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Saggio

Riflessioni sulla responsabilità delle banche nel Codice della crisi con particolare riguardo all’abusiva concessione del credito*

Giuseppe Fauceglia, Professore ordinario di Diritto commerciale presso l’Università degli Studi di Salerno

4 Gennaio 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*L'elaborato riprende, con modifiche, il contenuto della relazione tenuta dall'A. al Convegno "Stagflazione, guerra, pandemia: il Codice della Crisi alla prova dei fatti", tenutosi ad Alba (CN), il 26.11.2022, organizzato dall'Associazione Albese Studi di diritto commerciale, con il patrocinio tra gli altri di Diritto della crisi; lo scritto confluirà in una apposita raccolta degli atti del convegno.
Al lume dei principi e delle regole contemplate dal nuovo Codice, l’Autore si sofferma sui profili di responsabilità delle banche, con particolare riguardo all’evoluzione della tematica cruciale dell’“abusiva concessione di credito”.
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1 . L’evoluzione dell’“abusiva concessione di credito” nel contesto della crisi e dell’insolvenza dell’impresa
Nel contesto della legge fallimentare del 1942, in continuità con le disposizioni del codice di commercio, per quanto riguardava i creditori – intesi nella loro peculiare “soggettività” ed in ragione delle “ragioni” del rapporto obbligatorio – nulla era detto, avendo ad oggetto la disciplina la sola qualità o natura del credito con riferimento alla distinzione tra prelatizi e chirografi. Del resto, nella concezione c.d. “oggettiva” dell’insolvenza, in cui cioè non era possibile altra valutazione se non quella dell’impossibilità di far fronte regolarmente alle assunte obbligazioni, alla valutazione del tribunale, non solo nella sentenza dichiarativa di insolvenza ma pure nel prosieguo della procedura, restava estraneo un esame dedicato a comportamenti esogeni, idonei a produrre o ad aggravare lo stato di insolvenza. Questi profili di “indifferenza” nei riguardi dei comportamenti assunti da qualche creditore nella dinamica evolutiva dell’insolvenza, vennero assoggettati a revisione nel corso degli anni Ottanta dello scorso secolo, sulla scorta dell’evoluzione che aveva interessato la dottrina e la giurisprudenza sul tema della responsabilità civile. Ciò con particolare riferimento proprio al “creditore bancario”, in una prospettiva ascritta ai peculiari obblighi di diligenza del bonus argentarius[1], sulla scorta dei risultati cui era pervenuta la dottrina francese e sull’emergere della qualificazione della “banca” come “impresa”. Come è noto, questa impostazione venne fatta propria, agli inizi degli anni Novanta, dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale “l’imprenditore bancario che, omettendo di porre in essere la gamma di cautele imposte a tutela della corretta erogazione del credito, violi i doveri propri dello status dei soggetti facenti parte del sistema bancario, incorre in responsabilità di natura extracontrattuale; ove poi lo stesso comportamento, risalente al medesimo autore, appaia lesivo pure di clausole contrattuali, che impongono regole di correttezza, l’imprenditore bancario è anche contrattualmente responsabile” [2]. Il tema era, poi, ripreso con riferimento alla responsabilità extracontrattuale della banca in ordine sia all’induzione all’insolvenza che all’aggravamento dello stato di dissesto, rispetto ai quali veniva indicata la prospettiva di tutela dell’imprenditore (con sviluppi sia in sede penale che civile) sia dei creditori, che in tal modo avrebbero visto incidere significativamente la tutela del credito e la stessa garanzia patrimoniale generica sul patrimonio dell’insolvente [3]. In sostanza, la costruzione di obblighi di comportamento dei creditori, nel ciclo dell’impresa che precede l’insolvenza, erano ricostruiti sulla scorta dei principi generali della diligenza professionale, della buona fede e della correttezza, utilizzati nel contesto del sintagma dell’art. 2043 c.c., e fra i creditori peculiare rilievo veniva dato proprio all’impresa bancaria, in ragione di quelle disposizioni rinvenienti nel Testo Unico Bancario che ne avevano attinto la natura, le funzioni e le intrinseche caratteristiche operative, come riassunte nella “sana e prudente gestione” (compendio valorizzato anche nelle successive Istruzioni di Vigilanza, rese dalla Banca d’Italia). 
Veniva, in tal modo, a consolidarsi il principio secondo il quale l’erogazione del credito è qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata, con dolo o con colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economica e finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi, ciò integrando un illecito del soggetto finanziatore, per essere questi venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, così obbligando la banca al risarcimento dei danni, ove dal comportamento in oggetto discenda un aggravamento del dissesto, favorito dalla continuazione dell’attività di impresa. 
