L’art. 4, comma 6, D.L. n. 118/2021 ha introdotto una disciplina speciale degli effetti dell’apertura della CNC sui contratti pendenti di natura bancaria (rectius: sui contratti di “affidamento bancario”) vietandone la “revoca” per il solo fatto dell’accesso dell’affidato alla CNC. L’art. 16, comma 5, CCII ha riprodotto tale divieto, aggiungendo che “in ogni caso la sospensione o la revoca degli affidamenti possono essere disposte se richiesto dalla disciplina di vigilanza prudenziale, con comunicazione che dà conto delle ragioni della decisione assunta”. In questo modo nella procedura di CNC la “finanza bancaria” viene in considerazione già solo per il profilo della possibilità o meno di proseguire nella esecuzione del contratto bancario di credito in corso, ove il relativo (importo) “accordato” non risulti ancora interamente “utilizzato”; ovvero ove la relativa provvista si ricostituisca, in conseguenza del progressivo “scarico” dello “utilizzato” presente al momento dell’apertura del procedimento di “Composizione Negoziata”.
In via preliminare pare necessario precisare che il divieto confermato dall’art. 16, comma 5, CCII è circoscritto all’ipotesi nella quale la banca sarebbe in condizione di addurre, a “giustificazione” – rectius: spiegazione – della “revoca” (soltanto ed unicamente) il fatto dello “accesso alla composizione Negoziata”[22]. Ciò precisato, occorre subito ribadire che il principio dettato dalla norma in commento suona tanto impreciso da un punto di vista tecnico, quanto ingeneroso da un punto di vista etico.
Da un punto di vista tecnico, tanto il termine “revoca” quanto quello di “affidamenti” tradiscono una evidente genericità. Presumibilmente si intendeva fare riferimento: (i) da una parte, al recesso, consentito nei rapporti contrattuali conclusi a tempo indeterminato (quali sono la maggior parte dei contratti di finanziamento bancario, a partire – di norma – dall’apertura di credito in conto corrente/ per anticipo fatture/ per anticipo s.b.f. di ricevute bancarie, eccetera), e forse anche alla “risoluzione” , quando l’accesso alla “Composizione Negoziata” e il comportamento tenuto dall’imprenditore nell’occasione avessero rivestito i caratteri dello “inadempimento” - ovvero risultassero previsti nel contratto come cause di risoluzione di diritto dello stesso ; e (ii) forse si voleva altresì alludere ai contratti di finanziamento, tanto collocabili nell’orbita dei “mutui” (con erogazione già avvenuta ed obbligo di rimborso differito nel tempo), quanto riferiti ai contratti di apertura di credito (suscettibili di un utilizzo “rotativo” nel corso del tempo).
La denunciata genericità del principio così enunciato non è accettabile senza alcune necessarie precisazioni.
Si può ipotizzare l’introduzione di un divieto di “risoluzione” del contratto di finanziamento bancario (per es. il contratto di “mutuo”), allo scopo di sottrarre l’imprenditore in crisi – e per ciò inadempiente: per es. al rispetto dell’osservanza puntuale del piano di ammortamento rateale – all’obbligo di rimborsare immediatamente l’intero debito residuo, con conseguente produzione (ovvero aggravamento) di una crisi di liquidità.
Si può altresì considerare l’esempio del divieto di risoluzione del contratto pendente di leasing, che presentasse alcuni canoni scaduti e non pagati, al fine di consentire all’imprenditore di continuare ad utilizzare il bene o il cespite acquisito tramite un contratto di locazione finanziaria.
Già tali interventi si traducono in un obbligo di “finanziamento” – per la dilazione imposta alla banca, che in tal modo viene costretta a sostenere finanziariamente l’impresa per tutto il periodo nel quale rimanesse efficace il divieto di risoluzione -: ma ciò corrisponde ad un fenomeno ricorrente nel quadro delle procedure di Composizione delle crisi d’impresa, trattandosi di una “moratoria” già presente, in varie modalità, anche in altri istituti della specie (in primis il Concordato preventivo).
