Dirimere i dubbi sorti intorno al significato della locuzione “valore di liquidazione”, in funzione della verifica del rispetto del principio generale che vuole che il singolo creditore non riceva un trattamento deteriore rispetto a quello della liquidazione giudiziale, è una questione che richiede la messa in campo, in contemporanea, di cognizioni sia giuridiche che economiche. La tecnica dell’interpretazione normativa da sola, infatti, rischia di condurre al risultato per nulla soddisfacente – seppure oggi risulti essere il più accreditato – dell’equiparazione del “valore di liquidazione” al “valore della liquidazione giudiziale”, per altro non del medesimo perimetro di beni, bensì di un perimetro diverso e più ampio, ricomprendente anche attivi che potrebbero addizionarsi al patrimonio dell’impresa concordataria solo a seguito dell’apertura della liquidazione giudiziale (i.e. il valore delle azioni di massa, sia di quelle tipiche che di quelle atipiche).La prima domanda, che ci si dovrebbe porre, in termini di pura logica, è se si possa misurare il grado di capienza di un privilegio nell’ambito concordatario, prendendo a misura un coacervo di beni che non possono essere acquisiti al suo patrimonio, dato che la distribuzione del “valore di liquidazione”, secondo il disposto dell’art. 112, secondo comma, lett. a), deve avvenire nel rispetto delle cause legittime di prelazione. Il fisico avrebbe subito risposto che si può distribuire solo ciò che esiste in concreto, non ciò che si potrebbe trovare in un ideale diverso paniere che presuppone, per riempirlo, l’apertura di un diverso scenario giuridico che, però, non esiste nella realtà specifica, mentre il matematico avrebbe proseguito spiegandoci che ci troviamo difronte a una regola di distribuzione che presuppone, giocoforza, l’esistenza del distribuibile.Il mainstream, al contrario, sfidando ogni regola della fisica e della matematica, pone alla base del suo argomentare una vera e propria, quanto inammissibile sotto il profilo del metodo, manipolazione semantica. Si è affermato, infatti, che il legislatore quando ha utilizzato il lemma “liquidazione”, pur senza accompagnarlo da alcun aggettivo qualificativo, voleva indubbiamente riferirsi alla “liquidazione giudiziale”.Ci troveremmo, dunque, secondo le prospettazioni del pensiero dominante, difronte a un legislatore se non dislessico, quanto meno disattento. E già questo evidenzia tutta la fragilità il pensiero di chi da per scontato la sostituibilità dei due segni. Quanto sia evanescente, nella sua ingannevolezza, questo primo argomento è facile dimostrarlo con altre due allegazioni:(i) il legislatore si sarebbe distratto non una sola volta, bensì in quattro frangenti (nei commi 6 e 7 dell’art. 84, nel comma 1° dell’art. 88 e nel comma 2 dell’art. 112); (ii) l’assonanza tra valore di liquidazione e valore della liquidazione giudiziale, che consente, a chi lo propone, il salto logico verso l’intercambiabilità delle due locuzioni, è possibile solo perché il nomen della procedura “madre” è stato modificato da “fallimento” in “liquidazione giudiziale” e non, ad esempio, in “procedura d’insolvenza” o in “procedura di bancarotta”, come gli americani chiamano ancora la loro. In ogni altro caso non sarebbe stato possibile proporre l’idea della sostituibilità delle due locuzioni lessicali. E ogni discussione lì si sarebbe arrestata.Altri argomenti di carattere giuridico, però, si pongono in contrasto con il mainstream fondato su detta forzatura lessicale. Il privilegio generale, infatti, grava su tutti i beni mobili del debitore esistenti al momento dell’avvio dell’azione esecutiva, di tal che non lo si può, certo, estendere a beni che possono solo essere acquisiti con azioni esperibili nella liquidazione giudiziale. Se il bene su cui far valere il privilegio non esiste o è assorbito dalle graduazioni precedenti, il privilegio, sussistente in astratto, non partecipa ad alcuna distribuzione. Regola questa che già esisteva nel fallimento, nella su a originaria versione del 1942, dove si discuteva solo se in caso d’inesistenza dei beni su cui la causa legittima di prelazione gravava il credito fosse da ammettere al chirografo o al privilegio. L’arresto della Cassazione sul tema, confermando che si tratta(va) di regola di distribuzione, ha sancito che il credito andasse ammesso al privilegio anche se nulla poi avesse ricevuto in sede di riparto.Diversa invece era la questione nel concordato, dove prima della riforma del 2005 si discettava se i crediti privilegiati con garanzia incapiente potessero essere soddisfatti parzialmente o li si dovesse pagare integralmente, stante il silenzio della norma. L’art. 160, 2° comma l.fall., nella sua versione post riforma 2005, pose fine a ogni discussione sposando la tesi della parziale soddisfazione nei limiti del valore del patrimonio garantuale, con ciò equiparando le regole di distribuzione di una e dell’altra procedura concorsuale.Sgombrato il campo dalle illusioni ottiche, soffermiamoci ora sull’eccezione che la tesi che sostengo determinerebbe l’insorgere di un’antinomia non altrimenti removibile. Si afferma, infatti, che, limitando la distribuzione del “valore di liquidazione” in favore dei privilegiati al solo attivo esistente, si perverrebbe gioco forza a una violazione della regola generale del trattamento non deteriore rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale (art. 84., primo comma e art. 87, terzo comma).L’eccezione di antinomia si fonda, però, a ben vedere, sulle sabbie mobili di un banalissimo equivoco di fondo: non aver considerato la distinzione ontologica esistente tra regole di trattamento e regole di distribuzione. Le regole di distribuzione dell’RPR - cui non è obbligatorio ricorrere potendosi sempre adottare l'APR - prevedono che il “valore di liquidazione” debba essere distribuito secondo l’ordine delle cause legittime di prelazione, mentre il “valore eccedente” sia liberamente distribuibile, nel rispetto, però, come vedremo in seguito, di quanto stabilito al 6° comma dell'art. 84.Evidente, quindi, come il trattamento del creditore privilegiato in ambito concordatario sia la risultante aritmetica di due componenti: (i) la quota del “valore di liquidazione” e (ii) la quota del “valore eccedente”. Ciò determina che un’eventuale violazione della regola del trattamento non deteriore debba essere constata sulla base della sommatoria dei due valori che compongono la complessiva offerta di soddisfacimento in ambito concordatario e non facendo riferimento alla sola quota di “valore di liquidazione” dei beni oggetto di garanzia.Come nella liquidazione giudiziale il singolo creditore riceve una certa distribuzione complessiva che non è collegata a uno specifico attivo, ma che anzi è la risultante di più valori al netto delle spese di procedura, altrettanto nel concordato il suo soddisfacimento deriva dalla distribuzione di due valori, di un insieme, secondo determinate, ma diverse tra loro, regole.Un’esemplificazione aritmetica può aiutare il lettore. Nella liquidazione giudiziale l’attivo è di norma composto da due componenti: (i) dai beni appresi al compendio della procedura, il cui valore definiremo VL, e (ii) dalle azioni di massa, sia quelle tipiche che quelle atipiche, il cui valore definiremo VAM. Nel concordato preventivo, al contrario, l’attivo distribuibile si compone, come abbiamo visto: (i) del VL, ossia dal valore di quegli stessi beni che sarebbero appresi automaticamente al compendio della liquidazione giudiziale, a seguito della sua apertura e (ii) dal “valore eccedente” derivante dalla continuità dell’impresa., che definiremo VE. Si consideri anche che, essendo l’azione di responsabilità sociale patrimonio della società, questa fa parte del VL e non del VAM; il disposto della lett. h) del primo comma dell’art. 87 è chiaro a riguardo, quando aggiunge alle “azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili” – nel concordato (ndr) – le “azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale”, con ciò confermando che le azioni del primo tipo fanno parte del VL.Dunque, vi sarà violazione del precetto della non deteriorità del trattamento concordatario rispetto a quello della liquidazione giudiziale solo in caso di VL + VAM > VL + VE, cioè solo se VAM > VE, data l’invarianza di VL. Cioè solo quando il valore delle azioni di massa sia superiore al valore della continuità. Circostanza, questa che deporrebbe non solo in favore della violazione del precetto del trattamento non deteriore, bensì anche in favore fragilità delle condizioni di “fattibilità” del piano di continuità. Infatti, se già l’ipotesi che la continuità realizzi, al massimo, lo stesso plusvalore delle azioni di massa costituisce un vero e proprio ossimoro, figuriamoci nel caso di VE < VAM. Se, poi, si considerasse il fatto che le azioni di massa tipiche – quelle revocatorie – sono state fortemente depotenziate a partire dal 2006, una simile condizione di VE < VAM altro non sarebbe che l’inequivoco segnale di una sottostante situazione frodatoria, meritevole dei rigori dell’art. 106 (ex art. 173 l. fall.), cioè dell’arresto della procedura.Ciò che il pensiero dominante non ha compreso è che è la distribuzione del "valore eccedente" a fungere da misura integrativa del trattamento non deteriore, senza necessità alcuna di ampliare il perimetro del "valore di liquidazione", sicché l’antinomia dallo stesso denunciata si rivela essere solo apparente.Ma che così sia lo si ricava anche esplicitamente dal sesto comma dell'art. 84, che stabilisce che "per il valore eccedente quello di liquidazione è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole a quello delle classi di grado inferiore". Tale disposizione sta a significare che anche i creditori privilegiati incapienti partecipano alla distribuzione del “valore eccedente”, con la logica conseguenza che anche la quota che di tale valore essi riceveranno debba essere considerata al fine della verifica della condizione del non deteriore trattamento. In tal senso depone univocamente anche il terzo comma dell'art 87, giacché è il trattamento non deteriore ad essere oggetto di attestazione da parte del professionista indipendente e non la distribuzione del "valore della liquidazione".A questo punto del ragionamento occorre affrontare anche il tema della determinazione del “valore eccedente” e, nuovamente, occorrerà ricorrere a competenze extra giuridiche, a nozioni della matematica e dell’economia. La prima considerazione che sovviene a riguardo è che alla determinazione del “valore eccedente” non si può pervenire sulla base del solo valore noto, quello “di liquidazione”, per la semplice ragione che ciò non sarebbe possibile neppure ricorrendo alle formule dell’equazione a due incognite, poiché non v’è interrelazione tra i due valori, nel senso che, fatto “x” il valore della liquidazione e “y” il valore eccedente, non possiamo affermare che y sia una funzione di x [y = f(x)].Alla determinazione del “valore eccedente” si può pervenire, infatti, solo se si conosce il valore complessivo dell’impresa, che chiameremo Ev, nel senso che VE (il valore eccedente) è costituito dalla differenza tra Ev e VL (il valore di liquidazione), cioè VE = Ev – VL. Che, per altro, a tale valore si debba fare riferimento lo afferma a chiare lettere il quarto comma dell’art. 112, laddove è previsto che in caso di opposizione per ragioni di convenienza da parte del singolo creditore dissenziente, ciò che deve essere valutato è il “complesso aziendale del debitore”, con ciò confermando quanto si è prima detto in tema di misurazione del trattamento concordatario rispetto a quello della liquidazione giudiziale, che è dato dalla somma della quota di VL e VE che gli è attribuita, meglio della quota di Ev (essendo Ev = VL + VE) che gli è attribuita, nel rispetto delle regole di distribuzione delle due sue componenti così come definite al sesto comma dell’art. 84. Ritornando alla determinazione di Ev (il valore dell’impresa), da cui ricavare per sottrazione di VL (il valore di liquidazione), VE (il valore eccedente), il metodo più utilizzato è quello del DCF, ossia quello per cui Ev è costituito dalla sommatoria dei flussi di cassa operativi attesi attualizzati al costo medio ponderato del capitale (WACC) oltre il cd. termimal value.A questo punto possiamo giungere a una conclusione definitiva: se Ev è la risultante della sommatoria di VL e VE è evidente come il valore della liquidazione giudiziale, di norma superiore a VL – contenendo al suo interno anche VAM (il valore delle azioni di massa) – ne sia del tutto estraneo. Ciò per la semplice ragione matematica, prima che giuridica, che VE + VL + VAM > EV. Si dovrebbe, infatti, presupporre che si possa addivenire alla distribuzione di un valore che non esiste in natura, cioè una sorta di riedizione del miracolo delle “Nozze di Cana”. Per concludere un esercizio pratico può giovare: privilegio degradato 100, chirografo 400, "valore eccedente" 150, valore azioni di massa 25. Per rispettare il principio del trattamento non deteriore sarebbe sufficiente che al privilegio degradato si attribuisse 25 sui 150 del valore eccedente. Senonché il sesto comma dell'art. 84 dispone che al privilegio degradato si debba attribuire un trattamento più favorevole su questa parte di valore, rispetto alla classe di grado inferiore dei chirografi, motivo per il quale gli si dovrebbe attribuire almeno 30,00001 di VE, col che si sarebbe più che rispettata la regola generale di distribuzione per la quale sarebbe stato sufficiente un riparto di 25 in favore dei privilegiati degradati. Anche incrementando il VAM, ad esempio a 100, la regola del trattamento non deteriore sarebbe rispettata semplicemente attribuendo al privilegio degradato 100/150 di VE, residuando in tal caso 50 per soddisfare i 400 di chirografo, che in percentuale riceverebbe un pagamento del 12,5%, mentre i privilegiati degradati sarebbero soddisfatti al 100% e ciò perché il sesto comma dell’art. 84 consente di distribuire il VE in misura non proporzionale tra classi di rango diverso, dovendosi “privilegiare” in tale distribuzione i creditori prelatizi.