Par condicio e relative priority rule. Molto da tempo è mutato nella disciplina della crisi d’impresa*
Stefania Pacchi, Ordinario di diritto commerciale Università di Siena - Cattedra d’eccellenza Universidad Carlos III, Madrid
26 Gennaio 2022
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Sommario:
L’absolute priority rule – in quanto regola distributiva tra creditori e azionisti del valore di un’impresa riorganizzata[4] – è un tradizionale presidio nelle riorganizzazioni, utile anche per la tutela delle classi nelle procedure di ristrutturazione, giustificata dal fatto che attua le priorità contrattuali di pagamento che i creditori otterrebbero al di fuori del fallimento[5]. Risulterebbe così essere presidio efficiente in termini di rapidità della procedura, di certezza dei rapporti giuridici e di deflazione del contenzioso[6].
Mentre il test del migliore interesse dei creditori (best interests of creditors test) opera come protezione individuale per qualsiasi creditore, la regola della priorità assoluta è concepita come una misura di protezione della classe dissenziente impedendo che si possa effettuare una distribuzione a una classe junior se una classe senior dissenziente non sia stata pagata per l’intero.
Anche se la regola della priorità assoluta si apprezza più nell’ambito di una procedura formale di insolvenza che nella ristrutturazione preventiva, in ogni caso, il principio sotteso vale anche per la ristrutturazione che, in base alla regola in parola, non potrebbe imporre un trasferimento di valore dalla maggioranza dissenziente dei creditori agli azionisti[7], a meno che, secondo certa dottrina, non vengano utilizzate, a tal fine, risorse finanziarie “terze”, non provenienti dal patrimonio assoggettato al concorso[8].
Ora la Direttiva 2019/1023[9] offre la possibilità di utilizzare la priorità relativa (regola di default, ma derogabile nel caso in cui lo Stato membro opti per la APR), giacché un’interpretazione rigida che limitasse l’autonomia negoziale si rifletterebbe negativamente sullo strumento di soluzione della crisi irrigidendo la configurazione della proposta perché di fatto imporrebbe condizioni inaccettabili per alcune categorie di creditori precludendo di fatto la ristrutturazione.
L’opzione della Relative priority rule, – a favore della quale si osserva nel Considerando 56 della Direttiva Insolvency che “essa consente di predisporre piani con maggior flessibilità, che possono lasciare spazio ad una parziale tutela degli interessi degli azionisti o di talune categorie di creditori strategici altrimenti destinati a nulla ricevere”[10] – presenta, tuttavia, alcuni “rischi” in quanto la Direttiva implica che le classi dissenzienti siano trattate altrettanto favorevolmente di qualsiasi altra classe dello stesso rango e più favorevolmente di qualsiasi classe junior [11]. Conseguentemente, le classi dissenzienti superiori hanno bisogno di ricevere un trattamento migliore rispetto alle classi inferiori, ma ciò non implica che le classi inferiori non possano ricevere alcuna considerazione. Così, nel classico conflitto tra creditori chirografari e azionisti, ciò potrebbe significare che la maggioranza dissenziente dei creditori chirografari potrebbe ricevere un pagamento del 26% dei propri crediti, mentre gli azionisti potrebbero mantenere il 25% del proprio capitale.
La priorità relativa, in termini di soddisfacimento, riduce la protezione offerta ai creditori e fornisce ai proprietari di azioni un vantaggio strategico nella progettazione dei piani potendo guadagnare però la loro interessata collaborazione che in molti casi significa anche conservazione di skills indispensabili per assicurare la continuità dell’impresa[12]. Appare chiaro che l’adozione da parte di uno Stato membro dell’una o dell’altra regola produrrà conseguenze significative in termini di concorrenza tra Ordinamenti[13].
Questa scelta potrebbe, infatti, creare un netto divario tra paesi che optano per la priorità assoluta e paesi che optano per la priorità relativa, con importanti conseguenze per l’accesso al credito da parte delle imprese e con una potenziale distorsione dell’attività creditizia transfrontaliera[14].
Un’alternativa consiste nell’incorporare la priorità assoluta con eccezioni mirate. I Paesi che optano per la priorità assoluta possono, infatti, introdurre eccezioni “necessarie per raggiungere gli obiettivi del piano di ristrutturazione e laddove il piano di ristrutturazione non pregiudichi ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate”[15].
La Direttiva fornisce esempi di adozione della RPR: per consentire agli azionisti di conservare determinati interessi nell’ambito del piano nonostante che una classe senior sia obbligata ad accettare una riduzione dei propri crediti, o affinché i fornitori essenziali (chirografari) siano pagati prima di classi senior. Una delle ulteriori note eccezioni alla regola della APR si palesa sovente con rispetto al “nuovo valore” conquistato dalla continuità. In tal caso, l’eccezione è basata sull’idea che i proprietari o gli azionisti possano mantenere un interesse, anche se i creditori chirografari non approvano il piano, quando però abbiano fornito nuove risorse finanziarie o altro valore per l’impresa.
Lo spirito della Direttiva pare essere nel senso che i Paesi membri potrebbero – quanto meno – introdurre eccezioni mirate alla priorità assoluta combinando il rispetto della gerarchia dei crediti con una certa adattabilità a situazioni speciali.
