Svolta un’indagine sui “presupposti” di accesso al percorso di CNC, si tratta ora di chiedersi “a cosa serva” questo nuovo istituto. Non è così semplice fissare gli obiettivi che il legislatore si è dato per uno strumento di regolazione della crisi che, visto l’art. 11, può avere gli esiti più disparati, dalla chiusura di un accordo tra debitore e creditori che risolva la crisi su un piano squisitamente contrattuale (cfr. art. 11.1) ad una qualsiasi procedura disciplinata dalla legge fallimentare (cfr. art. 11.3.c) [40]. D’altra parte, come non c’è un accertamento giudiziale dei presupposti per il ricorso alla nomina dell’esperto, così, redatta da parte di questo la relazione finale, non c’è un provvedimento di chiusura del percorso [41]. Manca quindi un formale riscontro del successo della CNC e, per immaginare quali obiettivi si sia veramente dato il legislatore, può essere utile guardare alla disciplina del compenso dell’esperto, per verificare quando il risultato della sua attività sia stato così buono da meritare un supplemento di remunerazione.
Dalla lettura dell’art. 16, è agevole constatare che l’esperto arreca la massima utilità al sistema quando risolve la crisi e procura il risanamento dell’impresa (ai sensi dell’art. 11.1: individua “una soluzione idonea al superamento della situazione di cui all’articolo 2, comma 1) attraverso un accordo su base contrattuale, pur se mediato dall’intervento dell’autorità giudiziaria (cfr. art. 16.5). Sono i casi: (i) del contratto con uno o più creditori che sia idoneo “ad assicurare la continuità aziendale per un periodo non inferiore a due anni”; (ii) della convenzione di moratoria; (iii) dell’accordo assimilabile, quanto agli effetti, al piano attestato di risanamento ex art. 67 c. 3°, lett. d), l. fall. [42], dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. In queste ipotesi di uscita dalla CNC, l’esperto fruisce di un bonus pari addirittura ad un +100% del suo compenso (che diventa un + 120% in caso di sottoscrizione da parte dell’esperto dell’accordo assimilabile al piano attestato di risanamento: cfr. art. 16.6). Si tratta di ipotesi piuttosto eterogenee, in alcune delle quali veramente la chiusura del percorso avviene sulla base della sola “forza di legge” del contratto (sono i casi del contratto di cui all’art. 11.a e dell’accordo assimilabile quoad effectum al piano attestato di risanamento), mentre in altre occorre o è possibile l’intervento sia dell’autorità giudiziaria, sia del principio maggioritario (sono i casi della convenzione di moratoria e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti).
In generale, tuttavia, in tali ipotesi il lavoro dell’esperto merita il massimo premio, considerato che la crisi è risolta con un nullo o minimo dispiego di risorse giudiziali e sulla base di una soluzione integralmente o ampiamente condivisa dai protagonisti delle trattative.
Dal punto di vista sistemico, tuttavia, balza agli occhi anche il (minor) premio riconosciuto all’esperto “in caso di vendita del complesso aziendale o di individuazione di un acquirente da parte dell’esperto”, pari al 10% del compenso base e previsto dall’art. 16.3.d). Si tratta, per vero, di un bonus pari solo ad un decimo di quello riconosciuto nelle ipotesi contemplate dall’art. 16.5, ma è in sé rilevante perché consente di ritenere che, tutto sommato, il legislatore possa dirsi soddisfatto anche se, all’esito della CNC non si risolve la crisi dell’imprenditore su base negoziale ma, semplicemente, si riesce a trovare all’azienda una collocazione alternativa rispetto a quella dell’imprenditore in crisi. Torna cioè alla ribalta la continuità aziendale indiretta, che di per sé consente il risanamento dell’impresa, seppure nelle mani dell’imprenditore acquirente l’azienda.
Tutto ciò considerato, si può ritenere che l’esperto abbia fatto un ottimo lavoro, se ha rimediato alla crisi dell’imprenditore e così risanato anche l’impresa; ma può altresì ritenersi che abbia fatto un buon lavoro, anche se non ottimo, se ha procurato o agevolato la vendita l’azienda dell’imprenditore in crisi o addirittura anche soltanto “individuato” un suo acquirente, a prescindere dalla circostanza che la crisi dell’imprenditore si sia risolta oppure no. In questo secondo caso, sembra del tutto irrilevante se la cessione avvenga nel corso o all’esito delle trattative, magari con l’autorizzazione alla disapplicazione dell’art. 2560 c. 2° c.c. prevista dall’art. 10.1.d). Anche se, individuato l’acquirente dell’azienda da parte dell’esperto, la cessione avvenga dopo la redazione della relazione finale ex art. 5.8 e nel corso di altra, conseguente procedura concorsuale, che sia un concordato semplificato, o un concordato preventivo o addirittura un fallimento, la CNC avrà realizzato l’obiettivo della riallocazione dell’azienda e, dunque, del risanamento dell’impresa.
