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Saggio

Adeguati assetti e business judgment rule*

Vincenzo De Sensi, Professore di diritto della crisi d'impresa presso la Luiss "Guido Carli"

16 Aprile 2021

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Nel definire la portata della business judgment rule in relazione al potere organizzativo degli amministratori, bisogna considerare il sistema di allerta ed i doveri che ne discendono. L’Europa ha contribuito a far nascere il nuovo concetto di governance della crisi, partendo dalla “rescue culture” e dalla sollecitazione per la prevenzione. Guardando al futuro sistema di allerta interno, risulterà sempre più centrale la funzionalità degli assetti e quindi una valorizzazione in questo senso dei doveri di cura, vigilanza e verifica della loro adeguatezza e funzionalità da parte degli organi di amministrazione e controllo. La governance della crisi trova dunque nel diritto societario l’originaria fonte di disciplina e nel potere gestorio degli amministratori il concreto strumento operativo. L’analisi svolta mira dunque a considerare la business judgment rule tenendo presenti non solo i criteri di legittimità e ragionevolezza delle scelte organizzative degli amministratori, ma appunto anche la loro funzionalità rispetto alla tempestiva emersione degli indicatori di crisi. E questo guardando alle ricadute possibili sulla impostazione della responsabilità gestoria. 
Riproduzione riservata
1 . Potere organizzativo e business judgment rule: una questione da valutare alla luce della prevenzione della crisi
Nel 2000 veniva pubblicato un lavoro di Kraakman e Hansmann dall’eloquente e sfidante titolo “The End of History for Corporate Law” [1]. In questo titolo era rappresentato in estrema sintesi l’assunto secondo il quale il diffuso consolidarsi della finalizzazione dell’agire degli amministratori nell’esclusivo interesse dei soci (c.d. shareholder - oriented model) avrebbe di fatto determinato la fine di ogni questione intorno alla corporate governance.  Le vicende economiche e le loro esigenti richieste di presa d’atto da parte degli studiosi hanno in realtà rivitalizzato questo dibattito, dischiudendo quella che sembrava una fine verso nuovi orizzonti di pensiero e di analisi. Di questo, possiamo dire, è un sintomo l’attenzione che oggi si presta agli adeguati assetti la cui rilevanza non è più solo limitata alla c.d. internal governance, ovvero a tutti quei sistemi ed apparati gestori che consentono agli amministratori di trasmettere a livello operativo le loro linee strategiche, ma investe proprio le modalità, i processi, le informazioni sottese alla governance societaria nella sua dimensione strategica ed apicale.
Sappiamo che nell’ottica della prevenzione gli assetti assumono, ed assumeranno ancor di più con la riforma Rordorf, una valenza funzionale importante. Tale da poter sostenere che la disciplina della crisi tende a influenzare la governance societaria in termini sino a qualche tempo fa impensabili nel nostro sistema societario civilistico. Questo dato, che in verità era già presente nei dibattiti dottrinali soprattutto anglosassoni [2], rappresenta un ancoraggio importante per la nostra riflessione e per delineare i contorni della questione della business judgment rule (solo per brevità anche rule [3]) per le opzioni organizzative.
Si tratta di una questione che è stata affrontata partendo dalla disciplina della responsabilità amministrativa delle società e degli enti [4], di cui al noto D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, e che è stata di poi estesa a considerare le scelte organizzative degli amministratori secondo la previsione di cui all’art. 2381 c.c. Guardando alla crisi ed al sistema di allerta, emerge oggi un ulteriore profilo che riguarda l’atteggiarsi di questa rule rispetto agli assetti aventi la funzione di rilevare tempestivamente la crisi e la perdita di continuità aziendale.
Nell’avviare le riflessioni sul punto partiremo dalla constatazione che l’attenzione per gli assetti si colloca in un contesto di motivazioni ampie ed articolate sulle quali inizialmente ci soffermeremo, per poi verificare se e in quali termini le scelte sugli assetti per la prevenzione possano essere coperte da questa rule.
2 . Il contesto in cui è maturata la rinnovata attenzione per gli adeguati assetti
Al dato di fondo legato alla tempestiva emersione della crisi, si aggiungono ulteriori ragioni di valorizzazione degli assetti.
In primo luogo, non può sottacersi il significativo cambio di passo proprio sul versante dell’interesse sociale che deve essere perseguito dagli amministratori. Di immediata rilevanza, seppure riferito alle quotate, è il nuovo Codice di Corporate Governance di gennaio 2020 che afferma, tra i principi di fondo, quello in base al quale gli amministratori devono perseguire il c.d. “successo sostenibile” dialogando anche con tutti quegli altri interessi che ruotano intorno alla impresa e che si riferiscono appunto agli stakeholders [5]. L’incidenza di questa nuova visione sulla governance e sugli adeguati assetti risiede nel fatto che l’interesse sociale, così inteso, necessita di continue istruttorie, di circolazione di informazioni, di monitoraggio del rischio, di modalità di decisione in grado di portare in Cda le varie istanze in gioco per arrivare, in un momento di sintesi, a cogliere qual è l’interesse sociale (sostenibile) da “ricercare” [6] e perseguire in un dato momento. E questo peraltro conduce alla rilevanza della continuità aziendale senza la quale evidentemente non potrà esserci realizzazione (e prima ancora ricerca) di alcun interesse sociale. La coerenza, la ragionevolezza e logicità delle decisioni del Cda dipenderanno quindi anche dalla qualità e dalla efficienza di questa organizzazione [7].
In secondo luogo, si è nel tempo - e vieppiù oggi - constatato che il dibattito sulla governance non è condizionato soltanto dai tradizionali riferimenti alla struttura proprietaria della società, al mercato dei capitali ed alla cultura imprenditoriale e degli affari radicata in un determinato sistema, ma sta sempre più operando su di essa la sollecitazione del c.d. rischio operativo e la sua gestione, sia nel momento di assessment che di treatment [8]. 
Su questo versante la maturazione in Europa della c.d. “rescue culture” è stata determinante nel creare un innovativo ponte tra governance e crisi [9]; a tal punto da poter declinare un nuovo concetto di governance della crisi o di diritto societario della crisi (di fatto già acquisito nel mondo anglosassone con il termine  Corporate Bankruptcy Law [10]).
In terzo luogo il diritto societario ha iniziato ad interessarsi alle conoscenze aziendalistiche [11] e manageriali non più declinate semplicemente e genericamente come criteri di buona e corretta amministrazione, ma sempre più attente alla dinamica della funzione finanziaria, della sua incidenza e coordinazione con la gestione societaria in rapporto proprio alla costante verifica delle condizioni di automantenimento sul mercato.
Queste sollecitazioni, che andremo ad analizzare nel prosieguo del nostro ragionamento, consentono in primissima battuta di affermare che il tema degli assetti non si presenta oggi all’improvviso, ma ha avuto una evoluzione nel tempo segnata nel suo avvio iniziale proprio dalla riforma societaria del 2003 ed innestata nel più ampio dibattito dei doveri e dei poteri gestionali degli amministratori e delle relative modalità operative in relazione al perseguimento dell’interesse sociale.
Soffermiamoci dunque su queste sollecitazioni per coglierne i profili di rilevanza per la nostra analisi.
3 . L’interesse sociale
Consapevoli della complessità delle questioni sottese all’interesse sociale, non possiamo che optare per un metodo espositivo per necessità sintetico che guarda principalmente alle società di capitali. Prendiamo dunque le mosse da un dato di partenza, ovvero la sensibilità per l’impresa societaria e la sua organizzazione che indubbiamente ha integrato un marcato tratto di caratterizzazione della riforma del 2003 [12]. In quella importante riforma fu inoltre recepita la necessità di agevolare l’afflusso di risorse finanziarie all’impresa capitalistica portando il nostro sistema ad un maggiore livello di sofisticatezza nella sempre più prepotente era della globalizzazione. Questa nuova sensibilità ha in effetti consentito di creare un importante collegamento con la crisi, e la sua gestione, laddove appunto questa ha spostato il suo baricentro dal patrimonio all’impresa appunto. Del resto, non è un caso, che i recenti studi sulla crisi si sono concentrati proprio sui doveri degli amministratori rispetto all’impresa e quindi alla complessità degli interessi che intorno ad essa ruotano [13].
Andando a cogliere un dato per noi rilevante, ci sembra degna di nota proprio quella dottrina che si è esposta nel senso di ricostruire l’interesse sociale in termini procedimentali [14]. Se si parte dal dato normativo si può cogliere appieno questo aspetto laddove ad esempio il codice assegna in via esclusiva agli amministratori il dovere di gestire la società e quindi di attuare l’oggetto sociale nella sua portata programmatica e strategica. La navigazione, per così dire, della navicella societaria nei cangianti contesti di mercato e finanziari, porta con sé l’esigenza di continui adattamenti, cambiamenti di rotta, rettifiche, analisi, studi etc. che confluiscono - e defluiscono - a livello apicale proprio al e dal Cda. Da qui dunque la necessità della procedimentalizzazione nella individuazione sintetica dell’interesse sociale da perseguire in un dato contesto.