Come è noto, le riforme della legge fallimentare antecedenti al Codice della crisi e dell’insolvenza, avevano ritagliato una disciplina riferibile alle banche, limitandosi, però, sostanzialmente ai finanziamenti prededucibili, nel contesto delle cc.dd. procedure negoziali per il superamento della crisi (accordi di ristrutturazione e concordato preventivo). Mentre, nella prassi giudiziaria, veniva progressivamente ad affermarsi la valutazione, in sede di formazione dello stato passivo e conseguenti opposizioni, del contratto di credito in termini di conformità dello stesso al modello legale, nella prospettiva della ricomposta causa del contratto e della conformità a legge delle clausole cc.dd. “economiche” (ad esempio, con riferimento alla pattuizione di interessi anatocistici o usurari, ed ancora al parziale disfavore della “sostituzione” di crediti chirografari con crediti garantiti da ipoteca o pegno, come ritenuti assunti in danno della massa), in uno alla evoluzione della stessa giurisprudenza sulla revocatoria concorsuale delle rimesse, in ciò seguendo percorsi argomentativi ben noti. In sostanza, però, il criterio assunto come riferimento restava pur sempre il “contratto bancario”, nella sua prospettiva negoziale, mentre l’attività bancaria era collocata sullo sfondo, non incisa da valutazioni che avrebbero potuto riguardare lo sviluppo patologico o fisiologico delle operazioni realizzate dalla banca finanziatrice, delle loro caratteristiche e della stessa conformità al modello della “sana e prudente gestione”, nello sviluppo applicativo di altre disposizioni, come quelle derivanti dagli Accordi di Basilea, in tema di corretta valutazione del credito erogato e del merito creditizio. 
E’ opportuno ricordare che questo dibattito, sul crinale della responsabilità della banca per abusiva concessione di credito nel contesto di una evidente crisi (se non insolvenza) dell’impresa, ha subito una battuta di arresto in ragione della giurisprudenza di Cassazione, la quale, proprio per quanto riguarda gli interessi della massa, e la conseguente legittimazione processuale del curatore, richiamando l’assente analogia con l’art. 146 L. fall., aveva escluso che il danno potesse ritenersi prodotto al patrimonio dell’impresa, attribuendo ai soli singoli creditori concorrenti, effettivamente lesi dall’assunto comportamento abusivo della banca, la legittimazione processuale, limitandoli, per altro, di fatto ai soli creditori posteriori all’ausilio finanziario o al finanziamento erogato [4].
Il quadro interpretativo, a primo vedere assistito da una certa “stabilità” discendente dalle sentenze delle Sezioni Unite, comincia, dopo qualche anno, a manifestare qualche “crepa”. Si ricorda una successiva decisione della Suprema Corte, secondo la quale nell’ipotesi di responsabilità della banca convenuta, quale concorrente nell’illecito commesso dall’amministratore della società fallita, “può ritenersi il curatore legittimato ad agire, ai sensi dell’art. 146 L. fall. in relazione all’art. 2393 c.c., nei confronti della stessa banca, quale responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita dall’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore infedele, senza che possa assumere rilievo il mancato esercizio dell’azione anche contro quest’ultimo” [5]. Viene in tal modo, sia pure nel contesto di contrapposte opinioni in dottrina, ad aprirsi uno spazio significativo per le azioni del curatore, sino a pervenire ad altra successiva decisione della Corte di legittimità, la quale, con riferimento ad un giudizio intrapreso dalla curatela nei confronti di amministratori di s.r.l. e delle banche, chiedendone la condanna il solido, ha delineato la diversità della fattispecie rispetto a quella scrutinata dalle Sezioni Unite, ritenendo che la posizione della banca possa essere qualificata alla stregua di quella di un terzo corresponsabile solidale del danno cagionato alla società per effetto dell’abusivo ricorso al credito [6]. Il percorso, però, non poteva ritenersi compiutamente definito, posto che altra sentenza della Cassazione, appena successiva, confermando l’indirizzo delle Sezioni Unite, rigettava la domanda del curatore del fallimento che aveva per oggetto una pretesa risarcitoria contro una banca in quanto responsabile, unitamente all’amministratore di una società fallita, di ricorso abusivo al credito, in mancanza del positivo accertamento di una responsabilità penale concorrente di quest’ultimo organo e del direttore della banca stessa [7]. 
Nel mentre, la giurisprudenza di merito ha riconosciuto, sia prima [8] che dopo [9] il predetto orientamento ammissivo della Corte di Cassazione, la legittimazione del curatore ad agire ai sensi dell’art. 146   L. fall. in relazione all’art. 2393 c.c., nei confronti della banca, laddove la posizione a quest’ultima ascritta sia quella di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte degli amministratori della società, avendo cura di precisare che detta legittimazione sussiste solo allorquando il curatore deduce un danno diretto al patrimonio sociale dell’impresa fallita [10].