Si può altresì ipotizzare l’introduzione di un divieto di “recesso” relativamente agli effetti che lo stesso produrrebbe sulle prestazioni della banca già eseguite – vale a dire sui finanziamenti, in particolare le “anticipazioni”, già concessi -, sempre allo scopo di impedire la produzione della immediata esigibilità del credito “utilizzato”, e la conseguente, possibile crisi di liquidità, suscettibile di sfociare nell’assoggettamento dell’imprenditore ad azioni cautelari ed esecutive promosse dalla banca (tema sul quale si ritornerà in appresso).
Sarebbe invece inimmaginabile il divieto di “revoca” (ovvero di recesso; o anche di risoluzione, in presenza di contratti di apertura di credito conclusi a tempo determinato) con riguardo alle prestazioni ancora da eseguire: vale a dire con riguardo agli “utilizzi” di cui l’imprenditore avesse ancora il diritto contrattuale di avvalersi (perché relativi alla porzione di affidamento “accordato” risultante non utilizzata alla data di accesso alla “Composizione Negoziata”); ovvero a quelli che si ricreassero in conseguenza della riduzione dello “utilizzato” precedente (per effetto del “rientro” della originaria esposizione, nelle aperture di credito bancario cc.dd. “rotative” e/o “autoliquidanti”)[23].
La introduzione di un divieto di interruzione (o anche di sospensione) dell’utilizzo del credito reso originariamente disponibile all’imprenditore – quale che fosse lo strumento funzionale a conseguire tale interruzione: “revoca”, ovvero recesso, ovvero risoluzione –, con la conseguente attribuzione all’imprenditore del diritto di esercitare gli atti di utilizzo resi possibili dallo “accordato” residuo, ovvero ripristinato, equivarrebbe alla introduzione di un obbligo di finanziamento (i) in via generale, contrario ad ogni principio di ragionevolezza, oltre che incompatibile con la natura (di impresa privata) da attribuirsi all’esercizio dell’attività creditizia; e (ii) in via particolare, comunque contraddetto dalla disciplina di diritto positivo di settore.
L’attribuzione alla norma in commento dell’effetto della introduzione di un obbligo di finanziamento, in capo alla banca, con riguardo alla prosecuzione dell’esecuzione dei contratti bancari (di finanziamento) pendenti, per i quali sussistano (ovvero si riproducano) disponibilità di utilizzo – rispetto all’ammontare originariamente “accordato” – da parte dell’imprenditore ammesso alla CNC, rappresenta una ipotesi interpretativa che si scontra con almeno quattro obiezioni: (i) la contraddizione, in termini generali, con il principio affermato nel contesto di altre procedure di composizione negoziale della crisi d’impresa, di incoercibilità dell’attività di finanziamento; (ii) la contraddizione con disposizioni contenute in altri testi normativi che, mirando a conseguire tale risultato, lo hanno esplicitato in modo circostanziato come oggetto di un obbligo della banca finanziatrice; (iii) la previsione di tale obbligo nell’ambito della disciplina della stessa procedura di CNC, ma in una distinta sede – ed in presenza di presupposti differenti -; e (iv) il coordinamento sistematico della disciplina in commento con la disciplina assegnata alla conferma delle “misure protettive” conseguite dall’imprenditore con l’accesso alla CNC, integrato dalla iscrizione nel Registro delle Imprese della istanza prevista dall’art. 18, comma 1, CCII.
Sotto il primo profilo si deve prestare attenzione alla circostanza che nella “procedura” di Convenzione di Moratoria o di Accordo di Ristrutturazione (c.d. “ad efficacia estesa”) un possibile “effetto impositivo” in materia di erogazione di sostegno finanziario all’impresa in crisi è (sempre) stato reiteratamente negato[24].