Gli amministratori sono quindi chiamati a realizzare – nei termini anzidetti – l’interesse sociale concreto e non come se fosse un ideale astratto, una sorta di idolo capitalistico a cui tributare onori e sacrifici. A ciò si aggiunge inoltre il dovere di monitorare e garantire, per lo meno nel breve-medio periodo, la continuità aziendale che, potremmo dire, è una precondizione per poter realizzare l’interesse sociale. In ogni caso il richiamo a cui si è accennato al c.d. “successo sostenibile” implica, seppure riferito alle quotate, questa rilevanza per la continuità aziendale e appunto per la sua sostenibilità in un ragionevole e proporzionato rapporto costi – benefici.
Pertanto, l’attenzione degli organi di amministrazione alla continuità aziendale deve tener conto di questa dinamica, posto che appunto la continuità, prima ancora di essere un criterio di redazione del bilancio, ex art. 2423 bis c.c., è un requisito esistenziale [15] – se così possiamo dire – che passa appunto attraverso i momenti di governo finanziario ed equilibrio economico dell’impresa [16]. Questo emerge ad esempio con una certa evidenza dalla lettura dei principi ISA 570 di revisione contabile. 
In particolare, il paragrafo 2 assume la continuità aziendale quale presupposto della redazione del bilancio, ma precisa che essa consiste nella capacità dell’impresa “di continuare a svolgere la propria attività in un prevedibile futuro” e quando l’utilizzo di tale presupposto è corretto, il suddetto paragrafo prosegue nel senso che “(…) le attività e le passività vengono contabilizzate in base al presupposto che l’impresa sarà in grado di realizzare le proprie attività e far fronte alle proprie passività durante il normale svolgimento dell’attività aziendale.” È poi interessante notare che, secondo quanto previsto nel paragrafo A2 di questi principi, tra le circostanze che possono far sorgere dubbi sul presupposto della continuità aziendale vengono evidenziati proprio quelli che consideriamo indici di allerta, tra cui appunto il deficit patrimoniale o il capitale circolante negativo per poi passare agli indici più propriamente legati alla funzione finanziaria tra cui lo squilibrio tra fabbisogno e risorse finanziarie [17].
Sempre in un’ottica di approfondimento, troviamo rilevante il principio OIC 11 (Organismo Italiano di Contabilità) che sottolinea la centralità della “valutazione prospettica” in ordine alla capacità dell’azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito, per un prevedibile arco temporale futuro, che viene indicato, in questo caso, in dodici mesi.  
Nel caso in cui vengano evidenziate delle incertezze occorrerà dare conto nella nota integrativa delle informazioni relative ai fattori di rischio nonché dei piani aziendali per farvi fronte.
Emerge quindi da questo principio non solo la rilevanza di una valutazione prospettica,  che assume una ragionevole attendibilità a seguito di un attento, puntuale e prudente vaglio delle informazioni disponibili, ma anche l’importanza a questo fine della pianificazione degli interventi da adottare: pianificazione che ricorda molto il contenuto dell’art. 2381 c.c., dal momento che la predisposizione tempestiva degli interventi correttivi dei fattori di crisi presuppone l’attitudine del management quantomeno a pianificare criteri di azione [18].
La declinazione dell’interesse sociale in termini procedimentali, è quindi condizionato dall’esame consapevole ed informato di tutte le variabili in un determinato contesto operativo, nonchè la sua visione concreta condizionata dall’attenzione per la continuità aziendale, sono tutti fattori di valorizzazione della ormai imprescindibile funzione degli adeguati assetti.
4 . La rescue culture. La rilevanza della Direttiva Insolvency
La diffusione a livello dell’Unione Europea di una cultura economica e giuridica attenta alla gestione del rischio imprenditoriale ed alla prevenzione delle crisi aziendali, rappresenta un dato rilevante di assoluta novità [19]. L’impatto di questa visione sul nostro sistema è da subito parso significativo, ove si osservi che la percezione del rischio di crisi e delle sue conseguenze giuridiche è sbilanciata troppo in avanti alla luce del combinato disposto degli artt. 2446 e 2447 c.c.. Anche qui il vivace dibattito sulla funzione del capitale legale [20] e della sua attitudine a rappresentare il riferimento contabile per stabilire l’entità della crisi aziendale, è una chiara evidenza della sua progressiva inidoneità a sollecitare interventi di prevenzione.
Piuttosto, guardando al futuro sistema di allerta, ed in particolare a quello interno, si può notare come un pronto intervento per prevenire la crisi dipenda da altri indicatori ed indici [21], c.d. appunto di allerta, che sollecitano gli organi di amministrazione e controllo ad adottare adeguate misure.
Si nota quindi sotto questo profilo la chiara spinta verso l’efficienza degli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, a tal punto che – come noto – la riforma Rordorf [22] ha già inciso su una norma di portata generale, quella di cui all’art. 2086 c.c.
Questa norma pone una diretta funzionalizzazione degli assetti alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale. Se ne può dunque ricavare il corollario che il monitoraggio della continuità aziendale deve essere costante da parte degli organi di amministrazione e controllo, e non può certo essere confinato al solo momento della registrazione delle perdite di capitale.
D’altro canto non poteva essere diversamente nella misura in cui è stata prestata attenzione alla eziologia della insolvenza. Si ricorderà che le impostazioni tradizionali sulla insolvenza le hanno riconosciuto una rilevanza in sé, senza prestare attenzione al processo di deterioramento economico- patrimoniale che la precede [23]. Vi era senza dubbio una ragione in questo: evitare che l’accertamento della insolvenza – vista solo come presupposto del fallimento – potesse essere condizionato da nozioni aziendalistiche e potesse quindi complicare o ritardare la dichiarazione di fallimento.
E' da ritenere che questa visione sia ormai superata, anche per le sollecitazioni provenienti dal contesto europeo, e per la sempre più acquisita consapevolezza che l’insolvenza non è solo un presupposto per l’apertura di una procedura, ma è la manifestazione ultima del rischio insito nell’attività di impresa la cui rilevanza va colta in tutti quei gradi intermedi di perdita economica, patrimoniale ed in ultima fase di deterioramento finanziario il cui monitoraggio potrebbe consentire interventi precoci da parte degli amministratori.
Anche qui dunque si percepisce la spinta verso la valorizzazione degli assetti e della loro relazione funzionale con la tempestiva emersione della crisi.
I considerando n. 17, 22 e 24 tra gli altri, della Direttiva Insolvency sono al riguardo eloquenti laddove auspicano che gli Stati membri adottino uno o più strumenti di allerta precoce per incoraggiare i debitori, che cominciano ad avere difficoltà finanziarie, ad agire in una fase precoce, quando sembra probabile che l’insolvenza possa essere evitata e la sostenibilità dell’attività assicurata. Si registra quindi una incentivazione ad agire precocemente che implica l’obbligo di adottare adeguati assetti organizzativi [24].
E questo, va detto, non solo nella prospettiva di rendere più efficienti le procedure di risanamento o ristrutturazione dell’impresa, ma – potremmo dire in una visione macroeconomica – di assicurare la formazione del mercato unico in Europa, l’esercizio delle libertà fondamentali tra cui quella di circolazione dei capitali, nonché ridurre l’accumulo di crediti deteriorati, come appunto sottolinea la stessa Direttiva.
Le profonde crisi economiche ancora in atto, la loro sempre più ravvicinata ciclicità, e l’impatto finanziario in grado di generare, hanno convinto circa una visione di sistema della disciplina della crisi di impresa. Si potrebbe dire che come la riforma societaria è stata motivata da esigenze di modernità nella struttura finanziaria societaria, così la riforma della crisi si pone rispetto al sistema finanziario e di mercato come importante presidio di stabilità.
Non può dunque sfuggire la rilevanza degli adeguati assetti in questa nuova visione di politica legislativa.
5 . La specificazione e l’arricchimento dei criteri di corretta amministrazione
Si può affermare che l’obbligo di adottare adeguati assetti sia una specificazione del dovere generale di corretta amministrazione [25]. Sappiamo che il richiamo alla corretta amministrazione sia diffuso nel codice civile e rintracciabile in diverse norme: l’art. 2403, comma 1, sui doveri dei sindaci; l’art. 2391 bis con riguardo alle operazioni con parti correlate; l’art. 2497, comma 1, nella configurazione della eterodirezione abusiva. Ai fini della nostra riflessione rileva l’art. 2403, comma 1, c.c. la cui impostazione letterale è in questo senso indicativa, laddove appunto dispone che il collegio sindacale “vigila (…) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento.”
L’uso dell’avverbio “in particolare” armonizza i due periodi, dando al secondo, quello relativo agli adeguati assetti appunto, un significato di specificazione e delimitazione del primo.
