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Saggio

Il concorso dei creditori nell’evoluzione della responsabilità patrimoniale: appunti per una riflessione tra diritto generale delle obbligazioni e nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza*

Francesco Macario, Ordinario di diritto privato nell'Università Roma Tre

10 Marzo 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
**Le pagine che seguono costituiscono la rielaborazione della relazione tenuta al convegno dell’Associazione Civilisti Italiani, svoltosi a Ferrara, 1-2 dicembre 2023, sul tema “La disciplina generale del rapporto obbligatorio. Attualità e prospettive”, i cui atti sono pubblicati, a cura di G. DE CRISTOFARO e A. FINESSI, Pacini, Pisa, 2024.
L’Autore riconsidera la problematica generale del concorso dei creditori alla luce dell’evoluzione avvenuta nel sistema della responsabilità patrimoniale con la riforma delle procedure concorsuali, nel tentativo di cogliere i tratti salienti di tale evoluzione sistematica, che emergono dal confronto tra il diritto generale delle obbligazioni (e la tutela del creditore ivi disciplinata), da un lato, e il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, dall’altro. Emblematiche del nuovo sistema, interamente ridisegnato dalla riforma esitata nel codice della crisi e dell’insolvenza, sono la concezione della pluralità di creditori come comunità (e non più come espressione plurale dei loro interessi individualmente considerati), la rilevanza delle priorità negli strumenti di regolazione della crisi (secondo i principi concorrenti di absolute e relative priority rule, operanti nel diritto delle ristrutturazioni), la disciplina del pagamento dei crediti pregressi e delle prededuzioni. Tutte vicende giuridiche, queste ultime, che impongono un ripensamento radicale dell’idea di par condicio creditorum, tanto più in considerazione del condizionamento che la realizzazione dei diritti dei creditori può subire per effetto delle nuove norme a tutela dell’impresa e della continuità aziendale.  
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1 . Premessa introduttiva
Se un tratto costante dovesse essere individuato nell’evoluzione del sistema - avvenuta nell’ultimo ventennio, prevalentemente, con la riforma della legge fallimentare, e in maniera così radicale da poter essere rappresentata come la proverbiale rivoluzione copernicana -, in ambito di responsabilità patrimoniale del debitore, questo potrebbe essere rinvenuto nella disciplina e nelle problematiche relative al concorso dei creditori, che pertanto può dirsi aver acquisito una posizione di indiscutibile centralità nell’ambito di qualunque riflessione in materia. In termini normativi, il discorso si riferisce (se non altro in prima battuta, nel senso che tradizionalmente ha ruotato intorno) al sistema delle norme - ovvero dei principi, se si preferisce, trattandosi di esemplari ed emblematiche “disposizioni generali” - di cui agli artt. 2740 e 2741 c.c. Un sistema che si è evoluto e perciò profondamente modificato, si diceva, negli ultimi decenni, che oggi appare completamente ridisegnato dalle vicende, di natura tanto legislativa quanto giurisprudenziale, che hanno caratterizzato il lungo percorso di riforma della legge fallimentare, confluito da ultimo nel codice della crisi e dell’insolvenza. 
Va ricordato subito, in premessa, che la vicenda giuridica riconducibile al concetto di concorso dei creditori è molto ampia e articolata, nonché assai frammentata, considerando gli ambiti diversi – si aggiunga: eterogenei, anche a voler considerare soltanto le discipline del codice civile ove, in vario modo, il concorso viene disciplinato –, nei quali può realizzarsi il conflitto d’interessi tra i creditori e pertanto s’impone l’esigenza dell’ordinamento di fissare le regole per risolvere la controversia tra i creditori, con riferimento al medesimo patrimonio, quale garanzia per la realizzazione dei diritti di questi ultimi[1]. 
In questo senso, si può certamente dire che l’estesissima materia del concorso travalichi la problematica, anch’essa notevolmente evolutasi (e anche in questo caso, si può senz’altro dire, rivoluzionata rispetto al passato), della par condicio creditorum, dovendosi pertanto fare giustizia della frequente ed erronea assimilazione dei due concetti[2], ossia il concorso e l’eguale diritto dei creditori: il primo rappresentabile come accadimento, ossia situazione della realtà fattuale (coincidente con la stessa pluralità dei creditori), cui l’ordinamento attribuisce rilevanza sul piano giuridico, mediante la sua regolamentazione nelle diverse situazioni e in considerazione dei vari conflitti d’interesse (da risolvere in sede di diritto tanto sostanziale, quanto processuale); il secondo, invece, quale modalità tecnica prescelta dall’ordinamento per disciplinare il concorso stesso. Una modalità, quella che fa capo all’eguale diritto dei creditori, che così può operare mediante la norma generale della par condicio, dunque grazie alla norma espressa con l’art. 2741 c.c., nel momento in cui il conflitto si determini nella realizzazione della garanzia patrimoniale in via esecutiva. 
All’elementare e quasi scontato rilievo appena svolto dovrebbe aggiungersi, sempre in premessa della riflessione da svolgere, che l’analisi dello ‘stato dell’arte’, per così dire, del principio di parità di trattamento dei creditori (ossia del loro “eguale diritto”, per riprendere l’espressione letterale dell’art. 2741 c.c.), da compiere alla luce dell’evoluzione della disciplina della crisi d’impresa e degli strumenti per la sua regolazione, così come delle procedure concorsuali funzionali a tale obiettivo - ormai ordinato razionalmente, s’è detto, nel codice di recente emanazione, anche all’esito dell’opera di rifinitura avvenuta attraverso l’ultimo intervento legislativo c.d. “correttivo” -, debba procedere senza dimenticare la vicenda, non meno complessa, della c.d. ‘articolazione’ del patrimonio del debitore, ove operano le diverse (nonché eterogenee) figure giuridiche caratterizzate dalla separazione e segregazione patrimoniale, che finiscono per mettere in discussione (se non in crisi) l’altro principio espresso dalla norma generale (art. 2740 c.c.), ossia l’unitarietà del patrimonio del debitore.  
Se nessuno potrebbe dubitare del fatto che la rappresentazione del sistema nei termini semplificati delle poche disposizioni generali predisposte dal legislatore del codice civile, sia stata ampiamente superata dalle nuove norme - maturate nel corso e, soprattutto, all’esito del lungo iter di riforma -, così come dall’evoluzione tanto della giurisprudenza, quanto (e prima ancora, di norma) degli interventi e dei tentativi di razionalizzazione compiuti dalla dottrina, ma anche dalla stessa esperienza concreta degli affari, altrettanto innegabile è la sfida, già prima facie molto impegnativa, che attende i giuristi[3]. Per chi intenda affrontare la ricostruzione del sistema – necessaria, oggi molto più che in passato, e anzi imprescindibile, proprio per dare coerenza e razionalità alle soluzioni di volta in volta proposte dai diversi formanti, cui s’è appena fatto riferimento -, si porrà così il problema di riannodare le fila, per così dire, dei molteplici interventi e dei dati normativi, così come degli orientamenti giurisprudenziali, nonché delle prassi operative. Queste ultime, peraltro, assumono nel contesto attuale (anche e soprattutto per le innovazioni intervenute sul piano normativo) una particolare rilevanza, dal momento che, se per un verso devono confrontarsi e risultare compatibili con le regole formali e le decisioni assunte in sede giurisdizionale che si consolidano in orientamenti più o meno consolidati, per altro verso forniscono gli spunti più significativi per determinare l’effettiva evoluzione del sistema, che non può realizzarsi soltanto mediante le nuove disposizioni normative del codice, ma richiede la conferma in termini di effettività. 
Il dato da cui muovere, dunque, è quello di uno scenario giuridico della responsabilità patrimoniale, che presenta oggi una notevole e inattesa complessità. Una vicenda che, nel suo insieme, si presenta ancora magmatica e comunque in fieri, ancorché il legislatore del codice della crisi e dell’insolvenza – a quanto parrebbe, in modo ancora non definitivo e dunque da rifinire, a cominciare talvolta dalla stessa formulazione o riformulazione, più chiara e coerente, delle nuove disposizioni normative – abbia meritoriamente cercato di ordinare nella forma sistematica per antonomasia del “codice”. 
A monte di ogni riflessione sulle specifiche questioni, inoltre, non si può trascurare che, in termini generali, la presenza di un codice ‘di settore’ solleva sempre una serie di questioni di natura lato sensu metodologica, riconducibili in ultima analisi alla più generale problematica del rapporto tra diritto privato generale e ‘specialità’ delle discipline settoriali, che in questo caso occorre affrontare e risolvere, muovendosi in un contesto giuridico decisamente originale - si diceva, autenticamente rivoluzionario rispetto al passato -, ove i paradigmi concettuali di fondo sono mutati, con l’ingresso e l’affermazione di nuovi principi[4], e anche le categorie tradizionali di riferimento devono essere interamente ripensate[5].    
La sfida attuale per la dottrina civilistica è nel tentativo di ricostruire sistematicamente la responsabilità patrimoniale del debitore, con tutto quanto consegue - in primo luogo, il problema del concorso dei creditori, di cui ci si occuperà nelle pagine seguenti -, al di là del dogmatismo (e le connesse semplificazioni, in qualche modo recepite dalla disciplina del codice civile), che vanta una lunga tradizione di pensiero e, più in generale, si è sviluppato sul fondamento di una cultura giuridica pesantemente condizionata dall’idea – se si preferisce, dall’ideologia - dell’indiscutibile e insuperabile carattere imperativo (dunque, assolutamente indisponibile) di una disciplina, ove l’autonomia privata avrebbe potuto operare in uno spazio ridottissimo, pressoché nullo. In tal senso, l’esigenza attuale è, in primo luogo, quella di cogliere e sviluppare gli spunti che consentono di elaborare una ricostruzione moderna e funzionalistica di principi e regole a tutela del patrimonio (del debitore) e dei diritti dei soggetti interessati (in primo luogo, ma non soltanto, i creditori). 
I passaggi fondamentali di un discorso che muova dal superamento della prospettiva dogmatica ottocentesca, in modo da comprendere le premesse teoriche per una moderna concezione funzionalistica del “rapporto di responsabilità”, alla base della tutela giurisdizionale del credito, non possono non considerare: (a) l’evoluzione della responsabilità debitoria tra diritto sostanziale e (processo o procedimenti di) esecuzione forzata, nelle sue diverse configurazioni, in uno scenario molto più articolato rispetto al passato, in ragione soprattutto dei notevoli spazi di tutela riconosciuti dall’ordinamento all’autonomia privata, da un lato, e all’impresa, dall’altro; (b) la rilevanza del patrimonio del debitore, in relazione tanto alle limitazioni della responsabilità, quanto al concorso dei creditori (in linea di principio, a parità di condizioni), con il progressivo superamento (secondo un’ormai sempre più diffusa concezione, o forse sarebbe meglio dire, percezione o sensazione) tanto dell’idea di unitarietà del patrimonio, quanto della regola generale che si sostanzia nella stessa idea di par condicio creditorum; (c) infine, le vicende delle cause legittime di prelazione e delle “priorità”, per usare un’espressione più moderna, per così dire, ripresa dal linguaggio giuridico anglosassone, che in questa materia consente di esprimere meglio, rispetto alla formulazione tradizionale usata dal codice, il modo in cui oggi il legislatore, al pari del diritto vivente, intendono le regole del concorso.
2 . L’impostazione tradizionale degli studi sulla responsabilità patrimoniale
Sembrerebbe quasi scontato constatare quanto già rilevato in apertura, ossia che tra le discipline incise in modo particolarmente significativo (in alcuni casi, davvero radicale) dalle innovazioni legislative degli ultimi decenni, così come dall’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale - allo stesso tempo, va da sé, causa ed effetto delle modifiche normative -, vi sia quella della responsabilità e della garanzia patrimoniale. 
Questa generica e persino banale considerazione, se per un verso  sembrerebbe scavare un incolmabile solco tra l’impostazione di una riflessione svolta verso la metà del secolo appena trascorso e le più recenti indagini, per altro verso potrebbe rendere ancora più interessante il confronto tra studi – in primis, evidentemente, quelli di giuristi del calibro di Rosario Nicolò[6] o di Domenico Rubino[7], senza dimenticare il contributo di Salvatore Pugliatti[8] - incentrati tutti (pur con le diverse modalità di analisi proprie di ciascuno dei grandi Maestri menzionati, che in questa sede è impossibile ripercorrere, ancorché in sintesi) proprio su detti principi e regole generali, quale fulcro di un sistema racchiuso nel codice civile (all’epoca in cui scrivevano i menzionati maestri, di nuovo conio e, quindi, autenticamente rappresentativo della cornice giuridica nella quale avrebbero potuto trovare collocazione e giustificazione eventuali nuove discipline) e una produzione scientifica dall’accentuata caratterizzazione per così dire ‘centrifuga’. 
Una riflessione, quella relativa alla più recente letteratura giuridica, stimolata dalle novità (legislative, s’è detto, in primo luogo) e, in tal senso, relativa a singoli aspetti dell’ampia tematica riconducibile ai principi e alle regole generali disposte dal codice civile in materia di responsabilità e garanzia patrimoniale, al punto da far apparire la cornice normativa ivi delineata obsoleta, se non addirittura inaccettabilmente costrittiva e perciò pregiudizievole rispetto all’evoluzione del sistema richiesta dalla prassi. 
Ad alcune trattazioni sul tema generale, che compaiono per lo più nelle voci enciclopediche[9], nella trattatistica[10] e ovviamente nella forma esegetica del commentario[11], così assolvendo all’esigenza di completezza dell’opera, e assumendo, quasi di necessità, una forma in prevalenza compilativa, fanno riscontro invero non molti contributi monografici[12], che l’evoluzione della riforma del diritto dell’insolvenza (e della crisi d’impresa) ha, per la verità, stimolato (va anche detto, sempre con un limitato interesse da parte della civilistica per quanto stava avvenendo nel corso della riforma della vecchia legge fallimentare), mentre una non trascurabile produzione scientifica ha avuto ad oggetto temi e istituti specifici. 
Va da sé che questi ultimi lavori non possono non presupporre (e imporre, direi) il confronto con i principi e le regole generali in materia di responsabilità e garanzia patrimoniale, mentre nel merito il loro Leitmotif è pressoché costantemente riconducibile alla tendenza dell’ordinamento a liberarsi da (o almeno allentare) quei vincoli che, nella communis opinio, condizionerebbero (o avrebbero condizionato, sostanzialmente inibito, in passato) l’autonomia privata in ossequio a detti principi e regole generali, potendosi indicare gli esempi, che appaiono sufficientemente emblematici e ai quali s’è già fatto riferimento, delle discipline relative a patrimoni destinati e alla destinazione patrimoniale in generale, così come delle norme su separazione e segregazione, rifluenti nella tematica del trust o dei trusts[13]. 