Si giunge così, non senza qualche affanno interpretativo, alle più recenti sentenze della Corte di Cassazione [11], le quali, in una compiuta ed articolata ricostruzione della problematica, pervengono alla conclusione che la legittimazione del curatore sussiste nei confronti della banca ai sensi dell’art. 146 L. fall., in caso di concessione abusiva di credito all’impresa. Detta responsabilità viene configurata in concorso con quella degli amministratori, trattandosi del medesimo fatto costitutivo, delineando il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento, in uno al pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale generica[12], nonché si aggiunge che, a tal fine, non è necessario l’esercizio congiunto delle azioni nei confronti degli amministratori e verso il finanziatore, trattandosi di litisconsorzio facoltativo.
In conclusione, pur nello spazio interpretativo aperto da queste ultime sentenze di legittimità, in ordine al concorrente danno subito dai creditori per la perdita della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c., la questione sembra collocarsi pur sempre sul terreno della legittimazione, non affrontando l’ altro e più rilevante profilo, questa volta connesso al danno all’ “attività” dell’impresa, che pare delinearsi, sia pure con qualche fatica, nel nuovo contesto del Codice della crisi e dell’insolvenza. 
2 . Le banche nel Codice della crisi e dell’insolvenza
Diversa pare restare la posizione della banca nel contesto del Codice della crisi e dell’insolvenza, in cui possono individuarsi norme che, sia pure collocate in differenti prospettive, consentono una possibile ricostruzione del sistema.
Innanzi tutto, si tratta di obblighi di comportamento, che assumono particolare rilievo nel procedimento di composizione negoziata della crisi. Così il comma 5 dell’art. 16, il quale richiede che le banche e gli altri intermediari finanziari, i loro mandatari e i cessionari dei crediti sono tenuti a partecipare alle trattative in modo attivo ed informato. Disposto che va completato dalla previsione successiva del comma 6, che impone alle parti coinvolte nelle trattative il dovere di leale collaborazione, di rispettare l’obbligo di riservatezza e di dare riscontro alle proposte e alle richieste (dell’esperto e dello stesso debitore) che i creditori ricevono durante le trattative con risposte tempestive e motivate (obbligo, naturalmente, esteso anche alle banche che risultano coinvolte nelle trattative). Si tratta di obblighi che, sia pure espressamente previsti nel contesto della composizione negoziata della crisi, possono ritenersi configurare o specificare quegli obblighi generali di comportamento che sono indicati per i creditori nell’art. 4, comma 4, del Codice, non a caso collocato tra i “principi generali”[13], sì da consentirne il richiamo anche per tutti gli strumenti (definibili come “negoziali”) di regolazione della crisi e dell’insolvenza. In sostanza, pare che quelli previsti nei citati commi dell’art. 16, altro non siano se non specificazioni del generale dovere dei creditori (nel contesto dei principi generali di correttezza e buona fede) di collaborare lealmente con il debitore, con l’esperto nella composizione negoziata e con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria e amministrativa. Da questo compendìo di “doverosa collaborazione”[14] mi pare poter essere escluso il solo “obbligo di motivazione”, previsto nel 6 comma dell’art. 16, perché, in assenza di un obbligo di tal fatta nella disciplina privatistica del contratto (in cui le parti restano, ovviamente, libere di accettare o meno “la proposta” e addirirttura di “tenere il silenzio”, sia pure nei limiti di un comportamento improntato a buona fede e correttezza), detta (necessaria) “motivazione” può trovare logica spiegazione nello sviluppo concreto delle trattative, tale da assurgere quale “elemento” valutativo della stessa prospettiva di risanabilità dell’impresa e di utile continuazione della stessa (che resta elemento indefettibile del procedimento, rilevante, sin dalle prime fasi, anche nella valutazione fatta dall’esperto). 
Sulle conseguenze connesse all’inadempimento del leale obbligo di cooperazione del creditore (dunque, anche della banca), si sono sviluppate diverse opzioni interpretative, delle quali non si può dare concreto riscontro in questa sede, che hanno ritenuto applicabili, nell’ipotesi di esito negativo delle trattative e di conseguente implosione dell’insolvenza dell’impresa, ora la disciplina della responsabilità precontrattuale ora quella della responsabilità da contatto sociale qualificato, con richiamo conseguente del sintagma della responsabilità contrattuale; non omettendo di considerare che la stessa Relazione al D.L. n. 118/2021, riconosce allo stesso curatore nella sopravventa liquidazione giudiziale, come dipendente dal comportamento assunto dal creditore nel corso delle trattative in violazione dei propri obblighi, l’esperimento dell’azione risarcitoria a tutela degli interessi della massa [15]. 