Possiamo dire che questa sia una tendenza propria dell’impianto della riforma del 2003 laddove appunto ha inteso delimitare e specificare la responsabilità degli organi di amministrazione e controllo. Basti al riguardo ricordare la modifica dell’art. 2391 c.c. sulla vigilanza sul generale andamento della gestione societaria per evitare la configurazione di responsabilità oggettive o da posizione per gli amministratori senza deleghe.
In questa visione quindi gli adeguati assetti si presentano come clausola generale ovvero “come una norma di rango primario connotata da autonoma precettività [26]", e si collocano appieno nella nuova configurazione dei profili di responsabilità gestoria e di controllo.
Ma occorre un’ulteriore considerazione.
Se rileggiamo la legge delega di riforma del diritto societario (L. n. 366/2001, art. 4, comma 2, lett. b), cogliamo che la finalità degli adeguati assetti è quella di assicurare l’“efficienza e la correttezza della gestione di impresa”. Si tratta di un criterio tanto semplice quanto cruciale nel segnare il passaggio verso un sistema societario vocato alla complessità. Ed infatti mentre nel sistema codicistico del ’42 la definizione del tipo societario poteva essere ritenuta sufficiente a garantire una corretta presenza della società nel mercato e per la tutela dei terzi [27]; con la riforma del diritto societario, e con il recepimento di principi maturati soprattutto nel settore bancario e finanziario, si è invece voluto spostare l’attenzione dal tipo, o modello societario, alla sua gestione ed ancora più in particolare alla gestione dell’impresa societaria [28].
Riteniamo che non servano molti argomenti per avere conferma di questo assunto; basti osservare che il dibattito sulla funzione del capitale legale (ved. sua utilità) e la maturazione, sempre più consolidata, della necessaria costante attenzione per la continuità aziendale siano un sintomo del tutto eloquente di questa evoluzione.
Per cui gli amministratori non sono più, e già da tempo non lo erano, il faro che da lontano e a distanza conferma o meno la rotta di chi è chiamato a dare esecuzione alle scelte strategiche; ma – tramite gli assetti – devono assicurare che queste linee strategiche siano correttamente elaborate, recepite ed eseguite da chi, utilizzando la stessa metafora, è chiamato a prestare attenzione alla luce del faro. Da qui dunque l’importanza dei doveri di cura, di vigilanza e di verifica sull’adeguatezza degli assetti e sul loro corretto funzionamento, ed anche dello scambio di informazioni tra corporate ed internal governance [29].
Se dunque il punto di attenzione è la gestione della impresa e la sua efficienza allora si comprende agevolmente come sia stato del tutto naturale far rientrare in questa finalità, come sua ulteriore specificazione, quella della tempestiva emersione della crisi e si siano valorizzati gli assetti nella definizione della c.d. allerta interna.
6 . Business Judgment rule e scelte imprenditoriali
Le riflessioni sulla business judgment rule [30] sono abbastanza sedimentate e  possiamo dire che  abbia ormai trovato applicazione nel nostro diritto vivente. Sappiamo che essa implica l’impossibilità di un sindacato giudiziale di responsabilità sulle scelte imprenditoriali degli amministratori in quanto rischiose e non predefinibili ex ante. La regola quindi si radica sostanzialmente nella natura della funzione amministrativa e quindi nell’adozione di scelte gestionali che sono appunto discrezionali.
Ma gli approfondimenti dottrinali svolti su questa rule hanno nel tempo consentito di delimitarne la portata e di inquadrarne meglio i relativi contorni.
Questa opera di delimitazione, anche alla luce degli sviluppi della dottrina nordamericana [31], si è caratterizzata per due elementi di fondo: da un lato la distinzione tra obblighi generali ed obblighi a contenuto specifico incombenti sugli amministratori; dall’altro la distinzione tra duty of loyalty e duty of care [32].
Soffermiamoci su queste precisazioni.
In relazione alla prima è emerso che in effetti un ambito di discrezionalità può sussistere soltanto in relazione a scelte imprenditoriali ed in relazione a quegli obblighi gestori che non hanno un contenuto specifico e predefinito ma che appunto lasciano margini di discrezionalità agli amministratori.
Sotto questo profilo però si è avvertita l’esigenza di meglio precisare la portata della rule in quanto se da un lato è vero che gli obblighi a contenuto generale lasciano spazio alla discrezionalità gestoria, nondimeno però tale discrezionalità deve comunque essere informata a due criteri di fondo: quello della legittimità della scelta e quello della sua ragionevolezza.
In altri termini si è ritenuto che la scelta discrezionale di natura imprenditoriale possa comunque essere sindacata in relazione al processo decisionale [33] che è stato seguito per la sua adozione, nonché alla sua ragionevolezza intesa quale coerenza della scelta rispetto alle relative premesse assunte in fase istruttoria [34].
Il giudice quindi potrà valutare la correttezza o meno della scelta imprenditoriale sottoponendola al vaglio di questi due criteri di fondo.
Con riguardo poi alla differenza tra duty of loyalty e duty of care, si è rilevato che affinché sia corretta la scelta imprenditoriale questa debba comunque rispondere al dovere di lealtà e quindi deve presentarsi senza il coinvolgimento di un interesse di chi ha assunto la relativa decisione. Sotto questo profilo potremmo dire che la business judgment rule debba presentarsi come honest ovvero scevra da contaminazioni derivanti da conflitti di interesse in capo agli amministratori.
Queste considerazioni consentono dunque di poter ben cogliere la portata della rule sottraendola al pericolo che essa si trasformi in uno slogan senza alcuna attinenza alla funzione gestoria, alle sue caratteristiche ed ai doveri che essa deve rispettare nel suo esercizio concreto e quindi ai limiti che caratterizzano il relativo potere gestorio.
7 . Segue. Business Judgment rule e scelte organizzative
Procedendo verso la questione della estensione della business judgment rule alle scelte di tipo organizzativo, si registra un orientamento dottrinale di segno negativo [35]. Si tratta di un approccio che limita questa rule alle sole scelte gestionali in senso stretto e quindi non estensibile al rispetto o meno dei doveri incombenti sugli amministratori. In effetti per come sin qui esposto, l’adozione degli assetti integra un dovere da parte degli amministratori, e per di più funzionale a quella che definiamo allerta interna secondo la prospettiva Rordorf.
Questa impostazione dottrinale in effetti coglie un aspetto centrale, ovvero quello in base al quale lo spettro dei doveri incombenti sugli amministratori è in generale sottratto ai profili di discrezionalità, atteso che questi più che altro attengono all’esercizio del potere gestorio. In questo senso, dunque, la dottrina richiamata è del tutto condivisibile, trattandosi allora di spostare la valutazione della portata della business judgment rule dal piano dei doveri a quello dei poteri degli amministratori e quindi al modo attraverso il quale questi poteri vengono esercitati [36], cercando anche di cogliere la dimensione teleologica degli stessi doveri.
Colta questa precisazione, si può certamente andare a verificare la sussistenza o meno di limiti al potere gestorio e la loro estensione ed intensità che, evidentemente, saranno modulati in modo diverso a seconda che il potere gestorio è esercitato per adempiere ad un dovere a contenuto generale o a contenuto specifico, in ragione della variazione o della limitazione/esclusione della discrezionalità che ne consegue.
Si tratta allora a questo punto di verificare la portata del dovere organizzativo. Al riguardo se da un lato è condivisibile, per come già evidenziato, che il dovere di adottare adeguati assetti sia una specificazione del generale dovere di corretta amministrazione, tuttavia non sembra che questo dovere abbia un contenuto specifico [37].
Diverse ragioni letterali e di sistema orientano verso questa conclusione.
In primo luogo la formulazione delle norme di cui agli artt. 2086 e 2381 c.c. lascia trasparire una modulazione aperta del dovere organizzativo. In dottrina è stato sottolineato l’uso dell’aggettivo “adeguata” per evidenziare che la scelta organizzativa necessita di una modulazione che non può essere individuata a priori, ma che deve adattarsi alla natura ed alla dimensione della impresa con continui aggiustamenti ed assestamenti attraverso quei compiti diversificati di cura, valutazione e vigilanza articolati tra plenum, organo delegato e collegio sindacale [38].
Si profila quindi un giudizio di congruità in riferimento agli assetti che potrà essere riscontrato facendo riferimento alle buone prassi gestionali definite dalla scienza aziendalistica proprio per dare consistenza concreta al criterio generale di adeguatezza che, peraltro, va anche visto e declinato in una dimensione dinamica conseguente appunto alla natura dell’attività di impresa [39].
Per altro verso, sul piano sistematico, il dovere organizzativo va coordinato con la suddetta ripartizione di competenze nell’ambito degli organi societari e con il dovere di agire informato degli amministratori.
Questa constatazione porta a ritenere che la scelta organizzativa sia mediata dall’azione interorganica e dallo scambio delle informazioni per garantire la gestione efficiente dell’impresa. Basta il richiamo a quanto dispone l’art. 2381, comma 3, c.c. laddove appunto si prescrive che il Cda “sulla base delle informazioni ricevute” valuta l’adeguatezza dell’assetto [40], per comprendere che l’adeguatezza va valutata ed apprezzata in una visione complessiva del sistema gestionale societario entro il quale intervengono anche criteri di proporzionalità [41].
Andando quindi ad analizzare l’esercizio del potere gestorio, non sembra revocabile in dubbio che in relazione agli assetti gli amministratori esercitino un potere discrezionale che si presenta funzionale, con diverse modalità e diversi ruoli, al rispetto di quei doveri di cura e di valutazione degli assetti previsti appunto in capo agli amministratori [42]. Del resto sappiamo che nei contesti organizzati ad ogni dovere non può che corrispondere anche un potere necessario per adempiere a tale dovere; potere che ha una sua portata ed una sua estensione proporzionale al dovere che deve essere adempiuto.
Sotto questo profilo di proporzionalità possiamo dunque a ben vedere rintracciare profili di discrezionalità che possono essere coperti dalla rule in esame.
La giurisprudenza di merito ha di recente risposto positivamente al quesito dell’applicazione di questa rule alle scelte organizzative riportandole, in definitiva, nell’ambito delle scelte strategiche che in effetti implicano l’esercizio del potere gestorio [43].
Più precisamente, la giurisprudenza richiamata argomenta la propria decisione soffermandosi a ritenere che l’obbligo organizzativo non è a contenuto specifico e che quindi il suo adempimento può avvenire in concreto secondo diverse modalità e diverse scelte che vanno appunto valutate in riferimento al contesto cui si riferiscono. Da qui l’applicazione della rule in esame. 
Pertanto, dalla constatazione della configurazione dell’obbligo organizzativo come obbligo generale, la giurisprudenza citata individua un ambito di discrezionalità per il relativo potere organizzativo il cui esercizio potrà essere scrutinato sotto il profilo della legittimità e della ragionevolezza della relativa decisione.
In altri termini, il giudice può sindacare l’esercizio del potere gestorio, e quindi anche organizzativo, per verificare il metodo attraverso il quale la scelta è stata compiuta e se essa si presenta ragionevole e coerente rispetto alle valutazioni ed agli approfondimenti preliminari compiuti nel corso del processo decisionale.
Ora se da un lato è condivisibile l’assunto in base al quale anche le scelte organizzative, nella loro dimensione di potere gestorio, sono coperte dalla business judgment rule, perché rientranti nella visione strategica della gestione di impresa, nondimeno però occorre oggi tenere conto della nuova formulazione dell’art. 2086 c.c., di portata generale per la gestione societaria e collettiva, in punto di previsione di assetti che devono essere non solo adeguati ma “anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi”.
É da ritenere dunque che accanto ai limiti della legittimità e della ragionevolezza della scelta organizzativa, si debba anche tenere conto, nello scrutinio critico della relativa scelta, del criterio fondamentale della funzionalità per la rilevazione della crisi.
Ma dobbiamo ancora aggiungere un’altra considerazione.
Il futuro nuovo impianto di disciplina della crisi, con l’introduzione del sistema di allerta (seppure con le esclusioni di cui all’art. 12, commi 4 e 5) del c.c.i.i., finirà per condizionare ancora di più le scelte organizzative degli amministratori, i quali evidentemente non potranno in futuro prescindere dalla operatività dell’allerta ed in particolare di quella c.d. interna. Difatti, il citato art. 12, comma 1, precisa che “Costituiscono strumenti di allerta gli obblighi di segnalazione posti a carico dei soggetti di cui agli artt. 14 e 15, finalizzati, unitamente agli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione.”
Gli obblighi di segnalazione “unitamente” agli obblighi organizzativi compongono dunque il complesso sistema degli strumenti di allerta [44].
Potendosi forse arrivare a sostenere che l’obbligo organizzativo, funzionale alla rilevazione della crisi, andrà ad assumere una connotazione a contenuto speciale, cui potrebbe conseguire un obbligo di osservanza in punto di rilevazione tempestiva degli indicatori di crisi, con un maggiore vincolo per la scelta organizzativa degli amministratori secondo questa specifica prospettiva funzionale.
Del resto tra i doveri previsti dalla riforma Rordorf spicca quello di cui all’art. 3, comma 2, secondo il quale l’imprenditore collettivo “deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’art. 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative”. Laddove appunto l’adeguatezza non è riferita solo alla natura ed alla dimensione della impresa, ma in termini più circoscritti e specifici alla rilevazione tempestiva della crisi. E ciò per l’ovvia considerazione che la gestione del rischio connota in modo pregnante la gestione di impresa e, in termini più complessi, quella societaria. 
Per cui, al riguardo, ci potrà essere un margine di discrezionalità nella definizione dell’assetto; ma tale margine risulterà molto più ridotto, per l’indicazione appunto di una specifica funzione, rispetto a quanto non sia il criterio organizzativo riferito genericamente alle scelte strategiche di impresa.
Da questa considerazione ne discende un rafforzamento della dimensione strumentale e funzionale dell’organizzazione. Per cui il principio della business judgment rule implicherà il vaglio delle scelte organizzative non solo secondo i criteri della legittimità e della ragionevolezza, ma anche appunto secondo quello più stringente (e diremmo anche più specifico) della necessaria funzionalità al sistema di allerta [45].
8 . Cenni alle possibili conseguenze sulla responsabilità gestoria
Questa conclusione conferma dunque un contesto nel quale l’organizzazione societaria è direttamente influenzata dalla disciplina della crisi e dalla funzione di monitoraggio della sussistenza delle condizioni per la continuità aziendale, così come appunto precisato dall’art. 2086 c.c.. A questo punto è interessante verificare come tale conclusione possa reagire sul piano della responsabilità gestoria, senza però poter entrare nello specifico dei relativi profili di differenziazione tra organi di amministrazione e controllo la cui valutazione avrebbe una portata che cade oltre i limiti della nostra riflessione.
Quello che vogliamo evidenziare in questa sede è un profilo che potremmo definire di visione sistematica della responsabilità gestoria, proprio in ragione dei motivi di rilevanza degli assetti che abbiamo delineato in premessa e della evidente interazione tra governance ed allerta.
Questo nuovo sistema di principi e norme potrebbe rafforzare la tendenza, ormai in atto, ad impostare la responsabilità gestoria, in rapporto alla crisi ed alla sua prevenzione, non più basato sul parametro del capitale sociale e della incidenza delle perdite, ma sul rispetto di criteri operativi di pianificazione e controllo soprattutto in punto di dimensione finanziaria dell’impresa.
Basti pensare all’ormai acquisita consapevolezza della centralità dei solvency test, ed in particolare dei liquidity test, quale criterio per stabilire se poter o meno distribuire ricchezza ai soci tenuto conto della capacità della impresa di pagare i propri debiti nel breve – medio periodo [46].
Da qui dunque anche una tendenza a recepire nel nostro sistema quei criteri di valutazione della condotta degli amministratori propri della wrongful trading di diritto anglosassone [47] e quindi a imputare a questi una responsabilità gestoria, per l’aumento della debitoria, non soltanto quando la prosecuzione dell’attività di impresa sia illecita (con il classico falso in bilancio per l’artificiosa copertura delle perdite),  e con violazione degli artt. 2446, 2447 e 2484 c.c.; ma anche quando questa sia stata illegittima o scorretta, avventata ed imprudente, perché ad esempio non supportata da assetti adeguati e funzionali,  senza alcuna attenzione per le valutazioni previsionali, alla luce di ciò che era conosciuto o conoscibile da parte degli amministratori.
Così è da ritenere che, se prima della nuova formulazione dell’art. 2086 c.c. poteva forse  rientrare nella discrezionalità degli amministratori l’adozione o meno di un presidio di controllo sulla c.d. funzione finanziaria [48] e comunque tale scelta dipendeva dalla natura e dalla dimensione dell’impresa; oggi, ed ancora di più nella prospettiva del Codice della Crisi, il presidio della funzione finanziaria sarà essenziale per monitorare la continuità e rilevare tempestivamente i fattori di crisi, in un’ottica previsionale appunto.  
Ci potrà essere una discrezionalità sulla sua portata e sulla sua estensione (quomodo) – così per: il numero di addetti a tale presidio, le modalità di circolazione delle relative informazioni, la periodicità dei controlli – ma riteniamo che non sia configurabile una discrezionalità sul se (an) adottare o no un tale presidio [49] o comunque nel prestare la   attenzione alla sua dinamica. 
Per cui sotto tale profilo sembra ravvisarsi un restringimento dei margini di applicazione della business judgment rule cui potrebbe corrispondere appunto una nuova visione della responsabilità gestoria per avventata o imprudente continuità aziendale, senza una (o con una colpevole) valutazione previsionale sui possibili esiti della crisi.