Se si volesse impostare la riflessione muovendo da un approccio di tipo dogmatico, il punto di partenza per collocare all’interno del sistema il discorso sulla responsabilità patrimoniale non potrebbe che essere costituito dalla definizione del rapporto tra lo stesso concetto di responsabilità (di cui all’art. 2740 c.c.) e l’adempimento ossia il “dovere di prestazione” del debitore, dovendosi in primo luogo accogliere con favore - secondo la nota ricostruzione di Rosario Nicolò - la semplificazione della formulazione normativa, rispetto a quella dell’art. 1948 c.c. 1865, nella misura in cui essa contribuisce a chiarire l’autonomia tra i concetti di responsabilità patrimoniale e di obbligo del debitore nei confronti del creditore (come dovere di prestazione). 
Non procederò tuttavia in questa direzione, che finirebbe per rivelarsi, in chiave metodologica, più rivolta al passato che non proiettata in avanti[14], limitandomi a rilevare, sempre con riferimento al nostro codice, l’innegabile ideale continuità - se si preferisce, una sorta di nesso teleologico - tra la disciplina di cui all’art. 1218 c.c. e quella degli artt. 2740 ss. c.c.[15], si coniuga con la distinzione e conseguente dislocazione separata della disciplina sulla responsabilità del debitore, all’interno del codice civile, nelle due sedi, rispettivamente del Libro IV, in ordine a tutto quanto attiene (ma anche è limitato) al rapporto obbligatorio e del Libro VI, in relazione, invece, a quel che concerne (e si estende a) la “tutela dei diritti” dei terzi (creditori e aventi causa), costituente tale opzione la riprova – per riportare ancora il pensiero di Rosario Nicolò - che “il nuovo legislatore ha avuto piena consapevolezza del problema dogmatico”[16]. 
Non v’è dubbio, alla luce dell’evoluzione in ambito di tutela del credito e del concorso dei creditori, di cui potranno essere evidenziati soltanto i tratti fondamentali, che “il problema dogmatico” richiamato da Rosario Nicolò, ragionando sul ‘sistema del codice civile’, si pone oggi in termini molto diversi e indubbiamente originali, se non addirittura inimmaginabili, anche soltanto alcuni decenni addietro[17]. 
Una vicenda concettuale, quest’ultima relativa alla ricostruzione del sistema, senza dubbio avvincente nella logica dogmatica del tempo, che oggi tuttavia potrebbe apparire priva di senso – se non per il suo rilievo nella ricostruzione della storia delle idee[18], s’intende -, rispetto alle problematiche poste dall’attuale assetto dell’ordinamento in ambito di “insolvenza del debitore” – questa è la categoria civilistica tradizionale e, di conseguenza, presente nel tessuto del codice civile – e, in una sorta di nuova endiadi, “crisi d’impresa” – la nuova categoria ordinante, ereditata dal mondo dell’economia aziendale e secondo la quale la vicenda assume una rilevanza giuridica particolare e appunto innovativa, rispetto al sistema tramandato (ove, è appena il caso di ricordarlo, la tradizionale e consolidata autoreferenzialità del diritto non avrebbe consentito interferenze di alcun genere, come ad esempio, nella materia in esame piuttosto emblematicamente, da parte delle scienze economico-aziendali).  
Quel che si può invece ricordare, in questa sede, è che, nella nuova sistematica codicistica – rispetto al codice ottocentesco, s’intende - la disciplina della responsabilità patrimoniale, per un verso “è l’indice decisivo che rivela la giuridicità del rapporto obbligatorio”[19], ma per altro verso esprime l’esigenza irrinunciabile dell’ordinamento di guardare al di là del rapporto obbligatorio (che vede contrapposti gli interessi del debitore e del creditore, come disciplinati nel Libro IV ossia all’interno della vicenda giuridica dell’adempimento e, rispettivamente, dell’inadempimento), per considerare il complesso reticolato costituito dai numerosi e diversi rapporti, in senso giuridico ed economico, che ruotano intorno al patrimonio del debitore assoggettato alla garanzia (e poi all’esecuzione forzata), nell’interesse dell’intero ceto creditorio e dei terzi. Questo scenario, che s’è detto supera la dimensione bilaterale del rapporto tra debitore e creditore, è diventato ancora più articolato e complesso, lasciando emergere nuove categorie ordinanti e nuovi principi regolatori della materia[20]. 
In questo senso, non soltanto si può dire – dovendosi seguire, anche in questo caso, la sintetica ma preziosa rappresentazione offerta da Rosario Nicolò – che la dimensione atomistica e isolata del (singolo) rapporto obbligatorio sia superata, nella strutturazione della responsabilità patrimoniale all’interno del Libro VI (che intende fissare le regole dei conflitti tra soggetti terzi, in primis dunque tra i creditori relativamente al medesimo patrimonio), ma occorre altresì sottolineare che i principi ivi fissati, considerati nella ricordata prospettiva funzionale della “tutela dei diritti”, hanno costituito e tuttora – a mio avviso - costituiscono l’ossatura del sistema, ma si tratta – come rilevava un’attenta voce dottrinale della civilistica tedesca verso la metà del secolo scorso – di un sistema in movimento, ossia in evoluzione, che diviene sempre più complesso in termini normativi e, proprio per questo, necessita, oggi forse ancor più che in passato, di solidi punti di riferimento riconducibili ai principi. 
Ciò implica che l’unità del sistema della responsabilità patrimoniale, che la dottrina cui s’è fatto riferimento – con l’autorevolezza di giuristi quali Rosario Nicolò, Domenico Rubino, Salvatore Pugliatti – ha sempre tentato di preservare, va oggi ricostruita utilizzando coordinate nuove, anche notevolmente diverse, rispetto al passato, lasciando da parte il dibattito sulla natura (prevalentemente) sostanziale o processuale (se si preferisce, procedimentale) della responsabilità patrimoniale del debitore.
3 . Il concorso dei creditori nel diritto dell’insolvenza: (a) la pluralità come “comunità” di creditori e l’unitarietà del patrimonio del debitore
Inquadrata la problematica generale alla luce della dottrina tradizionale più autorevole, che inevitabilmente si muoveva all’interno della rigida cornice codicistica, si può tentare di comprendere quali siano le nuove coordinate categoriali, muovendo dall’indicazione di due possibili punti di vista: quello normativo in senso stretto e quello sistematico ovvero, se si preferisce, concettuale. 
Se si procede partendo dall’evoluzione normativa, non si può non prendere atto della netta scissione, che si compie in via definitiva con il codice della crisi, tra il diritto (dell’insolvenza) delle liquidazioni e del diritto delle ristrutturazioni (con l’ulteriore distinzione, sempre desumibile dai dati normativi nuovi, tra ristrutturazione del debito e ristrutturazione aziendale): il dato più evidente, ma anche più rilevante nella ricostruzione del nuovo sistema in fieri, è dunque nella constatazione che norme e principi mutano (e in modo non lieve), a seconda che l’insolvenza sia regolata nell’una o nell’altra vicenda. 
In termini, invece, sistematici – in una prospettiva, s’è detto, più concettuale -, non possono non essere riconsiderati i concetti (se si preferisce, le categorie civilistiche) ordinanti nella materia in esame: da un lato e in termini soggettivi, il debitore, il creditore; dall’altro lato e in termini oggettivi, il patrimonio ma anche, quale significativa innovazione del percorso di riforma, su cui occorrerà ritornare, l’impresa (corrispondente all’attività economico-aziendale del debitore). 
Il tema al centro di queste brevi riflessioni, ossia il concorso, impone di considerare prioritariamente le norme sul trattamento dei creditori, così come la disciplina del patrimonio e dell’attività d’impresa, nella loro attuale rilevanza giuridica, rispetto alla vicenda dell’insolvenza. 
Per quanto riguarda i creditori, occorre prendere atto del passaggio, rilevantissimo sul piano metodologico e comunque fondamentale per inquadrare il tema e le molteplici problematiche del concorso, dal (semplice, sul piano concettuale almeno) diritto alla realizzazione del credito[21] – la prospettiva di tutta la dottrina tradizionale, sulla scia dello stesso sistema riferibile allo scenario codicistico del 1942 –, mediante l’esecuzione forzata, al nuovo mondo della ‘comunità’ dei creditori, i quali partecipano allo svolgimento dei diversi strumenti per la regolazione della crisi in vario modo, evidentemente, a seconda dello specifico contesto disciplinare: dalla ristrutturazione dei debiti, agli altri accordi (agevolati, a efficacia estesa o di moratoria), sino alle diverse forme concordatarie, ma a ben vedere già nella procedura, di nuovissima concezione, di composizione negoziata della crisi. 
I creditori non sono più (soltanto) i destinatari dei proventi della liquidazione del patrimonio, ma sono chiamati ad agire e a decidere - le modalità di espressione della volontà dei creditori sono diverse, secondo le diverse discipline - in una dimensione “comunitaria”, per così dire, in cui si inseriscono - quale ulteriore novità particolarmente rilevante, nonché decisamente anomala, se non eversiva, rispetto al sistema tramandato - anche le prerogative giudiziali (dunque, le facoltà del tribunale) intese a superare gli esiti decisionali dei creditori (secondo l’inevitabile criterio maggioritario), per garantire ugualmente lo svolgimento della procedura (esemplare la disciplina del c.d. cram down nel concordato preventivo). 
Una comunità, che è stata definita “di pericolo” (nel diritto delle ristrutturazioni) e “di perdite” (nelle liquidazioni, in cui sarebbe oggi confinata anche la realizzazione dell’eguale diritto, di cui all’art. 2741 c.c.)[22], che consente di comprendere meglio non soltanto l’inibizione dei poteri di autotutela, ossia le iniziative individuali per la realizzazione del credito – poteri che invece, nel sistema del codice civile, costituiscono l’effetto o se si preferisce la risposta dell’ordinamento, nella diverse configurazioni in ambito di diritto delle obbligazioni in generale e di diritto dei contratti, sempre in generale, proprio all’insolvenza del debitore: artt. 1186 e 1461 c.c. come esempi a tutti ben noti – ma anche e soprattutto i “doveri” a carico dei creditori, a partire da quelli enunciati dal legislatore nei già ricordati “principi generali” del codice della crisi e dell’insolvenza. 
Non più, dunque, una dimensione ‘passiva’ per così dire, del creditore (in attesa del pagamento, quale esito della liquidazione del patrimonio del debitore, statisticamente più frequente rispetto agli strumenti negoziali, o dell’esecuzione di accordi e/o concordati), ma un ruolo attivo, regolato attraverso specifiche norme, che per un verso ribadiscono a più riprese – a partire dalle disposizioni generali del codice della crisi, riecheggiando in qualche modo la norma posta in apertura del Libro IV, sempre tra le “disposizioni generali”, di cui all’art. 1175 c.c. - i doveri collaborativi, di correttezza e buona fede, in vista del raggiungimento di un risultato (rilevante per la regolazione della crisi e dell’insolvenza)[23], per altro verso impongono di decidere sull’impresa, ossia sul mezzo che, secondo l’ordinamento, può assicurare il “miglior soddisfacimento” dei creditori stessi – sempre intesi in senso collettivo, ossia come comunità – o almeno, alla stregua dell’evoluzione normativa che ha valorizzato la continuità aziendale, un risultato maggiormente soddisfacente (o almeno non deteriore), rispetto a quanto avverrebbe all’esito della liquidazione del patrimonio. 
Per quanto riguarda poi il patrimonio, invece, possono ritenersi superate alcune problematiche e, di conseguenza, potrebbero dirsi in qualche modo acquisite e definitivamente consolidate alcune considerazioni, che muovevano dal concetto di patrimonio del debitore, di cui al primo comma dell’art. 2740 c.c., con riferimento a “tutti i [suoi] beni presenti e futuri”, come “limite concreto” (riportando l’espressione di Rosario Nicolò) nella funzione satisfattiva delle ragioni del creditore, da accertare quindi nella specificità delle circostanze. Si tratterebbe, in altri termini, dell’applicazione del principio di proporzionalità della garanzia e della conseguente esecuzione forzata, che caratterizza l’ordinamento ed emerge in contesti diversi attraverso specifiche disposizioni. 
È innegabile che la materia, apparsa comprensibilmente piuttosto lineare agli occhi degli studiosi del secolo scorso (come dimostra la limitatissima produzione dottrina, se non sostanziale assenza, di studi critici nei confronti dell’assetto normativo codicistico), si sia rivelata nel prosieguo ben più complessa. Se è infatti difficilmente controvertibile l’ormai avvenuto tramonto, rispetto all’epoca del codice civile del 1942, della concezione unitaria del patrimonio (che la tradizione faceva risalire, com’è noto, a Savigny), quale espressione dell’unità dello stesso soggetto e anzi attributo della sua personalità (ossia della persona considerata ‘unitariamente’ quale proprietario)[24], di là da venire era l’idea della scomposizione di tale unità del patrimonio (nella sua destinazione a garanzia dei creditori) in una pluralità di “regimi patrimoniali” e in una “articolazione” dello stesso patrimonio – riprendo l’espressione dagli studi, esemplari in argomento, di Paolo Spada - da considerare in relazione al fenomeno giuridico della personificazione dell’ente[25]. 
La tematica è anche in questo caso tanto ampia e complessa, da non permettere alcun approfondimento, potendosi soltanto segnalare, nell’ambito di una riflessione generale dedicata alla tutela del credito e dunque dei creditori (in concorso tra loro), la rilevanza decisiva della distinzione tra le questioni di validità, di efficacia e di opponibilità dell’atto di destinazione, al fine di razionalizzare anche le disposizioni di più difficile comprensione e ‘sistemazione’, all’interno di una cornice normativa quale è quella del codice civile, non immediatamente consona all’inquadramento delle nuove problematiche[26]. 
Il discorso sul modo di atteggiarsi, nell’attuale scenario normativo, del concorso dei creditori rispetto all’unitarietà del patrimonio del debitore, ma anche rispetto al diritto del (singolo) creditore a realizzare il suo credito, alla stregua delle regole del concorso, condurrebbe come si vede molto lontano, sicché è opportuno circoscrivere l’ambito dell’analisi e procedere con qualche riflessione su un tema di rilevanza centrale, nella riflessione sul concorso dei creditori, ossia il significato attuale dell’eguale diritto di questi ultimi ex art. 2741 c.c.
4 . Segue (b). Eguale diritto dei creditori, cause legittime di prelazione e nuovo sistema delle “priorità” negli strumenti di regolazione della crisi (i principi concorrenti di absolute e relative priority rule nel diritto delle ristrutturazioni)
Anche con riferimento al tema appena enunciato, non si può prescindere dalla prospettiva storico-evolutiva, ricordando che il principio (come viene comunemente inteso) della par condicio creditorum - rispetto al quale, il codice del 1942 registrava il superamento della formula, considerata da autorevole dottrina “piuttosto sovrabbondante”, utilizzata dal codice civile ottocentesco all’art. 1849[27] -, dimostra la consapevolezza del legislatore di orientarsi verso “la concezione che nega un diritto di natura sostanziale dei creditori sui beni del debitore”[28], neutralizzando al contempo l’idea dell’esistenza di un obbligo, in capo al debitore, di non porre in essere atti dispositivi determinanti una diminuzione del patrimonio, inteso come garanzia generica e comune dei creditori[29]. 
