Alla radicalità delle conclusioni poc’anzi suggerite si potrebbe replicare che in tal modo si escludono dall'accesso al finanziamento bancario proprio le imprese che, essendo in difficoltà, ne hanno maggior bisogno per uscire dallo stato di squilibrio in cui versano o nel quale rischiano di cadere.
In più, come adombrato nei paragrafi precedenti, potrebbe sostenersi che l’abusiva concessione di credito – che legittima azioni risarcitorie – non presuppone una mera valutazione erronea del merito creditizio, occorrendo pure un concorso consapevole della banca nella mala gestio degli amministratori.
Le obiezioni non considerano però quello che è di certo uno degli obiettivi primari del nuovo impianto codicistico: la tempestiva emersione della crisi dell'impresa. Se si muove dal condivisibile presupposto che solo affrontando la crisi nella fase di esordio, quando ancora esistono reali margini di manovra, si può sperare di superarla, bisogna trarne le necessarie conseguenze.
Senza contare che pure gli istituti di credito dovrebbero avere interesse alla gestione tempestiva delle disfunzioni aziendali, visto che la tempestività d’intervento può permettere all’impresa di recuperare un equilibrio tale da consentirle il progressivo rimborso dei finanziamenti bancari[57].
Allora è evidente che l'interruzione delle linee di credito alle imprese in difficoltà - che ancora non hanno formalizzato il proprio accesso alla composizione negoziata o ad uno strumento di regolazione del dissesto - diventa un forte incentivo a tale accesso e alla conseguente e auspicata emersione tempestiva della crisi. Del resto, il sistema assicura effettiva protezione alle esigenze finanziarie delle aziende, ma solo una volta che siano state assunte iniziative formali per risolvere le loro disfunzioni[58].
Limitando la nostra attenzione alla zona grigia in cui lo squilibrio patrimoniale o economico/finanziario dovrebbe essere al primo stadio - e più ampi quindi i margini di manovra per una sua soluzione - ovvero alla fase della composizione negoziata, è l'art. 16 comma 5 CCII che garantisce un bilanciamento tra le contrapposte istanze.
La norma prevede che “l'accesso alla composizione negoziata della crisi non costituisce di per sé causa di sospensione e di revoca degli affidamenti bancari concessi all'imprenditore”. Dunque, non solo si evita qualsiasi automatismo tra l'emersione della crisi e l'interruzione del sostegno finanziario[59], ma si indica la necessità di un diretto coinvolgimento degli istituti di credito nella decisiva (almeno nelle intenzioni del legislatore) fase di composizione negoziata.
Per quanto la previsione si riallacci al generale dovere di comportamento di buona fede e correttezza che grava tanto sul debitore quanto sui creditori (art. 4 CCII), è indubbio che la tutela sia in questo caso ben più concreta e tale forse da generare l'opposto tema - a cui si è accennato nel secondo paragrafo - della responsabilità per brutale interruzione del credito bancario.
Del succitato “divieto” di revoca o sospensione dei fidi (art. 16 comma 5) è indispensabile precisare i confini. Secondo autorevole dottrina non si estende alle prestazioni ancora da eseguire: quindi, ad esempio, non riguarderà le aperture di credito solo parzialmente utilizzate e nemmeno i margini di affidamento che si ripresentassero in ragione del parziale rientro rispetto al fido utilizzato nelle ipotesi di finanziamenti rotativi o autoliquidanti[60]. Ma questa soluzione non convince appieno, perché il parziale rientro dell'imprenditore in un finanziamento autoliquidante rappresenta un’esecuzione normale del rapporto, tanto che penalizzare l'impresa adempiente rischia di essere, prima ancora che ingiusto, controproducente[61].
Il passaggio verso la formalizzazione della crisi solleva la banca da molti rischi, soprattutto per la presenza di figure di garanzia (l'esperto ed il tribunale o il commissario giudiziale in caso di concordato preventivo) che rendono più difficile affermare ex post l’abusiva concessione di credito pure quando, nonostante gli sforzi profusi, si approdi alla liquidazione giudiziale.