Altre disposizioni, invece, si riscontrano in una prospettiva più processuale, nel contesto della disciplina del consumatore sovraindebitato e degli altri debitori che si trovano in stato di sovraindebitamento (per la definizione, art. 2, lett. c)) ed accedono al concordato minore. Nel primo e nel secondo caso, il creditore-banca che abbia determinato la situazione di indebitamento o violato il principio di corretta valutazione del c.d. merito creditizio (ai sensi dell’art. 124 bis del Testo unico bancario[16]), secondo i criteri determinativi indicati dal comma 3 dell’art. 68, non può presentare opposizione o reclamo in sede di omologazione per contrastare la convenienza della proposta; mentre l’art. 80, comma 4°, per i concordato minore, con disposizione più generale, prevede che il creditore, anche dissenziente, il quale ha colpevolmente determinato la situazione di indebitamento o il suo aggravamento, non può proporre opposizione in sede di omologa per contestare la convenienza della proposta. Si tratta di “sanzioni” endoprocessuali, che, però, non eliminano la possibilità di ricorrere ad ulteriori rimedi negoziali o risarcitori; ad esempio, si discute se la violazione dell’art. 124 bis Tub possa comportare o meno la nullità del negozio o se dalla sola violazione delle regole di “sana e prudente gestione” possa discendere una responsabilità risarcitoria, specie allorquando si pervenga alla liquidazione controllata. 
Ulteriori disposizioni si riscontrano per i finanziamenti prededucibili autorizzati prima dell’omologazione del concordato preventivo o degli accordi di ristrutturazione dei debiti o in occasione e in funzione della loro presentazione (art. 99) oppure per i finanziamenti prededucibili in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 101), laddove i finanziamenti in oggetto, nel caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale, non beneficiano della prededuzione quando risulti che il ricorso o l’attestazione contengano dati falsi ovvero omettano informazioni rilevanti o quando il debitore ha commesso altri atti in frode ai creditori; nonché quando il curatore dimostri che i soggetti che hanno erogato i finanziamenti, alla data dell’erogazione, conoscevano le circostanze innanzi dette. Invero, qui il riferimento testuale, da considerarsi prevalente, è quello della “conoscenza”, ma non può escludersi che, in ragione della particolare diligenza richiesta al bonus argentarius in tema di erogazione del credito, possa farsi strada un’interpretazione più ampia, sino a ricomprendervi la stessa “conoscibilità”, pur sempre raffrontata, però, ad “indici concreti” individuabili ex ante [17]. Anche in questa ipotesi, si tratta di una “sanzione” endoprocessuale, finalizzata a privare detti finanziamenti del “beneficio” della prededucibilità, ma che non pare escludere fattispecie di responsabilità del finanziatore, connesse al prosieguo dannoso dell’attività di impresa e al conseguente aumento del passivo. 
3 . Le categorie civilistiche della responsabilità della banca alla luce delle disposizioni del Codice della crisi e dell’insolvenza
Ritornando a profili più generali, deve rilevarsi come in questo contesto permangono spazi assai ampi per un ricorso alla fattispecie civilistica della responsabilità della banca, idonea a svilupparsi nel contesto dei diversi strumenti di soluzione della crisi, specie laddove questi si risolvano nella liquidazione giudiziale, in ordine alla quale interferiscono comportamenti assunti in violazione delle regole (generali e specifiche) di diligenza valutativa o di concorso nell’aggravamento, oltre che nella produzione, dell’insolvenza. Permane, in tal caso, comunque la necessità di delineare il perimetro della responsabilità della banca, al fine di evitare che quest’ultima diventi il soggetto di ultima istanza chiamata, sostanzialmente, a rispondere, in uno al debitore, del risultato dell’insolvenza, cui conseguirebbe un altrettanto ingiustificato aggravamento del rischio dell’impresa bancaria, idoneo finanche a pregiudicare il principio di stabilità degli enti creditizi, ritenuto elemento fondante della disciplina di settore.
Pare opportuno premettere che la questione dovrà essere scrutinata in relazione all’ormai riconosciuta prevalenza che il Codice assegna alle ragioni dell’impresa, non solo con riferimento agli accessi agli strumenti di regolazione della crisi. La prevalenza è trasfusa in un principio più generale desumibile in considerazione della tutela dell’attività e dei mezzi impiegati per il suo svolgimento. Non può omettersi di considerare che, proprio in questa prospettiva, si inserisce l’obbligo di comunicazione, espressamente previsto per le banche, dall’art. 25 decies del Codice, a mente del quale le banche e gli altri intermediari finanziari di cui all’art. 106 Testo unico bancario, nel momento in cui comunicano al cliente variazioni, revisioni o revoche degli affidamenti, ne danno notizia anche agli organi di controllo societario, se esistenti (si tratta di comunicazione funzionale alla tempestiva segnalazione dell’organo di controllo prevista dall’art. 25 octies, ai fini dell’anticipata emersione della crisi). Dalla previsione di detto obbligo possono trarsi conseguenze anche in tema di responsabilità della banca: (a) se la