La successiva dottrina non ha fatto altro che confermare, unanimemente, l’insussistenza di un siffatto obbligo[30]. Per altro verso, il carattere sostanziale della norma rimane fermo quanto alla “soluzione egualitaria” ossia al principio della par condicio quale “logica conseguenza dell’identità dell’oggetto che la legge assegna all’azione esecutiva di ciascun creditore”[31]. La stessa dottrina, tuttavia, si rende conto che detto principio “è in concreto attuato con un diverso grado di intensità”, potendosene ravvisare attenuazioni della portata con riferimento, ad esempio, alla disciplina dell’esecuzione forzata individuale (mobiliare, art. 527 c.p.c.), rimanendo peraltro ferma la convinzione, secondo la quale il principio in esame riceverebbe (e non può che ricevere) integrale applicazione nell’esecuzione collettiva, detta comunemente e non a caso “concorsuale”[32]. 
Non si può non constatare come la storia, in questo caso, si sia svolta imboccando una diversa direzione, tanto in ordine all’evoluzione della riflessione dottrinale, che ha da tempo (e in vario modo) posto in dubbio l’effettività del principio dell’eguale diritto dei creditori[33], quanto dal punto di vista normativo, in considerazione delle deroghe legislative comportanti un progressivo (ma inesorabile) ridimensionamento della consistenza del principio, da ultimo attraverso la riforma della legge fallimentare esitata nel recente codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, quale svolta epocale nella disciplina della crisi d’impresa e degli strumenti negoziali e procedurali per il suo superamento[34]. 
Resiste la già ricordata sospensione dei poteri di autotutela, con la conseguente preclusione dell’azione esecutiva individuale, quale effetto dell’assoggettamento di tutti i beni del debitore alla garanzia di tutti i creditori – ricordando che i beni colpiti da un vincolo prelatizio di natura reale sono (parte del patrimonio del debitore, ma) da considerare al di fuori dal concorso dei creditori, salvo, evidentemente, per quanto concerne il valore di realizzo eccedente il soddisfacimento del credito assistito dalla garanzia reale – e si è spinta oltre la dimensione tradizionale della liquidazione del patrimonio (come mezzo per il soddisfacimento dei diritti dei creditori), dal momento che è stata estesa dal legislatore (oltre che al concordato preventivo) anche agli accordi di ristrutturazione dei debiti (non riconducibili concettualmente alla categoria delle “procedure” funzionali alla gestione del concorso[35], se non si vuole assegnare alla stessa espressione di “procedura concorsuale” un significato così lato, da rendere incomprensibile la stessa scansione sistematica e dunque, in ultima analisi, la distinzione tra i diversi “strumenti” ordinati e disciplinati dal codice della crisi), così come alle altre ‘procedure’, utilizzabili dal debitore come strumento di regolazione della crisi (a cominciare dalla composizione negoziata, di carattere preliminare e perciò disciplinata nel codice prima degli altri strumenti). Ma non si può dire che l’inibitoria persegua la finalità di garantire l’effettività della par condicio creditorum, in quanto l’obiettivo è altro, attenendo al successo della soluzione negoziale della crisi (attraverso il concordato preventivo, il menzionato accordo di ristrutturazione o gli altri “strumenti” previsti dal codice). 
La logica di tipo recuperatorio e conservativo dell’impresa che versi in una situazione di crisi, con l’obiettivo del superamento di quest’ultima, che caratterizza lo spirito della nuova disciplina del concordato, rispetto alla logica esclusivamente liquidatoria, che invece ha tradizionalmente caratterizzato le procedure concorsuali (nella storia dell’idea stessa di “fallimento” e della sua regolamentazione)[36], era certamente ben lungi dal profilarsi all’orizzonte alla metà degli anni Cinquanta, ma anche successivamente, ossia nel periodo in cui autorevolissimi studiosi del diritto privato, i cui nomi sono stati già evocati, tentavano di dare un ordine sistematico alla materia. 
Le considerazioni espresse sul punto dagli studiosi di quel tempo, pur preziose per la costruzione del ragionamento civilistico, vanno così definitivamente collocate nel loro tempo, dal momento che esprimono una concezione della vicenda complessivamente connessa all’insolvenza – così come alla crisi d’impresa, si può dire oggi, alla luce dell’attuale assetto normativo, che recepisce la nozione aziendalistica di crisi -, dal punto di vista del concorso dei creditori e della realizzazione dei diritti di questi ultimi, assai distante da quella attuale, che vede invece, per un verso l’affermazione delle procedure amministrative (in particolare, dell’amministrazione straordinaria, nelle diverse versioni disponibili a seconda della tipologia e delle dimensioni dell’impresa in crisi), per altro verso – questa la considerazione decisamente più interessante – la ‘contaminazione’ sempre più rilevante delle procedure concorsuali a tutela del credito (e del creditore, in quanto tale) con norme che, derogando a regole e principi generali del diritto privato comune, sono intese a preservare la c.d. “continuità aziendale”, una delle novità (se non la novità, al singolare) di maggiore rilievo (oltre che di più forte impatto nella gestione delle procedure concorsuali) nei nuovi assetti del diritto dell’insolvenza. 
Scorrendo la nuova normativa, pur nella necessaria (e riduttiva) sintesi che s’impone in questa sede, si nota immediatamente come la disposizione di apertura espliciti il principio (innovativo e di carattere ‘speciale’) inteso a tutelare i creditori che “vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta” (art. 84, 3° comma CCI), cui si aggiunge la norma che richiede (nella proposta concordataria) l’indicazione specifica delle utilità conseguibili da parte dei creditori. 
Tali utilità, considerate nel contesto dinamico della continuità, non si limitano, evidentemente, al pagamento (integrale o in percentuale) del credito, ma possono assumere connotazioni giuridiche diverse e, in ipotesi, più idonee a realizzare gli interessi sostanziali degli stessi creditori, proprio in ragione della scelta di proseguire (anche soltanto in parte) l’attività d’impresa. In tal senso, la norma impone di esplicitare nella proposta “per ciascun creditore un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa” (è sempre l’art. 84, 3° comma CCI)[37]. 
Enunciate le regole dal tenore più generale, lo stesso art. 84 CCI, al sesto comma, ribadisce un ulteriore cardine della responsabilità patrimoniale del debitore, relativo al rispetto delle cause legittime di prelazione - fermo il già considerato ridimensionamento della par condicio[38] -, prevedendo che, nel concordato in continuità aziendale, il “valore di liquidazione” è distribuito nel rispetto della graduazione delle stesse cause legittime di prelazione. Indirettamente, si confermerebbe così la distinzione tra i due scenari, cui fanno capo rispettivamente il diritto (e le relative procedure) delle liquidazioni (ove rimane prioritario l’interesse dei creditori, secondo il modello tradizionale, ossia senza condizionamenti o compromessi) e il diritto delle ristrutturazioni, ove invece emergono gli ulteriori interessi rilevanti, rimanendo il detto valore di liquidazione (riferito al patrimonio, costituente la garanzia dei creditori) in ogni caso un punto di riferimento essenziale per la tutela dei creditori. 
Se il valore di liquidazione è il presidio (minimo) della tutela dei creditori, va ricordato come la continuità aziendale avesse suscitato, tra gli studiosi, la questione relativa alle sorti del valore eccedente quello di liquidazione, c.d. surplus (o plusvalore) da continuità. Questione tutt’altro che semplice, se si considera che, in giurisprudenza, erano state prospettate interpretazioni divergenti della disciplina[39], tra chi riteneva la distribuzione in ogni caso condizionata (e quindi, in qualche modo, vincolata) dal rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione[40] e quanti, al contrario, supportavano la libertà del proponente di disporre di questa sorta di plusvalore, assumendo così una posizione ritenuta maggiormente aderente e funzionale alla logica della continuità aziendale[41]. 
Il dibattito si era sviluppato, naturalmente, anche in dottrina, attenendo a un punto nodale della vicenda, posto che il senso stesso della continuità aziendale è legato alla concreta possibilità che la prosecuzione dell’attività d’impresa generi flussi, in linea di principio idonei a determinare una situazione migliorativa (in ogni caso, non deteriore) per i creditori (rispetto alla liquidazione del patrimonio, alla stregua delle valutazioni da compiere al momento dell’apertura della procedura). In particolare, nel caso in cui la procedura concordataria in continuità fosse affiancata dalla transazione fiscale – necessaria, com’è noto, qualora i crediti erariali non vengano pagati per intero e senza dilazione, come del resto accade quasi sempre –, si era posto il problema dell’utilizzazione dell’attivo derivante dalla continuità per adempiere al debito erariale. Ciò che condurrebbe a interrogarsi sulla qualificazione del plusvalore corrispondente ai flussi dell’attività aziendale, in termini di finanza esterna ovvero endogena, dunque pur sempre riconducibile al patrimonio del debitore, quale garanzia dei creditori (di conseguenza, non liberamente disponibile, benché con i limiti delle regole concorsuali della c.d. “priorità relativa”, come si vedrà subito), da comprendere tra i “beni futuri”, ai sensi dell’art 2740 c.c.[42]. 
Ben consapevole del dibattito maturato in dottrina[43], il legislatore del codice si è poi affidato, riconoscendole una rilevanza decisiva, alla formazione delle classi[44], prevista come obbligatoria per questo tipo di procedura (ai sensi del successivo art. 85 CCI), così potendosi ‘relativizzare’ la priorità tra i crediti in concorso (per molto tempo affidata al sistema, semplificato e rigido allo stesso tempo, delle cause legittime di prelazione) ritenendo (all’art. 84, 6° comma CCI) “sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”[45]. 
La nuova previsione, certamente dotata di una sua intrinseca razionalità, all’interno della tipologia di concordato che il legislatore intende favorire, ossia quello connotato dalla continuità aziendale[46], si accompagna e anzi fa eco al ricordato filone di studi dottrinali, sviluppatosi sul sistema distributivo caratterizzato – si ricorderà che il punto di riferimento è stato e rimane, come di consueto, il diritto statunitense dell’insolvenza, assunto pertanto dal legislatore a modello nel corso della riforma[47] -, dalla coesistenza dei concetti di priorità “assoluta” o “relativa” (nel gergo anglosassone, ormai acquisito anche grazie alla ‘internazionalizzazione’ della materia, di cui sono espressione inequivocabile i diversi atti normativi maturati in ambito europeo: absolute ovvero relative priority rule)[48]. 
L’inevitabile difficoltà di coniugare specifiche esigenze socio-economiche – un tempo consegnate al sempre più complesso e articolato, ma anche farraginoso, ‘sistema’ dei privilegi – con le più sofisticate nuove norme generali o, se si preferisce, con l’affermazione di nuovi principi, ha peraltro determinato la necessità di prevedere – una volta adottata questa nuova prospettiva, con la convivenza delle due forme o criteri di ‘preferenza’: ovvero absolute e relative priority, a seconda della provenienza delle risorse con cui saranno soddisfatti i creditori - una regola specifica, idonea a tutelare i crediti di lavoro subordinato, intrinsecamente connessi con la continuità aziendale e, in ogni caso, collocati in posizione apicale rispetto all’ordine dei privilegi[49]. 
Introdotta dalla riforma come deroga alla regola (se si preferisce, principio) dell’eguale diritto dei creditori, di cui il proponente avrebbe potuto avvalersi nel caso in cui avesse voluto proporre un trattamento differenziato – diverso, ma compatibile, con quello previsto dal legislatore basato sull’esistenza di una causa legittima di prelazione, in un certo senso razionalizzato e, in tal modo, reso giuridicamente ammissibile grazie al ‘raggruppamento’ dei creditori omogenei[50] -, la suddivisione in classi (da onere del proponente, nell’originaria configurazione) è diventata così obbligatoria nell’innovativo concordato in continuità (art. 85, 3° e 4° comma CCI)[51]. Enunciata l’obbligatorietà della suddivisione dei creditori in classi in termini generali, si stabilisce che anche i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca e interessati dalla ristrutturazione, qualora non vengano soddisfatti in denaro, integralmente ed entro centottanta giorni dall’omologazione[52], debbano essere suddivisi in classi[53]. 
Benché le regole vigenti, previste dal codice per la formazione delle classi, appaiano prima facie tutt’altro che semplici e intuitive, dal suo esordio nel corso della riforma della legge fallimentare, non soltanto non è stata mai messa in discussione l’opportunità della previsione delle classi, ma non era mancato chi sosteneva l’opportunità che diventassero obbligatorie nella proposta concordataria, se non altro – secondo l’opzione recepita anche nella disciplina del codice – nel caso di continuità aziendale. 
L’impressione è che la previsione e la relativa disciplina in materia di c.d. ‘classamento’ siano destinate a scontare, per un verso, la stessa novità del meccanismo[54], per altro verso la complessità del tentativo di coniugare l’aspetto (e la prospettiva funzionale, di natura) più propriamente economico-aziendale della vicenda concordataria con le strettoie giuridico-formali imposte dal rispetto della par condicio, superabile soltanto dall’esistenza di una causa legittima di prelazione. 
Del resto, appare sin troppo evidente che la prospettiva ‘aziendalistica’ non possa che spingere proprio nella direzione del raggruppamento dei creditori attraverso le classi, facendo prevalere l’esigenza di una qualche razionalizzazione dell’espressione di voto – attuata, va da sé, con il superamento del sistema tradizionale e consistente, in ultima analisi, in una compressione o, se si preferisce, un ridimensionamento del valore che la volontà del singolo creditore può avere nella valutazione della proposta -, sul rischio di decisioni individuali (per principio non sindacabili, posto che si tratterebbe di indagare le ragioni che concretamente si celano dietro l’espressione di voto), che potrebbero rivelarsi irrazionali e, in ultima analisi, pregiudizievoli per gli interessi (non soltanto dei creditori ‘ragionevoli’, evidentemente) che dalla procedura concordataria riceverebbero la più efficace tutela. 
In questo contesto, si può comprendere anche la norma di sistema, per così dire, ove si esplicita il limite (intrinseco e, si direbbe, insuperabile sul piano sistematico) del classamento, che - fermo quanto previsto dall’articolo 84, 5°, 6° e 7° comma CCI - non può comunque avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione, quale espressione di una prerogativa del solo legislatore. 
In altri termini, nel momento in cui al proponente è data la possibilità – nella disciplina attuale, trasformatasi in obbligo, fondato sulla già sottolineata ratio legis, dall’evidente matrice socio-economica e, concettualmente se non altro, alternativa alla rigidità del principio che fa capo all’enunciazione dell’eguale diritto dei creditori, nell’astratta formulazione normativa di cui all’art. 2741 c.c. – di modulare la proposta, superando in tal modo l’inevitabile (al tempo, ormai lontano, del codice civile) neutralità della regola sulla par condicio, grazie alla predisposizione di un concreto assetto distributivo delle risorse disponibili affidato appunto alla formazione delle classi[55], è evidente che una siffatta opportunità non potrà mai risolversi in un pregiudizio per quei creditori, il cui diritto non è, per definizione, “eguale” (a quello dei concorrenti), in ragione dell’esistenza (rectius, preesistenza) di una causa legittima di prelazione[56]. 