In ogni caso, questa discussione appartiene al disegno di una riorganizzazione formale più che a quello di una procedura di ristrutturazione. In una procedura di ristrutturazione dovrebbe esserci ogni tentativo di raggiungere una soluzione consensuale tra tutte le parti, in particolare tra azionisti e creditori, i primi essendo sovente i “motori” dell’impresa ed i secondi coloro che attendono soddisfacimento non sempre esclusivamente in termini monetari perché, imprenditori anch’essi, interessati alla continuità dell’azienda.
Il tema è legato anche al concetto di “pagamento integrale”. Gli Stati membri possono specificarne il significato per escludere i creditori interamente pagati dall’esercizio del voto perché non potrebbero lamentarsi di creditori junior o azionisti che ricevano una qualche distribuzione di valore. Il concetto di “pagamento integrale”, secondo la Direttiva, può essere definito dagli Stati membri in modi diversi, “anche in relazione alla tempistica del pagamento (da fissarsi però entro un termine ragionevole)[16], a condizione che la somma capitale del credito e, nel caso di creditori garantiti, il valore della garanzia reale siano protetti”[17]. Gli Stati membri possono anche intervenire sulla scelta di mezzi equivalenti per soddisfare il credito (ad esempio, pagamento in natura)[18].
Dinanzi all’alternativa tra rimanere (rigidamente o meno) ancorati alla APR o recepire l’invito del Legislatore unionale alla flessibilità, come potrebbe ragionare il nostro legislatore per dare una risposta in linea con l’evoluzione che il nostro diritto concorsuale ha avuto negli ultimi venti anni?
Non vi è dubbio, infatti, che l’approccio del legislatore alla crisi è mutato a partire dal 1999, quando, con il d.lgs. 270 riformando la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, introduceva una procedura flessibile, potendo alternativamente consistere o nella ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa o nella cessione unitaria del complesso aziendale sulla base di un programma di prosecuzione dell’attività[19].
Prendeva allora corpo il modello di una procedura di risanamento che ha al centro un’impresa insolvente[20] il cui stato, tuttavia, non preclude un esame dell’attività e del complesso aziendale per impostare, ove l’esito della valutazione sia positivo, un programma conservativo in via diretta o indiretta, altrimenti dovendo aprirsi la procedura fallimentare.
Con quell’intervento legislativo cessava l’idea che il patrimonio produttivo di un’impresa insolvente debba essere ormai staticamente considerato e, quindi, fatalmente inserito in un tracciato nel quale si presenta come agglomerato di beni dai quali si può estrarre esclusivamente un valore di liquidazione per soddisfare i creditori e secondo la regola della par condicio.
A ciò si sostituiva allora una visione dinamica che considera e valorizza quel complesso di beni per la sua destinazione alla produzione, per essere un crogiuolo di contratti e rapporti - acquisiti nel corso dell’attività e ad essa per questo inscindibilmente legati - che impone una valutazione nella prospettiva dell’utilizzo. Anzi, tale visione pretende prioritariamente una valutazione dell’azienda come going concern che ne mantenga l’unitarietà[21].
Il risanamento per la conservazione o, se preferiamo, per la continuità – idea che dopo viene travasata nella produzione legislativa delle riforme che si sono snodate a partire dal 2005 – prende corpo da quel momento.
Di pari passo cambiava la considerazione dell’insolvenza come stato che colpisce in primis il soggetto, ma poi anche l’impresa e/o il complesso aziendale. Tramontava, infatti, il quadro concettuale fondato sull’insolvenza come sanzione dell’imprenditore commerciale a tutela degli interessi del mercato o della corporazione mercantile[22], riconoscendosi che l’insolvenza non necessariamente è ricollegabile a colpa o frode di chi ha gestito. Spesso è evento originato da fattori imprevisti e imprevedibili esterni all’impresa.
Il presupposto oggettivo – lo stato d’insolvenza, poi incorporato nello stato di crisi – lungi dall’essere inquadrato come stato patologico della situazione finanziaria da ascrivere esclusivamente al debitore (che per questo doveva essere sanzionato) veniva considerato come condizione che lo stesso mercato può provocare. Dalla valutazione dell’insolvenza esula, da quel momento, qualsiasi esame sulla gestione passata dell’impresa e, quindi, sulla genesi della crisi. L’insolvenza si risolve in uno stato irreversibile di squilibrio patrimoniale e finanziario, nel quale è assente l’indagine sulle sue cause.
L’insolvenza, sia colpevole che incolpevole, attiene esclusivamente all’elemento patrimoniale e finanziario dell’impresa ed è pertanto a questi fattori che occorre fare riferimento per accertare la presenza del presupposto oggettivo che impone l’adozione dello strumento concorsuale[23]. Una gestione corretta non esclude l’insolvenza, così come una gestione scorretta non può essere assimilata all’insolvenza al punto di determinare da sola l’apertura della procedura concorsuale.
Per il legislatore l’insolvenza si concretizza in una situazione d’impotenza economica, determinata dalla incapacità dell’imprenditore di far fronte regolarmente, e con mezzi normali, alle proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito.
Ma poi è fisiologico che in un mercato competitivo vi siano crisi d’impresa. È lo stesso mercato, allora, che impone l’adozione degli strumenti che possano consentire un riutilizzo totale o parziale delle strutture e dell’organizzazione aziendale. Quindi, non era sottratto a questa rinnovata visione neppure il fallimento.