Sarebbe però semplicistico concludere che con l'apertura della composizione negoziata gli istituti di credito siano sollevati da qualsiasi responsabilità ed onere di controllo circa il merito creditizio dell'azienda finanziata. Anche senza considerare condotte dolose o fraudolente, infatti, il comma 5 dello stesso art. 16 aggiunge che comunque la revoca o la sospensione degli affidamenti possono essere assunte “se richiesto dalla disciplina di vigilanza prudenziale[62], con comunicazione che dà conto delle ragioni della decisione assunta”.
E' chiaro che questo avverrà solo se le condizioni dell'impresa, nonostante la nomina dell'esperto e le iniziative assunte dall'imprenditore, non offrano alcuna garanzia di restituzione del fido accordato e quindi la prognosi sul futuro dell'impresa (alla luce delle indicazioni di vigilanza prudenziale) sia decisamente infausta[63].
Nell’ambito della composizione negoziata emerge però con nettezza la centralità degli interessi dell’impresa in crisi nelle scelte della banca, la quale non dovrebbe poter decidere la revoca di affidamenti alla luce di mere considerazioni di convenienza economica[64]. Per essere più chiari, essa non potrebbe insomma negare il credito in quanto non più remunerativo, ma solo se le prospettive di salvataggio dell’impresa non fossero più realistiche, come dimostra la necessità ex lege di motivare e condividere la decisione assunta[65].
Né può essere tralasciato il tema della durata della composizione negoziata, che può protrarsi sino a 360 giorni (art. 17, comma 7, CCII) e quindi per un tempo non trascurabile, che può portare di frequente a un’involuzione della crisi e quindi imporre una periodica verifica delle prospettive di superamento della stessa.
Infine, va menzionata – in termini problematici – l'assenza di tempestivi ed efficaci rimedi in caso di ingiustificata revoca degli affidamenti. È vero che la decisione della banca dev’essere motivata e condivisa (e come tale suscettibile almeno in linea teorica di essere controllata), ma la precarietà degli equilibri finanziari dell'impresa non consentirà alcuna realistica reazione, perché lo stato di dissesto - in assenza di sostegno finanziario - diventerà ben presto irreversibile, con conseguente pregiudizio dell'intero ceto creditorio.
Non è facile trovare strumenti che garantiscano il raggiungimento di un equilibrio in tali situazioni, ma il tema - che si inquadra nel più ampio obbligo di lealtà dei creditori imposto dall'art. 4 CCII - va considerato con attenzione, aprendo il campo ad una responsabilità di carattere diametralmente opposto a quella per concessione abusiva di credito.
In particolare, le norme sin qui esaminate (artt. 4 e 16 comma 5, ma v. anche l’art. 25 decies CCII) rendono plausibile che nell’ambito della composizione negoziata la banca venga in futuro chiamata a rispondere di atteggiamenti di indebita chiusura a ragionevoli soluzioni della crisi[66].
Sotto questo profilo va tenuto conto che le parti coinvolte nelle trattative devono collaborare lealmente con l’imprenditore e con l’esperto nominato (art. 16 comma 6 CCII). Senza contare più in generale che, come già accennato, in passato la giurisprudenza ha talvolta ravvisato una responsabilità bancaria per brutale interruzione dell’erogazione dei finanziamenti[67], tenendo presente che il recesso dal contratto di apertura del credito prima del termine richiede una giusta causa (art. 1845 c.c.).
In definitiva, allora, pure nel nuovo Codice riaffiora il c.d. dilemma del banchiere – che l’art. 16, comma 5, CCII non risolve in modo univoco – il quale è stretto tra l’accusa di concessione abusiva di credito (e il desiderio di risollevare l’impresa per consentirle il rimborso dei finanziamenti pregressi) e quella di interruzione abusiva del credito (e il desiderio di chiudere subito i rapporti per evitare la maturazione di ulteriori crediti non recuperabili).