A differenza dell’eguale diritto (dei creditori chirografari)[57], che nasce in occasione e in ragione del concorso tra creditori (non privilegiati, evidentemente)[58], la prelazione si origina (in via convenzionale o legale), infatti, in modo autonomo e indipendente (oltre che, per principio, in un momento anteriore), rispetto all’apertura della procedura in cui si realizza il concorso, sicché il diritto così consolidatosi in capo al creditore – fatta salva, s’intende, la revocabilità della garanzia prestata in termini fraudolenti e comunque pregiudizievoli per gli altri creditori - non potrebbe mai essere inciso (vanificandosi o riducendosi la prelazione) dalla proposta concordataria[59]. 
5 . Segue (c). Pagamento dei crediti pregressi e prededuzioni
Ulteriore notevole innovazione nel sistema del concorso dei creditori, autentica particolarità e rilevantissima deroga ai principi generali della responsabilità patrimoniale - ancora una volta, in termini generali, si può dire che venga in gioco il principio qui esaminato della par condicio creditorum - si coglie poi nella possibilità, sempre offerta al debitore il quale decida di ricorrere al concordato (nel presupposto, al solito, che vi sia la continuità aziendale), di pagare i crediti pregressi, previa autorizzazione del tribunale, sulla base dell’attestazione sull’essenzialità (per la prosecuzione dell’attività d’impresa) e sulla funzionalità (ad assicurare il miglior soddisfacimento dei creditori) del pagamento[60]. 
Se l’incisione del principio dell’eguale diritto dei creditori è, anche in questo caso, innegabile – nell’ulteriore consapevolezza che la deroga potrebbe assumere, va sempre ricordato, un contenuto economico anche significativo, in relazione alla specificità dei singoli casi -, il legislatore ha inserito questa facoltà, all’apparenza non poco eterodossa, in una precisa cornice normativa, di natura tanto procedurale (per quel che attiene, in primo luogo, alla necessità dell’autorizzazione del tribunale), quanto sostanziale (in termini di essenzialità e funzionalità del pagamento, risultanti da un’attestazione ad hoc)[61]. In concreto, la norma fa capo all’art. 100 CCII, che consente al proponente di chiedere al tribunale l’autorizzazione per il pagamento di crediti, “anteriori per prestazioni di beni o servizi, se un professionista indipendente attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori”[62]. 
Accanto al pagamento dei crediti pregressi, un particolare interesse, sempre in considerazione dei tratti di originalità rispetto al sistema previgente, suscita la disciplina delle prededuzioni che, al pari delle altre figure sin qui considerate, ha vissuto un’esperienza evolutiva storicamente ben ricostruibile: da un tempo, che sembra oggi lontanissimo, in cui neanche figurava il termine “prededuzione” (discorrendosi, nel linguaggio della prassi, di debiti o crediti “di massa”, per le spese di giustizia e di amministrazione del patrimonio maturate nel corso della procedura), al momento, a noi più prossimo, in cui la riforma del 2006 (e la conseguente la riformulazione dell’art. 111 L. fall.) include nella categoria tutti i crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali[63]. 
Da questa ‘storia’, che peraltro ha visto non soltanto lo sviluppo, ma anche quella che da taluni è stata giudicata in termini di ipertrofia delle prededuzioni – al punto che il legislatore della “legge delega” n. 155/2017 aveva previsto, come uno degli obiettivi della riforma in vista della sistemazione organica nel codice, il “contenimento delle ipotesi di prededuzione” -, rimanendo sempre all’interno del discorso sulla distribuzione dell’attivo, ossia nella logica della strumentalità procedurale (della realizzazione) del credito, oggi la giustificazione della ‘priorità’ (assoluta, si direbbe, secondo la distinzione appena ricordata) del credito prededucibile risiede nella sua funzionalità alla prosecuzione dell’attività d’impresa, la quale si realizza grazie a uno degli strumenti di regolazione della crisi. Non a torto s’è detto, pertanto, che rispetto al formale (e asettico, per così dire) criterio dell’inerenza alla procedura (in termini di funzionalità ovvero occasionalità), s’impone ormai una nuova considerazione della “meritevolezza” degli interessi all’origine del credito ‘premiato’ dal legislatore – secondo la logica, del resto, dell’attribuzione del privilegio, sulla base della “causa del credito” – con una prededucibilità destinata a incidere così in termini sostanziali (e non soltanto in chiave procedurale, come in passato) sul concorso dei creditori.     
SIN QUI 
In questo senso, è pur sempre il contesto della continuità aziendale, quale giustificazione delle numerose innovazioni già considerate come significativamente incidenti sul sistema, la cornice normativa nella quale possono comprendersi le regole sui finanziamenti erogati in favore dell’imprenditore in crisi, rispetto ai quali vengono meno le ombre e il clima di sospetto, in un certo senso, che circondavano (nel precedente scenario normativo) gli interventi dei finanziatori a vantaggio dell’imprenditore insolvente, al punto da far sorgere la figura giuridica, di matrice prettamente dottrinale, della concessione abusiva di credito (ampiamente elaborata, nei suoi controversi risvolti in termini di responsabilità civile, oltre che dalla dottrina, s’è detto, anche dalla giurisprudenza)[64]. Sicché veramente radicale si rivela il mutamento di approccio, da parte dell’ordinamento, nel momento in cui il finanziamento dell’impresa in crisi è considerato, in linea di principio, meritorio e perciò da tutelare in modo particolare attraverso una misura premiale e in qualche modo incentivante, quale la concessione della prededuzione. 
La condizione perché il trattamento preferenziale possa operare è che, in concreto, il sostegno finanziario consenta all’imprenditore di proseguire un’attività (in fase di crisi, ma comunque) potenzialmente idonea a far superare le difficoltà economiche e finanziarie del momento, con la conseguenza (rectius, l’obiettivo) per l’impresa di potersi ricollocare sul mercato: una rivitalizzazione e una ripresa rese possibili dal finanziamento, che dovrà risultare, concretamente e verosimilmente, funzionale a garantire ai creditori prospettive recuperatorie migliori di quelle offerte dalla cessazione dell’attività (e dalla conseguente liquidazione del patrimonio), secondo la logica e i principi del nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza[65]. 
La visione dinamica dell’attività, destinata a prevalere sempre più su quella statica incentrata sul (valore del) patrimonio del debitore da liquidare - in termini generali, evidentemente, ossia alla luce della chiara opzione di politica del diritto, più volte evidenziata nel corso della riflessione –, non poteva non influenzare anche la disciplina dei finanziamenti, ossia della linfa vitale (in concreto, ossia sul piano prettamente economico) della stessa attività imprenditoriale[66]. Se il giudizio tendenzialmente di disvalore sul finanziamento erogato all’impresa in crisi deve trasformarsi, come di fatto è accaduto nel corso dell’iter evolutivo della riforma, in una sorta di apprezzamento per chi impegna il suo patrimonio per finanziarie la gestione della crisi o dell’insolvenza altrui, occorre che la “finanza esterna” (come si suole definire, in generale, il supporto economico non riconducibile al debitore) abbia una sua precisa rilevanza giuridica, ma soprattutto che al finanziatore sia garantito un trattamento diverso da quello del comune creditore. E la diversità, in termini di preferenza o priorità, si realizza nel sistema delle prededuzioni, anch’esso dunque notevolmente rimodellato dal legislatore nel corso della riforma, in ragione della natura del credito, ossia della sua giustificazione. In tal senso, la continuazione dell’esercizio dell’impresa, alla luce delle considerazioni più volte riprese[67], costituisce un valore indiscutibile, idoneo a offrire il fondamento giustificativo della prededuzione, in deroga alla regola tradizionale espressa in termini di principio della par condicio creditorum[68]. 
Nell’assetto sistematico del codice, del resto, la rilevanza della prededucibilità dei crediti è posta in evidenza sin dalla parte iniziale e “generale”, quando (all’art. 6, lett. d) CCI) la si ricollega a: “i crediti legalmente sorti durante le procedure concorsuali per la gestione del patrimonio del debitore e la continuazione dell’esercizio dell’impresa, il compenso degli organi preposti e le prestazioni professionali richieste dagli organi medesimi”. 
L’inevitabile nesso tra finanziamenti per la continuità aziendale e prededuzione è poi evidenziato nella disciplina della composizione negoziata della crisi, con particolare riferimento alla gestione dell’impresa in pendenza delle trattative. L’art. 22 CCI (dedicato alle “autorizzazioni del tribunale”), dispone infatti che “su richiesta dell’imprenditore il tribunale, verificata la funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori, può: a) autorizzare l’imprenditore a contrarre finanziamenti prededucibili ai sensi dell’articolo 6; b) autorizzare l’imprenditore a contrarre finanziamenti dai soci prededucibili ai sensi dell’articolo 6; c) autorizzare una o più società appartenenti ad un gruppo di imprese di cui all’articolo 25 a contrarre finanziamenti prededucibili ai sensi dell’articolo 6”. 
Nella disciplina del concordato preventivo, rilevano essenzialmente un paio di norme, che si distinguono al momento in cui i “finanziamenti prededucibili” vengono autorizzati dal tribunale – quale condizione imprescindibile, s’è appena detto, per ottenere la tutela speciale della prededucibilità del credito -, ossia prima dell’omologazione o, in alternativa, successivamente, dunque in sede di esecuzione del concordato. Si tratta delle norme espresse dagli artt. 99 e 101 CCI, estese dal legislatore, per evidente uniformità di ratio e finalità, agli accordi di ristrutturazione dei debiti. 
La prima, contenuta nell’art. 99 CCI, dedicato ai finanziamenti prededucibili autorizzati prima dell’omologazione (del concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti), consente al debitore, anche con la domanda di accesso di cui agli articoli 40 e 44 e nei casi previsti dagli articoli 57, 60, 61 e 87 CCI - quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, evidentemente, ma il legislatore specifica opportunamente che la norma si applica anche alla continuità prevista “unicamente in funzione della liquidazione” -, di chiedere, con ricorso al tribunale, di essere autorizzato (anche prima del deposito della documentazione che deve essere allegata alla domanda) a contrarre finanziamenti in qualsiasi forma, compresa la richiesta di emissione di garanzie, che comportano il sorgere di crediti prededucibili (in capo ai finanziatori)[69]. La seconda ipotesi è relativa ai finanziamenti, in qualsiasi forma effettuati, ivi compresa l’emissione di garanzie, in esecuzione di un concordato preventivo (ovvero di accordi di ristrutturazione dei debiti, assistiti da un piano che espressamente li preveda) caratterizzato dalla continuazione dell’attività aziendale (art. 101 CCI). 
Se la concessione della prededuzione si apprezza, essenzialmente, nel caso di successiva apertura della procedura di liquidazione giudiziale, il vantaggio non si giustifica più (correttamente, pertanto, il legislatore esclude il beneficio della prededucibilità), in entrambi i casi appena enunciati, ove il curatore: (a) provi (sulla base di una valutazione prognostica, ossia da riferirsi al momento del deposito) che il ricorso o l’attestazione contengono dati falsi ovvero omettono informazioni rilevanti ovvero che il debitore ha commesso altri atti in frode ai creditori per ottenere l’autorizzazione e (b) dimostri altresì che i soggetti responsabili della concessione dei finanziamenti conoscevano, alla data dell’erogazione, tali circostanze (indicative della condotta fraudolenta del debitore), sicché anche la concessione del finanziamento finisce per perdere quella meritevolezza, che vale a giustificare la prededucibilità del credito.
6 . Qualche considerazione conclusiva su par condicio creditorum, realizzazione dei diritti dei creditori e tutela dell’impresa
Nelle pagine che precedono, si è cercato di enunciare i principali dati, che rivelano quella che non a torto è stata ritenuta una vera e propria rivoluzione, incidente sulla responsabilità patrimoniale e sul concorso dei creditori, già avvenuta a livello normativo (ormai anche ordinata sistematicamente nel codice) e che si consoliderà con la formazione del diritto vivente di matrice giurisprudenziale. 
Ve ne sono altri, non trattati in questa sede, come ad esempio la disciplina dell’azione revocatoria, strettamente connessi al tema generale del concorso e a quello, più specifico, delle sorti del principio di par condicio tra i creditori. Anche in quest’ambito l’evoluzione è stata notevole e il superamento dello scenario precedente appare nettissimo. 
Oggi possiamo infatti ritenere che i timori un tempo genericamente rivolti verso gli atti di autonomia negoziale riferibili al debitore in crisi o insolvente sono stati – con tecniche diverse a seconda del contesto socio-economico in cui maturano, come si nota plasticamente dalla riformata normativa sull’azione revocatoria fallimentare –, in qualche modo razionalizzati dal legislatore, che sembra avere acquisito piena coscienza delle attuali esigenze sociali ed economiche, evidentemente diverse (e certamente più complesse) rispetto a quelle considerate dal legislatore del codice civile (e della coeva legge fallimentare), ma anche in continua evoluzione, tanto da imporre reiterati interventi di ‘ridefinizione’ della normativa. 
L’enfasi è stata posta sul passaggio da una dimensione, che si è voluta definire fondamentalmente statica, della realizzazione dei diritti dei creditori mediante esecuzione sul patrimonio del debitore – che ancora caratterizza, in gran parte, il diritto delle liquidazioni - alla dimensione dinamica che caratterizza il diritto delle ristrutturazioni, in cui i creditori vedono compressa la loro individualità (ossia la tutela del loro credito, singolarmente considerato nel rapporto obbligatorio entrato in crisi), in favore di una nuova rappresentazione del ceto creditorio, come comunità “di pericolo” – e non “di perdite”, da ripartire tra gli stessi secondo il principio dell’eguale diritto e il sistema delle cause legittime di prelazione, come avviene nel caso delle procedure liquidatorie, riconducibili al modello generale dell’esecuzione forzata (v. supra, n. 3) -, la quale opera e decide, non più soltanto secondo il tradizionale criterio maggioritario, ma nella cornice delineata dalle nuove norme e dagli innovativi principi, funzionali alla conservazione dell’impresa e dell’attività aziendale, con i valori ad essa connessi, a cominciare dalla tutela dei livelli occupazionali. 
Come riflessione generale, d’indole in un certo senso metodologica, si deve ammettere che, al pari del patrimonio, l’impresa abbia carattere oggettivo, sganciandosi dal ‘soggetto’ (imprenditore) e dalle sue vicende (sul duplice piano, nella disciplina dell’insolvenza: civile e penale)[70], ma essa esprime anche il dinamismo dell’attività, in ideale contrapposizione pertanto alla staticità tipica del patrimonio, rimasto invece l’immancabile punto di riferimento delle procedure liquidatorie (salva la rilevanza della continuità dell’impresa, cui s’è fatto cenno, che compare ed è verosimilmente destinata ad accrescersi anche in queste ultime). In questo senso, non si può non condividere la rappresentazione della continuità aziendale, come idea cardine del diritto della crisi, ma più in particolare delle discipline funzionali alla ristrutturazione[71]. Un’idea, quest’ultima, che sinteticamente e nella prospettiva storica può esprimere nel modo più incisivo il passaggio dalla vecchia legge fallimentare al nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. 