Ha inizio un processo/movimento – che produce l’abrogazione di alcune norme e l’addolcimento di altre – diretto a depurare fallimento dalla connotazione sanzionatoria, dapprima per una rinnovata considerazione del debitore se pure insolvente, e poi per cercare di indurlo, senza titubanza, all’adozione della domanda di fallimento in proprio.
Rileviamo, quindi, il superamento del “determinismo” legato allo stato di insolvenza – che deve condurre all’uscita dal mercato utilizzando, per velocizzare i tempi, la vendita disgregatrice –, quando e nella misura in cui l’impresa insolvente possa presentare ragionevoli prospettive di risanamento.
Viene conseguentemente in evidenza la previa valutazione sullo stato dell’impresa e del complesso aziendale per sondarne la risanabilità anziché sancirne a priori la disgregazione. A quest’ultima deve essere possibilmente preferita la cessione unitaria del complesso aziendale, consentendo la trasmissione di valori imprenditoriali ad altro imprenditore che potrà immetterli in un nuovo ciclo produttivo. Ciò implica una valutazione sullo stato reale e sulle potenzialità effettive dell’impresa, nella quale in primo piano non sarà più l’indebitamento. Come dire che la valutazione dinamica dell’impresa e del suo strumento (l’azienda) muove dal presente per guardare al futuro in quanto sarà da quest’ultimo che potranno essere ricomposti i rapporti (i debiti) del passato.
In secondo luogo, questa reimpostazione della vicenda “insolvenza” non poteva rimanere senza conseguenze sul piano del rapporto obbligatorio. Non si poteva cioè continuare a ragionare di procedure concorsuali come se si trattasse soltanto di obbligazioni insoddisfatte e di liquidazione del patrimonio per ripartire il ricavato tra i creditori. Veniva in gioco la prosecuzione dell’attività come strumento da un lato conservativo di valori ma dall’altro anche generatore di nuovi costi. Come dire che la valorizzazione del patrimonio aziendale attraverso l’esercizio per la continuità tragga legittimazione dalla partecipazione dei creditori al tavolo di concertazione.
I creditori venivano coinvolti non potendo rimanere spettatori passivi di operazioni sul patrimonio. Diventavano così “valutatori” del piano in termini di funzionalità alla crisi e, quindi, di costi e benefici rispetto agli interessi di classe.
In terzo luogo, sempre in conseguenza di questa nuova impostazione conservativa, registriamo una diversa canalizzazione dell’interesse dei creditori: dall’interesse (esclusivo) ad ottenere una somma di denaro all’interesse al soddisfacimento attraverso la continuità.
Se questo era il punto di arrivo della riconsiderazione dell’insolvenza nel fallimento, più impattante è quanto avviene rispetto al concordato preventivo, per il quale a partire dal 2005 viene appunto scisso il presupposto oggettivo in crisi e in insolvenza, nel primo caso aprendo la possibilità di un approccio precoce alla procedura e nel secondo legittimando un percorso di recupero nonostante l’insolvenza.
La prima ondata riformatrice del nostro sistema concorsuale prendeva, infatti, le mosse da una diffusa denuncia di inadeguatezza della legge fallimentare del 1942 che non tutelava né l’impresa in un tentativo, se pur difficile, di recupero, né i creditori nell’aspirazione ad un soddisfacimento adeguato sia per la somma-percentuale che per il tempo che impiegavano ad ottenerla. La disfunzione appariva legata all’idea attorno alla quale risultava impostata la disciplina, protesa alla monetizzazione del patrimonio per il recupero di somme di denaro anziché allo sfruttamento dei valori aziendali per conservare un bene utile per i creditori e per il mercato.
Questa visione emergeva non solo nel fallimento, volto alla vendita atomistica e, quindi, alla disgregazione dell’azienda ma anche nella procedura c.d. minore (concordato preventivo) priva di un supporto normativo elastico che consentisse una soluzione alternativa ed efficace alla procedura maggiore. Nel 2005-2006, il riformatore reagiva corredando la disciplina di strumenti duttili, aperti alla ristrutturazione così come alla cessione, legati però, ove possibile, da un comune obiettivo: la conservazione dei valori ancora esistenti.
Così il fallimento cambiava volto. Dal modello proteso all’incremento della massa attiva con sovrabbondante utilizzo della revocatoria, con un giudice gestore, con un marchio prettamente inquisitorio e sanzionatorio, si è approdati ad un fallimento attento all’incremento del valore dei beni, ed in particolare dell’azienda (tramite l’affitto d’azienda o l’esercizio provvisorio) e alla più fruttuosa liquidazione. Affitto d’azienda ed esercizio provvisorio diventano utili e funzionali all’ottimizzazione del valore del complesso aziendale e alla conseguente vendita unitaria del complesso produttivo.
Il Legislatore si è concentrato poi verso la ricerca di strumenti preventivi, agili e flessibili, rimessi in larga misura alla negoziazione delle parti con un’ingerenza limitata dell’autorità giudiziaria, idonei a preservare dalla distruzione le entità economiche, a proteggere i contribuenti e i lavoratori dalle ripercussioni della crisi, assicurando allo stesso tempo una seconda chances agli imprenditori “meritevoli”. Dalla strategia condivisa, e non dalla contrapposizione, potevano prendere corpo piani e proposte idonei ad approdare ad una soluzione della crisi che sia più utile per i creditori, per i terzi e anche per lo stesso debitore.