Conclusione ancora di più rafforzata dagli artt. 12 e 13 del Codice della crisi: il primo (ribadiamo con le esclusioni di cui ai commi 4 e 5) qualifica gli obblighi organizzativi come strumenti di allerta; il secondo specifica tra gli indicatori della crisi proprio quelli finanziari [50].
Certo questo porterà a far emergere una ulteriore questione: ovvero se i criteri di quantificazione del danno, laddove questo sia stato correttamente allegato in giudizio [51], potrà seguire o meno in questo caso lo stesso ordine di quelli di cui all’art. 2486, comma 3, c.c. e quindi se possa essere utilizzato o meno anche il c.d. “sbilancio fallimentare”. Questione molto delicata che, però, per il momento è un’altra storia.
9 . Riflessioni conclusive
Le analisi svolte ci portano a delineare una relazione tra organizzazione societaria, sistema di allerta ed insolvenza. Sono molteplici, come rilevato, le ragioni che hanno indotto il legislatore, nella prospettiva del nuovo c.c.i.i., ad incentrare la prevenzione dell’insolvenza su una più stringente finalizzazione degli assetti, colti soprattutto nella loro dimensione dinamica e quindi nel loro concreto funzionamento. L’efficienza del sistema di allerta e la sua attitudine a svolgere un ruolo importante di gestione tempestiva della crisi, saranno condizionate dal grado di realizzazione degli assetti e dalla corretta interazione tra amministrazione e controllo.
Le ricadute di questa nuova dimensione funzionale sulla operatività della business judgment rule dipenderanno dalla rilevanza particolarmente stringente che oggi assume il dovere di monitoraggio della continuità aziendale per l’adozione di tempestivi interventi in caso di crisi.  Per il nostro sistema non si tratta di un cambiamento di rotta, ma di una riscoperta e di un affinamento di elementi funzionali che erano già insiti nella riforma del diritto societario del 2003. 
Questa consapevolezza deve quindi orientare l’approccio interpretativo ed applicativo del nuovo sistema, facendoci finalmente approdare all’idea che la governance della crisi trova   nel diritto societario la sua primaria fonte di disciplina e nel potere gestorio degli amministratori il concreto strumento operativo. è dunque evidente che la principale prevenzione è all’interno dell’organizzazione societaria e attraverso le modalità in cui questa è pensata ed attuata dagli amministratori tenendo conto dei nuovi doveri che il sistema configura.
Riteniamo che questa conclusione potrebbe avere due conseguenze. 
La prima determinare il pericolo di imbrigliare eccessivamente l’operatività degli amministratori, anche se le clausole generali della adeguatezza e della funzionalità degli assetti, con l’opportuna copertura - nei limiti esposti -  della business judgment rule potrebbero di molto mitigare, se non scongiurare un tale pericolo. 
La seconda è che una corretta visione dell’allerta e dei relativi doveri  potrebbe essere un valido antidoto alle inclinazioni verso l’ insolvenza prospettica [52], mantenendola piuttosto nell’ alveo della prospettiva di insolvenza, con il vaglio e la verifica della responsabilità gestoria degli amministratori, e non invece di una troppo precoce dichiarazione di fallimento. 

Note:

[1] 
Ved.  Hansmann –  Kraakman, The End of History for Corporate Law, Discussion paper No. 280, 3/2020, in http://www.law.harvard.edu/programs/olin_center, i quali rilevano: ” A principal reason for convergence is a widespread normative consensus that corporate managers should act exclusively in the economic interests of shareholders, including noncontrolling shareholders. This consensus on a shareholder – oriented model of the corporation results in part from  the failure of alternative models of the corporation, including the manager-oriented model that evolved in the U.S. in the 1950’s and 60’s, the labor-oriented model that reached its apogee in German codetermination, and the state-oriented model that until recently was dominant in France and much Asia. Other reasons for the new consensus include the competitive success of contemporary British and American firms, the growing influence worldwide of the academic discipline of economics and finance, the diffusion of share ownership in developed countries, and the emergence of active shareholder representatives and interest groups in major jurisdiction. Since the dominant corporate ideology of shareholder primacy is unlikely to be undone, its success represents the end of history for corporate law.”
[2] 
Per una panoramica su tale dibattito: McCormack, Control and Corporate Rescue – An Anglo-American Evaluation, in The International and Comparative Law Quarterly, 2007, LVI, N. 3, p. 515 ss. che svolge una valutazione comparativa tra la disciplina del Chapter 11 e quella dell’ administration order procedure di diritto inglese. Questo esame si appunta sulla differenza di fondo tra il mantenimento o la sostituzione degli organi di gestione della impresa in crisi quale opzione che è condizionata dalla differenza dei sistemi societari (debtor in possession versus management-displacement). Vi è quindi una interessante riflessione su come le scelte di governance possano essere condizionate proprio dalla crisi e dal modo in cui se ne impostano le soluzioni.
[3] 
Precisazione terminologica. L’uso della parola rule per indicare in breve, nel coro dello scritto, la business judgment rule, non ha alcuna attinenza alla nota differenza tra rule e standard per la valutazione della condotta degli amministratori.
[4] 
Sottolinea questo: Kutufà, Adeguatezza degli assetti e responsabilità gestoria, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Liber Amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, p. 719; ed anche Vigo, Diligenza e colpa organizzativa in una fonte privata: i modelli di organizzazione e di gestione (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), in Le fonti private del diritto commerciale, Di Cataldo -Sanfilippo (a cura di ), Milano, 2008, p. 83; Zoppini, Imputazione dell’illecito penale e responsabilità amministrativa nella teoria della persona giuridica, in Riv. soc., 2005, p. 1328.
[5] 
Una prima interessante analisi di commento è quella di: Ventoruzzo, Il nuovo codice di corporate governance 2020: le principali novità, in Soc., 2020, p. 439, il quale manifestando un certo comprensibile scetticismo circa l’attitudine dell’espressione “successo sostenibile” ad incidere sul diritto vivente osserva appunto che “Pur condividendo personalmente, sul piano dei valori,  il riferimento ai portatori di interesse diversi dagli azionisti  ed alla sostenibilità (…) non posso nascondere, di contro, una certa perplessità per l’enfasi che si è venuta ad attribuire – nella prassi e nel dibattito più o meno accademico -  a queste formule ed al loro presunto impatto concreto.”
[6] 
Utilizza proprio questo verbo: Angelici, Interesse sociale e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2012, 1, p. 573 ss.: “La prospettiva mi sembra necessariamente diversa con riferimento al ruolo degli amministratori. I quali, in ogni caso, operano per il perseguimento di interessi altrui; e ai quali, però, non può ritenersi affidato il compito di decidere quale debba essere l’interesse sociale, ma semmai di ricercarlo.
[7] 
Senza la quale evidentemente non si può realizzare l’“efficienza dell’impresa”: così Angelici, op. cit., p. 579.
[8] 
Su questi aspetti: Bianchi, I flussi informativi, in Assetti adeguati e modelli organizzativi, diretto da M. Irrera, Bologna, 2016, 232, in nota 8: “Il collegamento tra  risk assessment e risk treatment è dinamico ed interattivo. In prima battuta il risk assessment origina un report che descrive il rischio così come è (se il rischio è già assunto dall’azienda) o come sarà (se il rischio verrà assunto in caso di accettazione di un progetto). Questa relazione iniziale darà la possibilità a chi ne ha la responsabilità di prendere una prima decisione. Il rischio potrà essere giudicato tale o meno.
[9] 
Sulla rescue culture in Europa: Wessels – Madaus, Rescue Of Business in Europe, Oxford, 2020, p. 7:” As to the projects background, since the global financial crisis, insolvency law has been at the forefront of law reform initiatives in Europe and beyond. The specific topic of business rescue appears to rank top on the insolvency law-related agenda of the EU institutions. The economic recession in Europe has caused a rapid growth of insolvencies, clearly highlighting the importance of effective business rescue.” 
[10] 
Ved. Goode, Principles of Corporate Insolvency Law, London, 2005; Carruthers – Halliday, Rescuing Business: The Making of Corporate Bankruptcy Law in England and the United States, Oxford, 1998.
[11] 
Sul punto: Buonocore, Le nuove frontiere del diritto commerciale, Napoli, 2006, p. 211 per il quale “(…) l’introduzione del principio di adeguatezza nel nostro ordinamento costituisce un’ulteriore riprova della tendenza del nostro legislatore a tradurre in norme giuridiche importanti principi della scienza aziendalistica.”
[12] 
Si richiama in particolare:  Montalenti, Il diritto societario a dieci anni dalla riforma: bilanci, prospettive, proposte di restyling, in AA.VV., La riforma societaria alla prova dei suoi primi dieci anni, a cura di De Angelis - Martina - Urbani, Padova, 2016, p. 11, il quale osserva “La disciplina dell’amministrazione ha segnato un’evoluzione ampiamente positiva in termini di imposizione di clausole generali di corretta amministrazione, trasparenza, adeguatezza organizzativa, ampiamente declinate da dottrina, giurisprudenza, organi di vigilanza e best practices, in particolare nelle società quotate.” Ed inoltre sottolinea che l’obbligo di dotare la società di un adeguato assetto organizzativo ha rappresentato un progresso sul terreno della correttezza della corporate governance.
[13] 
Per un’ampia visione di questo tema nel contesto europeo: Kindler, La responsabilità degli organi di amministrazione nella crisi dell’impresa. Note a margine del piano d’azione della Commissione UE alla luce della crisi finanziaria, in Riv. dir. civ., 2010, 5, p. 439 ss.
[14] 
In questo senso: G. Guizzi, L’interesse sociale nelle società pubbliche, in I Controlli nelle Società pubbliche, opera diretta da F. Auletta, Bologna, 2017, p. 8, il quale rileva che “In questa prospettiva l’interesse sociale finisce allora per essere null’altro che quello che verrà fissato dagli amministratori, all’esito del descritto procedimento di selezione e ponderazioni tra le diverse opzioni di volta in volta disponibili, nell’esercizio del potere di gestione loro affidato. Un potere discrezionale (…) che non è senza limiti, perché va comunque esercitato in ossequio a una regola oggettiva di azione che non può prescindere dalla considerazione che quello della società per azioni (ma direi, in via più generale, quello societario), è un congegno organizzativo di una attività economica nella quale si impiega ricchezza affinché, almeno in thesi, si produca ricchezza maggiore. ”Un particolare richiamo ai processi decisionali per perseguire in concreto l’interesse sociale si legge in: C. Angelici, La società per azioni, I: Principi e Problemi, Milano, 2012, p. 101. Si veda anche: G. Strampelli, Il sistema dei controlli interni e l’organismo di vigilanza, op. cit., diretta da F. Auletta, p. 95, il quale valorizza l’aspetto organizzativo, affermando che” Analogamente, soprattutto a seguito della riforma del 2003, anche nella disciplina dell’organizzazione societaria si è preso atto che, per poter operare una scelta concreta, tutti i fatti e gli interessi rilevanti devono essere non soltanto valutati e ponderati ma, prima ancora, acquisiti al procedimento decisionale dell’organo decidente (…).” ed evidenziando il concetto di procedimentalizzazione dell’organizzazione e della governance della società.
[15] 
Al riguardo in generale: F. Superti Furga, Il bilancio di esercizio italiano secondo la normativa europea, Milano, 2017, pag. 18 il quale osserva che “La prima ipotesi da considerare è la continuità della gestione che costituisce la condizione di esistenza dell’azienda stessa, tradizionalmente definita come un istituto economico atto a perdurare. In senso generale le condizioni di esistenza di un’azienda sono soddisfatte quando la stessa mediante la propria attività di gestione è in grado di: 1. Soddisfare le aspettative dei partecipanti all’impresa economica (…); 2. mantenere un grado sufficiente di economicità, cioè conservare l’equilibrio economico della gestione (…); 3. mantenere l’equilibrio monetario della gestione, inteso come l’attitudine dell’azienda a mantenere i prevedibili flussi di entrate monetarie con caratteristiche quantitative e temporali idonee a fronteggiare i deflussi di mezzi monetari necessari per l’acquisizione dei fattori di produzione, secondo le modalità indicate nei programmi di gestione.” Sui criteri del bilancio finale di liquidazione nelle società di capitali: G. Niccolini, Contributo allo studio del bilancio finale di liquidazione delle società di capitali, Torino, 2019, pag. 7, con ampie ed interessanti riflessioni sulla “speciale specialità” del bilancio di liquidazione che lasciano trasparire la diversa ottica del bilancio di esercizio.
[16] 
Sotto questo profilo risulta quindi del tutto inadeguato un sistema basato sul legal capital che impone un intervento solo quando vi siano perdite superiori al terzo o quando, a seguito di una perdita di tale misura, si vada sotto il minimo di legge. E’ noto il vivacissimo dibattito sul punto nella dottrina commercialistica: F. Denozza, A cosa serve il capitale? (piccole glosse a L. Enriques – J. R. Macey, Creditors Versus Capital Formation: The Case Against the European Legal Capital Rules), in Giur. comm., 2002, I, pag. 585; G.B. Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Trattato delle S.p.a.., diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, 1** , Torino, 2004,  pag. 3.
[17] 
Per un primo efficace commento al codice della crisi in un’ottica aziendalistica: AA.VV., Continuità aziendale e individuazione della crisi, in Indicatori di allerta standard e personalizzati, a cura di Ceroli, Menghi e Borroni, Inserto Sole24Ore, 2020. Si vedano anche le considerazioni di Gatti –  Renzi –  Vagnani, L’impresa fondamenti e profili economico – finanziari, Milano, 2019, pag. 63, molto interessanti circa il rapporto tra equilibrio economico, equilibrio finanziario e continuità aziendale. Gli autori affermano che “La capacità, per esempio, di raggiungere condizioni di equilibrio economico (ovvero la capacità tendenziale dei ricavi di uguagliare, o meglio di superare, i costi totali) rappresenta un obiettivo generale che assume un ruolo strumentale rispetto alla sopravvivenza dell’impresa. Si vuole inoltre sottolineare che rispetto all’equilibrio economico, l’equilibrio finanziario (ovvero la capacità puntuale, istante per istante, delle fonti finanziarie di uguagliare i fabbisogni finanziari) ha una natura strumentale diversa nel senso che <<un’eccessiva dipendenza finanziaria può tradursi in una grave minaccia alla sopravvivenza stessa dell’impresa: come la redditività è nel lungo andare una condizione necessaria all’esistenza stessa dell’impresa, ma rispetto alla redditività non può dirsi anche un’aspirazione intrinseca del finalismo imprenditoriale>> (Panati e Golinelli, 1991, pag. 807). A volte sotto un profilo giuridico si parla indistintamente di equilibrio economico-finanziario senza però tenere conto della diversa incidenza strumentale rispetto alla continuità aziendale. Per una attenta riflessione giuridica Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, 2017, p. 61 ss.
[18] 
Sull’importanza della pianificazione: G. Bianchi, Il contenuto. Una visione di insieme, in Assetti adeguati e modelli organizzativi, diretta da M. Irrera, Bologna, 2016, pag. 182, il quale rileva che “I termini pianificazione e programmazione sono usati nel linguaggio comune con lo stesso significato. In realtà essi designano processi di diversa portata. La programmazione riguarda le previsioni a breve termine (generalmente di un anno) mentre il termine pianificazione si riferisce alle previsioni riferite a un più lungo periodo (3-5 anni). La pianificazione (…) attiene allo sviluppo delle potenzialità aziendali, alle modifiche anche strutturali dell’organizzazione, al ruolo che l’azienda intende assumere in futuro”. Prosegue poi affermando che la predisposizione di un piano strategico è “(…) l’esposizione di ipotesi di base confrontate con la loro effettiva possibilità di realizzazione”.  Dentro questo aspetto non possono che rientrare anche gli scenari di crisi. 
[19] 
Direttiva “Insolvency” (UE) 2019/1023 del 20 giugno 2019 reperibile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L1023&from=ITNel percorso che ha portato all’allerta una grande rilevanza va riconosciuta anche alla Raccomandazione della Commissione 2014/135/UE del 3 aprile 2014. 
[20] 
E’ noto il vivacissimo dibattito sul punto nella dottrina commercialistica. Tra i tanti: Denozza, A cosa serve il capitale? (piccole glosse a L. Enriques – J. R. Macey, Creditors Versus Capital Formation: The Case Against the European Legal Capital Rules), in Giur. comm., 2002, I, pag. 585; Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Trattato delle  S.p.a., diretto  Colombo - Portale, 1 **, Torino,  2004,  p. 3.
[21] 
Al riguardo: Leuzzi, Indicizzazione della crisi d’impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine del nuovo sistema, ineXecutivis.itLa Rivista telematica dell’esecuzione forzata, 2019, https://www.inexecutivis.it/AdvancedSearch/SearchExternalPage?q=leuzzi; Perrino, Crisi di impresa ed allerta: indici, strumenti e procedure, in Corr. giur., 5/2019, p. 653 ss.
[22] 
Per una prima riflessione: Abriani – Rossi, Nuova disciplina della crisi di impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Soc., 2019, p. 393.
[23] 
Questo cambiamento già si nota alla fine degli anni ’80. Si veda: Provinciali – Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1988, p. 10: "Ed è appunto mediante una nozione allargata di insolvenza che può costruirsi un’ipotesi di procedura concorsuale non necessariamente con finalità dispersive dei valori aziendali. Ciò costituisce il logico approdo del sistema del diritto commerciale fondato sull’attività.”
[24] 
Sui soggetti destinatari dell’allerta: Vella, L’allerta nel Codice della crisi e dell’insolvenza alla luce della Direttiva (UE) 2019/1023, in https://blog.ilcaso.it/news_813/24-07-19/.