Ove ci si ponga all’interno di questa nuova concezione caratterizzante l’attuale diritto dell’insolvenza, possono comprendersi anche i numerosi riferimenti normativi, oggi trasfusi nel codice (con enunciazioni all’apparenza enfatiche e generiche, ma certamente destinate ad acquistare l’effettività che meritano, attraverso l’applicazione in sede giudiziale: si veda, ad esempio, il già menzionato art. 4 CCI), ai “doveri” dei creditori e al canone di correttezza e buona fede (soprattutto quando costoro rivestano un ruolo istituzionale, come nel caso delle banche e delle istituzioni finanziarie).  
L’obiettivo del salvataggio dell’impresa in crisi, quale linea di tendenza sempre più pronunciata e convinta, nel lungo iter evolutivo della riforma, ha così finito per porre l’interrogativo del suo significato ‘valoriale’, rispetto al diritto dei creditori, che com’è noto riveste indubbia rilevanza costituzionale, come molte volte la Consulta ha avuto modo di ricordare[72]. Quel che appare certo, allo stato se non altro, è che, inserite nelle procedure concorsuali tradizionalmente funzionali alla realizzazione del diritto dei creditori, le esigenze del salvataggio dell’impresa (con riferimento soprattutto alla salvaguardia dei livelli occupazionali) non possano giungere a trasformare, per così dire, la procedura esecutiva in una sorta di ammortizzatore sociale, ai danni dei creditori[73]. 
Direttamente incidente sul concorso e sulle modalità di partecipazione dei creditori alle vicende della crisi e dell’insolvenza del debitore, alla stregua dell’appena ricordata dimensione dinamica che connota il diritto delle ristrutturazioni, è anche la (inimmaginabile, anche soltanto un cinquantennio addietro) possibilità di suddividere il ceto creditorio in classi, che dovranno essere omogenee sul piano giuridico (dove rileva, in primo luogo se non esclusivamente, il carattere privilegiato o chirografario del credito), ma soprattutto economico (secondo valutazioni di indole senza dubbio fattuale e in ogni caso circostanziate in relazione alla crisi concretamente in esame), quale condizione per offrire un trattamento differenziato, in piena deroga anche in questo caso al principio della par condicio (che rimane, in tal senso, operante soltanto all’interno della stessa classe)[74]. 
Così come per il ‘classamento’ dei creditori, sarebbe stata assai difficile profezia – s’intende, all’epoca del “diritto fallimentare”, in cui anche il concordato preventivo aveva normalmente funzione liquidatoria -, quella relativa all’introduzione legislativa dalla facoltà del proponente di offrire ai creditori privilegiati il pagamento in percentuale del loro credito, superando la regola del pagamento integrale del credito privilegiato e sottoponendo la decisione del proponente, non già all’accettazione del singolo creditore (come nel caso degli accordi di ristrutturazione), bensì, secondo la logica della procedura concordataria, alla decisione della maggioranza, con uno spazio di sindacabilità dell’eventuale dissenso in forma di opposizione da parte del singolo creditore (o della singola classe) affidato alla decisione del tribunale, ossia l’organo giurisdizionale qui chiamato a tutelare il diritto del creditore opponente mediante una valutazione di natura pragmatica e contingente, intesa a conciliare l’interesse del singolo creditore con quello dell’ordinamento a favorire le soluzioni negoziali della crisi d’impresa. 
In questa prospettiva, la par condicio nella tutela del credito in generale e nella realizzazione coattiva del diritto del creditore non può dirsi certo scomparsa dal sistema normativo inteso a disciplinare la gestione della crisi d’impresa e dell’insolvenza debitoria più in generale[75], anche perché non è stato sinora rinvenuto un criterio di ripartizione del rischio che possa operare ex post in modo più efficace, ossia accettabile sul piano della razionalità giuridica[76] (si direbbe, anche nella prospettiva dell’efficienza economica[77]), ma assume certamente un volto nuovo in considerazione: (a) per un verso, degli spazi concessi dal legislatore all’autonomia privata, (b) per altro verso, della rilevanza normativa della continuità aziendale, quale strumento per favorire una soluzione della crisi che realizzi interessi diversi e molteplici, dunque non soltanto quelli dei creditori. 
Da questo punto di vista, è innegabile che la riforma determinato il sempre più profondo radicamento dell’idea – un tempo espressiva di un’esigenza particolare di ‘salvataggio’ dell’impresa, limitata alle sole grandi imprese in crisi, mediante la procedura di amministrazione straordinaria, dunque in pieno regime di deroga alla disciplina concorsuale di diritto comune consegnata alla legge fallimentare – secondo la quale la tutela del credito si realizza oggi in una complessa dimensione di ‘convivenza’ con la tutela dei valori aziendali (in primo luogo, l’occupazione), che non può non comportare sacrifici per i creditori, individualmente considerati, e dunque per la realizzazione dei loro diritti. 
Dall’entrata in vigore della disciplina ‘speciale’ del 2012[78], che introduceva nuove norme in favore del debitore proponente - senza che il legislatore, peraltro, si discostasse dalla stella polare dell’impianto sistematico di riferimento, costituita dall’esigenza di garantire la prioritaria tutela dei creditori -, la continuità aziendale ha visto espandersi sempre più la sua rilevanza normativa – vale a confermarlo, del resto, la stessa proposta di direttiva appena ricordata, con riferimento alle procedure liquidatorie in cui rilevi la continuazione dell’attività - anche in ambito penale con le misure cautelari e di prevenzione oggi regolate dal “codice antimafia”[79], sino a ‘generalizzarsi’, in un certo senso, quale carattere tipico del concordato preventivo (oltre che criterio distintivo, come si rilevava in apertura, rispetto alla procedura di liquidazione giudiziale, sostitutiva del fallimento, sempre fatti salvi gli sviluppi che potranno determinarsi anche in quest’ultima procedura)[80]. 
Si può ritenere completato, in questo modo, il processo evolutivo di quel vasto ambito normativo, da più parti oramai definito in termini di diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza - da cui la stessa intitolazione di un codice inteso a recepire e dare ordine agli esiti più significativi del lungo e articolato percorso di riforma -, con il passaggio epocale da una responsabilità del debitore incentrata sul suo patrimonio (quale oggetto della garanzia dei creditori e dell’esecuzione forzata, come si desume dalla lettura dell’art. 2740 c.c.)[81], alle molteplici e variegate tecniche di gestione della crisi d’impresa e dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale, mediante la valorizzazione dell’impresa, secondo le declinazioni normative caratterizzanti le singole procedure e i diversi strumenti di gestione della crisi. E può apparire persino scontato constatare, in chiusura, come lo scenario appena delineato schiuda nuovi, anzi nuovissimi, orizzonti di ricerca, con i quali la dottrina civilistica dovrebbe confrontarsi e, verosimilmente, avrebbe molto da dire, anche alla luce del modo in cui le norme e i principi di nuovo conio verranno in concreto resi effettivi dal diritto vivente.

Note:

[1] 
Sul tema generale, una trattazione di sintesi classica è offerta da E. Garbagnati, voce Concorso dei creditori, in Enc. dir., XIII, Milano, 1961, 533; precedentemente, Id., Il concorso di creditori nel processo di espropriazione, Milano, 1959; successivamente, S. Ciccarello, Privilegio del credito ed eguaglianza dei creditori, Milano, 1983; V. Colesanti, Mito e realtà della par condicio creditorum, in Fallimento, 1984, 32; L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale. Disposizioni generali. Artt. 2740-2744, in Commentario Schlesinger, Milano, 1991, 88; J.M. Garrido, Preferenza e proporzionalità nella tutela del credito, Milano, 1998, 280; E. Migliaccio, Parità di trattamento e concorso dei creditori, Napoli, 2012. 
[2] 
Da ultimo, sul punto, cfr. M. Fabiani, Revisione critica dei principi in tema di classi dei creditori, in Dirittodellacrisi.it, ove si analizza l’ipotesi che “la par condicio non solo non coincide o non assorbe la concorsualità, ma non è neppure, quanto meno nei concordati, la pietra angolare della concorsualità”. 
[3] 
Per una panoramica delle tante questioni, che si pongono su piani diversi, si veda l’ampio contributo di M. Fabiani, La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi, in www.questionegiustizia.com, sul quale occorrerà ritornare per ulteriori riferimenti. 
[4] 
Principi spesso anche enunciati in modo esplicito nel codice che - insolitamente, si direbbe, rispetto se non altro alla tradizione del nostro legislatore – dedica una non irrilevante parte inziale, ossia il Capo II del Titolo I, proprio ai “principi generali”, con gli artt. 3-11. 
[5] 
Quel che è accaduto richiama alla mente l’esperienza che il celebre filosofo e storico della scienza Thomas Kuhn definiva, all’inizio degli anni Sessanta del secolo appena trascorso, come ‘slittamento’ (o anche mutamento) dei paradigmi epistemologici, i quali chiamano in causa direttamente i tradizionali modelli culturali (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 2009; nel nostro caso, si tratterebbe dei modelli culturali dei giuristi e di un’incidenza destinata a operare dall’interno, per così dire, sulla struttura dei loro procedimenti ricostruttivi (riportando, in quest’ultimo passaggio, il pensiero di un grande maestro della civilistica, recentemente scomparso, che ha dedicato studi importanti al problema delle “categorie” (del diritto civile) da riconsiderare, alla luce dell’evoluzione del sistema e, più in generale, dell’ordinamento negli ultimi decenni (N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013). 
[6] 
R. Nicolò, Responsabilità patrimoniale. Concorso dei creditori e cause di prelazione in Commentario al codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1958. 
[7] 
D. Rubino, Responsabilità patrimoniale. Il pegno, 2 ed., in Trattato Vassalli, Torino, 1949. 
[8] 
Tra i tanti scritti in argomento, si veda la monografia Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935. 
[9] 
E. Roppo, voce Responsabilità patrimoniale, in Enc. dir., 1988, XXXIX, Milano, 1041; C. Miraglia, voce Responsabilità patrimoniale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, XXVII; 
[10] 
D. Rubino, Responsabilità patrimoniale, cit.; L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale, in Commentario al codice civile, diretto da Schlesinger-Busnelli, 2 ed., Milano, 2010 (prima edizione, 1991); E. Roppo, La responsabilità patrimoniale del debitore, in Trattato Rescigno, Torino, 1987, 485 ss.; G. Sicchiero, Le obbligazioni. 2. La responsabilità patrimoniale, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2011. 
[11] 
Si considerino soprattutto i commenti di: P. d’Amelio, Codice civile, Libro della tutela dei diritti, Commentario, diretto da d’Amelio, Firenze, 1943; C. M. Pratis, Della tutela dei diritti. Artt. 2740-2783, in Commentario UTET, Torino, 1976. 
[12] 
Ad esempio, G. Laserra, La responsabilità patrimoniale, Napoli, 1967; più di recente, A. Nervi, La responsabilità patrimoniale dell’imprenditore. Profili civilistici, Padova, 2001 e G. Rojas Elgueta, Autonomia privata e responsabilità patrimoniale del debitore, Milano, 2012; nonché, E. Migliaccio, La responsabilità patrimoniale. Profili di sistema, Napoli, 2012, e della stessa A., sul tema più specifico oggetto delle riflessioni che seguono, Parità di trattamento e concorso dei creditori, Napoli, 2012. 
[13] 
La letteratura su questi temi è pressoché sconfinata, con riferimento a saggi e articoli che hanno sviscerato tutte possibili implicazioni normative, in questa evidentemente non menzionabili. Limitandosi così a ricordare alcuni tra gli studi monografici più recenti, in materia di patrimoni destinati: F. Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nelle società per azioni, Milano, 2008; R. Santagata, Patrimoni destinati e rapporti intergestori, Torino, 2008, nella prospettiva societaria; R. Quadri, La destinazione patrimoniale - Profili normativi e autonomia privata, Napoli, 2004; P. Iamiceli, Unità e separazione dei patrimoni, Padova, 2003; Mir. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1997, nell’ottica civilistica della ricostruzione della categoria degli atti e dei vincoli di destinazione; quanto invece al trust, si può rinviare, per tutti, a M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008; ma anche I trust nel diritto civile, in Trattato Sacco, Torino, 2004; nonché Trusts, 2 ed., Milano, 2001. 
[14] 
Nondimeno, interrogare la storia e, inevitabilmente, anche la comparazione, alla luce delle radici francesi della nostra codificazione, significa giungere a ricondurre la norma e, più correttamente, il principio alla stessa sotteso al privilegio ipotecario dell’ancien régime e agli esiti del dibattito che si svolse intorno ai modelli disponibili per i legislatori del Code civil ossia il modello romano dell’ipoteca generale, indeterminata e occulta, quello francese pre-rivoluzionario della coesistenza della pubblicità delle ipoteche (appositamente istituita) e quello, infine, che supera il compromesso e, con la legge 11 Brumaio dell’anno VII, è informato alla pubblicità e alla specialità delle ipoteche. È evidente che, considerando la normale informalità dei rapporti commerciali, e dunque la sostanziale impossibilità di far funzionare adeguatamente un sistema della responsabilità patrimoniale che avrebbe visto l’inevitabile soccombenza del credito commerciale, in quanto non specificamente garantito, di fronte a qualsiasi creditore (ipotecario), si dovette procedere nel senso della riserva di “un codice, una giurisdizione e un sistema di esecuzione forzata separati per i rapporti tra commercianti”(Alb. Candian, Discussioni napoleoniche sulla responsabilità patrimoniale, in Scintillae Iuris. Studi in memoria di Gino Gorla, vol. 3, Milano, 1994, 1820), fino a che – per una serie di ragioni pratiche, che si risolvevano nell’esigenza di conservare la coesistenza dell’ipoteca della moglie sui beni del marito, dei sottoposti a tutela e del fisco con la pubblicità introdotta dalla legge post-rivoluzionaria – Portalis si mise all’opera per fugare le preoccupazioni dello stesso Napoleone e così conciliare i diversi sistemi (quello delle garanzie occulte, non eliminabili s’è detto, con la pubblicità imposta alla costituzione dell’ipoteca mediante iscrizione), con una formulazione che suddivide le garanzie (in termini di cause legittime di prelazione, nel linguaggio adoperato poi dal nostro legislatore) in privilegi e ipoteche, dando vita ai primi per farvi “confluire le tradizionali caratteristiche delle ipoteche generali ed indeterminate (…) con il risultato che gli effetti dei due tipi di garanzia reale si confondo tra loro”(Candian, Discussioni napoleoniche sulla responsabilità patrimoniale, cit., 1822). Ricondotta l’enunciazione dei principi generali in tema di responsabilità patrimoniale alla loro matrice storica, non è difficile rinvenire le ragioni - di indole spiccatamente metodologica, si comprende agevolmente - del fatto che, per la civilistica formatasi a ridosso dell’emanazione del codice civile del 1942, il punto di partenza per collocare all’interno dell’intero sistema del diritto civile la responsabilità patrimoniale dovesse essere costituito dalla definizione del rapporto esistente tra lo stesso concetto di responsabilità (di cui all’art. 2740 c.c.) e l’adempimento ossia il “dovere di prestazione” del debitore. In tal senso, veniva accolta con favore la semplificazione della formulazione normativa - rispetto a quella dell’art. 1948 c.c. 1865 -, nella misura in cui essa contribuiva a chiarire l’autonomia tra i concetti di “responsabilità patrimoniale” e di “obbligo del debitore” nei confronti del creditore (come dovere di prestazione). 