predetta comunicazione è prevista come obbligatoria, quale segnalazione di un “terzo qualificato” ai fini dell’anticipata emersione della crisi e alla verifica di sostenibilità del debito, resta altrettanto evidente che non possono, in conseguenza della stessa, essere concesse nuove linee di credito o ulteriori agevolazioni che resterebbero incompatibili (se non nel quadro autorizzatorio previsto per la composizione negoziata dall’art. 25 e per le procedure di soluzione della crisi dai citati artt. 99 e 101) con le variazioni, revisione o revoca degli affidamenti pregressi; (b) di conseguenza, qualora la banca non dovesse dar corso alla comunicazione prevista dall’art. 25 decies, continuando a far credito all’impresa, essa resterebbe responsabile per la condotta assunta. In tal caso, però, occorre una precisazione: se la banca ha assunto la determinazione di revocare gli affidamenti (che già di per sé richiede la segnalazione alla Centrale dei Rischi, con tutte le conseguenze che ne derivano), resta assolutamente illogico che possa disporre ulteriori linee di credito, in tal caso sussisterebbe, con tutta evidenza, un comportamento che potrebbe già di per sé qualificarsi come “abusiva concessione di credito”; nel mentre, nel caso di revisione o variazione delle linee di credito, non collegabili all’insolvenza del debitore, come qualificata alla luce delle norme in tema di segnalazione alla Centrale dei Rischi, potrebbe, in astratto, rinvenirsi uno spazio – limitato, però, dalla stessa disciplina prudenziale – antecedente all’accesso al procedimento negoziale, per la concessione di nuove agevolazioni finanziarie, se giustificate da evidenti ipotesi di risanamento dell’impresa; (c) ulteriore, ma diversa fattispecie di responsabilità, potrebbe rinvenirsi nel caso in cui la banca, in ragione dell’accesso del debitore ad un procedimento di composizione negoziale o ad altro strumento di soluzione della crisi, risolva il contratto di credito o preveda un aggravamento delle condizioni economiche (in violazione delle norme di legge, v., ad esempio, art. 16, comma 5° o l’art. 94 bis).
Restano, però, escluse dal perimetro delineato dalle summenzionate norme, le ipotesi in cui la banca – secondo i modelli delineati dalla giurisprudenza – continui a far credito ad un’impresa in crisi, ritardandone l’accesso agli strumenti di soluzione della crisi o determinando e aggravandone lo stato di insolvenza. Si ritorna, in tal modo, al sintagma rappresentativo dell’”abusiva concessione di credito”, delineato nell’erogazione di un credito effettuato, con dolo o colpa, ad impresa che già si palesi essere una situazione di difficoltà economica e finanziaria, nonché in mancanza di concreta prospettiva di superamento della crisi, laddove il confine tra finanziamento “meritevole” e finanziamento “abusivo” si fonderà sulla ragionevolezza e fattibilità di un “piano aziendale” [18] (in tal senso, può richiamarsi anche il piano attestato di cui all’art. 56). In questo caso, però, la valutazione della situazione dell’impresa non resta più attribuita esclusivamente ad indici desunti dal giudice nel caso concreto, ma va delineata sulla scorta delle definizioni rinvenienti nell’art. 2, lett. a) e nell’art. 3, comma 3°, del Codice, che sia pure dettato per il debitore non può ritenersi estraneo alla valutazione del comportamento di un “terzo qualificato” (come la banca), nonché dalle indicazioni rinvenienti nell’art. 13 (la piattaforma telematica risulterebbe consultabile anche dal soggetto finanziatore), oltre che dalla stringente previsione dello stesso art. 15, che assume la rilevanza della continuità nell’attività dell’impresa nel presupposto temporale ivi indicato; a cui si aggiunge, naturalmente, la necessaria cognizione e valutazione di indici più tradizionali, rinvenienti dai dati aziendali, dalla pendenza di debitorie tributarie risultanti dal c.d. cassetto fiscale, dalla sussistenza di protesti e da iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli o dalle risultanze della Centrale dei Rischi (si tratta di documentazione che la banca deve acquisire o richiedere e che deve essere opportunamente esaminata nella istruttoria del fido). In tal caso, qualora sia stata applicata la necessaria professionalità e diligenza, l’illecito non potrebbe sussistere qualora ex ante la banca, sulla base dei documenti e dei dati acquisiti, ravveda possibili prospettive di superamento della crisi. Sul tema, però, deve registrarsi la differenza con la precedente impostazione, richiamata nel contesto della legge fallimentare, posto che il Codice prevede l’accesso preventivo a strumenti regolatori della crisi, sì che un giudizio valutativo della banca in ordine al superamento dello stato di crisi deve conformarsi proprio ai presupposti di detti strumenti, sì da non essere lasciato (solo) alla mera discrezionalità valutativa di quest’ultima. Inoltre, la violazione delle regole di sana e prudente gestione, come concretizzate nella stessa normativa di Vigilanza, non possono più configurarsi come “mere norme interne”, posto che esse disciplinano anche l’esercizio dell’attività bancaria, e come tali restano rilevanti pure in ordine alla posizione del “cliente”, che con la banca stessa conclude contratti di credito, nonché dei “terzi”[19].