La destinazione dell’intero patrimonio al soddisfacimento dei creditori, però, da una parte non è più prevista letteralmente dalla legge, dall’altra è incompatibile con il concordato conservativo/di risanamento/ in continuità diretta. Nel contempo fino al 2015 non è previsto un soddisfacimento minimo, né è fissato un arco temporale massimo entro cui adempiere alle obbligazioni concordatarie.
Giungiamo così a una prima conclusione: la disciplina del concordato preventivo, nella misura in cui apre alla continuità, pur nella permanenza della sua fondamentale funzione satisfattiva, si allontana dall’area degli strumenti per la conservazione della garanzia patrimoniale per entrare in quella degli strumenti a completamento del diritto dell’impresa.
Il codice civile fissa nell’art. 2740, il principio della responsabilità patrimoniale: il debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Nel momento dell’inadempimento i creditori potranno, quindi, aggredire indistintamente ciascuno dei beni componenti tale massa con le azioni esecutive individuali e collettive al fine di soddisfarsi sul ricavato.
In linea di principio il debitore può scegliere – senza rispettare l’ordine temporale – quali debiti adempiere e il creditore può esercitare l’azione esecutiva individuale senza considerare le esigenze di soddisfacimento degli altri creditori. Queste due libertà, al fine di evitare abusi, sono regolamentate dalla legge. La prima con la previsione di azioni dirette a conservare la garanzia patrimoniale del creditore pregiudicata da atti o comportamenti del debitore, la seconda attraverso la disciplina del concorso.
Se il sistema del 1942 era caratterizzato dalla presenza di procedure concorsuali tutte investite della funzione prettamente esecutiva, oggi non è più così.
Mentre il fallimento, anche se depurato dai tratti afflittivi e corredato di strumenti per valorizzare il patrimonio aziendale, mantiene la funzione di strumento per realizzare la garanzia patrimoniale, la procedura preventiva, in particolare quella per la continuità, coniuga il soddisfacimento per i creditori con l’istanza conservativa imponendo una serie di misure che per un verso relegano la par condicio al fallimento [24] e per un altro condizionano il soddisfacimento dei creditori.
Come è noto, al fine di evitare una sopraffazione reciproca il legislatore civilistico regola la “corsa” dei creditori al soddisfacimento attraverso il principio della par condicio creditorum sancendo che “salve le cause legittime di prelazione, i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore”[25].
La disposizione vuole significare che il diritto a soddisfarsi esecutivamente sui beni del debitore spetta pariteticamente a ciascun creditore indipendentemente dall’insorgenza cronologica della propria obbligazione, con il rispetto tuttavia delle cause di prelazione legittimamente acquisite.
Pariteticità rispetto al diritto all’azione non significa, però, identità di trattamento o appiattimento rispetto al momento satisfattivo.
Ove il ricavato della liquidazione dei beni esecutati assicuri la totale capienza di tutti i crediti la partecipazione alla distribuzione avverrà secondo il grado e l’importo vantato. In caso d’incapienza, invece, ciascun credito sarà soddisfatto – grazie al principio della par condicio – in proporzione all’ammontare complessivo dei crediti azionati, fatte salve, in ogni caso, le cause legittime di prelazione.
La parità di trattamento può attuarsi già nell’espropriazione forzata individuale, sia pure con i limiti propri di una procedura promossa da uno o più creditori, mentre trova la sua massima espressione e tutela nelle procedure esecutive collettive o concorsuali, in cui “tutti i creditori, indipendentemente dalla loro iniziativa, sono chiamati a partecipare all’esecuzione, che è unica per tutti, essendo vietate le azioni esecutive individuali, tranne alcune eccezioni (art. 51 legge fall.) e tutti i beni del debitore (esclusi, ovviamente quelli dichiarati dalla legge impignorabili) restano necessariamente coinvolti”[26].
Così il concorso deve rispettare i diritti di credito riconoscendone le specificità che possono essere costituite soltanto dalle legittime cause di prelazione.
Il diritto alla parità di trattamento non è assoluto. Se l’autonomia privata non può derogare al principio della par condicio, creando nuove figure di privilegio o ampliare la portata o l’estensione di quelli esistenti, il legislatore può, invece, ricollegare determinate cause di credito ad un interesse socialmente rilevante riconoscendo l’esistenza di interessi prevalenti, meritevoli di tutela che per espressa disposizione di legge ottengono una collocazione in via privilegiata. Conseguentemente abbiamo assistito ad uno sviluppo abnorme dei privilegi attuato dalla legislazione speciale.
Si è trattato di scelte di carattere politico-economico che di fatto hanno iniziato ad erodere progressivamente la regola della par condicio a cominciare dal fallimento. Lo rivela l’attuale disciplina dell’azione revocatoria, costellata di esenzioni e circoscritta ad un arco temporale dimezzato[27]. Tale rinnovata disciplina esprime, rispetto alla parte più rilevante delle previsioni di cui all’art. 67, una scelta di campo ben precisa: si da stabilità alla prosecuzione dell’attività mentre si indebolisce la conservazione della garanzia patrimoniale. Le esenzioni vogliono indurre i creditori, nel momento di emersione dei primi segnali di crisi, a renderli meno riottosi a collaborare con l’imprenditore nel tentativo di uscire dall’impasse, evitando un aggravamento della crisi.