[15] 
Sottolineata, pur nella sua ovvietà, da tutta la successiva dottrina civilistica: M. Giorgianni, L’obbligazione (La parte generale delle obbligazioni), Milano, 1968 (1 ed. 1951); C. M. Pratis, Della tutela dei diritti, cit., 23; V. Roppo, La responsabilità patrimoniale, cit., 490; M. Miraglia, Responsabilità patrimoniale, cit., 3; nonché S. Mazzamuto, L’esecuzione forzata, cit., 224; più di recente, A. Nervi, La responsabilità patrimoniale dell’imprenditore, cit., 10. 
[16] 
Nicolò, Commentario, cit., 1. 
[17] 
In tal modo – riteneva all’epoca la dottrina più autorevole, appena richiamata - sarebbe stato possibile superare le controversie dottrinali sul concetto di responsabilità e soprattutto sulla distinzione tra debito e responsabilità maturata in area tedesca, in un confronto tra l’idea di  debito e responsabilità – ossia Schuld und Haftung, nella dottrina tedesca - che aveva sollevato questioni non semplici, di ordine tuttavia quasi esclusivamente teorico, muovendo da una prospettiva dogmatica intesa a guardare all’obbligazione come rapporto di diritto sostanziale espressivo al contempo dei due elementi: (a) il dovere del debitore di tenere un comportamento funzionale alla realizzazione della prestazione dedotta in obbligazione, con lo speculare diritto del creditore alla stessa prestazione e, dall’altro lato, (b) la responsabilità del patrimonio, con il consequenziale diritto del creditore avente ad oggetto i beni componenti lo stesso patrimonio. 
[18] 
Può poi essere tenuto fuori dalla riflessione sul concorso dei creditori il dibattito sul c.d. “rapporto di responsabilità”, che veniva rappresentato come “situazione strumentale che metteva le sue radici nel rapporto di obbligazione - sono espressioni di Rosario Nicolò [n.d.r.] - ma si svolgeva sul terreno del diritto processuale”[1], consacrandosi definitivamente la scissione tra obbligo e responsabilità, riflessa nella già ricordata separazione delle due discipline: dell’obbligazione (nel Libro IV) e della responsabilità (non già del debitore, considerato all’interno del rapporto obbligatorio, bensì) patrimoniale (nel Libro VI), quest’ultima classificabile – assecondando l’intuizione recepita anche del legislatore codicistico del 1942 – “fra le situazioni giuridiche strumentali che stanno a cavallo – l’espressione è sempre di R. Nicolò, ma si tratta di un’idea ripresa da altri studiosi successivamente - tra il diritto sostanziale e il diritto processuale” (Nicolò, Commentario, cit.; l’idea dell’anello di congiunzione, tra diritto sostanziale e processo, costituito dalle disposizioni del libro sesto del codice civile si ripresenta di frequente: ad esempio, S. Mazzamuto, L’esecuzione forzata, cit., 229, discorre di norma tra diritto sostanziale e processo con riferimento all’art. 2910 c.c.). Così come non sembra necessario riprendere l’antica disquisizione sulla natura della norma espressa dall’art. 2740, come di diritto sostanziale o processuale (per la visione “sostanzialistica”, si veda ancora Nicolò, cit., nella chiara, nonché apertamente dichiarata, la contrapposizione alla concezione processualistica” della responsabilità patrimoniale, su cui, per tutti, può rinviarsi a F. Carnelutti, Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, in Studi di diritto processuale in onore di G. Chiovenda, Padova, 1927, 221 ss.; ma già dello stesso A., Appunti sulle obbligazioni, in Riv. dir. comm., 1915, I, 557 ss.), che ha la precisa finalità di determinare l’oggetto dell’eventuale azione esecutiva (con riferimento a tutti i beni del debitore), mentre, una volta fissato l’oggetto (della garanzia, così come) della responsabilità, possono e devono armonizzarsi e coordinarsi, tanto con la norma in esame quanto tra loro, le disposizioni sulle cause di prelazione (la cui funzione è quella di rafforzare e, pertanto, più efficacemente garantire la responsabilità patrimoniale), così come le disposizioni sui mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, considerate così strettamente collegate alle disposizioni generali in esame, da indurre la dottrina più attenta – il riferimento è questa volta a Domenico Rubino - a individuare due fasi della responsabilità patrimoniale: una potenziale, per così dire, e una attuale, a seconda della collocazione temporale (precedente o successiva) rispetto all’inadempimento (D. Rubino, La responsabilità patrimoniale, cit., 8, secondo il quale la responsabilità “implica semplicemente uno stato di soggezione in senso tecnico, che è solo potenziale sino all’inadempimento del debito, e che da questo momento diviene attuale”; ma si veda anche, successivamente, M. Giorgianni, L’obbligazione, cit., 173, distinguendo la fase in cui si può manifestare il potere del creditore di chiedere l’espropriazione dei beni del debitore, realizzandosi concretamente la destinazione dei beni a garanzia dell’adempimento, dalla diversa fase “potenziale di quella destinazione dei beni del debitore, che dà luogo al fenomeno della garanzia” [corsivo nel testo]). 
[19] 
Nicolò, Commentario, cit., 12, nel senso che la responsabilità dimostra “la esistenza di un obbligo giuridico da parte del debitore e di un diritto soggettivo da parte del creditore”.  
[20] 
Una riflessione, quest’ultima, che dovrà essere ripresa e che, in ogni caso, è stata svolta dai più autorevoli studiosi della materia e che compare anche nella manualistica: M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, 2 ed., Roma, La Tribuna, 2025 (da ultimo, Id., Revisione critica dei principi in tema di classi dei creditori, cit.), nonché F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, Milano, 2023. 
[21] 
Che aveva suscitato l’interesse del geniale spirito analitico, con la straordinaria curiosità intellettuale, di Salvatore Pugliatti, il quale superava gli steccati disciplinari tradizionali con lo studio – di circa un secolo fa – relativo alle interferenze tra la dimensione procedurale dell’esecuzione forzata e il diritto sostanziale. Ci si permette di rinviare ai contributi di chi scrive, Esecuzione forzata e diritto sostanziale nel pensiero di Salvatore Pugliatti: i fondamenti di un irripetibile itinerario giuridico e culturale, in Gust. civ., 2021, nonché Principi generali e nuovi scenari nel sistema della responsabilità patrimoniale, in Giust. civ., 2015, 59 ss. 
[22] 
Si veda, in particolare, F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 203 ss. 
[23] 
Va da sé che il precetto vale anche, in prima battuta si direbbe, per il debitore, sicché si è fatto correttamente notare che, anche in ragione della collocazione della nuova disposizione (inserita fra i principi generali del codice), di cui all’art. 4 CCII (relativa ai “doveri delle parti” nella composizione negoziata, nel corso delle trattative e dei procedimenti per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza), emerge “un modo nuovo di approcciarsi alla crisi e, quindi, consente di affermare che ancor prima le condotte del debitore debbono proiettarsi sui possibili imminenti scenari di crisi e, pertanto, conformarsi (anticipatamente) alle condotte attese” (così Fabiani, La par condicio creditorum al tempo della crisi, cit.).   
[24] 
Così da indurre, nella letteratura francese della seconda metà del XIX secolo (in particolare, Aubry e Rau) a discorrere del patrimonio (non già come bene o insieme di beni, bensì) come  “diritto” (della persona, appunto). In argomento, mettendo a fuoco la valenza essenzialmente storica e ideologica di tale linea di pensiero, si può rinviare a A. Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, 545. 
[25] 
P. Spada, Persona giuridica e articolazioni del patrimonio: spunti legislativi recenti per un antico dibattito, in Riv. dir. civ., 2002, I, 837; nonché Id., Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Riv. dir. soc., 2007, 17. 
[26] 
In tal senso, la vicenda degli atti di destinazione non soltanto non sfugge a tale impostazione, ma anzi offre l’occasione per sviluppare alcune riflessioni d’ordine metodologico e dogmatico, che richiedono un approfondimento specifico, stante l’enorme elaborazione scientifica in sede dottrinale e, dopo oltre un quindicennio dalla novellazione del codice con l’art. 2645 ter c.c., anche una non trascurabile produzione giurisprudenziale. 
[27] 
Nicolò, cit., 17. 
[28] 
Nicolò, ibid., ribadendo con chiarezza il concetto nell’altro (successivo) fondamentale contributo in materia, Id., Dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1957, 7, ove si afferma che “l’esistenza di quel diritto di garanzia avente ad oggetto tutti i beni del debitore è una mera illusione”. Sul punto si vedano, in particolare, le pagine di G. Gorla, Le garanzie reali della obbligazione, Milano, 1935, 127 ss., a proposito dei vincoli d’indisponibilità gravanti sul patrimonio del debitore, nel quadro della concezione, diffusa in epoca anteriore al vigente codice civile, del patrimonio come “garanzia comune” dei creditori – in questi termini, del resto, si esprimeva tanto l’art. 2093 Cod. Nap. quanto l’art. 1949 cod. civ. 1865: “I beni del debitore sono la garantìa comune dei suoi creditori, e questi vi hanno tutti un eguale diritto quando fra essi non vi sono cause legittime di prelazione” - e della responsabilità patrimoniale quale diritto di pegno generale (ossia su tutti i beni del debitore, come si legge, ad esempio, in E. Bianchi, Dei privilegi e delle cause di prelazione del credito in generale, 2 ed., Napoli, Torino, 1916, 4), che si riconduce tradizionalmente, nella nostra letteratura giuridica, a A. Rocco, Il fallimento, Torino, 1917, 111 ss., ma già La realizzazione dell’obbligazione nel fallimento del debitore, in Riv. dir. comm., 1911, 404; nonché Studi sulla teoria generale del fallimento, in Riv. dir. comm., 1910, I, 696. In argomento, si vedano anche le considerazioni di M. Fragali, voce Garanzia, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 451. 
[29] 
In linea con la concezione del patrimonio del debitore come “garanzia comune dei suoi creditori” e secondo la medesima logica, una parte della dottrina più risalente riteneva invece di poter individuare un obbligo del debitore di non porre in essere atti tali da diminuire il patrimonio: A. Cicu, L’obbligazione nel patrimonio del debitore, Milano, 1948, 97, 232, nonché G. Pacchioni, Delle obbligazioni in generale, in Diritto civile italiano, II, 1, Padova, 1941, 45. 
[30] 
Si allude ai già ricordati studi di Domenico Rubino (ma, in tempi a noi più vicini, anche a quelli di Pietro Rescigno e Lelio Barbiera), sicché i riferimenti vanno da D. Rubino, La responsabilità patrimoniale, cit., 8, sino a P. Rescigno, voce Obbligazioni, cit., 206, che ribadisce, contrariamente alla concezione più risalente dell’indisponibilità del patrimonio, la libertà del debitore di accrescere o diminuire il proprio patrimonio; nello stesso senso anche V. Roppo, La responsabilità patrimoniale, cit., 497; nonché L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale, in Commentario al codice civile, cit., 2010. 
[31] 
Nicolò, Commentario, cit., 18; nonché Istituzioni, cit., 136 s. 
[32] 
In tale contesto, si potrebbe sottolineare l’estensione della logica concorsuale al debitore civile in seguito alla l. n. 3 del 2012, sul sovraindebitamento del debitore “non fallibile” e il graduale superamento della tradizionale distinzione fra debitore civile e commerciale ed un risultante avvicinamento al modello tedesco e di common law, dove si distingue piuttosto fra debitore solvente ma inadempiente (sottoposto all’azione esecutiva) e debitore insolvente (a prescindere dallo status) sottoposto alla difesa concorsuale. In argomento, si rinvia agli studi monografici di L. Modica, Profili giuridici del sovraindebitamento, Napoli, 2012 e di E. Pellecchia, Dall’insolvenza al sovraindebitamento. Interesse del debitore alla liberazione e ristrutturazione dei debiti, Torino, 2012; nonché G. Terranova, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, Torino, 2013. Nella prospettiva storico-comparativa, si vedano i contributi, anche con riferimento al diritto di altri ordinamenti, riportati nl volume collettaneo L’insolvenza del debitore civile. Dalla prigione alla liberazione, a cura di Presti, Stanghellini e Vella, in Analisi giuridica dell’economia, 2/2004, ove vengono esaminate le discipline vigenti in Francia, Spagna, Germania, Regno Unito e USA. Per un approfondito confronto tra l’approccio prevalente negli ordinamenti di common law e di civil law, si veda altresì il contributo di G. Rojas Elgueta, L’esdebitazione del debitore civile: una rilettura del rapporto civil law-common law, in Banca, borsa e titoli di credito, 2012, I, 310. 
[33] 
P. Schlesinger, L’eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in Riv. dir. proc., 1995, 319; già P. G. Jaeger, Par condicio creditorum, in Giur. comm., 1984, I, 88. 
[34] 
Per tutti, M. Fabiani, La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi, cit. 
[35] 
È a tutti noto, peraltro, che la Cassazione ha dovuto affermare nel 2018, con un’evidente forzatura sul piano concettuale, la natura procedurale e concorsuale della figura, al fine di decidere sulla prededucibilità dei finanziamenti erogati al debitore, ritenendo che indici della concorsualità sarebbero le forme di pubblicità della domanda di accesso alla ‘procedura’ per l’omologazione, alla quale seguono gli effetti protettivi del patrimonio del debitore, la partecipazione dei creditori (attraverso, se non altro, la percentuale dei crediti vantati dagli aderenti) e, infine, l’intervento del tribunale attraverso l’omologazione (cfr. Cass. 9087/2018, ma già Cass. 1182 e 1896/2018). 
[36] 
Si veda l’approfondita e recente analisi storico-giuridica di F. Di Marzio, Fallimento. Storia di un’idea, Milano, 2018; in forma sintetica e limitata al diritto vigente nei secoli a noi più vicini, ci si permette di rinviare a F. Di Marzio e F. Macario, Autonomia dei privati e disciplina dell’insolvenza, in Aa.Vv., Autonomia. Unità e pluralità nel sapere giuridico fra Otto e Novecento, in Quaderni fiorentini, 2014, vol. 43, 541 ss.  
[37] 
In dottrina, non si è mancato di rilevare la vaghezza del concetto di utilità, benché nello specifico il legislatore tenti in qualche modo di circostanziarla: cfr. F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 502. 