Sotto il secondo profilo si deve considerare l’intervento posto in essere dal legislatore in piena fase pandemica, allorché la volontà di assicurare il sostegno finanziario alle imprese coinvolte dalla crisi economica conseguente alla crisi sanitaria si è tradotta esattamente nella introduzione del c.d. “obbligo di finanziamento” di cui si sta discorrendo, ma attraverso una disposizione di legge esplicita e circostanziata. L’art. 56, comma 2, lett. a) del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27 (c.d. decreto “Cura Italia”) ha previsto che “al fine di sostenere le attività imprenditoriali danneggiate dall’epidemia di Codiv-19 le imprese… possono avvalersi… delle seguenti misure: a) per le aperture di credito e revoca e per i prestiti accordati a fronte di anticipi su crediti esistenti alla data del 29 febbraio 2020 o, se superiori, a quella di pubblicazione del presente decreto, gli importi accordati, sia per la parte utilizzata sia per quella non ancora utilizzata, non possono essere revocati in tutto o in parte…” (fino al 30 settembre 2020). Nel caso di specie, dunque, il “divieto di revoca degli affidamenti” è stato espressamente esteso anche alla “parte… non ancora utilizzata” dell’ammontare “accordato”: laddove nulla di ciò era contemplato nell’art. 4, comma 6, D.L. n. 118/2021, né è contemplato nell’art. 16, comma 5, CCII.
Sotto il terzo profilo è necessario considerare che un “effetto impositivo” equivalente a quello qui ipotizzato viene disposto – invece - per l’ipotesi di accesso dell’imprenditore alle “misure protettive” (e della successiva conferma da parte del Tribunale). L’art. 18, comma 5, CCII afferma infatti che “i creditori nei cui confronti operano le misure protettive non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento di contratti pendenti…”: e ciò può comportare, per i contratti pendenti bancari (di finanziamento), l’obbligo di erogare credito all’imprenditore ammesso alla CNC, laddove l’esecuzione del contratto bancario pendente consista per l’appunto nell’erogare sostegno finanziario[25]. Tale contesto, tuttavia, è sostanzialmente antitetico rispetto a quello per il quale viene disposto il divieto di revoca degli affidamenti bancari, dal momento che:
(i) nel contesto di cui all’art. 16, comma 5, CCII, l’effetto impositivo è automatico e sottratto a qualsiasi vaglio giudiziale, sia preventivo, sia successivo: laddove nel contesto di cui all’art. 18, comma 5, CCII, l’effetto impositivo è condizionato – nell’an e nel quando -, alla richiesta da parte dell’imprenditore (della conferma) delle “misure protettive”;
(ii) nella prima situazione, l’effetto impositivo non è soggetto ad alcun contraddittorio: nella seconda situazione, l’instaurazione del contraddittorio con la banca è indispensabile (art. 19, comma 3, CCII);
(iii) nella prima situazione, l’effetto è inamovibile; nella seconda situazione l’effetto può essere rimosso dalla mancata conferma da parte del Tribunale, nel corso della udienza di convalida (art. 19, comma 4), ovvero in un qualsiasi momento successivo (art. 19, comma 6);
Sotto il quarto profilo occorre considerare da un punto di vista sistematico le due disposizioni in commento (art. 16, comma 5 e art. 18, comma 5) sono correttamente coordinabili - attribuendo alla prima l’effetto (soltanto) di impedire la “revoca” dell’affidamento in funzione della immediata esigibilità del credito pregresso (prodromica all’avvio di azioni cautelari od esecutive); ed alla seconda, invece, l’effetto (ulteriore) di obbligare la banca anche alla prosecuzione della esecuzione del contratto di finanziamento pendente - perché conseguono questi risultati complessivi:
1) in mancanza di “misure protettive” – perché l’imprenditore non ne ha fatto richiesta; o perché il Tribunale non le ha confermate -, l’imprenditore ammesso alla CNC è esposto alle azioni cautelari ed esecutive dei creditori. L’art. 16, comma 5, CCII assicura all’imprenditore un “effetto protettivo” per lo meno nei confronti del creditore bancario, giacché il divieto di revoca dell’affidamento impedisce di conseguire la immediata esigibilità del saldo debitore, ed il conseguente avvio di azioni esecutive.