La tutela dei creditori al ristabilimento della par condicio attraverso la ricostituzione del patrimonio scomposto da operazioni poste in essere nel tentativo di evitare il fallimento fa un passo indietro per sfilacciare quel cordone sanitario che di fatto bloccava l’impresa fin dai primi segnali di crisi.
Con ciò ha termine la solidarietà concorsuale (della quale la par condicio era il collante) come capacità dei membri della collettività dei creditori di agire per pretendere la ricomposizione del patrimonio – loro esclusiva garanzia – nei termini ante insolvenza.
Più marcatamente, però, la par condicio è stata erosa nel concordato preventivo dove il costo della della crisi (incrementato in conseguenza della prosecuzione dell’attività) è stato addossato, attraverso la prededuzione, ai creditori chirografari (si pensi principalmente ai fornitori dell’impresa, fondamentale fonte di approvvigionamento di questa), i quali vi contribuiscono in una prospettiva sempre più lontana da quella ripartizione il più egualitaria possibile voluta dal legislatore della Legge fallimentare.
Ma poi nella gestione di una crisi vengono sul tappeto gli interessi delle parti: quelli dei creditori sono per lo più diversificati e ciò agevola il debitore, che veda la possibilità di conservare valori, puntando a trovare risorse o risparmiando sui soddisfacimenti (risorse interne) o ottenendo “nuova finanza” (risorse esterne). Il debitore allora può far leva sugli interessi dei creditori alla conservazione del rapporto per ottenere o “sconti” o “nuova finanza”. Il legislatore ha preso atto di questa situazione (praticamente costante in ogni crisi) consentendo al debitore di sfruttare le specificità (e quindi gli interessi diversificati) dei creditori per trovare una soluzione alla propria crisi.
Così, nel confezionare una proposta concordataria nella quale non sono previste né soglie minime di soddisfacimento, né scadenze massime prefissate per il soddisfacimento dei creditori; nella quale si possono soddisfare i creditori privilegiati sulla base del valore di mercato del bene oggetto della garanzia; si può utilizzare il classamento[28]; si può prevedere una moratoria dei privilegiati; si possono pagare i creditori anteriori strategici; si possono selezionare da quel patrimonio beni non strumentali per alienarli; si può escludere in larga misura la postergazione dei finanziamenti dei soci di modo che potrebbe dirsi che ormai i soci sono claimants non più residual.
In sostanza il debitore può progettare un piano concordatario proponendo un soddisfacimento legato alle prospettive reddituali della futura attività e corredandolo con operazioni che incidono sul soddisfacimento o ne alterano l’ordine. Così i creditori sono stati coinvolti nel tentativo conservativo offrendo loro protezione a vari livelli (esenzioni dalla revocatoria e dai reati di bancarotta preferenziale), incentivi (prededuzione) ma – tenuto conto dei differenti interessi che essi esprimono nella rinegoziazione del rischio – offrendo loro, grazie al classamento, trattamenti diversificati. Questi ultimi consentono al debitore di risparmiare per reinvestire nella conservazione dei valori.
È mutato, quindi, il rapporto della disciplina concorsuale con la normativa civilistica della quale tradizionalmente la prima è stata considerata appendice.
Il fatto è che siamo dinanzi – come già ho detto – ad un ribaltamento dell’impostazione dell’Ordinamento della crisi. “Ispirandosi ad altri ordinamenti, che da tempo hanno tracciato la strada, anche il nostro legislatore ha disciplinato e reso fruibile questo strumento della prededuzione per individuare nuove e moderne forme di concorsualità alternative al modello esclusivamente liquidatorio del recente passato, marcato dalla traslazione del principio civilistico di cui all’art. 2741 cc.”[29].
Lo scenario descritto – che si riflette sul principio della responsabilità patrimoniale e sulla regola della par condicio – è comune a tutti gli Ordinamenti più avanzati[30], dotati oggi di un apparato normativo che offre strumenti di varia tipologia, di diversa natura, di differente penetrazione nell’impresa.
Come conclusione su questo tema, osservo che quello della par condicio è diventato “un valore da attuare solo se le parti dell’ipotetico processo esecutivo (debitore, creditore, Pubblico Ministero) lo vogliono e solo nei limiti in cui esse riescono a tradurre tempestivamente in pratica questo loro intento”[31]. Ciò perché il creditore è indotto a valutare la proposta in termini non tanto individualistici (se soddisfa l’interesse economico rispetto a quanto a lui dovuto) quanto di relazioni imprenditoriali e, quindi, di un coacervo di interessi. La loro valutazione si incentra su quanto essi vogliono/possono investire in quell’impresa, al punto che essi possono entrare in competizione con l’imprenditore presentando una proposta concordataria concorrente.
Siamo, evidentemente, dinanzi al ribaltamento di tradizionali canoni. Anziché un indiscriminato livellamento, mortificatore delle specificità, viene proposta dai moderni legislatori, attraverso il riconoscimento dei diversi interessi che muovono i creditori, una partecipazione differenziata alla soluzione della crisi e, quindi, al soddisfacimento.
La solidarietà, che comunque rimane alla base del tentativo del legislatore, muta direzione: non per il recupero del credito – come tentava di sollecitare il vecchio sistema liquidativo-satisfattivo ponendo l’astratta ed utopica regola della par condicio – ma per il recupero dei valori aziendali. I creditori possono aggregarsi per un comune interesse all’impresa mentre l’interesse al soddisfacimento esalta, al contrario, i particolarismi incentivando i contrasti.