Ora, a parte singolari decisioni che assumono la illiceità, per violazione di norme di ordine pubblico, con riferimento a finanziamenti, da qualsiasi soggetto provenienti, ad imprese insolventi[20], non vi è dubbio che l’ampia gamma di soluzioni offerte all’imprenditore per far fronte alla crisi possa, in qualche modo, aver messo in discussione il risultato cui è pervenuta anche la recente giurisprudenza di Cassazione. In sostanza, è stato da questa ritenuto che “non integra una concessione abusiva di credito la condotta della banca che, al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi di impresa abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi”. E’ indubbio, infatti, che il complesso di norme volte all’emersione anticipata della crisi spostano “in avanti” il processo valutativo, nel senso che la sussistenza dei presupposti per accedere già in via preventiva ad una composizione negoziata della crisi e in assenza di qualsiasi iniziativa assunta dal debitore, il perimetro valutativo, riconosciuto alla banca dalla predetta giurisprudenza, finisce per restringersi, non potendo essere affidato esclusivamente alla discrezionalità di quest’ultima. Pare, in sostanza, che la “curvatura” da imprimere alla gestione dell’impresa ponga, anche con riferimento al tema qui esaminato, una qualche più compiuta riflessione. Se la gestione dell’impresa che si svolge nell’esclusivo interesse prioritario dei creditori si intende parametrato alla pendenza dei vari strumenti di soluzione della crisi e dell’insolvenza, in una graduazione conformativa progressivamente più intensa in ragione dell’approssimarsi di fenomeni che manifestano l’insolvenza, non vi è dubbio che il comportamento richiesto per l’imprenditore dal novellato art. 2086 c.c. e per gli amministratori dalle norme di cui agli artt. 375 e 377 del Codice, non possono limitare i principi protettivi esclusivamente in capo a questi soggetti, non escludendo il possibile comportamento causale del danno qualora un “terzo” contribuisca, sia pure nel preesistente difetto di un adeguato assetto organizzativo, in modo determinante ad impedire la rilevazione tempestiva della crisi, consentendone il rinvio o favorendo il suo aggravamento. Se gli obblighi di adeguato assetto organizzativo competono esclusivamente all’imprenditore, nulla esclude la compartecipazione di un “terzo” – specie se qualificato, in ragione dell’attività esercitata, come è la banca – in relazione al “fatto” determinativo del danno, allorquando, nella istruttoria del credito, non siano stati analizzati dati di immediata rilevanza. In tal caso, pare rilevante che la tutela apprestata non resti limitata solo ed esclusivamente alla posizione degli altri creditori, quanto a quella dell’impresa, nella delineata prognosi di un’utile continuazione dell’attività.
4 . Conclusioni
In questa prospettiva, in uno agli ulteriori “spunti” interpretativi che emergono dal Codice della crisi e dell’insolvenza, nonché dalle prospettive delineate dalla stessa giurisprudenza [21], può trarsi la convinzione che l’ordinamento giuridico in materia concorsuale abbia ormai attribuito al curatore la legittimazione ad agire non solo o non più nell’interesse della massa indistinta dei creditori, ma anche a tutela dell’“impresa” e del valore intrinseco dell’organizzazione aziendale. Del resto, ciò resterebbe confermato dalla “centralità” che all’ “impresa” è stata attribuita dalle norme del Codice, nonché dal diverso atteggiarsi della garanzia patrimoniale rispetto alla collettività dei creditori, nel passaggio dalla fase fisiologica a quella patologica della crisi, sì da confortare l’opinione che vuole ampliate le possibilità che il curatore si sostituisca ai creditori [22]. Questo “nuovo orizzonte”, di rilievo sistematico, consente, da una parte, di superare quelle resistenze o quelle limitazioni alla legittimazione del curatore ad esperire le azioni risarcitorie a fronte della concessione abusiva di credito, e, dall’altra, a considerare con maggiore ampiezza il concorso della banca alla produzione del danno all’ “attività”, nel presupposto esplicativo di cui innanzi si è cercato di dare conto. 

Note:

[1] 
A. Nigro, La responsabilità della banca per concessione abusiva di credito, in Giur. comm., 1978, I, 219 ss.; A. Borgioli, Responsabilità della banca per concessione “abusiva” di credito, in Giur. comm. 1981, I, 287 ss.; F. Galgano, Civile e penale nella responsabilità del banchiere, in Contr. impr., 1987, 20 ss.; G. Franchina, La responsabilità della banca per concessione “abusiva” di credito, in Dir. fall., 1988, I, 657 ss.
[2] 
Cass. 13 gennaio 1993, n. 343, in Banca, borsa e tit. cred., 1994, II, 258 ss., con note di N. Marzona, Lo status (professionalità e responsabilità) dell’impresa bancaria in una recente sentenza della Cassazione; e di A. Perrone, Presentazione dell’assegno all’incasso e obblighi della banca trattaria; ma pure Cass. 8 gennaio 1997, n. 72, in Banca, borsa e tit. cred., 1997, II, 653, con nota di C. Scognamiglio, Ancora sulla responsabilità della banca per violazione degli obblighi discendenti dal proprio status
[3] 
L’ipotesi di responsabilità della banca per concessione abusiva del credito, nell’evoluzione che ha il tema conosciuto, negli anni immediatamente successivi alla sentenza della Cassazione, in dottrina, non può essere ricostruita in questa sede, rinviando, senza alcuna pretesa di essere esauriente a: G. Fauceglia, I contratti bancari, in Trattato di diritto commerciale. diretto da Buonocore, Torino, 2005, 246 ss.; B. Inzitari, La responsabilità della banca nell’esercizio del credito, abuso nella concessione e rottura del credito, in Banca, borsa e tit. cred., 2001, I, 265 ss.; A. Castiello D’antonio, La responsabilità della banca per “concessione abusiva di credito”, in Dir. fall., 2002, I, 1077 ss.; per una completa ricostruzione della problematica: A. Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004, passim.
[4] 
Cass. Sez. Un. 28 maggio 2006, n. 7029; Cass. Sez. Un., 28 maggio 2006, 7030 in Dir. fall., 2006, II, 615 ss., con note di L.A. Russo, Legittimazione del curatore per “abusiva” concessione di credito, e di G. Nardecchia, L’abusiva concessione di credito all’esame delle sezioni unite; in Corriere Giuridico, 2006, 643 con nota di G. Fauceglia, Abusiva concessione di credito e legittimazione attiva del curatore: intervengono le Sezioni Unite; in Il Fall., 2006, 1125, con nota di C. Esposito, La legittimazione del curatore fallimentare all’esercizio della azione danni per abusiva concessione di credito: una breve analisi dei percorsi possibili; e Cass. Sez. Un., 28 maggio 2006, 7031, in Dir. fall., 2007, II, 195, Sul tema, S. Fortunato, La concessione abusiva di credito dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Il Fall., 2009, 65 ss.
[5] 
Cass. 1 giugno 2010, n. 13413, in Foro.it., 2011, I, 856; in Giur. it., 2011, 109, con nota di M. Spiotta, Concessione abusiva di credito (con qualche riflessione a latere sull’art. 48 della c.d. “manovra correttiva estiva”); per una ricognizione della problematica: F. Di Marzio, L’abuso nella concessione di credito, in Contr. impr., 2015, 319 ss..
[6] 
Cass. 20 aprile 2017, n. 9983, in Dir. fall., 2017, II, 978; sulla sentenza, B. Inzitari, Il curatore è legittimato all’azione di responsabilità verso gli amministratori e la banca per abusiva concessione di credito e aggravamento dello stato di dissesto, ibidem, I, 720 ss.
[7] 
Cass. 12 maggio 2017, n. 11798, in Il Fall., 2017, 905 ss., con nota di G. Tarzia, La Cassazione torna sul tema dell’azione risarcitoria per “concessione abusiva di credito” che abbia ritardato la dichiarazione di fallimento; L. Balestra, Concessione abusiva del credito e legittimazione del curatore: sulla non facile delimitazione perimetrale, in Il Fall., 2017, 1157.
[8] 
Trib. Monza, 12 settembre 2007, in Danno e responsabilità, 2008, 1159.
[9] 
Trib. Prato, 15 febbraio 2017, in Giur. comm., 2018, II, 236, con nota di A. Jorio, Concessione abusiva di credito, fallimento, responsabilità della banca e legittimazione del curatore; Trib. Milano, 22 maggio 2017, in Ilfallimentarista.it.
[10] 
In tal senso, si ritiene che il curatore abbia dedotto un danno che, avendo come presupposto l’aggravamento del dissesto e non la dichiarazione di fallimento, come tale ritenendolo già presente nel patrimonio della società fallita: Trib. Piacenza, 7 ottobre 2008, in Ilcaso.it; Trib. Milano, 26 febbraio 2016, in www.ilsocietario.it.
[11] 
Cass. 30 giugno 2021, n. 18610; Cass. 14 settembre 2021, n. 24725, in Giur. comm., 2022, II, 1094 ss., con nota di I. D’anselmo, Due sentenze sulla concessione abusiva.
[12] 
Cass. 30 giugno 2021, n. 18610, cit., che, sulla scorta di una puntuale ricostruzione della problematica, ritiene che se è vero che il curatore non è legittimato all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione di credito quale strumento di reintegrazione del suo patrimonio singolo, “tuttavia la situazione muta, ove si prospetti un’azione a vantaggio di tutti i creditori indistintamente, perché recuperatoria in favore dell’intero ceto creditorio di quanto sia andato perduto, a causa dell’indebito finanziamento, del patrimonio sociale, atteso che il fallimento persegue, appunto, l’obiettivo del meglio soddisfacimento dei creditori nel rispetto della par condicio. Si tratta di un danno al patrimonio della impresa, con la conseguita diminuita garanzia patrimoniale della stessa, ai sensi dell’art. 2740 c.c., scaturita dalla concessione abusiva del credito, che abbia permesso alla stessa di rimanere immeritatamente sul mercato, continuando la propria attività ed aumentando il dissesto, donde il danno riflesso a tutti i creditori”, con ciò superando la distinzione tra creditori che avevano già contratto con la società prima della concessione di credito e creditori che abbiano contratto con la società a seguito di quest’ultima. 