[25] 
In questo senso anche Mozzarelli, Appunti in tema di rischio organizzativo, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Liber Amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, p. 737: “La disposizione in questione (art. 2403 c.c. ndr) rappresenta infatti chiaramente il punto di emersione della relazione, già rilevata in dottrina, tra la corretta amministrazione e gli assetti organizzativi in termini di genus a species. Nell’ottica del legislatore gli assetti interni rappresentano cioè una declinazione del canone generale di corretta amministrazione imposto agli organi di gestione e controllo della società.” Del tutto condivisibile è poi la tesi che tale obbligo organizzativo già prima della riforma del 2003 rientrasse nel dovere di gestione diligente in capo agli amministratori, così: Abbadessa, Profili topici della nuova disciplina della delega amministrativa, in AA.VV., Il nuovo diritto delle società. Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa – Portale, Torino, II, 2006, p. 493 secondo cui “non poteva certo dubitarsi che nell’obbligo di amministrazione diligente rientrasse anche quello di curare che la società fosse provvista di un assetto organizzativo adeguato.”
[26] 
Così Meruzzi, L’adeguatezza degli assetti, in AA.VV., Assetti adeguati e modelli organizzativi, opera diretta da Irrera, Bologna, 2016, p. 43.
[27] 
Così Vivante, Trattato del diritto commerciale, Milano, II, 1912, p.110 ss:  ”Le varie specie di società si distinguono secondo le garanzie che offrono ai terzi; (…) i soci che adottano un tipo di società sono obbligati categoricamente a prestare tutte le garanzie di legge; non possono evitarle o attenuarle senza passare ad un altro tipo di società.”
[28] 
Per una interessante riflessione sul passaggio dai tipi ai modelli societari: Montalenti, I modelli di impresa societaria fra tradizione e innovazione nel contesto europeo, Milano, 2016, p. 14, il quale osserva che “Con l’emersione – in primis – di nuove forme organizzative dell’attività economica (…) il principio di tipicità può dirsi, se non tramontato, certamente fortemente appannato nel nostro ordinamento giuridico, con forti assonanze con gli altri ordinamenti europei: con una formula sintetica potrebbe dirsi che il sistema societario è passato dai tipi ai modelli.”
[29] 
Su questo aspetto e sulla gestione del c.d. rischio organizzativo: Mozzarelli, op. cit., p.737; De Mari, Adeguatezza degli assetti societari e profili di responsabilità degli organi sociali, in Nuovo dir. soc., 2009, I, p. 74; Libonati, La società e l’impresa, Milano, 2004, p. 264.
[30] 
Icastica la definizione di Shade – Epstein, Business Structure in a Nutshell, St. Paul, 2003, p. 209, secondo i quali tale regola è basata:  “(…) on a policy of leaving business decisions to business people.”  Ravvisa un riconoscimento implicito della business judgment rule nel nostro ordinamento, a seguito della previsione del dovere degli amministratori di agire informato: Kutufà, op. cit., p. 727, secondo la quale:” Del resto, l’espressa introduzione del dovere di agire in modo informato sembra avere codificato nell’ordinamento italiano quel profilo della business judgment rule, che sottrae all’indagine giudiziale il contenuto della decisione e che pone piuttosto l’accento sul processo decisionale mediante il quale ad essa si perviene.” In generale nella dottrina italiana: Amatucci, Adeguatezza degli assetti, responsabilità degli amministratori e business judgment rule, in Giur comm. 2016, I, p. 643 ss.   Formisani, Business judgment rule e assetti organizzativi: incontri (e scontri) in una terra di confine, in RDS, 2018, p. 479 ss.
[31] 
Si veda tra i tanti: Allen – Kraakman, Commentaries and Cases on the Law of Business Organization, New York, 2003, p. 252 ss.; Cox – Hazen – O’Neil, Corporations, New York, 1997, p. 180 ss.
[32] 
In particolare su questo punto: Angelici, Attività e organizzazione, Torino, 2007, p. 291, laddove si sofferma a considerare la sussistenza di diversi criteri valutativi a seconda che la verifica si ponga rispetto al duty of care o al duty of loyalty:  “Nel secondo caso, infatti, il problema non si esaurisce in quello dei limiti di un sindacato avente per oggetto scelte imprenditoriali (…) ma riguarda pure la diversa valutazione se il secondo obbligo è stato correttamente adempiuto; ed in tal caso non è più questione d’autonomia in quelle scelte, bensì di verificare la loro correttezza. Perciò, volendo limitarsi ad un solo esempio, i Principles of Corporate Governance dell’American Law Association pongono come presupposto per la business judgment rule che l’amministratore << is not interested in the subject of the business judgment>>.”
[33] 
Aspetto valorizzato da Libonati, op. cit., p. 264 che assume gli assetti interni come un modello di organizzazione aziendale “procedimentalizzato nel suo svolgimento, trasparente per un sistema gerarchico di riporti, formalizzata così da consentirne controlli di regolarità (anche) a priori e di efficienza a posteriori.”
[34] 
In giurisprudenza: Cass., 12 agosto 2009, n. 1823, in  Soc. 2009, p. 1247; Cass., 27 dicembre 2013, n. 28669, in Giur. it., 2014, 2208; Cass., 22 giugno 2017, n. 15470, in Soc., 2017, p. 1040. Per altro verso è proprio l’obbligo di agire informato, di cui all’art. 2381 c.c., che dà rilevanza al processo decisionale e quindi alle modalità attraverso le quali è stata assunta una determinata decisione.
[35] 
Così Angelici, Dilgentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, p. 688:” (…) può porsi l’esigenza di (una sorta di) business judgement rule e che, se con essa si persegue l’obiettivo di fornire agli amministratori una forma di safe harbour, ciò può avvenire esclusivamente nei limiti in cui di scelte imprenditoriali si tratta e non in via generale per il complesso dei loro doveri. Il tema in definitiva è circoscritto alle ipotesi nelle quali gli amministratori hanno esercitato la propria competenza decisionale nella gestione dell’impresa e non riguarda in via generale i criteri per la loro responsabilità in ogni caso in cui abbiano violato specifici obblighi.” In senso negativo anche Mozzarelli, op. cit., p. 740: “(…) una volta che chi agisce in responsabilità abbia dimostrato la non conformità tra modelli adottati e assetti adottabili non sembra ammissibile che il convenuto, per evitare la responsabilità, eccepisca a propria difesa l’insindacabilità della scelta di gestione.”
[36] 
La dottrina richiamata ha precisato questo aspetto in un altro scritto che qui si richiama: Angelici, Interesse sociale e business judgment rule, op. cit., p. 583, il quale, nel riflettere sul rapporto tra interesse sociale e business judgment rule, arriva a ravvisarne una sostanziale coincidenza atteso che risulta implicato il potere gestorio degli amministratori e quindi l’obiettivo dell’efficienza della impresa che può essere perseguito attraverso una pluralità di scelte. Ed al riguardo afferma: ” Perciò penso possa dirsi che i due temi dell’interesse sociale e della business judgment rule tendono per il giurista in concreto ad identificarsi: a seguito in definitiva della circostanza che il compito degli amministratori, quello della gestione (ed evidentemente efficiente) imprenditoriale della società, non consente la predefinizione di un comportamento dovuto, ma può soltanto essere per così dire delimitato dall’esterno, circoscrivendone lo spazio di discrezionalità; e che la definizione di tale spazio soprattutto da quella rule giuridicamente risulta. Una prospettiva la quale pone l’accento, in ultima analisi, non tanto sul profilo del dovere e dell’obbligo, quanto su quello del potere e dei limiti entro cui può essere esercitato.” Sulla distinzione tra doveri, poteri e tecniche: Kutufà, Adeguatezza degli assetti e responsabilità gestoria, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Liber Amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, p. 709, la quale osserva che “ A ben vedere, tuttavia la (vera) novità dell’esplicitazione del principio di adeguatezza degli assetti interni nell’ordinamento azionario sembra consistere piuttosto nella precisa puntualizzazione e nella conseguente intestazione di specifici obblighi in capo agli amministratori, idonei ad offrire una rinnovata regolamentazione all’ufficio gestorio, che appare adesso articolato nel contenuto e procedimentalizzato nelle tecniche.”
[37] 
Questa precisazione si legge in Meruzzi, op. cit., p. 44, nota 9, secondo la quale “Tale impostazione sistematica è peraltro del tutto coerente con la concezione secondo cui le clausole generali non costituiscono norme giuridiche subprimarie, sintesi di altri precetti connotati dalla caratteristica della diretta precettività presenti nell’ordinamento giuridico, bensì norme primarie che incorporano precetti autonomi da cui scaturiscono specifici doveri, sia pure a contenuto generico, in capo ai destinatari del precetto giuridico.” Sulle clausole generali in diritto societario: Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in AA.VV., Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2011, p. 113 ss.. Si veda anche:  Benedetti, L'applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Riv. soc.,  2019, p. 413
ss.