D’altra parte, oggi il valore da ripartire non è rappresentato dal patrimonio bensì dalla possibile continuità dell’impresa. Le regole sono dettate per risolvere la crisi di un’impresa – il suo valore come going concern più del suo patrimonio è ciò che conta per i creditori – e non tanto e non solo dei rapporti obbligatori[32].
Ciò evidenzia il passaggio da un ordinamento concorsuale che ha al centro il soggetto debitore con un patrimonio da liquidare per soddisfare i creditori, a quello in cui al centro troviamo l’impresa con un complesso produttivo da valutare, innanzi tutto in prospettiva dinamica, prima di sancirne lo smembramento abbandonandolo alla liquidazione disgregativa.
L’assetto dell’attuale apparato concorsuale è marcato dalla scissione tra imprenditore e impresa[33].
Non interessa più la sorte dell’imprenditore bensì quella dell’impresa per la quale il legislatore predispone “attrezzi” che agevolano la conservazione dei valori indipendentemente dall’uscita dal mercato o meno del primo[34].
In tale ottica anche la liberazione dai debiti residui, in una lettura meno stretta al contingente, si presenta come beneficio per aiutare le imprese e il loro necessario turn over e non solo per premiare l’imprenditore che ha utilizzato correttamente uno strumento concorsuale.
Nella riorganizzazione di questo settore dell’ordinamento ci siamo così progressivamente allontanati dall’impostazione soggettiva che ha caratterizzato la nostra legge fallimentare.
Il riferimento della disciplina non è più l’imprenditore, gestore, proprietario dei beni di produzione, bensì l’impresa come attività organizzata sulla base di un complesso aziendale coacervo di beni di varia natura.
In questa prospettiva la considerazione di altri interessi (oltre a quelli dei creditori) può costituire una bussola per disegnare una soluzione della crisi che coniughi l’istanza di continuità con la tutela dei rapporti economici costituzionalmente protetti dal Titolo III della Costituzione.
Non è da trascurare che questo orientamento è in linea con quanto preannunciato dalla Raccomandazione della Commissione Europea del 14 marzo 2014[35] e affermato nettamente dalla Direttiva Insolvency 1023/2019 che, seppure ad oggi non recepita dall’ordinamento italiano, costituisce la bussola per l’interpretazione delle norme del diritto nazionale[36].
Se al centro della Direttiva è colui che svolge un’attività economica produttiva di beni o di servizi e, come tale, inserito nel genus dell’imprenditore sia esso un esercente una professione “liberale”[37] o, invece, un’impresa, occorre dire che l’immagine che pervade la Direttiva è quella di un soggetto ammantato da una intensa colorazione sociale[38].
Risalta il rimando continuo ai lavoratori, ai posti di lavoro, agli stakeholders in nome e a vantaggio dei quali la ristrutturazione dovrebbe essere operata[39] in quanto strumento per tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale[40].L’impresa è, infatti, un soggetto economico multistakeholder[41] – con responsabilità, quindi, che superano la sfera di interesse della proprietà[42] – che necessita quando in crisi di una riconciliazione dei conflitti interni ed esterni affinché la soluzione adottata possa dirsi sostenibile.
L’impresa costituisce anche un centro di attrazione di interessi, tra i quali quelli dei creditori rappresentano soltanto una parte, se pure rilevante.
Gli interlocutori dell’impresa, intesa come sistema aperto, sono tutti i portatori di interessi, tutti coloro che entrano nella sua orbita: commerciale, territoriale, ambientale. Un’ampia collettività ruota attorno all’impresa che vive anche per questo dialogo del quale deve tenere costantemente conto. Ciò sia nel momento della sua nascita, che in quello della crescita e della sua eventuale crisi, perché proprio da queste relazioni può derivare un supporto essenziale, più di quanto potrebbe, in certe situazioni, derivarne dai creditori bancari.
Quando vi è crisi, il complesso produttivo viable con un piano industriale e finanziario credibile dovrà quindi confrontarsi con i vari Stakeholders[43] vuoi per verificarne la disponibilità a collaborare, anche dall’esterno, per la realizzazione dell’obiettivo, vuoi per commisurare il proprio orizzonte di continuità con l’interesse dei creditori a un soddisfacimento migliore di quello che ricaverebbero dalla liquidazione disgregativa[44].
Ciò è tanto più necessario in questa stagione pandemica[45]. Le imprese devono rispondere in maniera sostenibile alle nuove sfide imposte dal Covid-19 interpretando e definendo linee guida specifiche per far fronte alla crisi dal punto di vista della sostenibilità sociale e ambientale. Si profila un momento di ripensamento di quelle pratiche di sostenibilità e responsabilità sociale che ne avevano caratterizzato la vita prima della pandemia e verso le quali anche le istituzioni europee fin dagli anni Novanta hanno additato con sempre più forte decisione[46].
“Coronavirus is putting Corporate Social Responsibility to the Test”[47] con questo articolo Mark. R. Kramer, indica che le imprese sono chiamate a ripensare ai propri obiettivi (purposes) sociali e ambientali per poter rispondere in maniera adeguata a questa crisi.
Questa situazione può esser vista come un’opportunità nell’ottica della Responsabilità Sociale dell’Impresa (RSI)[48], espressione con la quale si descrive la relazione tra le imprese e la società.