Tale “effetto protettivo” può essere fatto cadere dalla banca, nell’ipotesi nella quale essa sia in condizione di addurre la necessaria applicazione della “disciplina di vigilanza prudenziale”, incompatibile con detto effetto[26]: ma trattandosi delle eliminazione della “misura protettiva” (del patrimonio dell’imprenditore) che altrimenti – come detto – si sarebbe prodotta, ciò richiede, come detto, la sussistenza di una esigenza di “vigilanza prudenziale”, nonché una circostanziata “comunicazione che dà conto delle ragioni della decisione assunta”.
2) in presenza di “misure protettive” lo “effetto impeditivo” nei confronti di iniziative cautelari od esecutive dei creditori (anche bancari) è prodotto per il solo fatto della iscrizione nel Registro delle Imprese dell’istanza di conferma giudiziale (art. 18, comma 1, CCII). L’unica forma di sostegno supplementare individuabile nella disciplina degli effetti della CNC sui contratti (bancari) pendenti può essere quella – fermo il divieto di dare corso ad atti di aggressione - dell’obbligo di continuare la esecuzione del contratto (di finanziamento) pendente. Trattandosi però di misura oggettivamente eccezionale (si veda quando considerato a proposito della corrispondente problematica in sede di “Convenzione di Moratoria” e di “Accordi di Ristrutturazione ad efficacia estesa”), si è ritenuto opportuno consentire ai creditori interessati, sino al momento del confronto in sede giudiziale per la conferma ovvero la revoca delle “misure protettive” (e conseguente conferma o revoca dello “effetto impositivo” sulla continuazione obbligatoria dell’esecuzione del contratto pendente), la sospensione dell’adempimento (art. 18, comma 5, seconda parte – introdotto in sede di trasposizione della disciplina della CNC dal D.L. n. 118/2021 nel CCII): ma questa volta, visto l’effetto provvisorio dell’iniziativa (“fino alla conferma delle misure richieste”), senza necessità di addurre esigenze connesse alla “vigilanza prudenziale” sul settore bancario e finanziario[27].
Come ultima annotazione formuliamo la considerazione che per chi ritiene che dal “divieto di revoca” debba ricavarsi, nei termini sopra rappresentati, un “obbligo di finanziamento”, i crediti derivanti dallo temperamento a tale obbligo non sarebbero prededucibili[28]: da cui la domanda, di chi sarebbe la responsabilità in caso di aumento della perdita subita dalla banca per il sostegno finanziario “coatto“ prestato all’impresa in crisi.
Da ultimo, per ciò che concerne quello che abbiamo definito il profilo “etico” della vicenda, non si comprende - come già osservato - la ragione per la quale la preoccupazione di un comportamento “brutale” nei confronti dell’imprenditore in crisi debba concentrarsi sulla banca, piuttosto – per esempio – che sul “fornitore strategico” (che potrebbe interrompere il rapporto di fornitura, pur essenziale per la continuazione dell’attività d’impresa da parte dell’impresa in crisi, per la preoccupazione di non essere pagato); oppure sul “cliente esclusivo” (che potrebbe cambiare fornitore per la preoccupazione della possibile discontinuità delle prestazioni dell’imprenditore in crisi); od ancora sul “Capo-Agente” (che potrebbe traghettare i clienti alla concorrenza per mantenere integro il valore del “pacchetto” formatosi grazie alla sua attività di intermediazione): ma nulla di ciò è neppure lontanamente previsto. Il “divieto di revoca” rimane circoscritto al rapporto tra l’imprenditore in crisi ed il creditore bancario: e ciò si spiega soltanto con un perdurante pregiudizio nei confronti della correttezza di tale categoria di imprese.