[38] 
Per un’analisi attenta e articolata della materia, si rinvia ancora al richiamato studio di Fabiani, La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi, cit., ove si esamina in modo approfondito l’indebolimento del principio, evidenziando l’emersione di un altro valore, destinato a fare da “collante” per la distribuzione delle risorse ai creditori, costituito dal miglior soddisfacimento di questi ultimi e, con specifico riferimento al concordato in continuità aziendale, dal trattamento non deteriore rispetto a quanto si realizzerebbe con la liquidazione del patrimonio; in argomento, si veda altresì Id., La regola della par condicio creditorum all’esterno di una procedura di concorso, in Dirittodellacrisi.it, da ultimo, Revisione critica, cit., ove si ribadisce quanto un’autorevole dottrina civilistica affermava già alcuni decenni addietro (P. Schlesinger, L’eguale diritto dei creditori, cit.) ossia che “oggi, più di ieri, si può predicare che la par condicio creditorum è espressione di una regola distributiva e non più di un principio di sistema”. 
[39] 
Cfr. G. D’Attorre, Le utilità conseguite con l’esecuzione del concordato in continuità spettano solo ai creditori o anche al debitore?, in Fallimento, 2017, 321 ss.; si vedano, tuttavia, i riferimenti dottrinali indicati nella successiva nota, relativa ai criteri distributivi, che fanno capo alle regole di priorità, rispettivamente, assoluta e relativa (v. infra).  
[40] 
La tendenza della giurisprudenza di legittimità, nel senso più rigido, potrebbe essere desunta dalla ratio decidendi esposta nella motivazione di Cass. 8 giugno 2020, n. 10884, in www.ilcaso.it; nello stesso senso, anche una parte della precedente giurisprudenza di merito (ad esempio: Trib. Milano, decr. 15 dicembre 2016; App. Venezia, 12 maggio 2016; App. Torino, 16 aprile 2019; più di recente App. Milano, 14 gennaio 2021, in Dirittodellacrisi.it, ma in precedenza già Trib. Catania, 24 luglio 2019, inedita), ragionando sul concetto di “neutralità”, connesso alla liquidità estranea al patrimonio del debitore (la c.d. finanza esterna), per ritenere non rientrante in tale concetto l’utile derivante dalla continuità aziendale, ossia il c.d. surplus concordatario. Più di recente, Cass. 26 maggio 2022, n. 17155, in Dirittodellacrisi.it, riprende la riflessione sull’applicazione delle c.d. absolute o relative priority rule, con riferimento ai crediti prelatizi di natura tributaria e contributiva (alla stregua della possibilità, contemplata dall’art. 182 ter L. fall., di un soddisfacimento soltanto parziale, purché in misura superiore o anche solo pari a quella riservata ai crediti prelatizi di grado inferiore), fermo il principio del limite minimo individuato nella misura che gli stessi creditori prelatizi ritrarrebbero dalla liquidazione, a valori di mercato, dei beni oggetto della prelazione (sulla base dell’attestazione del professionista). 
[41] 
Nella giurisprudenza di merito, soltanto a titolo esemplificativo: Trib. Avezzano, 13 febbraio 2020, in www.ilcaso.it; ma già App. Venezia, 19 luglio 2019, in www.fallimentiesocietà.it; si consideri, tuttavia, anche la soluzione ‘compromissoria’, per così dire, che fa capo ad App. Venezia, 7 luglio 2021, nonché a Trib. Milano, 15 novembre 2018, dovendosi distinguere i flussi derivanti dalla continuità, a seconda se provengano dall’attività d’impresa del debitore ovvero siano generati grazie all’apporto di (vera e propria) finanza esterna, nel quale caso la loro distribuzione potrebbe legittimamente derogare al sistema delle cause di prelazione. 
[42] 
Rimarrebbe così da verificare se, per la soddisfazione parziale tanto dell’erario e degli enti previdenziali, quanto dei creditori privilegiati, il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione possa realizzarsi soltanto con riferimento al “valore di liquidazione” attribuibile ai crediti in questione, in termini s’è detto di soglia minima; mentre, per i flussi di cassa prodotti dalla continuazione dell’attività, in esubero, inevitabilmente, rispetto al detto valore di liquidazione, la loro distribuzione tra i creditori privilegiati potrebbe soggiacere al principio (nuovo) di priorità relativa (come si vedrà tra un momento). 
[43] 
La novità introdotta nel nostro ordinamento ha suscitato, del tutto comprensibilmente, grande interesse e, di conseguenza, una quantità notevole di approfondimenti, tra i quali possono essere indicati, come maggiormente significativi: M. Perrino, Relative priority rule” e diritti dei soci nel concordato preventivo in continuità, in Dirittodellacrisi.it; G. D’Attorre, Le regole di distribuzione del valore, in Fallimento, 2022, 1223 ss.; Id., La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule, ivi, 2020, 1072; G.P. Macagno, La distribuzione di valore tra regole di priorità assoluta e relativa. Il plusvalore da continuità, in Dirittodellacrisi.it; D. Galletti, Regole di priorità e distribuzione del plusvalore concordatario: due passi indietro ed un'occasione importante perduta, in www.ilfallimentarista.it; D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, in Riv. soc., 2018, 864 ss.; Id., Concordato con continuità aziendale. Absolute priority rule e new value exception, in Riv. dir. comm., 2014, 347 ss; G. Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio (tra regole di priorità assoluta e regole di priorità relativa), in Dirittodellacrisi.it; S. Pacchi, Par condicio e relative priority rule. Molto da tempo è mutato nella disciplina della crisi d’impresa, in Dirittodellacrisi.it; G. Ballerini, Art. 160, comma 2°, L. fall. (art. 85 c.c.i.i.), surplus concordatario e soddisfazione dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, in Nuove leggi civ. comm., 2021, 625; Id., La distribuzione del (plus)valore ricavabile dal piano di ristrutturazione nella direttiva (UE) 2019/1023 e l’alternativa fra absolute priority rule e relative priority rule, in Riv. dir. comm., 2021, I, 367 ss.; nonché Id., Le ricadute di diritto italiano della regola di non discriminazione nella Direttiva Restructuring, in Giur. comm., 2021, 972 ss. 
[44] 
L’introduzione delle classi di creditori, nel sistema delle procedure concorsuali, si deve alla riforma dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, avvenuta con la l. 18 febbraio 2004, n. 39 (c.d. “legge Marzano”), cui ha fatto seguito l’innovazione inserita nella legge fallimentare, mediante la riformulazione degli artt. 124 e 160 L. fall., comprensibilmente accolta dagli studiosi con qualche iniziale perplessità (cfr. G. Lo Cascio, Concordati, classi di creditori ed incertezze interpretative, in Fallimento, 2009, 1129 ss.). Per una ricostruzione critica della vicenda e delle diverse problematiche poste dall’introduzione delle classi, si veda il recentissimo contributo di M. Fabiani, Revisione critica dei principi in tema di classi dei creditori, cit., con l’analisi delle più rilevanti questioni (teoriche e pratiche), dalla definizione di classe al rapporto con il sistema dei privilegi e alla giustificazione delle classi (obbligatorie e facoltative), e con l’esame della nuova disciplina della votazione e del controllo del giudice.   
[45] 
La regola di distribuzione appena enunciata costituisce il secondo aspetto decisivo del trattamento dei creditori nella situazione di continuità aziendale, acquisendo una particolare rilevanza il già ricordato concetto di “valore di liquidazione” (cfr. F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 502; nonché S. Di Amato, Diritto della crisi d’impresa, cit., 336, ove viene sottolineata l’appena richiamata distinzione tra il valore di liquidazione, da distribuire nel rispetto della graduazione delle prelazioni, e il valore eccedente, assoggettabile alla nuova regola della priorità relativa). 
[46] 
Si veda, tuttavia, in termini critici o almeno dubitativi, D. Galletti, Regole di priorità e distribuzione del plusvalore concordatario: due passi indietro ed un’occasione importante perduta, in www.ilfallimentarista.it, 6 aprile 2022, secondo il quale l’applicazione della regola che fa capo al concetto di priorità relativa potrebbe rendere “non prevedibile il trattamento che sarà offerto ai creditori in caso di futuro default del debitore, e soprattutto del recovery ratio; ciò non potrà non influire ex ante sul momento in cui d’ora in poi sarà valutato se erogare o meno il credito, ed a quali condizioni”, con le evidenti conseguenze sulla valutazione del merito creditizio. 
[47] 
Non per nulla l’esperienza nord-americana veniva studiata già alla metà degli anni Cinquanta: G. Rossi, Il fallimento nel diritto americano, Padova, 1956, spec. 177 ss., con specifico riferimento alle questioni in esame.  
[48] 
Per le definizioni normative delle menzionate regole, si deve rinviare, in primo luogo, all’art. 11 della più volte citata direttiva Insolvency 2019/1923, ove si prevede (per quanto riguarda la “priorità relativa”) che “le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori” e (per quel che concerne la “priorità assoluta”) che “i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione”. In argomento, cfr. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 546 s. 
[49] 
In quanto assistiti, secondo il diritto comune della responsabilità patrimoniale, dal privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 1 c.c., gli stessi devono essere soddisfatti, nel concordato in continuità aziendale, “nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione sul valore di liquidazione e sul valore eccedente il valore di liquidazione”; si aggiunge che “la proposta e il piano assicurano altresì il rispetto di quanto previsto dall’articolo 2116, primo comma, del codice civile”, con riferimento alle prestazioni assistenziali e previdenziali. 
[50] 
È evidente il vantaggio, per il debitore proponente, derivante dalla suddivisione dei creditori in classi, che rende più elastica l’offerta, modulabile per gruppi omogenei di creditori e interessi economici, ma anche la più generale razionalizzazione della stessa offerta, con la comparabilità del trattamento degli stessi gruppi di creditori (cfr. F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 534); è altresì chiaro che la previsione (obbligatoria) delle classi è legata al voto per l’approvazione del concordato e al calcolo delle maggioranze (infra, n. 9), come rileva S. Di Amato, Diritto della crisi d’impresa, cit., 341; sul punto, cfr. altresì M. Fabiani, Sistema, principi e regole, cit., 218, il quale rileva come la formazione delle classi risponda alla “compartimentalizzazione funzionale del trattamento dei creditori”, non potendo quindi condurre (ed essere strumentalizzata dal proponente) alla “frammentazione” del ceto creditorio, unicamente finalizzata alla raccolta del singolo consenso, alla stregua di una “occasione per marginalizzare il diritto di voice di taluni creditori o, ancor meno, può celare trattamenti discriminatori”.  
[51] 
 La normativa europea, di cui alla menzionata direttiva Insolvency 2019/1023, aveva previsto l’adeguamento della disciplina nazionale con la suddivisione dei creditori in classi (art. 9, par. 4 della Direttiva). In dottrina, per tutti: M. Fabiani, La giustificazione delle classi nei concordati e il superamento del principio della par condicio creditorum, in Riv. dir. civ., 2009, I, 711 ss., da riconsiderare, tuttavia, alla luce del più recente contributo: Id., Revisione critica dei principi in tema di classi dei creditori, cit., ove si chiarisce bene come questo “strumento di compartimentazione dei creditori”, fondato “sull’idea di rafforzare il valore del consenso espresso in termini di omogeneità”, esprima l’esigenza (e persegua la finalità) dell’ordinamento di “rafforzare un principio di valorizzazione della comunità di interessi, come se si volesse predicare che davvero nelle procedure concordate assume un valore assorbente la collettivizzazione degli interessi”. Nella medesima linea di pensiero, si vedano anche le pagine di F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 203 ss., dedicate ai creditori e, in particolare, all’esame del già ricordato (supra, n. 3) concetto di comunità “di pericolo” e “delle perdite” (tra gli stessi creditori), che caratterizzerebbero, rispettivamente, le ristrutturazioni (attraverso i diversi strumenti negoziali) e le procedure concorsuali (concordati e liquidazioni); in tempi più risalenti, si può rinviare a F. Rolfi, Sui criteri di formazione delle classi nel concordato preventivo, in Fallimento, 2018, 1415 ss. nonché, in tema di corretta formazione delle classi e parità di trattamento fra i creditori all’interno di ciascuna classe, S. Leuzzi, L’omologazione del concordato preventivo in continuità, in Dirittodellacrisi.it, ribadendosi che le classi “giovano a scomporre il ceto creditorio, ma al solo fine di salvaguardare gli interessi complessivi, assicurando una forma di eguaglianza sostanziale fra i creditori”, con la conseguenza che il tribunale dovrà “verificare che ognuna delle classi enucleate sia stata adoperata, non per adulterare la formazione dei consensi, ma per far funzionare il principio di maggioranza all’interno di una comunità, quella dei creditori, che è tendenzialmente frantumata”. 
[52] 
Dunque, in assenza delle condizioni di cui all’articolo 109, comma 5, CCI, fissate per l’approvazione della proposta a maggioranza. 
[53] 
Ricordando che, ai sensi del menzionato art. 109, comma 5, i creditori muniti di diritto di prelazione, i quali si trovino nella condizione appena indicata, votano e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta, mentre le imprese minori, titolari di crediti chirografari derivanti da rapporti di fornitura di beni e servizi, sono a loro volta inserite in classi separate. 
[54] 
Meccanismo introdotto, s’è detto, dal legislatore della riforma della legge fallimentare in termini di mera opportunità, a disposizione del creditore - il quale avesse inteso proporre una distribuzione più razionale e coerente sul piano economico, in tal modo sottraendosi alla più che collaudata, ma anche visibilmente semplificante, regola generale della par condicio -, ma con il codice divenuto obbligatorio nel caso del concordato (in continuità), in adesione a una prospettazione dottrinale già avvenuta in tempi non sospetti (cfr. M. Fabiani, La giustificazione delle classi, cit., nonché Revisione critica, cit.). 
[55] 
Assoggettato, peraltro, al controllo sulla sua correttezza e rispondenza effettiva ai criteri indicati dal legislatore: cfr. M. Fabiani, Revisione critica, cit. 
[56] 
Si veda ancora M. Fabiani, Revisione critica, cit., sull’estraneità (del meccanismo) delle classi al sistema delle cause di prelazione, svolgendosi la vicenda giuridica del classamento interamente nell’ambito dell’autonomia negoziale dei privati. 
[57] 
Benché datate, risultano sempre ricche di spunti le già richiamate ricostruzioni di Jaeger, Par condicio creditorum, cit., 88 e di Schlesinger, L’eguale diritto dei creditori, cit., 319. 
[58] 
Per i riferimenti bibliografici essenziali, v. supra, nt. 1. 
[59] 
L’incisione dei diritti di questi ultimi creditori potrebbe avvenire, in un certo senso, soltanto ragionando sui tempi del pagamento, ma tale impostazione si rivelerebbe in linea con la logica intesa a favorire la continuità aziendale. Nel presupposto che quest’ultima rappresenti, se non altro in linea di principio, un vantaggio per tutti (considerando, s’è detto, gli interessi generali e quelli particolari dei creditori), la continuità consente di prevedere nel piano, nella prospettazione generale dei tempi per il pagamento – si tratta di un aspetto decisivo della procedura in vista dell’apertura del concordato, ossia del giudizio di ammissibilità, cui pertanto la giurisprudenza è stata, comprensibilmente, sempre attenta, sin dai primi passi della nuova normativa -, una moratoria per il pagamento anche dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione (art. 86 CCII). 