[13] 
Sul tema: G. D’attorre, I principi generali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Studi sull’avvio del Codice della Crisi. Diritto della Crisi, Speciale a cura di L. De Simone, M. Fabiani e S. Leuzzi, settembre 2022, 6 ss.; R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento, 2022, 589 ss. (specie 598-600).
[14] 
Di cui potrebbe darsi conto anche nella prospettiva della “solidarietà”, come valore inespresso di alcune regole specifiche”, sul tema, in generale, v. M. Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nella gestione delle crisi d’impresa, in Fallimento, 2022, 9.
[15] 
In un orientamento della giurisprudenza, che ha riconosciuto la legittimazione del curatore a far valere la responsabilità di terzi per fatti anteriori e colpevolmente causativi dello stato di insolvenza: Cass. 15 giugno 2020, n. 11596, in www.jusexplorer.it; Cass. 10 gennaio 2005, n. 292, in Giust. civ., 2005, I, 1515; Cass. 19 settembre 2000, n. 12405, in Il Fall., 2001, 669. 
[16] 
Sul tema, senza alcuna pretesa di completezza, v. R. Santagata, La concessione abusiva del credito al consumo, Torino, 2020, passim.
[17] 
Sul tema v. S. Bassi, La illusione della prededuzione, in Giur. comm., 2011, I, 348 ss.
Conclusioni 
In questa prospettiva, in uno agli ulteriori “spunti” interpretativi che emergono dal Codice della crisi e dell’insolvenza, nonché dalle prospettive delineate dalla stessa giurisprudenza [21], può trarsi la convinzione che l’ordinamento giuridico in materia concorsuale abbia ormai attribuito al curatore la legittimazione ad agire non solo o non più nell’interesse della massa indistinta dei creditori, ma anche a tutela dell’“impresa” e del valore intrinseco dell’organizzazione aziendale. Del resto, ciò resterebbe confermato dalla “centralità” che all’ “impresa” è stata attribuita dalle norme del Codice, nonché dal diverso atteggiarsi della garanzia patrimoniale rispetto alla collettività dei creditori, nel passaggio dalla fase fisiologica a quella patologica della crisi, sì da confortare l’opinione che vuole ampliate le possibilità che il curatore si sostituisca ai creditori [22]. Questo “nuovo orizzonte”, di rilievo sistematico, consente, da una parte, di superare quelle resistenze o quelle limitazioni alla legittimazione del curatore ad esperire le azioni risarcitorie a fronte della concessione abusiva di credito, e, dall’altra, a considerare con maggiore ampiezza il concorso della banca alla produzione del danno all’ “attività”, nel presupposto esplicativo di cui innanzi si è cercato di dare conto.
[18] 
Così Cass., 30 giugno 2021, n. 18610, cit.
[19] 
Sul tema, con ampi riferimenti, ancora: Cass. 30 giugno 2021, n. 18610, cit, secondo cui “dal sistema normativo nel suo complesso emerge la rilevanza primaria per l’ordinamento dell’obbligo di valutare con prudenza, da parte dell’istituto bancario, la concessione di credito ai soggetti finanziati, in particolare ove in difficoltà economica”, onde la responsabilità alla stregua della diligenza professionale dovuta ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2082 c.c.
[20] 
Il tema è rimasto rilevante in sede di opposizione a stato passivo: Trib. Vicenza, 19 maggio 2022, in www.ilcaso.it; Cass. 5 agosto 2020, n. 16706, in Banca, borsa e tit. cred., 2021, II, 503, con nota di A. Tina, Nullità del contratto di finanziamento per violazione dell’art. 217 l. fall. e irripetibilità delle relative prestazioni per contrarietà al buon costume (art. 2035 c.c.); in Fallimento, 2021, 503, con nota di S. Delle Monache, Buon costume e fallimento; in Giur. comm., 2021, II, 528, con nota di M. Martino, Soluti retentio ex art. 2035 c.c. e finanziamento all’impresa in crisi in danno dei creditori. Le sentenze richiamano il tema della nullità ex art. 1418 c.c., evidenziando il disvalore, sociale oltre che giuridico, del contratto di finanziamento ad un’impresa in dissesto, che si inserisca, ritardandolo, nell’iter organizzativo e di progressione delle proprie scelte, già incidenti come doveri giuridici specifici a carico dell’imprenditore, di richiedere senza indugio il proprio fallimento o comunque di non espandere la dimensione della propria insolvenza mediante operazioni dilatorie, versando così in grave colpa.
[21] 
Ne offre ampio e ragionato resoconto M. SPIOTTA, Le “azioni di massa” dopo il D.Lgs. n. 83/2022: un aggiornamento del catalogo o un ripensamento del significato del sintagma ?, in Judicium, settembre 2022, 318 ss.
[22] 
M. Spiotta, op. ult. cit., 334.

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