In sostanza l’antagonismo immanente alla individualistica tensione verso il conseguimento della somma più alta cede il passo all’indispensabile solidarismo richiesto dall’impresa multistakeholders e, come tale, agglomerato di interessi da considerare, a maggior ragione, quando si apre lo scenario della crisi.
Riallacciandosi agli studi sulla Stakeholder Theory di Freeman (teoria già elaborata a partire dagli anni ‘80 dello scorso secolo), si può sostenere che le imprese oggi non possano limitarsi al soddisfacimento dei soli azionisti “e alla massimizzazione del valore azionario, ma devono soddisfare le attese di più stakeholder cercando di soddisfare le attese di coloro che apportano un contributo utile allo svolgimento efficiente dell’attività economica”. L’imperativo è quello di ripensare alla RSI e alle sue strutture teoriche di riferimento per comprendere le dinamiche tra mercato e società e tra etica e business alla luce di questa nuova emergenza. Occorre, innanzitutto, mettere a fuoco il complesso quadro che le imprese si trovano ad affrontare nell’era della pandemia. In secondo luogo, ripensare alle strutture teoriche di riferimento della RSI per comprenderne limiti e possibilità per affrontare questa crisi.
Ma come si può attuare oggi questo? Innanzi tutto, con la comunicazione e l’informazione. L’impresa soddisfa le attese degli stakeholder quando comunica il più possibile in maniera trasparente a seconda degli interessi dei soggetti a cui si rivolge, mantenendo in ogni caso fedeltà alla propria mission con l’obiettivo, però, di salvaguardare interessi, diritti e opportunità di tutti. “Il coinvolgimento degli stakeholder rende dinamici i flussi informativi con l’esterno, facilita la ricognizione dei bisogni emergenti e delle problematiche sociali del territorio e, in linea generale, permette di trovare più facilmente soluzioni a problemi complessi”, scriveva Edwin A. Locke[49] nel 1997, e nonostante l’evoluzione del management aziendale la regola continua ad essere estremamente attuale.
Un approccio multistakeholder è in grado da un lato di estendere il controllo dell’organizzazione stessa, concedendo occasioni di verifiche continue ai portatori di interesse che vogliono seguire gli obiettivi strategici dell’impresa, e dall’altro di limitare i comportamenti opportunistici e non conformi a quelli stabiliti.
Alcuni segnali ci giungono anche dalla Business Roundtable (BRT)[50] che, se negli anni ‘80, spingeva le aziende ad investire nei lavoratori, nelle comunità e in altre parti interessate, nel 1997, tuttavia, decise di inviare un chiaro segnale sull’importanza degli azionisti, sottolineando che “l’obiettivo principale di un’impresa è generare rendimenti economici per i suoi proprietari”.
Tuttavia, negli ultimi anni, un numero crescente di membri ha iniziato a dirci che il linguaggio del 1997 non rispecchiava la loro visione di come opera un’azienda ben gestita. il 19 agosto 2019, quasi 200 amministratori delegati delle più grandi aziende americane hanno adottato una nuova risoluzione sullo scopo di una società dichiarando che le aziende dovrebbero fornire valore a lungo termine a tutti i loro stakeholder, clienti, dipendenti, fornitori, comunità in cui operano e azionisti. I migliori CEO moderni gestiscono le loro aziende in questo modo da molto tempo; hanno firmato la Dichiarazione come una migliore articolazione pubblica del loro approccio mirato a lungo termine e come un modo per sfidare sé stessi a fare di più.
I CEO di Business Roundtable (BRT) condividono un impegno fondamentale nei confronti di tutti i loro stakeholder. Nella Dichiarazione si sono impegnati a: Offrire valore ai clienti; Investire sui dipendenti; Trattare in modo equo ed etico con i fornitori; Sostenere le comunità in cui lavorano; Generare valore a lungo termine per gli azionisti.
La nuova Risoluzione – da leggere come un invito all’azione per garantire che i benefici del capitalismo siano condivisi in modo più ampio – non potrebbe essere più chiara sul fatto che le aziende devono generare “valore a lungo termine per gli azionisti, che forniscono il capitale che consente alle aziende di investire, crescere e innovare”, ma per avere successo, durare nel tempo e restituire valore agli azionisti, le aziende devono considerare gli interessi e soddisfare le aspettative eque di un’ampia gamma di parti interessate quali i clienti, i dipendenti e le comunità in cui operano.
La BRT non emargina gli azionisti come “semplici” fornitori di capitale. Al contrario, i principi BRT riconoscono l’importanza fondamentale degli azionisti per l’azienda e impegnano l’azienda alla trasparenza e all’impegno con i suoi azionisti per ottenere le loro opinioni sulla strategia, le operazioni e le prospettive dell’azienda.
La Dichiarazione della BRT non è un ripudio degli interessi degli azionisti a favore di obiettivi politici e sociali. La Dichiarazione riflette piuttosto il fatto che per avere successo, durare nel tempo e restituire valore agli azionisti, le società devono considerare gli interessi e soddisfare le aspettative eque di un’ampia gamma di stakeholder oltre agli azionisti. Se l’impresa è in crisi a ciascuno degli stakeholder può essere chiesto un contributo per la continuità.
