativo ai compiti di vigilanza (in particolare sull’adeguatezza dell’assetto medesimo) spettanti all’organo di controllo interno di società azionarie. Nonché, a livello di normativa secondaria, sostanzialmente dalle specifiche previsione dettate, per gli enti bancari, dalle Disposizioni di vigilanza della Banca d’Italia.
Con l’art. 375 CCII – e si arriva così al 2019 – il dovere trae origine nell’ambito e in funzione dell’(anticipazione della) crisi d’impresa, ma dalla stessa poi diparte, se è vero che, da un canto, viene allocato in una norma apposita, collocata, come si notava poc’anzi, nella parte relativa alla disciplina generale dell’impresa; nel mentre, dall’altro canto, viene contestualmente modificata la rubrica della norma nella quale il precetto è allocato (che passa, come è noto, dalla «Direzione e gerarchia nell’impresa» a «Gestione dell’impresa»); dall’altro canto ancora, se è vero che il rischio della crisi non costituisce il solo ed esclusivo fine degli assetti, dal momento che, come testimoniato dall’inserimento della congiunzione “anche” nell’art. 2086 c.c., questi ultimi vengono eretti a presidio di tutti i possibili rischi cui potrebbe essere esposta, in ragione della sua natura e delle sue dimensioni, l’impresa stessa. E ciò allorquando, ai fini della previsione, dell’intercettazione e della soluzione, tempestive, della crisi, rimane comunque destinata una norma, distinta e autonoma, contenuta nell’art. 3 del codice della crisi, la quale, a propria volta, si appoggia, nel fare ad esso richiamo, sull’art. 2086 c.c.
Su queste basi, si può ben comprendere e condividere la fondatezza del primo approdo interpretativo cui, come si chiosava in precedenza, la quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza è pervenuta e che, nel ‘nuovo’ art. 2086 c.c., rinviene il passaggio da una mera ipostatizzazione della categoria della diligenza professionale a una codificazione normativa di un’obbligazione a carattere e a contenuto autonomo [10].
In estrema sintesi, l’obbligo di istituzione degli assetti, quale declinazione specifica del più ampio canone generale di corretta amministrazione – tratto dall’art. 2403 c.c. là ove si statuisce che il collegio sindacale vigila sull’osservanza dei principi di corretta amministrazione e, in particolare, sull’adeguatezza e sul concreto funzionamento degli assetti – da valutare (quanto al relativo adempimento) secondo il parametro della diligenza professionale, viene ad essere, con il codice della crisi, identificato e qualificato come un obbligo autonomo, da declinarsi e da adempiersi secondo la correttezza tecnica, ispirata ai parametri di razionalità economica posti dalle scienze aziendalistiche e alla ragionevolezza [11].
Ed è per l’appunto in questo processo che si collocherebbe quella codificazione di un principio già tipizzato cui si faceva riferimento, unitamente all’intervento di un processo di raffinazione della sua portata, in punto sia di elasticità, governata dal principio della proporzionalità rispetto alla natura e alle dimensioni della singola impresa, che di finalità, dovendo l’adeguatezza orientarsi, prognosticamente e proattivamente, secondo una visione forward looking, verso un controllo preventivo e dinamico, oltre che continuo, rispetto ai possibili rischi d’impresa, in termini di accertamento, previsione, intercettazione e gestione, tempestivi.
Sebbene un siffatto approdo segni un rilevante passo, là ove si va a sostituire a un semplice standard una vera e propria rule, la conclusione è che, pur sempre, la portata dell’art. 2086 c.c. rimarrebbe allocata sul solo piano gestorio.
Ed è proprio da questo punto che si potrebbero però prendere le mosse e aprire invece un nuovo e ulteriore scenario, non già sostitutivo o novativo del medesimo, quanto, piuttosto, con esso diatonicamente integrativo: un passo che era quello che si preannunciava in esordio e che, in codesta sede, si vuole, quanto meno, ‘illuminare’.
Sono infatti dell’avviso che diversi sono gli elementi e i fattori che possono (e debbono) venire in ausilio per ipotizzare che l’obbligo di istituzione di assetti adeguati abbia subìto un processo non solo di raffinazione, ma anche di litificazione, di consolidazione: ovverosia, si sarebbe spostato dal piano dell’agire (amministrativo) alla sfera dell’essere (organizzativo) dell’imprenditore, per muovere così da principio di vertice di corretta amministrazione e divenire, anche, un principio di vertice di legittima persecuzione del programma imprenditoriale, affidato a un’impresa non più (e solo) efficiente, quanto invece (anche e prima ancora) sostenibile.
Diversi (e consonanti) sono gli indizi, anche testuali, normativi che si possono cogliere e legare tra loro in una siffatta direzione, ordinabili secondo una scala di rilevanza crescente. Vediamo dunque di passarli in rassegna e di leggerli in chiave sinottica.
Innanzi tutto, va rilevato come l’adeguatezza debba muoversi e articolarsi nella triade degli assetti contabili, amministrativi e organizzativi, lasciando così intendere che la stessa non debba esaurirsi con i soli assetti strettamente ‘aziendali’ ma indirizzarsi a coprire anche profili eccedenti la stretta amministrazione e contabilità ed attinenti, per contro, all’organizzazione complessiva dell’impresa.
Inoltre, non privo di rilievo è anche l’utilizzo del sostantivo “istituzione” che è semanticamente diverso, e più ampio, dei sintagmi “cura” e “valutazione” cui fa ricorso l’art. 2381 c.c., nonché, comunque, anche più rigido (e incisivo) dell’altro termine “adozione” cui fa ricorso l’art. 3, primo co., ccii con riferimento all’imprenditore individuale e alle misure cui quest’ultimo deve fare ricorso per rilevare tempestivamente lo stato di crisi. E infatti, mentre quest’ultimo termine evoca profili di contingenza ed episodicità, istituire reca con sé profili di stabilità, di strutturalità e di procedimentalizzazione [12].
Una pregnanza e una pervasività che si delineano e si corroborano con maggior nitore se solo si pensi alla diversità dei sostantivi utilizzati, rispettivamente, nel D.Lgs. n. 2001/231, ove si parla di «modelli organizzativi», e nell’art. 2086 c.c. ove si utilizza invece l’espressione «assetti organizzativi». Gli uni – i modelli – la cui etimologia e il cui significato portano con sé i concetti di ampiezza e generalità tipici di classi di ipotesi; di astrattezza (si pensi ai modelli matematici), di semplificazione (si pensi ai modelli economici) e di serialità (si pensi ai modelli industriali); gli altri – gli assetti – che si connotano viceversa per i caratteri di specificità, stabilità e ordine. Assetto significa infatti “disposizione ordinata degli oggetti”; nell’aeronautica, esso indica una posizione di equilibrio risultante da forze e reazioni contrastanti. Non a caso, per utilizzare una metafora automobilistica, si fa riferimento, da una parte, ai modelli di autovetture e, dall’altra parte, agli assetti (da gara o altro), secondo cui i modelli stessi possono essere di volta in volta precisamente preparati e configurati.
Ancora – nel riprendere l’ideale percorso sinottico e sempre in ordine crescente – particolare rilevanza assume la, più volte richiamata, collocazione topografica della norma in esame la quale non è inserita nel codice della crisi, non è neppure allocata nel titolo V («Delle società»), Capo I («Disposizioni generali») del Libro V, ma è posta invece nel Titolo II, Capo I, Sezione I delle disposizioni generali dell’impresa.
Una collocazione alla quale si affianca, altresì, una duplice estensione del precetto. In primo luogo, in termini soggettivi, là ove lo stesso afferma un principio che si estende a tutte le ipotesi di imprese nelle quali ricorra una consustanziale dissociazione tra titolarità (dell’impresa) e conduzione (dell’impresa): in questo senso, va infatti letta l’endiadi imprese societarie e collettive utilizzata dall’art. 2086 c.c., le une e le altre caratterizzate, diversamente da quanto accade per le persone fisiche, dall’essere imprese articolate sul principio della divisione del lavoro e della delega di funzioni, le quali, non potendo certo vivere e operare nell’anarchia, necessitano di un’articolazione interna di uffici, competenze e procedure, sia pur governate dalla regola della proporzionalità necessariamente esistente tra le dimensioni dell’impresa e la natura delle attività.
Un principio che, a ben vedere, si estende altresì alle imprese individuali, per le quali il momento organizzativo rimane comunque immanente, per quanto più ‘evanescente’ in ragione dell’immedesimazione tra organizzazione d’impresa e titolarità della stessa: e in questo senso, si può allora cogliere la valenza semantica del primo comma, nonché la sua stretta correlazione con il secondo comma, della norma sopra citata, là ove ribadisce che, nell’impresa individuale, l’imprenditore è il capo gerarchico dell’impresa: ovverosia – e in questo andrebbe rinvenuta la pregnanza della precisazione – quale presidio, primario ed essenziale, per una struttura, sia pur minimale, ordinata e organizzata. Una struttura che, come non per caso ha cura di precisare l’art. 3 ccii, si viene quindi a fondare su misure idonee e non già su assetti, dal momento che nella gerarchia si rinviene il fattore stesso di ordine e di indirizzo [13].
In secondo luogo – nel tornare all’estensione di cui si diceva poc’anzi – in termini funzionali, dacché, come anche in precedenza ricordato, l’istituzione degli assetti non deve leggersi e declinarsi in una chiave esclusivamente “fallimentare”, legata cioè alla sola «crisi» dell’impresa: e ciò lo si deve alla congiunzione “anche” che compare nell’art. 2086 c.c.; e ciò lo si deve dedurre altresì dalla compresenza nell’ordinamento di una norma apposita e specifica dedicata agli assetti, nel contesto (e in funzione) della possibile crisi dell’impresa, vale a dire l’art. 3 CCII [14].
In altri termini, la riaffermazione, nel codice civile, in via testuale della crisi e della possibile perdita di continuità aziendale sta solo a significare (e a richiamarvi l’attenzione in sede di istituzione e di manutenzione degli adeguati assetti su) la centralità del primo cardine essenziale ai fini della sopravvivenza (e dunque della sostenibilità) dell’impresa medesima: infatti, come autorevole dottrina aziendalistica ha da tempo annotato, «è la continuità della gestione che costituisce la condizioni di esistenza dell’azienda stessa» [15].
Altro fattore (sinotticamente) rilevante – in terzo luogo – è costituito dal ruolo della norma in esame, la quale, a ben vedere, si presenta e opera quale “perno strutturale” su cui poggiano altri precetti che, a loro volta, ai diversi livelli di normativa (primaria, secondaria e financo volontaria) ne puntualizzano o ne precisano, alternativamente (i) la ownership, vale a dire la titolarità (e la responsabilità) quanto al procedimento istitutivo; o (ii) la declinazione sul piano dello specifico contesto funzionale.
Quanto al primo punto, sul piano delle norme primarie, si pensi agli articoli 2257, 2380 bis, 2381 e 2475 c.c.; sul quello secondario, si pensi ancora alle Istruzioni di Vigilanza bancaria; e infine, sul piano della Soft Law, il riferimento ultimo va al Codice di Corporate Governance per le società quotate e alle indicazioni su ruolo, doveri e responsabilità spettanti all’organo amministrativo nel quadro di un corretto governo di imprese complesse che fanno ricorso al mercato dei capitali.
Quanto al secondo punto, si pensi all’art. 3 CCII nello statuto speciale della crisi; si pensi al D.Lgs. 6 settembre 2024, n. 125, in tema di relazione di sostenibilità e perseguimento degli obiettivi ESG [16].