[38] 
Interessanti le riflessioni di Ferrarini, Controlli interni e strutture di governo societario, in Abbadessa – Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società. Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, Torino, III, 2007, p. 5 ss.. Sulla portata sistematica dell’adeguatezza degli assetti: Rescigno, La responsabilità per la gestione: profili generali, in AA.VV., L’amministrazione. La responsabilità gestoria, in Ibba – Marasà (diretto da), Trattato delle società a responsabilità limitata, Padova, V, 2012, p. 183 ss. secondo il quale l’adeguatezza degli assetti e l’agire informato costituiscono requisiti minimali per una gestione diligente.
[39] 
Sulla precisazione circa la dimensione statica e dinamica degli assetti con riguardo agli obblighi di vigilanza: Montalenti, Gli obblighi di vigilanza nel quadro dei principi generali sulla responsabilità degli amministratori di società per azioni, in Abbadessa – Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società. Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, Torino, II, 2007, p. 840.
[40] 
In generale sulla rilevanza delle informazioni: Zamperetti, Il dovere di informazione degli amministratori nella governance della società per azioni, Milano, 2005. 
[41] 
Condivisibile quanto sostiene Meruzzi, op. cit, p. 55 e precisamente che “Infatti se la proporzionalità costituisce il principio guida che ispira l’attività del legislatore secondario nella definizione dei criteri di organizzazione interna delle società che operano nei settori regolati, ovvero di quei soggetti che più di tutti, nello svolgimento dell’attività di impresa, pongono problemi di tutela di interessi in potenziale conflitto con la libertà di iniziativa economica e costituzionalmente protetti, non può che essere il medesimo principio di proporzionalità, inteso come bilanciamento tra sacrificio dell’interesse di chi esercita l’attività di impresa e raggiungimento dello scopo per il quale il vincolo è posto, il criterio che deve guidare, nella disciplina generale d’impresa, l’attività del giudice nell’attribuire concreto contenuto alla clausola generale dell’adeguatezza degli assetti.”  In ambito europeo: Harbo, The Function of the Proportionality Principle in EU Law, in European Law Journal, 16, 2010, p. 158 ss.. Più in generale Jans, Proportionality Revisited, in Legal Issues of Economic Integration, 27(3), 2000, p. 239 ss.
[42] 
Nel contesto delle presenti riflessioni non vi è la possibilità, per la necessaria delimitazione dell’indagine, di entrare nello specifico delle differenze di tali modalità ed in particolare nella ripartizione dei doveri di cura, valutazione e vigilanza per come dislocati tra plenum, amministratore delegato e collegio sindacale; e poi declinati anche nel sistema monistico e dualistico. Ciò che è possibile in ogni caso rilevare è che l’organizzazione in effetti rientra nella gestione. Così Meruzzi, op. cit., p. 42, che nel sottolineare il quid novi del criterio di adeguatezza coglie gli assetti come “componente centrale e non rinunciabile dell’attività gestoria.”
[43] 
In questo senso di recente Trib. Roma, 8 aprile 2020, in https://rivista.camminodiritto.it/articolo.asp, estratto dal n. 11, 2020. Nella prospettiva del c.c.i.i.: Calandra Buonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel Codice della crisi, in Giur. Comm., 2020, I, p. 5 ss. Con particolare riguardo alla gestione del rischio anche prima della riforma Rordorf: Maugeri, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non
bancaria), in Rivista ODC, 2014, p. 3
[44] 
Per un’ampia riflessione sulla organizzazione dell’allerta: Mirone, L’organizzazione dell’impresa societaria alla prova del codice della crisi: assetti interni, indicatori e procedure di allerta, in Orizzonti di Diritto Commerciale, 1, 2020, p. 23 ss.
[45] 
Coglie l’operatività della rule solo in relazione alla scelta del rimedio per gestire la crisi, tempestivamente rilevata: Fabiani, Fondamento e azione per la responsabilità degli amministratori di s.p.a. verso i creditori sociali nella crisi dell’impresa, in Riv. soc., 2015, p. 272 ss.
[46] 
In termini molto chiari in dottrina si afferma che l’accresciuta rilevanza dei solvency test dipende dalla inadeguatezza delle regole sulla conservazione del capitale sociale a prevenire e scongiurare crisi di liquidità anche nel caso in cui siano provocate da una scorretta distribuzione di patrimonio ai soci. Si veda al riguardo Miola, La tutela dei creditori ed il capitale sociale: realtà e prospettive, in Riv. soc., 2012, p. 269 ss e Idem, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi, in  AA.VV.,  Società, Banche e Crisi di Impresa, Campobasso – Cariello – Di Cataldo – Guerrera – Sciarrone Alibrandi (diretto da), Torino, 3, 2014, p. 2710, il quale puntualizza che ”L’obiettivo del liquidity test consiste, come è noto, nel rendere ammissibili distribuzioni ai soci (…) e dunque in ambito di gruppo ogni tipologia di trasferimento intragruppo, sino a che i flussi di cassa con riferimento ad operazioni non ancora eseguite ma prefigurate nei piani strategici e finanziari, siano ritenuti sufficienti per adempiere , alla scadenze previste, i debiti scaturenti dall’ordinario svolgimento dell’attività di impresa quale delineata nel business plan. Ne discende l’accentuazione dei compiti di valutazione previsionale spettanti agli organi gestori e rivolti a favorire l’accertamento della situazione finanziaria della società e delle prospettive reddituali: il che (…) consente la programmazione degli interventi, ivi compresi piani di risanamento e di ristrutturazione, tesi a scongiurare il rischio di crisi o di insolvenza” ; Strampelli, Capitale sociale e struttura finanziaria nella società in crisi, in Riv. soc., 2012, p. 622 ss.; Stanghellini, Director’s Duties and the Optimal Timing of Insolvency. A Reassessment of the “Recapitalize or Liquidate” Rule, in AA.VV., Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze, Benazzo – Cera – Patriarca (diretto da), Torino, 2011, p. 731 ss.
[47] 
Ci sentiamo in piena sintonia sul punto con Miola, Attività di direzione, op. cit., p. 2719 che opportunamente osserva in punto di responsabilità gestoria, seppure riferita ai gruppi, che :”La ricostruzione di tali doveri e la loro stretta interdipendenza con i descritti compiti previsionali si presta sempre più diffusamente ad essere ricondotta anche nel nostro ordinamento, con specifico riferimento ai gruppi di società, all’ampio dibattito che in sede comparatistica ha preso le mosse dall’istituto anglosassone del Wrongful Trading, quale disciplinato dalla sect. 214 Insolvency Act 1986.”  In generale sulla Wrongful Trading: Angelici, La società per azioni - Principi e problemi, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, già diretto da Cicu – Messineo – Mengoni, continuato da Schlesinger, I, Milano, 2012, p. 190; e in rapporto alla Fraudulent Trading: Prentice, Fraudulent Trading: Parent Company’s Liability for the Debts of its Subsidiary, in Law Quarterly Rev., 103, 1987, p. 11.
[48] 
Per la rilevanza di questa funzione anche per il diritto e per la natura stessa della spa: Visentini, Le filosofie della società per azioni e l’esperienza italiana, in AA.VV., La riforma societaria alla prova dei suoi primi dieci anni, op. cit., p. 53.
[49] 
Non c’è dubbio che la forte sensibilizzazione degli organi di amministrazione e controllo verso un sistema di allerta che faccia emergere tempestivamente la crisi aumenta i profili del c.d. rischio organizzativo. Ci sembrano quindi condivisibili le conclusioni di Rabitti, Rischio organizzativo e responsabilità degli amministratori, Milano, 2004, p. 101, nel senso che “(…) la procedimentalizzazione dell’attività di impresa e la trasparenza informativa hanno così progressivamente arricchito di contenuti tecnici la formula dell’organizzazione aziendale efficiente. Costituisce inadempimento degli amministratori tanto l’inosservanza di un dovere specifico imposto dalla legge e dallo statuto, quanto la mancata predisposizione di tutte le cautele e dei presidi necessari ed opportuni ad assicurare un’organizzazione efficiente dell’impresa, funzionale cioè al perseguimento dell’oggetto sociale.”
[50] 
Per una puntuale ricostruzione del sistema degli indicatori e degli indizi della crisi: Leuzzi, Indicizzazione della crisi d’impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine del nuovo sistema, in https://blog.ilcaso.it/news_827/28-10-19/ .
[51] 
La correttezza dell’allegazione del danno è alla base delle stringenti ed ancora validissime - a parere di chi scrive -  argomentazioni e statuizioni di Cass., SS. UU., 6 maggio 2015, n. 9100, che si può leggere  in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 12670 - pubb. 20/05/2015. In generale sull’applicazione del nuovo art. 2486 c.c.: Dimundo, Responsabilità degli amministratori per violazione dell’art. 2486 c.c. e danno risarcibile, in Fall., 2019, p. 1289.
[52] 
Sulla insolvenza prospettica: Inzitari, Crisi, insolvenza prospettica, allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione, in Riv. dir. banc., 2020, p. 355 ss..   

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