E i creditori? Può dirsi che la CNC sia funzionale anche ad un loro ottimale, se non migliore, soddisfacimento?
Sul punto occorre tenere distinti i piani. Se, infatti, le trattative si concludono con un vero contratto (sono le ipotesi dell’art. 11.1.a e dell’art. 11.1.c), il soddisfacimento dei creditori sarà self-executing, perché ogni loro adesione corrisponderà al massimo sacrificio dagli stessi accettabile su base esclusivamente e puramente volontaria.
Al di fuori di questa ipotesi, tuttavia, non c’è spazio per introdurre il migliore soddisfacimento dei creditori tra gli obiettivi che si dà la CNC [43], anche perché solo nel confronto con un piano o un accordo già perfezionato può ragionarsi di un soddisfacimento dei creditori (promesso dal piano o dall’accordo) migliore rispetto alle alternative soluzioni liquidatorie. Nel caso di specie, se l’uscita dalle trattative avviene con un contratto, come visto, non ci si pone il problema; se le trattative sfociano invece in altro strumento di regolazione della crisi, il livello di soddisfacimento dei crediti sarà quello eventualmente imposto dalla disciplina di questo strumento.
Quae cum ita sint, sembra difficile riconoscere una valenza sistemica al requisito della “migliore soddisfazione dei creditori” quale condizione per il rilascio delle autorizzazioni previste dall’art. 10, perché, in assenza di un accordo già (magari solo a grandi linee) definito, se non anche stipulato, sarà estremamente difficile avere un termine di paragone affidabile, anche considerato che, ad esempio, in mancanza di un vincolo di destinazione già pattuito con i creditori, sarà molto difficile costringere l’imprenditore a devolvere l’intero prezzo di cessione di un ramo d’azienda al soddisfacimento dei creditori piuttosto che all’alimentazione di altra parte della continuità aziendale.
Alla fine dei conti, o i creditori trovano la loro tutela nella stipulazione di un contratto che dia loro soddisfazione, o la disciplina della CNC non offre loro particolari tutele. Anche nel caso in cui la gestione dell’impresa nel corso delle trattative sia del tutto diseconomica e foriera di distruzione di patrimonio responsabile, è lecito dubitare del fatto che l’art. 9.1, pur come novellato dalla legge di conversione, imponga all’imprenditore la cessazione dell’attività d’impresa, se questa è funzionale alla conservazione dell’azienda in esercizio al fine della sua cessione as a going concern. E solo una lettura (molto) estensiva dell’art. 9.2 può condurre l’esperto a segnalare all’organo di amministrazione e all’organo di controllo, nonché alla successiva iscrizione del dissenso nel registro delle imprese se non anche alla comunicazione dello stesso al tribunale che abbia concesso misure protettive o cautelari, la conduzione di un’attività, piuttosto che il compimento di un atto, che possa arrecare pregiudizio ai creditori [44].
Addirittura, come visto, un dato essenziale per consentire ai creditori di adottare scelte razionali nel corso delle trattative, quale la stima del valore di liquidazione dell’intero patrimonio del debitore, sarà acquisibile al set informativo dei creditori solo se accetteranno di condividere il costo della stima, con un evidente corto circuito che impedisce il dispiegarsi della credibilità della minaccia del concordato semplificato, sempre aleggiante nello svolgimento delle trattative, minaccia che, per essere credibile e fungere da efficace moral suasion alla partecipazione dei creditori alle trattative, presuppone la piena conoscenza da parte dei creditori del risultato realizzabile all’esito di un percorso di liquidazione del patrimonio responsabile.
L’impressione offerta dal sistema normativo, dunque, è quella di un istituto che, sempre e comunque, deve realizzare il risanamento dell’impresa, vero e proprio comune denominatore delle ipotesi di uscita dalla CNC che vedano “premiato” l’esperto: pur in assenza di alcuna seria aspettativa di accordo con i creditori, le trattative potranno essere condotte anche solo al fine della riallocazione dell’azienda, a prescindere dal quantum di soddisfacimento dei creditori [45]. Questi potranno ricevere un trattamento buono o cattivo, effettivamente negoziato o imposto da un concordato preventivo (in cui almeno vale una maggioranza di crediti) o semplificato (in cui i creditori “mandano giù” la proposta loro riservata e omologata dal tribunale): si tratta di circostanza che non incide sulle “concrete prospettive di risanamento” e, dunque, che non condiziona la percorribilità della CNC da parte dell’imprenditore, in un contesto firm oriented, ancor più che debtor oriented [46].