[60] 
La deroga al divieto generale di pagare i crediti anteriori veniva introdotta - grazie al D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012 n. 134, poi modificato dal D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015, n. 132 - con l’art. 182 quinquies, 4° comma, L. fall., nel presupposto che il concordato fosse in continuità (Trib. Milano, 21 dicembre 2012, in www.ilcaso.it: “L’autorizzazione prevista dall'articolo 182 quinquies, comma 4, L. fall. al pagamento dei crediti anteriori alla domanda di concordato può essere concessa solo in presenza di concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186 bis l. fall.”). In giurisprudenza, cfr. Trib. Alessandria 11 gennaio 2016, in www.ilfallimentarista.it: “La disposizione dell’art. 182 quinquies L. fall., - a mente del quale il debitore che presenti domanda di ammissione al concordato con continuità aziendale può chiedere al tribunale di essere autorizzato a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni e servizi ritenuti ed attestati come essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali ad assicurare la miglior soddisfazione dei creditori - ha l’evidente ratio di consentire al debitore di adeguarsi all’eventuale pretesa dei c.d. fornitori strategici di essere soddisfatti con modalità diverse rispetto agli altri creditori concorsuali e quindi di violare i canoni della par condicio a fronte della prospettiva (o meglio, minaccia) di non riuscire ad ottenere la fornitura di beni e servizi indispensabili, in quanto di fatto insostituibili, alla continuazione dell’attività di impresa: presupposto essenziale per l’ammissibilità della richiesta è la circostanza che i fornitori in questione abbiano piena libertà di fornire o no la loro prestazione e non siano invece vincolati da un rapporto contrattuale in essere; in tal caso infatti, il loro obbligo deriverebbe dal contratto e per l’adempimento non sarebbe necessaria la prospettiva di alcun particolare beneficio”; nello stesso senso, Trib. Modena, 6 agosto 2015, in www.ilcaso.it. Si veda altresì Trib. Cuneo, 31 ottobre 2013, in Fallimento, 2014, 191: “In tema di concordato preventivo con continuità aziendale, configurabile anche nell’ipotesi di affitto d’azienda autorizzato dal tribunale in pendenza di domanda con riserva, può essere autorizzato il pagamento di crediti anteriori per prestazioni di servizi nella verificata sussistenza dei requisiti di essenzialità della prestazione per la prosecuzione dell’attività d’impresa e di funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori, ai sensi dell’art. 182 quinquies, comma 4, L. fall. attestati da professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d) L. fall.”. 
[61] 
Cfr. F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 507 s., ove si sottolinea che “il migliore soddisfacimento assicurato dal pagamento è quello indirettamente determinato dall’efficientamento dell’attività d’impresa”. 
[62] 
Prima di concedere l’autorizzazione, il tribunale può assumere sommarie informazioni – ed è del tutto ragionevole, nonché opportuno, che ciò avvenga, essendo l’intervento del tribunale funzionale alla tutela degli altri creditori, ai quali non rimane che attendere il pagamento nei tempi previsti dal piano per l’esecuzione del concordato -, ma assume carattere decisivo, ancora una volta, l’attestazione, deputata a verificare il carattere essenziale dei pagamenti in questione. 
[63] 
Si può rinviare, per tutti, al prezioso contributo di M. Fabiani, La prededuzione nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Dirittodellacrisi.it, ove si richiamano gli interventi della dottrina e della giurisprudenza più rilevanti per la ricostruzione dell’iter evolutivo. 
[64] 
In dottrina, F. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, Napoli, 2004 e, in forma sintetica, voce Concessione abusiva di credito, in questa Enciclopedia, Annali, VI, 2013, ma anche dello stesso A., Sulla fattispecie ‘concessione abusiva di credito’, in Banca borsa tit. cred., 2009, II, 389 ss.; si vedano anche, tra i tanti studi in materia, P. Piscitello, Concessione abusiva del credito e patrimonio dell’imprenditore, in Riv. dir. civ., 2010, I, 655; A. Nigro, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito alle imprese ‘in crisi’, in Giur. comm., 2011, I, 305. 
[65] 
Cfr.,  a ridosso dell’entrata in vigore della nuova disciplina, F. Di Marzio, Finanziamento bancario alle imprese in crisi, in Libro dell’anno del diritto Treccani, 2012; F. Briolini, I finanziamenti alle società in crisi dopo la legge n. 134/2012, in Banca borsa tit. cred., 2013, I, 683 ss.; successivamente, N. Abriani e L. Benedetti, Finanziamenti all’impresa in crisi e abusiva concessione di credito: un ulteriore frammento della disciplina speciale dell’impresa in crisi, in Banca, borsa, tit. cred., 2020, 41 ss.; dello stesso L. Benedetti, I finanziamenti dei soci e infragruppo alla società in crisi, Milano, 2017; S. Bonfatti, Il sostegno finanziario alle imprese in crisi. Finanziamenti pendenti e nuove erogazioni, Pisa, 2022. 
[66] 
È opportuno ricordare che la più volte ricordata direttiva Insolvency 2019/1023, prevede che “per evitare potenziali abusi, dovrebbero essere protetti solo i finanziamenti che sono ragionevolmente e immediatamente necessari per la continuazione dell’operatività o la sopravvivenza dell’impresa del debitore, o per la preservazione o il miglioramento del valore dell’impresa in attesa dell’omologazione del piano di ristrutturazione”. In giurisprudenza, si veda Trib. Bergamo, 5 luglio 2022, in Dirittodellacrisi.it, decidendo su un’ipotesi di concessione della finanza nella del contratto di factoring, in funzione di una continuità aziendale idonea a prevenire la degenerazione in insolvenza irreversibile della situazione di crisi o squilibrio economico e finanziario. 
[67] 
Con la conferma proveniente anche da alcuni dati normativi, inequivocabilmente espressivi della scelta di politica del diritto e dunque della nuova tendenza dell’ordinamento, come ad esempio la norma di cui all’art. 211 CCII (rubricato proprio “esercizio dell’impresa del debitore”), che prevede la prosecuzione dell’impresa anche nel caso di apertura della liquidazione giudiziale, superando la formulazione della legge fallimentare relativa all’“esercizio provvisorio” (quale ipotesi comunemente ritenuta eccezionale, nella logica esclusivamente liquidatoria del fallimento), nel senso che “[l]’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa quando ricorrono le condizioni di cui ai commi 2 e 3” e (nel successivo comma) che “[c]on la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, il tribunale autorizza il curatore a proseguire l’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, purché la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”. 
[68] 
Tra i tanti studi in argomento, si segnalano: L.C. Ubertazzi, Prededuzione e par condicio creditorum, in Dir. banca e mercato finanz., 2018, 513; più di recente, F. Pani, La prededuzione prima e dopo il codice della crisi, in www.ristrutturazioniaziendali.it; Fabiani, La prededuzione nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Dirittodellacrisi.it, cit. 
[69] 
La duplice condizione, da valutare in sede di autorizzazione, è che i finanziamenti siano effettivamente funzionali: (a) “all’esercizio dell’attività aziendale sino all’omologa del concordato preventivo o degli accordi di ristrutturazione dei debiti ovvero all’apertura e allo svolgimento di tali procedure” e, in ogni caso, (b) “alla miglior soddisfazione dei creditori” (art. 99, comma 1, CCII). A ben vedere, la condizione è unica e risiede in quest’ultima esigenza, decisiva nei diversi contesti e perciò spesso ribadita in modo esplicito dal legislatore del codice, costituendo la finalità (rispetto alla quale la continuità aziendale è un mezzo, s’è detto, ossia uno strumento) di tutta la normativa in ambito di diritto negoziale della crisi. Dal punto di vista tecnico e procedurale, si richiede che nel ricorso sia specificata non solo la destinazione dei finanziamenti, ma anche “che il debitore non è in grado di reperirli altrimenti”, indicando altresì “le ragioni per cui l’assenza di tali finanziamenti determinerebbe grave pregiudizio per l’attività aziendale o per il prosieguo della procedura” (art. 99, comma 2, CCII). Secondo una costante della riforma, cui s’è già fatto cenno, relativa alla ‘conferma’ di quanto affermato dal debitore richiedente da parte di un professionista indipendente (indicato comunemente come “attestatore”), il ricorso deve essere accompagnato dalla relazione di quest’ultimo, il quale attesti la sussistenza dei requisiti indicati e, soprattutto, che i finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori. Questa relazione non è necessaria soltanto in un caso particolare ed eccezionale, ossia “quando il tribunale ravvisa l’urgenza di provvedere per evitare un danno grave ed irreparabile all’attività aziendale” (art. 99, comma 2, CCII). La decisione del tribunale – previa assunzione di sommarie informazioni, ascoltati il commissario giudiziale e, se lo si ritiene opportuno, i principali creditori senza formalità, in camera di consiglio - ha la forma del decreto motivato, da emettere “entro dieci giorni dal deposito dell’istanza di autorizzazione” (art. 99, comma 3, CCII). La notevole apertura dell’ordinamento nei confronti dei finanziamenti all’impresa in crisi si conferma con la possibilità per il tribunale di “autorizzare il debitore a concedere pegno o ipoteca o a cedere crediti a garanzia dei finanziamenti autorizzati” (art. 99, comma 4, CCII), ma anche con l’estensione delle norme in esame “anche ai finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti”, a condizione che i finanziamenti stessi siano “previsti dal relativo piano e purché la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo” (art. 99, comma 5, CCII, mentre per gli accordi di ristrutturazione occorre, evidentemente, che gli stessi siano omologati). 
[70] 
Sempre stimolante, benché datata, la riflessione di S. Pugliatti, Fallimento dell’imprenditore o dell’impresa, in Dir. fallim., 1943, 5 ss. 
[71] 
Lo sottolinea bene F. Di Marzio, Diritto dell’insolvenza, cit., 291, ricordando (in apertura del capitolo dedicato all’impresa e alla continuità aziendale) che si tratta dell’“idea che regge il diritto delle ristrutturazioni così come quella di patrimonio regge il diritto delle liquidazioni”, ma dello stesso A., si veda anche la voce Ristrutturazione dei debiti, in questa Enciclopedia, Annali, VI, 2013, 808. 
[72] 
Si ricorderà che la Corte costituzionale ha più volte definito la responsabilità patrimoniale del debitore, garantita dall’art. 2740 c.c., quale elemento essenziale al diritto d’obbligazione (Corte cost. 22 giugno 1992, n. 291, in Foro it., 1993, I, 346; Corte cost. 15 luglio 1992, n. 329, ibid., 2785), in tal senso incompatibile con ingiustificati privilegi (Corte cost. 23 maggio 1995, n. 187, id., 1996, I, 3249). 
[73] 
Si veda ancora M. Fabiani, La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi, cit., ove si rileva che “il diritto della crisi e dell’insolvenza è cementato dall’idea che serva ad attuare la responsabilità patrimoniale, senza in essa esaurirsi”, dovendo tale ineludibile finalità “essere coniugata con altri valori che, in talune situazioni, potrebbero finanche divenire dominanti”. 
[74] 
Il tema è stato trattato supra, n. 4. 
[75] 
Così anche M. Fabiani, La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi, cit., con riferimento alle procedure liquidatorie “pure”, che tuttavia sottolinea il carattere decisamente recessivo del principio, in relazione ad almeno due fattori: “il più antico è costituito da un aumento smodato delle cause di prelazione e della prededuzione; il più recente è rappresentato dal notevole ridimensionamento dell’azione revocatoria concorsuale”, senza dire dell’effetto, indirettamente incidente anche sulla par condicio, delle diverse forme (vecchie e nuove) di segregazione patrimoniale; che la par condicio sia recessiva è, del resto, considerazione diffusa nella più autorevole dottrina: cfr., ad esempio, S. Pacchi, Par condicio e relative priority rule. Molto da tempo è mutato nella disciplina della crisi d’impresa, in www.ristrutturazioni aziendali, 2022. 
[76] 
Secondo Nicolò, Commentario, cit., 19, si tratterebbe, nel caso dell’esecuzione forzata per espropriazione, di un principio “di applicazione intuitiva”. 
[77] 
Sul punto, si veda G. Rojas Elgueta, Allocazione del rischio di credito e insolvenza concorsuale: oltre la distinzione fra debitore civile e commerciale, in Riv. crit. dir. priv.,  2013, 465, spec. 489, ove si segnala che l’analisi economica del diritto ha messo in evidenza come la distribuzione per quota del costo della decozione sia la migliore approssimazione di quanto i creditori avrebbero spontaneamente negoziato, richiamando T.H. Jackson, R.E. Scott, On the Nature of Bankruptcy, cit., 169; T.H. Jackson, The Logic and Limits of Bankruptcy Law, Cambridge, 1986, 30; A. Schwartz, A Theory of Loan Priorities, in Journal of Legal Studies, 18 (1989), 248; D. Korobkin, Contractarianism and the Normative Foundations of Bankruptcy Law, in Texas Law Review, 71 (1992-1993), 602, nonché, nella letteratura di casa nostra, D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto fallimentare tra diritto ed economia, Bologna, 2006, 51, che dimostra come la par condicio risponda ad una “esigenza assicurativa del credito, che contribuisce ad abbassare il costo del finanziamento non accompagnato da garanzie specifiche”. 
[78] 
Si tratta del già ricordato D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012 n. 134, poi modificato dal D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015, n. 132. 
[79] 
Si veda, in primo luogo, l’art. 41, 2° comma, lett. c, ove ci si riferisce all’accertamento, da parte del tribunale, della sostenibilità della continuità, nel caso in cui vi siano “concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa dell’attività”. In argomento, cfr. da ultimo V. V. Chionna, Il governo coattivo dell’impresa “contaminata” dall’illecito, in Aa. Vv., Patrimonio dell’imprenditore e codice antimafia, Bari, 2023, 52 ss.
[80] 
S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it; Id., L’impatto della pandemia sui concordati preventivi omologati in continuità diretta: l’indagine, le soluzioni, in Dirittodellacrisi.it; M. Campobasso, Nuovi principi e vecchi problemi nel concordato preventivo con “continuità aziendale”, in Aa. Vv., Il diritto dell’impresa in crisi fra contratto, società e procedure concorsuali, a cura di F. Barachini, Torino, 2014, 29 ss.; A. Nigro e D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, in Aa. VV., Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, a cura di A. Nigro, M. Sandulli, V. Santoro, Torino, 2014; S. Fortunato, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, in Aa. VV., La riforma delle procedure concorsuali. In ricordo di Vincenzo Buonocore, a cura di A. Jorio, R. Rosapepe, Milano, 2021. 
[81] 
Per una riflessione di carattere generale, da inquadrare nella cultura giuridica del tempo, cfr. A. De Martini, Il patrimonio del debitore nelle procedure concorsuali, Milano, 1956. 

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