Ciò che vogliamo segnalare è il valore che sta riemergendo della solidarietà, – come pratica che, per dirla con Stefano Rodotà, mette al centro i diritti sociali [51] – di contributi non egoistici alla crisi[52]. Su questa via l’impresa che coniuga il profitto con la dimensione sociale (e ambientale) può diventare sostenibile. L’obiettivo è generare valore nel lungo termine, combinando virtuosamente – secondo la tesi del 1997 di John Elkington – queste diverse dimensioni[53]. È tempo di pensare “agli interessi degli stakeholder non come a vincoli, di cui i gestori delle imprese devono in qualche modo tenere conto nel perseguimento del massimo sviluppo” – (e quindi anche nella gestione dello strumento per risolvere la crisi) – “ma come ad obiettivi che devono trovare adeguato spazio come uno dei vari elementi che devono concorrere a definire, in concreto, quale equilibrato sviluppo sia il caso di perseguire”[54].
Stiamo vivendo una stagione nella quale – e la citazione si colloca in uno scritto di pochi anni fa[57] – “diventano sempre più forti le istanze di un ripensamento dell’impresa secondo canoni comunitari, innervati su una ricomposizione dei rapporti con tutti gli stakeholders; ed è evidente il ruolo di inevitabile protagonista ricoperto dal fattore lavoro, da un lato principale destinatario dei tristemente noti effetti della crisi, e dall’altro prioritario riferimento per uscirne il prima possibile”.
Oggi occorre, più di ieri, – nella forzata ricerca di nuovi equilibri tra mercato e dimensione sociale – è necessario mettere in campo soluzioni sostenibili in un lungo periodo.
Tra queste merita attenta considerazione la regola di default proposta dalla Direttiva, ossia la Relative priority rule che può indurre i soci a collaborare perché il costo della crisi e allo stesso tempo i benefici conseguiti dalla continuità vengono spalmati su un numero più ampio possibile di portatori di interessi. Ciò è legittimato dal fatto che se fino all’omologazione il patrimonio (e i frutti da esso generati in quel lasso temporale) appartiene soltanto ai creditori anteriori dopo l’omologa i flussi della continuità devono essere destinati a chi ha collaborato partecipando al rischio della continuità. La funzione che, negli ultimi anni, è stata assegnata al diritto fallimentare non è più infatti – come è stato cercato di dimostrare in queste pagine – quella di sanzionare ma di incoraggiare le imprese ad assumere ragionevoli rischi, consentendo ai creditori di concedere prestiti a condizioni più favorevoli. In verità, il socio, se non ha la possibilità di mantenere la proprietà, non ha quasi mai la volontà di collaborare alla conservazione dell’azienda.
È chiaro che una procedura concorsuale tesa principalmente alla tutela dei creditori in termini di loro soddisfazione, nel rigoroso rispetto delle cause di priorità, non può portare ad alcuna conservazione di valori. Questo non può che essere il frutto di sforzi comuni, sperando che il tavolo sia quello dell’economia generale e non quello della singola impresa.
La recente storia dei concordati ci consegna immagini di risultati deludenti o di procedure naufragate. Questo insuccesso in parte è dovuto alla APR che ingessa i piani e lascia sovente l’impresa in stato asfittico per il dileguarsi dei fornitori.
Lo strumento per la continuità deve essere sostenibile[58] per l’impresa (non rendendola asfittica), per i creditori (intercettando i loro variegati interessi di soggetti imprenditori), per i terzi (la collettività che ruota attorno all’impresa). Per questi motivi ritengo – alla luce della rinnovata impostazione del diritto della crisi – che la regola della RPR risponda meglio agli assetti attuali, alla posizione dell’impresa al principio della sostenibilità[59] dello strumento per la continuità.
La conseguenza di tale impostazione è che gli sforzi di tutti devono essere diretti alla conservazione dei complessi aziendali secondo un modello sostenibile per l’economia e la collettività. Emerge la spinta verso un equilibrio tra i sacrifici proporzionato al rischio da ciascuno assunto. Anche dalla lettura della disciplina della composizione negoziata emerge che: “Nello stimolare la formulazione di proposte, l’esperto rappresenta l’esigenza che esse assicurino l’equilibrio tra i sacrifici richiesti alle singole parti, in modo quanto più possibile proporzionato al grado di esposizione al rischio di ciascuna di esse e alle utilità loro derivanti dalla continuità aziendale dell’impresa”.
La norma diventa così sempre più la regola per organizzare la collaborazione e sempre meno la partecipazione alla distribuzione di un bene. Si può parlare di continuità attraverso la concertazione. Quest’ultima è un requisito (condizione) del concordato “sostenibile”, vale a dire della procedura concordataria che riesca a coniugare (e in una prospettiva durevole) il piano industriale e quello finanziario con gli interessi dei creditori e di tutti gli stakeholder. Possiamo pensare a una sostenibilità economico-finanziaria della conduzione della crisi[60].
Del resto, questa è la visione dell’impresa che emerge anche dalla Direttiva Insolvency che addita a una ristrutturazione tempestiva (nell’interesse della collettività) per la quale coinvolge non solo i creditori ma anche altri portatori di interessi.
Dunque, in una disciplina della crisi d’impresa investita negli ultimi vent’anni da significativi cambiamenti che ne hanno mutato l’impostazione e che hanno progressivamente eroso il principio della par condicio creditorum, tenendo conto dell’esigenza non differibile di soluzioni sostenibili in senso economico e sociale, il principio della RPR non solo non appare più dissonante ma, anzi, si presenta come fattore utile per raggiungere l’obiettivo della sostenibilità.
Note: