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Saggio

Le nuove classi negli strumenti di regolazione della crisi*

Antonio Rossi, Associato di diritto commerciale nell’Università di Bologna

17 Marzo 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
**Il presente scritto costituisce un aggiornamento del contributo dell’A. pubblicato sul Trattato Crisi d’impresa e procedure concorsuali, 2° ed., curato da O. Cagnasso e L. Panzani per i tipi della UTET, e tiene conto di recenti, importanti studi colà non considerati ratione temporis.
L’A. si sofferma funditus sulla fisionomia e sul ruolo delle classi nei nuovi strumenti di regolazione della crisi, indagandone le implicazioni sistematiche e cogliendone le peculiarità.
Riproduzione riservata
1 . Le classi nella legge fallimentare
La grande riforma della legge fallimentare introdotta (già) con il D.L. n. 35/2005, e poi ampliata e (in gran parte) confermata con il D.Lgs. n. 5/2006, ha – tra l’altro – esaltato la libertà del debitore di disporre delle risorse utilizzate nella predisposizione di un piano concordatario, anche mediante la possibilità di prevedere un trattamento differenziato dei creditori di pari rango, così apportando un primo, fondamentale vulnus all’(allora) imperante principio della par condicio creditorum. In particolare, l’art. 160, comma 1, lett. d), L. fall. consentiva “trattamenti differenziati tra creditori”, purché inseriti in “classi diverse”.
Facevano così ingresso, anche nell’ordinamento generale della crisi d’impresa, le classi dei creditori, che la lettera c) del medesimo art. 160 cit. prevedeva fossero formate da creditori con “posizione giuridica e interessi economici omogenei”. Si trattava di istituto per vero già utilizzato nel limitato settore normativo del concordato delle grandi imprese insolventi di cui all’art. 4 bis del D.L. n. 347/2003 ([1]) e ancor prima anticipato, de jure condendo, nella letteratura giuscommercialistica ([2]).
Molto si è dibattuto, nel vigore della legge fallimentare, circa l’esistenza di un vero e proprio obbligo di classificazione dei creditori, assumendosi, soprattutto, che l’omogeneità degli interessi fosse una pre-condizione necessaria all’esplicazione del principio maggioritario nel procedimento di approvazione della proposta concordataria ([3]). Nonostante l’autorevolezza dei sostenitori della tesi della obbligatorietà di classificazione dei creditori, l’orientamento interpretativo prevalente si era indirizzato infine – e comprensibilmente – nel senso di escludere siffatta necessità, rimettendo alla volontà del debitore la scelta circa l’utilizzo dell’istituto ([4]).
Il ricorso alle classi, nel confezionamento della proposta concordataria, costituiva quindi un onere, cui il debitore doveva piegarsi se avesse voluto trattare diversamente creditori di pari rango (normalmente, la massa dei creditori chirografari), sostenendone i relativi costi procedimentali. In particolare, la classificazione dei creditori aggravava sia il procedimento di approvazione del concordato, introducendo un criterio di doppia maggioranza (cfr. art. 177, comma 1, L. fall.) ([5]), in luogo della maggioranza semplice di crediti richiesta per l’approvazione di un concordato senza classi, sia il procedimento di omologazione, consentendo al tribunale di estendere il proprio giudizio alla convenienza della proposta rispetto alle “alternative concretamente praticabili” in presenza di opposizione di un creditore dissenziente appartenente a classe dissenziente, a prescindere dal raggiungimento dell’aliquota legittimante (in generale) del 20% dei crediti ammessi al voto (cfr. art. 180, comma 4, L. fall.).
Se un debitore non avesse voluto correre il rischio dell’aggravamento procedimentale imposto dagli artt. 177, comma 1, e 180, comma 4, L. fall., oltre che del sindacato dell’autorità giudiziaria circa l’applicazione dei corretti criteri di formazione delle classi, avrebbe dovuto semplicemente trattare tutti i creditori di pari rango in maniera identica, a prescindere dal fatto che gli stessi – al di là della parità del rango - avessero o no interessi omogenei o un’equivalente propensione all’esercizio del diritto di voto in funzione dell’approvazione della proposta.
Dato siffatto contesto normativo, le classi nella legge fallimentare svolgevano una funzione di razionale allocazione delle (quasi per definizione) limitate risorse integranti la provvista concordataria, consentendo una loro asimmetrica distribuzione funzionale ad intercettare, al minor costo possibile, il voto della minore maggioranza necessaria all’approvazione della proposta concordataria. Si trattava, insomma, di istituto che poneva regole squisitamente distributive.
L’unica eccezione a tale funzione delle classi poteva leggersi all’art. 182 ter L. fall., posto in materia di trattamento dei crediti tributari e contributivi, che imponeva la segregazione in un’apposita classe della quota del credito tributario o contributivo eventualmente degradata al chirografo. Già in questo segmento di speciale disciplina, quindi, si poteva intravedere un utilizzo delle classi che poco aveva a che fare con il trattamento differenziato dei crediti di pari rango ma che serviva soltanto a potenziare il voto di un particolare creditore, come poi sarebbe avvenuto con l’avvento del Codice della Crisi.
2 . Le classi nella Direttiva (UE) n. 2019/1023
La lineare finalizzazione delle classi nella legge fallimentare, volte a consentire un trattamento asimmetrico di creditori di pari rango, è stata messa in crisi, prima, dalla Direttiva (UE) n. 2019/1023 (c.d. Direttiva Insolvency, di seguito anche solo “la Direttiva”), poi, dalla scelta del legislatore nazionale di fare del concordato preventivo il principale ([6]) strumento di attuazione della disciplina unionale in tema di Quadri di Ristrutturazione Preventiva. 
Nella Direttiva, infatti, le classi di creditori (e non soltanto) conoscono una diffusa applicazione, non tanto, però, in funzione del loro trattamento differenziato, quanto, piuttosto, per una maggiore “equità” nella distribuzione dei sacrifici che il debitore può pretendere di imporre ai creditori e alle altre parti interessate al fine del risanamento dell’impresa ([7]). 
Già nel Considerando n. 44, infatti, si legge che “Affinché i diritti che sono sostanzialmente simili ([8]) ricevano pari trattamento …, le parti interessate dovrebbero essere trattate in classi distinte”, così anticipando il principio per cui la formazione di classi di creditori (e soci) non costituisce più un onere ma, in presenza delle condizioni anticipate dalla Direttiva (e fatte poi proprie dal CCII), un vero e proprio obbligo, indirizzato innanzitutto al “pari trattamento” di diritti “sostanzialmente simili”. Lo stesso Considerando n. 44 fa poi riferimento alla necessità di suddividere in classi distinte “i creditori garantiti e quelli non garantiti”, i crediti “subordinati”, “le autorità fiscali o di previdenza sociale”, altri “creditori … particolarmente vulnerabili come i lavoratori o i piccoli fornitori”. 
Gli auspici espressi nel Considerando n. 44 hanno poi trovato normativa esplicitazione nell’art. 9.4 della Direttiva: “Gli Stati membri provvedono affinché le parti interessate siano trattate in classi distinte che rispecchiano una sufficiente comunanza di interessi … Come minimo, i creditori che vantano crediti garantiti e non garantiti sono trattati in classi distinte … Gli Stati membri possono altresì prevedere che i diritti dei lavoratori siano trattati in una specifica classe distinta …Gli Stati membri adottano misure appropriate per assicurare che la formazione delle classi sia effettuata con particolare attenzione alla protezione dei creditori vulnerabili, come i piccoli fornitori”. 
Le regole che disciplinano il funzionamento delle classi puntano quindi innanzitutto ad una asimmetrica distribuzione del potere che i creditori esprimono nell’esercizio del diritto di voto, nell’aspettativa che una più “equa” allocazione di siffatto potere possa portare da un pregiudizio più digeribile per i creditori, specialmente per quelli meno attrezzati ad affrontare la crisi del loro debitore. 
L’esaltazione del potere dei creditori tramite la loro (ormai) obbligatoria classificazione trova poi l’apice nella pretesa che il piano di ristrutturazione sia approvato solo se la maggioranza dei creditori votanti venga conquistata dal debitore in tutte le classi in cui gli stessi sono suddivisi (cfr. art. 9.6 Direttiva), con un rigore procedimentale che risulta così direttamente proporzionato al numero delle classi. In realtà, poi, il legislatore europeo attenua il rigore della regola di approvazione del piano all’unanimità delle classi introducendo la possibilità di ristrutturazione trasversale di cui all’art. 11 Direttiva, ove si consente l’omologazione del piano “che non è approvato da tutte le parti interessate”, che così può “diventare vincolante per le classi di voto dissenzienti”, alla condizione – tra le altre – che “le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole ei quello delle classi inferiori” (art. 11.1.c Direttiva), così rendendo ancor più difficoltoso quel trattamento differenziato tra creditori cui le classi erano originariamente (nella legge fallimentare) indirizzate. 
Il ribaltamento di prospettiva non può essere più evidente: le classi non sono più funzionali al trattamento differenziato dei creditori di pari rango ma servono a consentire un “pari trattamento” di diritti “sostanzialmente simili”, in funzione di una specializzazione della par condicio creditorum che non si limita ad operare al livello orizzontale dei singoli piani dell’ordine delle cause di prelazione, ma pretende altresì di intercettare la “sufficiente comunanza degli interessi” dei creditori, che può prescindere dalla loro localizzazione nell’ordine suddetto. Soprattutto, però, la classificazione dei creditori, abbinata alla regola di approvazione unanime delle classi, esalta il potere (di voto e) di veto delle classi nell’approvazione del piano di ristrutturazione, facendo così delle classi uno strumento di allocazione del potere di decidere le sorti dell’impresa in crisi, più che regola di distribuzione della provvista destinata alla ristrutturazione del debito; salvo farle retrocedere, con la ristrutturazione trasversale, al rango di (quasi) foglia di fico in grado di giustificare, a seguito della votazione favorevole da parte anche di una classe soltanto, l’omologazione di un piano sostanzialmente non approvato dai creditori. 
Siffatta ambiguità del ruolo e della funzione delle classi, così emergente dalla Direttiva, è stata quindi recepita as is nel Codice della Crisi uscito rinnovato, prima, dal D.Lgs. n. 83/2022 e poi dal D.Lgs. n. 136/2024, che della Direttiva si sono fatti strumento di attuazione. 
3 . Le classi dei creditori nel CCII: da scelta del debitore a cifra caratteristica (e pressoché imprescindibile) del concordato preventivo
Norma centrale nella trattazione delle classi dei creditori è l’art. 85 CCII, che esordisce (al comma 1°) in maniera, si licet, tradizionale: 
- il piano può (non deve) prevedere la suddivisione dei creditori in classi; 
- possono essere assegnati trattamenti differenziati ai creditori appartenenti a classi diverse. 
Nonostante la rassicurante premessa, in realtà, nel CCII, in ossequio a quanto richiesto dalla Direttiva, la classificazione dei creditori non costituisce una mera facoltà, come sembrerebbe suggerire il comma 1° dell’art. 85, ma è (pressoché) sempre un obbligo. 
Innanzitutto, è sempre e comunque obbligatoria nel concordato in continuità aziendale (cfr. art. 85, comma 3,) che, ai sensi dell’art. 109, comma 5, è approvato solo se tutte le classi votano a favore (id est: se si raggiunge la maggioranza di cui all’art. 109, comma 5, in ciascuna classe). 
La classificazione dei creditori risulterebbe invece ancora facoltativa nel concordato liquidatorio, ma anche a questo si applicano comunque le regole di obbligatoria classificazione che dipendono da particolari qualità dei creditori, più che dalle caratteristiche e dalla qualificazione del piano. 
Così, l’art. 85, ai commi 2 e 3, a prescindere dalla natura del piano di concordato, impone la segregazione in distinte classi di: 
- crediti tributari e previdenziali, dei quali non sia previsto l’integrale pagamento; 
- creditori titolari di garanzie prestate da terzi; 
- creditori soddisfatti (anche in parte) con utilità diverse dal denaro; 
- creditori proponenti il concordato e parti loro correlate; 
- creditori privilegiati “interessati”, in quanto pagati parzialmente ovvero oltre i termini previsti dall’art. 109, comma 5 (180 giorni dall’omologazione o 30 giorni se si tratta di creditori che godono del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 1 c.c.); 
- crediti derivanti da rapporti di fornitura di beni e servizi vantati da creditori che non abbiano superato, nell’ultimo esercizio, almeno due dei seguenti tre requisiti: (i) un attivo sino ad euro cinque milioni; (ii) ricavi netti delle vendite e delle prestazioni sino ad euro dieci milioni; (iii) un numero medio di dipendenti pari a 50 ([9]). 
Al di là di quanto vedremo a proposito della classificazione dei soci della società debitrice, poi, un’altra importante ipotesi di classificazione obbligatoria (sulla quale v., per maggiori dettagli, infra al par. 8) si rinviene nell’ultima parte dell’art. 109, comma 5, laddove, a proposito del trattamento dei crediti privilegiati, si prevede che, qualora sussistano le condizioni per una loro parziale degradazione al chirografo (condizioni previste dall’art. 84, comma 5), allora s’impone l’inserimento della “parte incapiente … in una classe distinta”. 
Non è del tutto univoca la ratio della selezione delle categorie di creditori da classificare obbligatoriamente: dall’un lato, e in coerenza con lo spirito della Direttiva sopra illustrato, s’impone la classificazione di creditori che subiscono dalla proposta concordataria un particolare pregiudizio, siano essi creditori privilegiati falcidiati (ovvero con un pagamento non integrale o anche solo dilazionato ultra legem), creditori destinatari di un soddisfacimento non monetario, creditori “deboli” (ai quali si potrebbe ricondurre anche l’Erario, in considerazione della sua normale inerzia); dall’altro lato, invece, abbiamo creditori diversamente interessati all’approvazione della proposta di concordato, quali sono i creditori muniti di garanzie “collaterali” o proponenti il concordato ai sensi dell’art. 90 CCII. 
Si tratta peraltro di disciplina che suscita problemi interpretativi. Limitandosi a qualche prima osservazione: 
- Nonostante la perentorietà della prima parte dell’art. 85, comma 3 (“Nel concordato in continuità aziendale la suddivisione dei creditori in classi è in ogni caso obbligatoria”), nel concordato con continuità aziendale tutti, ma proprio tutti, i creditori devono essere classificati o solo quelli che votano? Nell’alternativa, mi sembra che la seconda ipotesi sia quella corretta. D’altronde, le classi sono (e sono state) istituto destinato ontologicamente ad intervenire nel procedimento di approvazione della proposta concordataria (ed oggi, con la disciplina sulla ristrutturazione trasversale, anche nell’omologazione del concordato). Lo stesso art. 85, comma 3, a proposito dei creditori muniti di prelazione, ne impone la classificazione (solo) se non ricorrono le condizioni di cui all’art. 109, comma 5, lasciando così intendere che, qualora dette condizioni invece sussistano (con il soddisfacimento del credito mediante pagamento integrale e tempestivo), il proponente non sia tenuto alla classificazione di siffatti crediti. Se alcuni creditori non siano quindi interessati al concordato, nel senso che la proposta concordataria non incida direttamente sui loro crediti (cfr. art. 2.1.2 Direttiva), questi creditori non solo non avranno diritto di voto ma, non partecipando al procedimento di approvazione della proposta concordataria, non avranno neppure titolo (o ragione) per essere classificati. D’altra parte, alla luce dell’art. 109, comma 5 (prima parte: “Il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore”), sembra quasi che il diritto di voto sia un ex post rispetto alla formazione della classe, sì che, anche solo per questo motivo, ritengo che classi e diritto di voto debbano necessariamente tenersi insieme. Anche nel concordato con continuità aziendale, dunque, l’obbligo di suddivisione dei creditori in classi riguarda solo i creditori muniti di diritto di voto (ovvero, relativamente ai crediti privilegiati, la sola parte incapiente di detti crediti, se la parte capiente sia soddisfatta tempestivamente: v. infra, al par. 8) e deve ammettersi che i creditori non interessati (e non votanti) possano non essere inseriti in alcuna classe. 
- La classificazione dei creditori privilegiati, in mancanza delle condizioni di cui all’art. 109, comma 5, e dei “piccoli” fornitori ([10]) è obbligatoria solo nel concordato con continuità aziendale o anche in quello liquidatorio? Si segnala, infatti, che queste due categorie di creditori sono previste nel comma 3 dell’art. 85 CCII, che esordisce ponendo la regola della obbligatoria classificazione di tutti i creditori in presenza di continuità aziendale. Assumendosi un legislatore “cartesiano”, si dovrebbe attribuire rilievo interpretativo al fatto che, nell’art. 85, le categorie di creditori in generale da classificare sono elencate nel comma 2 e quindi, ragionando ad excludendum, si dovrebbe concludere nel senso che sì, in effetti, il comma 3°, nella sua seconda frase, prevede soltanto una specificazione della prima (nell’ambito della classificazione obbligatoria dei creditori in una proposta di concordato con continuità aziendale, si devono formare almeno le classi separate dei creditori privilegiati falcidiati e dei “piccoli” fornitori). Se però si considera che la classificazione obbligatoria dei creditori privilegiati falcidiati è ribadita in generale (id est: per tutti i concordati) dall’art. 109, comma 5 ([11]), allora la conclusione ora provvisoriamente raggiunta deve essere ribaltata per i creditori privilegiati (la regola della obbligatoria loro classificazione, se falcidiati, prescinde dalla natura del concordato) e torna in discussione, considerata l’infondatezza dell’assunzione del legislatore “cartesiano”, anche per i “piccoli” fornitori. 
- L’art. 85, comma 2, prevede la classificazione obbligatoria dei creditori proponenti ex art. 90 e delle loro parti correlate; l’art. 109, comma 7, invece, attribuisce al creditore proponente (nonché alle società da questo controllate ovvero questo controllanti o sottoposte a comune controllo ex art. 2359, comma 1, c.c.) il diritto di voto “soltanto se la proposta ne prevede l’inserimento in apposita classe”: dunque, si tratta di un obbligo (di classificazione) o solo di un onere? Forse l’art. 109, comma 7 (risalente al D.Lgs. n. 14/2019) è rimasto nella penna del legislatore del D.Lgs. n. 83/2022 (cui si deve attribuire in gran parte l’art. 85, poi novellato anche dal D.Lgs. n. 136/2024) e la prima norma deve intendersi sostanzialmente superata dall’art. 85, comma 2. Si può tuttavia immaginare un coordinamento tra le due norme che muova dalla possibilità che un creditore proponente sia semplicemente diversamente interessato all’approvazione delle proposte di concordato (la sua e quella del debitore, salvo altre), in caso di proposta concorrente parassitaria o anche solo derivata (dove normalmente la proposta concorrente estrae la provvista dal patrimonio del debitore, se “risparmiato” in un piano di continuità aziendale), ovvero, in alternativa, abbia un interesse realmente in conflitto con quello della massa dei creditori, quando – in caso di proposta acquisitiva, magari nella forma di un concordato con assunzione – il creditore proponente, formando la provvista con proprio patrimonio, abbia l’interesse ad offrire al ceto creditorio la soddisfazione minore possibile. Resta comunque l’incongruenza dell’estensione dell’obbligo di classificazione, previsto dall’art. 85, comma 2, a tutte le parti correlate del creditore proponente ([12]) laddove l’art. 109, comma 7, si riferisce invece solo alle società a questo legate da rapporti di controllo ex art. 2359, comma 1, c.c. (certo correlate ma non esaurenti questa categoria). 
- L’art. 85, comma 3, prevede, come visto, l’obbligatoria classificazione dei “piccoli” fornitori di beni e servizi: posto che l’art. 2 (“Definizioni”) non definisce siffatta categoria di creditori, come li si deve intendere? Il codice civile conosce il contratto di somministrazione (di beni e di servizi: art. 1559 c.c.), non di fornitura: dove, nell’art. 85, comma 3, si legge “rapporti di fornitura”, lì si deve fare riferimento al particolare tipo negoziale che corrisponda al contratto di somministrazione o si deve prescindere da una qualificazione “tipologica” del rapporto? Probabilmente, ciò che conta, anche al fine di non indugiare in eccessiva disparità di trattamento tra creditori che comunque rientrino nei limiti dimensionali previsti dall’art. 85, comma 3, sono la periodicità o la continuità delle prestazioni erogate dal creditore, sì da imporsi un’interpretazione estensiva del concetto di “fornitura”, in grado di attrarre nell’obbligo di inserimento in classe separata – tra gli altri - anche “piccoli” appaltatori (cfr. art. 1677 c.c.) o subappaltatori. 
In ogni caso – ma qui si tratta di un problema operativo, non interpretativo – la norma che impone la (obbligatoria e) separata classificazione dei “piccoli” fornitori aggrava moltissimo (specie nella versione successiva alla novella del D.Lgs. n. 136/2024, che ha molto ampliato la platea di questi soggetti) gli impegni istruttori del debitore o comunque del proponente il concordato, perché la norma impone ora l’analisi di tutti i bilanci dei fornitori relativi all’“ultimo esercizio” (verosimilmente, dovrà trattarsi degli ultimi bilanci approvati e, se del caso, depositati), bilanci depositati nel registro delle imprese solo se i creditori rivestano la forma di società di capitali, mentre se i fornitori sono veramente piccoli è possibile che tale forma non abbiano. E la regola dell’art. 85, comma 3, non viene rispettata con il semplice inserimento di tutti i fornitori in una sola classe, perché occorre “separare” i “piccoli” (nel senso anzidetto) fornitori da tutti gli altri e verificare in ogni caso che anche al loro interno sussistano effettivamente i criteri di omogeneità prescritti dall’art. 2, lett. r). Insomma, il proponente il concordato dovrà affrontare e risolvere un ennesimo, insidioso (e costoso, considerati tempo e risorse da impiegare nella raccolta ed analisi dei dati contabili dei creditori) rompicapo (uno fra i tanti, peraltro), la cui necessità – pur risalente all’art. 9.4 della Direttiva - non si avvertiva. 
4 . Le classi dei soci
Con la Direttiva, prima, ed il Codice della Crisi (novellato), poi, l’istituto delle classi non trova più applicazione solo relativamente ai creditori ma ne viene esteso l’utilizzo anche ai soci della società debitrice. Si tratta di opzione disciplinare che costituisce l’ovvia conseguenza della scelta del legislatore europeo di far intervenire detti soci nel procedimento di approvazione del piano di ristrutturazione, attribuendo loro il diritto di voto a condizione che siano “parti interessate”, in quanto il piano incida “direttamente” sui loro interessi (cfr. artt. 9.2 e 2.1.2 Direttiva); ciò che, d’altra parte, dipende anche dall’ampia possibilità consentita dallo strumento concordatario (ai sensi dell’art. 120 bis, comma 2) di incidere sulla struttura organizzativa della società debitrice e dalla necessità, dunque, di attribuire ai soci sacrificati un diritto di voice, seppure di rango inferiore rispetto al voto espresso nell’assemblea della società, ormai pressoché spogliata delle competenze sulle modificazioni statutarie previste nel piano (cfr. art. 120 bis) ([13]). 
Così, l’art. 120 ter prevede che i soci e i titolari di strumenti finanziari (che non attribuiscano “il diritto incondizionato al rimborso anche parziale dell’apporto”: cfr. art. 120 ter, ultimo comma) possano (comma 1) o debbano (comma 2°) essere inseriti in una o più classi, all’interno delle quali i soci eserciteranno il diritto di voto “in misura proporzionale alla quota di capitale posseduta anteriormente alla presentazione della domanda” di accesso allo strumento di regolazione della crisi (comma 3°), con regola che sterilizza, al fine del voto, eventuali operazioni sul capitale sociale che intervengano tra il deposito della domanda e l’omologazione del concordato. Il numero dei voti esercitabile da ogni socio all’interno della classe dipenderà non solo dalla percentuale di partecipazione al capitale sociale ma anche da eventuali clausole statutarie di limitazione o di potenziamento del diritto di voto ([14]), con una replica, nel contesto della classe, di ciò che avverrebbe se il voto fosse chiamato nell’assemblea della società. Chiamati al voto all’interno della classe saranno tutti i soci classificati, anche se titolari di strumenti finanziari che, nell’organizzazione interna del tipo societario emittente, non attribuiscano diritto di voto ([15]), assimilando per quest’aspetto le classi di soci alle assemblee speciali di cui all’art. 2376 c.c. Nelle modalità di esercizio del diritto di voto, ai soci si applicano le regole previste per il voto dei creditori (v. art. 107), salvo lo speciale ripristino della regola del silenzio-assenso (“Il socio che non ha espresso il proprio dissenso … si ritiene consenziente”), in maniera tale che l’eventuale disinteresse della compagine sociale non possa giocare contro una soluzione della crisi magari soddisfacente per la massa dei creditori ([16]). 
Nel silenzio del legislatore, resta il dubbio se la classificazione dei soci ([17]) riguardi solo il concordato (e il P.R.O.: v. infra al par. 9) in continuità aziendale o anche quello liquidatorio. A prescindere dall’ovvia constatazione che i soci della società debitrice dovrebbero avere poco, se non affatto, interesse ad un suo concordato liquidatorio, resta che, in punto di diritto, il voto dei soci non è compatibile con il procedimento di approvazione della proposta concordataria disciplinato, per il concordato liquidatorio, dal comma 1° dell’art. 109, ove si ripropone la doppia maggioranza di crediti e di classi, dacché i voti dei soci non possono ovviamente essere computati, né al denominatore né al numeratore, ai fini del calcolo della maggioranza dei crediti ammessi al voto ([18]). 
Dunque, la classificazione dei soci riguarda solo il concordato in continuità aziendale e trova la sua più significativa espressione con un piano in continuità diretta, che veda la sopravvivenza della società debitrice e, pertanto, l’interesse dei soci alla partecipazione alla stessa. 
Anche se la disciplina sembra attagliarsi con maggiore aderenza alla forma delle società di capitali ([19]), nulla esclude che la disciplina della classificazione dei soci debba applicarsi, mutatis mutandis, anche qualora la società debitrice sia una società di persone. 
Come anticipato, la classificazione dei soci può essere facoltativa (nelle ipotesi contemplate dal comma 1°) o obbligatoria (ai sensi del comma 2°). In particolare, e muovendo da questa seconda ipotesi, devono essere inseriti in classi distinte: 
- sempre e comunque, a prescindere dal contenuto del piano, i soci e i titolari di strumenti finanziari delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio; 
- i soci e i titolari di strumenti finanziari delle altre società (solo) “se il piano prevede modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci”. 
La ratio della norma non è del tutto perspicua perché, se le classi sono coessenziali all’esercizio del diritto di voto (creditori e soci sono inseriti in classi se ed in quanto votino: v. sopra), se il voto dipende dall’interesse dei soci al concordato (v. art. 9.2 Direttiva), se i soci possono dirsi “interessati” in quanto il piano incida “direttamente” sui loro interessi (v. art. 2.1.2 Direttiva), allora non si capisce quale sia la ragione per cui i soci di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ([20]) debbano essere classificati, e quindi esercitare il diritto di voto, a prescindere da un loro interesse alla riuscita del piano di ristrutturazione ([21]). Certo, una strizzatina d’occhio al mercato dei capitali non guasta mai, ma qui c’è il rischio di una radicale incompatibilità della disciplina nazionale con quella unionale (qualora si ammettano al voto soggetti non “interessati”), con tutte le conseguenze del caso. Né sembra che l’assimilazione di un socio ad un investitore e, quindi, ad un finanziatore di ultima istanza possa valere solo per le società “aperte” e non anche per tutte le società ([22]). 
I maggiori problemi interpretativi, tuttavia, sono offerti dall’ipotesi della classificazione obbligatoria dei soci riferita al caso in cui il piano preveda “modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci”. Innanzitutto, non può tacersi un certo stupore a fronte dell’utilizzo di un lessico traslato dalla lettera g) dell’art. 2437, comma 1, c.c. ([23]), con il dubbio (fra i tanti) se l’art. 120 ter faccia rientrare i diritti di voto in quei “diritti di partecipazione” che l’art. 2437 cit. tiene distinti dai primi. L’art. 120 ter, poi, porta necessariamente con sé anche tutte le perplessità evidenziate dagli interpreti a proposito dell’ampiezza (e direzione: rilevano solo le modificazioni peggiorative o anche quelle migliorative?) delle modificazioni rilevanti al fine dell’attivazione del diritto di recesso ([24]) e la stessa Suprema Corte, intervenuta sull’argomento, non ha dipanato tutti i dubbi ([25]). 
Mentre, poi, il comma 1 dell’art. 120 ter si riferisce espressamente ai diritti dei soci riconosciuti dallo statuto, analogo riferimento alla fonte statutaria dei “diritti di partecipazione dei soci” non è evocata dal comma 2. E non è difficile immaginare una modificazione di siffatti diritti di partecipazione che non passi direttamente attraverso una modificazione statutaria ([26]): basti pensare a tutte le volte che viene deliberato un aumento di capitale sociale con esclusione del diritto d’opzione ([27]), previsto dal piano e al servizio del cavaliere bianco, o di una conversione del debito in equity,che certo comporta una diluizione dei diritti di partecipazione dei soci e, dunque, una loro (peggiorativa) modificazione. Salvo immaginare che la necessità di una modificazione statutaria che incida sui diritti attribuiti (non direttamente ai soci, in realtà, salvo quanto previsto dall’art. 2468, comma 3, c.c., ma) agli strumenti finanziari posseduti dai soci possa desumersi (solo) dall’avverbio “direttamente”. Sembra evidente che la norma si presterà a plurime interpretazioni ed è quindi in grado di creare ulteriore incertezza sulla legittimità dei piani di concordato e sul loro insidioso percorso di approvazione ed omologazione ([28]). 
Resta poi da capire se i diritti di voice attribuiti ai soci a seguito della loro obbligatoria classificazione, nel caso in cui il piano preveda modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione, si sostituiscano o si aggiungano al diritto di recesso, qualora dette modificazioni passino effettivamente attraverso variazioni statutarie, con conseguente sussunzione della fattispecie nell’ambito di applicazione (anche) dell’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. 
Di primo acchito, non sembra che l’obbligo di classificazione dei soci possa sostituire il loro diritto di recesso, sempre ammesso, nei casi previsti dalla legge, anche se il trigger dipenda da un provvedimento giurisdizionale ai sensi dell’art. 120 quinquies, e non da una deliberazione assembleare. D’altra parte, dove il legislatore ha voluto incidere sul diritto di recesso dei soci lo ha fatto espressamente, come accade nell’art. 116, il cui ultimo comma, a proposito delle operazioni di trasformazione, fusione o scissione della società debitrice, sospende il diritto di recesso dei soci fino all’attuazione del piano; con ogni conseguente valenza negativa (della sospensione/sostituzione del diritto di recesso) da attribuirsi al silenzio invece lasciato in parte qua dall’art. 120 ter ([29]). Probabilmente si parla di poco, considerato che la crisi/insolvenza della società debitrice deprimerà senz’altro il valore di liquidazione della partecipazione sociale, ma è pur sempre possibile che la modificazione statutaria (prevista dal piano di concordato e) riconducibile all’ipotesi dell’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. intervenga successivamente all’omologazione del concordato, e quindi in un contesto post money che abbia già restituito un valore effettivo alla partecipazione del socio recedente ([30]). 
L’art. 120 ter consente sempre, inoltre, la facoltativa formazione di classi di soci, anche oltre le menzionate ipotesi di obbligatorietà, pur se risultano poco comprensibili le ragioni che dovrebbero indurre una società debitrice a coinvolgere nel procedimento di approvazione della proposta concordataria, senza esservi tenuta, i propri soci: è evidente infatti che, assumendo che il concordato si fondi su un piano in continuità aziendale, aumentando il numero delle classi aumenta anche la possibilità che qualche classe dissenta, impedendo il raggiungimento dell’unanimità delle classi votanti. E in un’eventuale ristrutturazione trasversale le classi di soci potrebbero giocare un ruolo solo ai fini del raggiungimento della maggioranza di classi di cui alla prima parte della lettera d) dell’art. 112 (ferma sempre la necessità che almeno una classe assenziente sia formata da creditori privilegiati), visto che la golden class della seconda parte dell’art. ult. cit. deve essere formata da creditori ([31]) (capienti anche in applicazione della regola di priorità assoluta sull’intera provvista concordataria). 
A prescindere dagli scarsi incentivi alla classificazione (non obbligatoria) dei soci da parte della società debitrice, torna in gioco il dubbio se la possibilità di classificazione dei soci presupponga un loro interesse ex art. 2.1.a Direttiva ovvero si dia sempre e comunque, come libera facoltà a disposizione del proponente il concordato. L’interpretazione più coerente con la disciplina unionale impone probabilmente un’interpretazione restrittiva dell’art. 120 ter, comma 1, c.c., con una facoltativa classificazione dei soci ammissibile solo se il piano di concordato incida direttamente sui loro interessi ([32]); interpretazione prudente ma che rischia di confinare l’applicazione del comma 1° alle sole ipotesi in cui i soci siano “interessati” pur senza subire dal piano una modificazione diretta dei loro “diritti di partecipazione” ([33]), perché in tal caso la fattispecie uscirebbe dall’ambito di applicazione del comma 1 per entrare in quello della obbligatoria classificazione prevista dal comma 2  dell’art. 120 ter. 
In ogni caso, se la società debitrice debba o voglia far partecipare i suoi soci al procedimento di approvazione della proposta concordataria (e del piano alla stessa correlato), se lo statuto (anche solo post omologazione) riconosce ai soci “diritti diversi”, i soci dovranno essere distribuiti tra diverse classi in relazione ai diritti loro statutariamente riconosciuti. In altri termini, all’interno di ogni classe di soci dovrà riprodursi una situazione di parità formale analoga a quella riscontrabile nelle assemblee speciali di cui all’art. 2376 c.c. ([34]). La norma sembra posta (al comma 1 dell’art. 120 ter) solo relativamente alla classificazione facoltativa dei soci, ma ritengo debba applicarsi estensivamente anche nel caso di classificazione obbligatoria e non solo ai soci ma pure ai possessori di strumenti finanziari diversi dalle azioni. I “diritti diversi” saranno normalmente riconosciuti in funzione della titolarità di azioni o quote di speciale categoria, ma la genericità della formulazione adottata dal Codice della crisi induce a ritenerla applicabile anche nel caso di attribuzione a singoli soci dei particolari diritti di cui all’art. 2468, comma 3, c.c., situazione che darà luogo alla formazione di classi unipersonali includenti solo i singoli soci cui i particolari diritti siano statutariamente riconosciuti (e direttamente incisi dal piano di concordato). 
5 . La doppia omogeneità, per “posizione giuridica” e “interessi economici”
Anche nel Codice della Crisi il principale criterio di formazione delle classi resta quello della “doppia omogeneità”, da riscontrarsi contestualmente ([35]) per “posizione giuridica” e per “interessi economici”. Rispetto alla legge fallimentare, tuttavia (dove la regola era posta dall’art. 160, comma 1), detto criterio è ora racchiuso nella definizione di “classe di creditori” fornita dall’art. 2, lett. r), da intendersi come “insieme di creditori che hanno posizione giuridica e interessi economici omogenei”. Al di là della constatazione che una definizione dovrebbe intervenire sulla fattispecie, piuttosto che sulla disciplina, poiché, stando all’art. ult. cit., una classe tra i cui membri non si riscontri la doppia omogeneità dovrebbe essere una non-classe, piuttosto che una classe mal confezionata, sembra che per l’interpretazione della regola di formazione delle classi si possa riproporre il confronto esegetico già intervenuto in costanza di vigore della legge fallimentare, con conclusioni che possono estendersi anche alle classi di soci e titolari di strumenti finanziari (a rigore estranee alla definizione dell’art. 2.r, che si riferisce solo alle “classi di creditori”). 
D’altronde, la regola della doppia omogeneità è coerente con l’operatività del principio maggioritario (innanzitutto) all’interno di ogni classe, in quanto sintomatica di una comune propensione dei suoi componenti all’approvazione della proposta di concordato ([36]), e giustifica perché i dissenzienti debbano mandare giù la modifica, non voluta, del proprio rapporto obbligatorio imposta ex art. 117 dall’omologazione del concordato. Peraltro, si rammenta che ormai, nella disciplina del concordato preventivo in continuità aziendale, data la possibilità ex art. 112, comma 2, di omologazione di una proposta non approvata da una maggioranza dei creditori votanti ([37]), la classe è rimasta l’unico ambiente normativo in cui ancora il principio maggioritario dispieghi davvero i suoi effetti. 
Quanto alla distinzione tra “posizione giuridica” e “interessi economici”, sem­bra che la prima debba fare riferimento al rango del credito e al suo trattamento giuridico ([38]), mentre i secondi dovrebbero attingere alla qualità del creditore e del rapporto obbligatorio dal quale scaturisce il credito stesso ([39]). A tal proposito, si ricorda che la Suprema Corte, nel vigore della legge fallimentare (ma con principio senz’altro replicabile anche nell’interpretazione del Codice della Crisi, considerata l’identità delle regola testé evidenziata), ha ritenuto che “[l]’omogeneità delle posizioni giuridiche, quale criterio volto a garantire sul piano formale le posizioni più o meno avanzate delle aspettative di soddisfo, riguarda la natura oggettiva del credito e concerne le qualità intrinseche delle pretese creditorie, tenendo conto dei loro tratti giuridici caratterizzanti, del carattere chirografario o privilegiato, della eventuale esistenza di contestazioni nella misura o nella qualità del credito, della presenza di un eventuale titolo esecutivo provvisorio. L’omogeneità degli interessi economici, essendo un criterio volto a garantire sul piano sostanziale la par condicio, ha riguardo alla fonte e alla tipologia socio-economica del credito (banche, fornitori, lavoratori dipendenti, ecc.) e al peculiare tornaconto vantato dal suo titolare (in ragione ad esempio dell’entità del credito rispetto all’indebitamento complessivo, della presenza di coobbligati o dell'eventuale interesse a proseguire il rapporto con l'imprenditore in crisi), al fine di garantire secondo canoni di ragionevolezza una maggiore adeguatezza distributiva in presenza di condizioni di omogeneità di posizione. Ne sovviene che i criteri in parola, distinti e concorrenti, debbono essere congiuntamente esaminati per verificare l'omogeneità dei crediti raggruppati, ove l’imprenditore intenda prevedere una suddivisione in classi; tale omogeneità non può però essere predicata in termini di assoluta identità o coincidenza (dato che, ove così fosse, sarebbe possibile formare classi soltanto in presenza di crediti con caratteristiche del tutto uguali), ma consiste invece nella concorrenza di tratti principali comuni di importanza preponderante che rendano di secondario rilievo gli elementi differenzianti e giustifichino secondo criteri di ragionevolezza (o meritevolezza, ex art. 1322 c.c.) una comune sorte satisfattiva delle posizioni riunite all'interno della medesima classe”([40]). 
Dunque, quando si scende sul terreno della concreta applicazione dei criteri offerti dal legislatore, le possibilità di classificazione prospettate dagli interpreti sono innumerevoli, spaziando dalla tipologia dei creditori (fornitori, lavoratori, artigiani, banche) alla dimensione del credito, alla sussistenza di garanzie reali o personali prestate da terzi, all’interesse del creditore alla prosecuzione della relazione contrattuale con il debitore o, viceversa, all’interesse del debitore alla prosecuzione della relazione con il creditore, al rischio dei creditori di subire da un’eventuale liquidazione giudiziale azioni (revocatorie o risarcitorie) pregiudizievoli e chi più ne ha più ne metta ([41]). Considerata la lassitudine della regola, può sorgere addirittura il dubbio che il criterio della doppia omogeneità ponga effettivamente una regola di formazione delle classi, la cui corretta applicazione sia verificabile, sul piano della legalità, in base ai correnti canoni interpretativi. L’impressione, infatti, è che la norma in esame voglia esprimere un concetto del tutto analogo a quello di “similarità sostanziale” evocato dalla sect. 1122 del Chapter 11 statunitense ([42]) e ripreso dal Considerando n. 44 della Direttiva, introducendo, con il riferimento alla “posizione giuridica” e agli “interessi economici”, espressioni che evocano il desiderio dell’equità ma che, al contempo, lasciano l’interprete privo dei confini normativamente e logicamente imposti all’attività di esegesi della norma. Nel momento in cui, poi, il tribunale ha il potere/dovere di valutare ex artt. 47 e 112, comma 1, la correttezza dei criteri seguiti dal debitore nella formazione delle classi, l’indeterminatezza di siffatti criteri costituisce un’involontaria esaltazione della libertà decisoria dell’autorità giudiziaria, in contraddizione con un contesto che, invece, sembra evidenziare altrove i segni di una marcata degiurisdizionalizzazione degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza. 
Ovviamente, il numero delle classi è direttamente proporzionale alla numerosità delle caratteristiche assunte a comune denominatore dell’omogeneità dei crediti e/o dei creditori: tanto più sarà spinta la ricerca dell’omogeneità sostanziale, tanto più numerose saranno le classi in cui suddividere i creditori. Resta comunque utile (e forse anche necessario), qualunque sia il numero delle classi stabilito dal proponente il concordato, conservare una classe di creditori (tendenzialmente) chirografari c.d. “residuale” ([43]), dai contorni così genericamente (se non punto) tratteggiati da consentire l’inserimento al suo interno (specie al fine dell’individuazione della relativa percentuale concordataria) dei creditori sopravvenuti (quali, a tale scopo, possono considerarsi anche i privilegiati che rinuncino volon­tariamente al privilegio ai sensi dell’art. 109, comma 3) ovvero contestati e solo successivamente all’approva­zio­ne del concordato (giudizialmente o transattivamente) accertati ([44]).
6 . La “corretta formazione delle classi”
Il tribunale è chiamato a verificare “la corretta formazione delle classi” all’apertura della procedura di concordato preventivo (v. art. 47, comma 1) e, nuovamente, in sede di omologazione [v. art. 112, comma 1, lett. d)], a prescindere dall’approvazione, con l’adesione unanime delle classi, o non approvazione, con la possibilità di procedere alla ristrutturazione trasversale, della proposta concordataria. 
In questi momenti, la verifica andrebbe svolta soltanto in ordine a “ciò che sta dentro” ad ogni classe, quindi con riferimento al rispetto sia della par condicio creditorum interna [45], sia dell’omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici. La correttezza della relazione tra classi, in ordine al rispettivo trattamento, attiene invece all’osservanza dell’art. 84, comma 6, con riferimento, dall’un lato, al principio di non discriminazione – nel rapporto tra classi di creditori pari-ordinati –, e, dall’altro lato, al combinato disposto di APR e RPR – nel rapporto tra classi di creditori di diverso grado [46]. Il fatto, tuttavia, che l’art. 84, comma 6, richieda il rispetto della regola di priorità relativa (oggi, a seguito della novella del D.Lgs. n. 136/2024) “ai fini del giudizio di omologazione”, a prescindere dalla necessità di procedere ad una ristrutturazione trasversale [47] [a differenza di quanto era richiesto dall’art. 11.1.c) della Direttiva, peraltro], potrebbe indurre i tribunali, per evidenti ragioni di economia processuale, ad anticipare già all’apertura della procedura il controllo anche sulla legittimità del trattamento dei creditori, con una verifica sia della corretta formazione delle classi, sia del corretto trattamento reciproco delle diverse classi di creditori. 
Limitando l’indagine alla correttezza nella formazione delle classi e, dunque, all’ampiezza del controllo svolto dal tribunale in ordine al pari trattamento “interno” e, soprattutto, al rispetto del requisito della doppia omogeneità, spetta innanzitutto al debitore o al terzo (creditore o socio) proponente esplicitare nel piano (o, meglio, nella proposta) [48], ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. m), i “criteri di formazione utilizzati”. Il tribunale, quindi, svolgerà il suo controllo innanzitutto verificando la intrinseca coerenza di quanto esposto dal debitore [49]. A tal fine, il debitore dovrebbe esplicitare, per ogni classe, quale sia il comune denominatore di regole di trattamento del credito (la “posizione giuridica”) e di interessi economici condivisi tra tutti i componenti della classe, solo in presenza del quale si potrà constatare il requisito della omogeneità. Spetterà ovviamente al tribunale stabilire se il comune denominatore esplicitato dal debitore intercetti effettivamente quel minimo che consenta di riscontrare il requisito della doppia omogeneità, in mancanza del quale il concordato potrebbe subire una battuta d’arresto (salvo le integrazioni richiedibili ai sensi del comma 4° dell’art. 47), già sulla soglia della procedura. 
Il tribunale, tuttavia, nulla può per impedire che sia superata una soglia massima di omogeneità. In altri termini, il controllo attribuito dal legislatore all’autorità giudiziaria consente solo di impedire l’adozione di un numero insufficiente di classi ma non si estende sino ad impedire una loro inutile proliferazione (salvo sempre il ricorso alla categoria dell’abuso del diritto), dato che minore è il numero dei componenti di ogni classe, maggiore sarà tendenzialmente l’omogeneità fra gli stessi ma maggiore anche il numero delle classi, sino al paradosso di avere la massima omogeneità (addirittura, si potrà parlare di “identità” di posizione giuridica ed interessi economici) solo in presenza di classi unipersonali (dove ogni creditore o socio è massimamente omogeneo, per posizione giuridica ed interessi economici, solo con se stesso). 
Se questo limite poteva non costituire un problema eccessivo nel contesto della legge fallimentare, ove comunque occorreva raggiungere una maggioranza di crediti per l’approvazione della proposta concordataria, a diverse conclusioni occorre giungere a proposito del Codice della Crisi, perché la disciplina della ristrutturazione trasversale posta dall’art. 112, comma 2, alla lett. d), consente l’omologazione di un concordato non approvato a condizione – tra l’altro – che ci sia il voto favorevole di anche una sola classe di creditori [50]. Questo dato normativo legittima la banale considerazione che il proponente sia incentivato ad aumentare (non a diminuire) il numero delle classi, perché, messa nel conto la quasi impossibilità di ricevere un’adesione unanime alla proposta concordataria da parte di tutte le classi, più numerose queste sono, più sarà probabile che almeno una delle numerose classi di creditori si esprima a favore della proposta concordataria e consenta così al concordato preventivo di percorrere la scappatoia della ristrutturazione trasversale. 
C’è quindi il rischio che il solo requisito della doppia omogeneità perda di utilità pratica, nella verifica della corretta formazione delle classi, perché utile soltanto ad impedire un utilizzo troppo limitato delle classi ma incapace di impedire una loro irragionevole (e strumentale) proliferazione [51]. Il problema si pone, soprattutto, in presenza di creditori pari-ordinati ma inseriti in classi diverse pur con un trattamento identico [52]. In questi casi, pur senza riconoscere all’autorità giudiziaria il potere di esprimere una valutazione di congruità dei trattamenti riconosciuti alle (e tra le) diverse classi [53], il sindacato del tribunale, chiamato a verificare la corretta formazione delle classi ex artt. 47, comma 1, e 112, comma 1, lett. d), potrà riguardare anche la coerenza delle classi formate dal debitore con (almeno) una delle funzioni assegnate alle stesse dal legislatore. 
Occorre pertanto chiedersi “a cosa servono”, oggi, le classi (di creditori e di soci) e interrogarsi infine sulle loro funzioni. 
Una prima risposta dovrebbe trovarsi nel comma 1 dell’art. 85, ove la norma consente ancora un trattamento differenziato di creditori appartenenti a classi diverse ma posti allo stesso livello nell’ordine delle cause di prelazione. In realtà, come vedremo, l’inserimento nel corpus del Codice del principio di non discriminazione limita enormemente la possibilità di un trattamento differenziato tra creditori pari-ordinati e rende ormai piuttosto ristretto (salvo quanto infra, al par. 7) l’effettivo utilizzo delle classi in funzione di un trattamento differenziato dei creditori. 
Le principali funzioni (più di una) delle classi, nel Codice della Crisi, sono invece ben diverse da quella (sola) espressa nella legge fallimentare (consentire un trattamento differenziato tra creditori di pari rango), quale ancora riecheggia – quasi sterilmente – nel comma 1 dell’art. 85, e possono dedursi, in particolare, dai casi di obbligatoria classificazione previsti dagli artt. 85, commi 2 e 3, e 120 ter e dalla disciplina sull’approvazione della proposta concordataria posta dall’art. 109. 
Innanzitutto, è indiscutibile che l’istituto delle classi concorra alle regole tecniche di approvazione della proposta di concordato ([54]), laddove il legislatore, in presenza di un piano in continuità aziendale, obbliga il debitore a classificare i creditori (cfr. art. 85, comma 3) e richiede il raggiungimento della maggioranza, calcolata con le modalità esposte dalla stessa norma, in tutte le classi (di creditori e di soci) (cfr. art. 109, comma 5), mentre l’art. 109, comma 1, in presenza di un piano liquidatorio, richiede (oltre al voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto) che la proposta sia approvata (a maggioranza di crediti) all’interno della maggioranza delle classi [55]. 
La regola del consenso unanime nel concordato in continuità aziendale, in particolare, fa sì che, ogni classe abbia un diritto (di voto e) di veto, sull’approvazione della proposta concordataria, ciò che corrisponde ad un’esaltazione del potere attribuito alle singole classi di creditori. La separata classificazione di creditori “deboli”, dunque (si pensi ai “piccoli” fornitori titolari di crediti chirografari), costituisce tecnica di creazione e distribuzione di potere alle e tra le diverse classi di creditori e si giustifica con il fine di evitare l’annacquamento del voto di quelle categorie di creditori al quale il legislatore (europeo e nazionale), per ragioni che attengono alla politica del diritto, ha inteso attribuire, nel procedimento di approvazione della proposta concordataria, un potere più che proporzionale alla misura relativa del proprio credito. 
Di converso, le classi costituiscono anche tecnica di repressione del dissenso [56]. Innanzitutto, l’omologazione del concordato con il voto favorevole (anche solo) di una classe, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. d), fa di questa classe il Cavallo di Troia nel quale passa la marginalizzazione del dissenso della maggioranza dei creditori (ovvero, quanto meno, della maggioranza delle classi di creditori), il cui potere – nella ristrutturazione trasversale - viene sacrificato, con un’esaltazione dell’eteronomia del nuovo concordato preventivo, sull’altare della conservazione dell’impresa, “negoziata” tra debitore e tribunale [57]. 
Va inoltre ricordato, sempre a proposito di repressione del dissenso, che le classi consentono le modificazioni dei diritti di partecipazione dei soci a prescindere dalla loro volontà (o da quella dell’assemblea dei soci), sì che la loro classificazione costituisce, in questa ipotesi, una povera moneta di scambio offerta ai soci per giustificare il loro sacrificio. Il tribunale potrà tuttavia verificare, alla luce di quanto sopra scritto al par. 4, che effettivamente la modificazione imponga ovvero che l’interesse dei soci alla ristrutturazione consenta una loro classificazione. 
È interessante poi osservare che la previsione di obbligatoria classificazione sia dei creditori titolari di garanzie prestate da terzi, sia dei creditori proponenti il concordato e dei soggetti ad essi correlati, conduce a ritenere anche che le classi consentano la segregazione (e il voto) dei portatori di interessi “contaminati” ma non confliggenti (trattati invece dall’art. 109, comma 6, che sottrae il diritto di voto ai creditori “in conflitto d’interessi”). In altri termini, l’interesse del creditore al miglior trattamento possibile ricevuto dal debitore tramite il concordato preventivo può essere “affievolito” da situazioni “esterne” alla proposta concordataria, come nel caso di garanzie collaterali o di proposta concorrente, ma tali situazioni, ai sensi dell’art. 85, non costituiscono casi di conflitto d’interessi, potendo (e, anzi, dovendo) essere governate tramite l’inserimento dei creditori diversamente interessati in classi separate. Ciò peraltro porta a dover accogliere un’interpretazione restrittiva del “conflitto” d’interessi considerato dall’art. 109, comma 6, da riscontrarsi, quindi, solo se il creditore aspiri al peggiore trattamento possibile dalla proposta di concordato [58]. 
E’ evidente, dunque, già solo all’esito di tale ricognizione, che oggidì le classi hanno diverse funzioni: (i) riconoscere ai creditori “deboli” un potere più che proporzionato al loro peso percentuale; (ii) agevolare la soluzione concordataria della crisi o dell’insolvenza dell’imprenditore, in funzione della continuità aziendale, a prescindere dall’adesione alla proposta della maggioranza dei creditori; (iii) consentire la compressione, nel piano di concordato, dei diritti di partecipazione dei soci della società debitrice; (iv) consentire ai soci che siano interessati alla soluzione concordataria di partecipare al procedimento di approvazione della proposta; (v) riconoscere il voto sulla proposta concordataria a creditori diversamente interessati alla stessa. 
Si tratta di funzioni che evidenziano una notevole elasticità funzionale delle classi e che si aggiungono a (e per vero quasi sostituiscono) quella di consentire al debitore un trattamento differenziato di creditori dello stesso rango [come invece prevedeva l’art. 160, comma 1, lett. d), L. fall.]. Qualora dunque si presenti al tribunale il caso di un’ambigua allocazione in classi diverse di creditori (o soci) pari-ordinati e identicamente trattati, nonostante una omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici superiore al minimo marginale, andrà verificato che questa classificazione risponda ad una delle menzionate funzioni assegnate dal legislatore alle classi.
7 . Trattamento differenziato vs. principio di non discriminazione
Guardando, oltre alla disciplina della formazione delle classi, anche a quella del loro trattamento e, se si vuole, riprendendo il tema delle funzioni delle classi, si ricorda che l’art. 85, comma 1, continua ad affermare, sulla scia della previgente legge fallimentare, che il piano (rectius: la proposta) può prevedere “trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse”. Sempre quale residuo ancestrale della legge fallimentare, il comma 4° ricorda che “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione” 
Si tratta di regole che, con il vigore dei nuovi criteri di distribuzione della provvista concordataria previsti, soprattutto, dal comma 6° dell’art. 84, trovano un’applicazione molto limitata, quanto al comma 1° dell’art. 85, o pressoché nulla, quanto al comma 4° dell’art. 85, che deve intendersi superato dal comma 6° cit. 
Ha poco senso, quindi, interrogarsi anche oggi – come già si fece a proposito della disciplina della legge fallimentare – circa la necessità di differenziare il trattamento di creditori inseriti in classi differenti. Al contrario, alla luce del principio di non discriminazione, va affrontato il dubbio se siano ancora possibili trattamenti differenziati di creditori inseriti sì in classi diverse ma pari-ordinati nell’ordine delle cause di prelazione. 
Giova ricordare che detto principio [59] è innanzitutto enunciato nell’art. 11.1 Direttiva, ove si prevede che trovi applicazione relativamente alle sole classi dissenzienti nell’ipotesi di ristrutturazione trasversale. In questo caso, il Piano di Ristrutturazione potrebbe essere omologato e diventare “vincolante per le classi dissenzienti” se (tra l’altro) “assicur[i] che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango [e più favorevole di quello delle classi inferiori]”. 
Detta norma unionale, relativamente al concordato con continuità aziendale, è stata attuata con l’art. 84, comma 6, che prevede l’applicazione dell’APR al “valore di liquidazione” [come oggi definito dall’art. 87, comma 1, lett. c)], mentre la RPR si applica al “valore eccedente quello di liquidazione”. Il D.Lgs. n. 136/2024 ha poi introdotto nell’art. ult. cit. la possibilità di una libera distribuzione di “risorse esterne”, lasciando peraltro gli interpreti nel dubbio circa l’individuazione del perimetro di questa componente della provvista concordataria. 
In relazione all’operatività delle classi di creditori e, in particolare, alla corretta relazione tra classi, l’art. 84, comma 6, è fondamentale, specie se la sua applicazione “ai fini del giudizio di omologazione” (quanto alla RPR) non escluda (o imponga) che debba essere rispettato ab origine nella formazione della proposta concordataria. 
Innanzitutto, l’applicazione dell’APR sul valore di liquidazione esclude che, limitatamente a questo strato della provvista concordataria, possa darsi qualsiasi trattamento differenziato tra creditori dello stesso grado e la regola trova anzi (pur inutile) conferma nel comma 4° dell’art. 85 [60]. 
Quanto al valore eccedente quello di liquidazione, le classi dovranno recepire necessariamente un trattamento differenziato tra creditori di grado diverso, ma in questo caso la differenza nel trattamento non opera sul piano orizzontale, come deroga alla par condicio creditorum, ma sul piano inclinato della RPR. 
Soprattutto, però, ad ingessare la proposta di concordato preventivo subentra il principio di non discriminazione, da applicare, ai sensi dell’art. 84, comma 6, “ai fini del giudizio di omologazione”: è evidente che, se sul valore di liquidazione non si può sfuggire all’APR e sul valore eccedente ogni classe di creditori deve ricevere “complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado”, ciò logicamente impone che a tutte le classi di creditori dello stesso grado sia attribuito un trattamento tra loro “almeno pari” [61]. 
In realtà, nonostante la rigidità nelle regole di distribuzione del valore che caratterizzano il concordato preventivo nel Codice della Crisi, c’è ancora qualche margine per prevedere un trattamento differenziato tra creditori di pari rango, nei confronti sia dei creditori privilegiati, sia dei creditori chirografari. 
Innanzitutto, come anticipato, il D.Lgs. n. 136/2024 ha introdotto la possibilità per il debitore di allocare “risorse esterne” in deroga alle regole dell’APR e della RPR stabilite dall’art. 84, comma 6. La provvista concordataria si struttura quindi su tre livelli: un valore di liquidazione da assegnare tramite APR, un valore eccedente quello di liquidazione da assegnare tramite RPR, risorse esterne liberamente distribuibili. Il problema di tracciare il confine della fattispecie, prima limitato alla distinzione tra valore di liquidazione e valore eccedente, ora si estende alla distinzione, non sempre evidente, tra valore eccedente quello di liquidazione e “risorse esterne” [62]. In ogni caso, ora il trattamento differenziato tra classi di creditori pari-ordinati si potrà fare, in coerenza con quanto previsto dall’art. 85, comma 1, con l’utilizzo di dette “risorse esterne” anche se, qualora si debba andare alla ristrutturazione trasversale, l’art. 112, comma 1, lett. b), sembra non ammettere eccezioni ad un trattamento delle classi dissenzienti “almeno pari a quello delle classi dello stesso grado” (in conformità, d’altronde, a quanto prevede l’art. 11.1.c della Direttiva), ovvero “almeno pari” al trattamento della classe di pari rango assenziente e meglio trattata. Non sembra, infatti, che il principio di non discriminazione, quando applicato rigorosamente ai fini della ristrutturazione trasversale, consenta deroghe dipendenti dalla fonte della provvista destinata al soddisfacimento dei creditori. 
Un ulteriore margine di manovra, al fine del trattamento differenziato di classi diverse composte da creditori dello stesso rango nel rispetto (ab origine) del principio di non discriminazione, si può poi intravedere muovendo da una semplice considerazione sul contenuto della proposta concordataria. Questa, infatti, si caratterizza per la sua sostanziale atipicità e – per sommi capi – possiamo immaginare che il “trattamento” dei creditori sia una combinazione di: (i) denaro; (ii) strumenti finanziari (o altri beni); (iii) tempo; (iv) altre “utilità” ex art. 84, comma 3. 
L’art. 85, comma 1 pone una regola che consente di escludere che il trattamento “almeno pari” dell’art. 84, comma 6, e dell’art. 112, comma 2, lett. b) (o “tanto favorevole quanto” dell’art. 11.1.c Direttiva), sia necessariamente un trattamento identico [63]. Il principio di non discriminazione deve intendersi dunque rispettato quando il trattamento delle classi di pari grado sia tra loro equivalente (anche se non identico), prendendosi in considerazione tutti gli addendi la cui somma va a costituire il “trattamento” contenuto nella proposta [64]. 
S’impone quindi, al fine della verifica di equivalenza del trattamento delle classi di pari grado, una conversione monetaria della proposta, che consenta – al tribunale innanzitutto - una valutazione di trattamenti che, pur essendo differenziati, ben potrebbero essere equivalenti (ovvero “pari”). 
D’altra parte, si tratta di esercizio sempre immanente al giudizio del tribunale, se si considera che nella liquidazione giudiziale il soddisfacimento dei creditori è sempre in denaro (e l’art. 214, comma 7, conferma che i creditori nella L.G. hanno un vero e proprio diritto a vedersi soddisfatti con – magari pochi, ma – euro) e nel concordato preventivo vige ex art. 84, comma 1, la regola dell’assenza di pregiudizio rispetto alla L.G., ciò che impone comunque di equiparare il trattamento delle diverse classi di creditori al soddisfacimento che, in un giudizio controfattuale, potrebbero ipoteticamente ricevere dall’alternativa della liquidazione giudiziale (v. art. 84, comma 1, e art. 112, comma 3). 
Si tratta di operazione non banale, che presenta amplissimi margini di discrezionalità, ma che quanto meno l’art. 84, comma 1, (richiamato dall’art. 106 quale una delle “condizioni prescritte per l’apertura del concordato”) impone sia fatta sin dall’apertura della procedura di concordato preventivo, con un’indagine che potrà essere approssimativa solo se si possa veramente esaltare la distinzione tra “ritualità” e “ammissibilità” contenuta nell’art. 47 [65]. 
Dunque, solo entro i ristretti limiti dell’utilizzo di risorse esterne (con il rischio di ostacolare la ristrutturazione trasversale, tuttavia) e dell’assegnazione a diverse classi di trattamenti equivalenti, seppur non identici, può effettivamente ritenersi oggi ammissibile un trattamento differenziato di creditori di pari rango [66] e sicuramente, almeno dal punto di vista della funzione di alterazione della par condicio creditorum, l’istituto delle classi ha subito un importante ridimensionamento [67].
8 . La classificazione dei creditori privilegiati
Un’attenzione particolare merita il trattamento dei creditori privilegiati, in considerazione della particolare combinazione di norme che riguardano la loro classificazione (art. 85, comma 3) e l’esercizio del diritto di voto (art. 109, comma 5). 
Innanzitutto, l’art. 85, comma 3, come visto, impone la suddivisione in classi dei creditori “muniti di privilegio, pegno o ipoteca, interessati dalla ristrutturazione perché non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 109, comma 5”, cioè di quei creditori privilegiati che vengono soddisfatti con utilità diverse dal denaro, ovvero con pagamento in denaro ma non integrale ovvero con pagamento integrale in denaro da eseguirsi oltre 180 (30 se lavoratori subordinati) giorni dall’omologazione. 
In ognuna di queste ipotesi, i creditori privilegiati vengono considerati “interessati” e quindi, oltre ad essere classificati, esercitano il diritto di voto per l’intero loro credito. 
Il pagamento (o la diversa soddisfazione) non integrale può essere fatto nei limiti di cui all’art. 84, comma 5, e quindi“in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione dei beni o dei diritti sui quali sussiste la causa di prelazione” [68]. In questa ipotesi, di c.d. degradazione (di parte) del credito privilegiato, “[l]a quota residua del credito è trattata come credito chirografario” (come confermato dal comma 4 dell’art. 109) e, ai sensi dell’art. 109, comma 5, “per la parte incapiente [i crediti privilegiati] sono inseriti in una classe distinta”. 
Si possono dare, quindi, quattro situazioni [69]: 
- creditori privilegiati con garanzia “capiente” e soddisfacimento integrale in denaro con pagamento entro 180 giorni (o 30 giorni, se privilegiati ex art. 2751 bis n. 1 c.c.) dall’omologazione: (non essendo “interessati”) non devono essere inseriti in alcuna classe e non votano; 
- creditori privilegiati con garanzia “capiente” e soddisfacimento integrale ma “interessati”, perché soddisfatti: (i) con mezzi diversi dal denaro ovvero (ii) con denaro da ricevere oltre i 180 giorni (o 30 giorni, se privilegiati ex art. 2751 bis n. 1 c.c.) dall’omologazione: sono inseriti in un’unica classe (almeno una classe per diverso grado di privilegio, se si vuole far operare la RPR) e votano per l’intero loro credito; 
- creditori privilegiati con garanzia “incapiente” e soddisfacimento integrale in denaro con pagamento entro 180 giorni (o 30 giorni, se privilegiati ex art. 2751 bis n. 1 c.c.) dall’omologazione della sola parte “capiente” del credito: il credito deve essere “scisso” in due parti, inserite in classi “distinte” e il creditore esercita il diritto di voto solo limitatamente alla classe portante la parte incapiente del credito [70]; 
- creditori privilegiati con garanzia “incapiente” e soddisfatti, per entrambe le parti del credito: (i) con mezzi diversi dal denaro ovvero (ii) con denaro da ricevere oltre i 180 giorni (o 30 giorni, se privilegiati ex art. 2751 bis n. 1 c.c.) dall’omologazione; anche in questo caso, il credito deve essere “scisso” in due parti, inserite in classi “distinte” per le quali entrambe il creditore esercita il diritto di voto [71]. 
Insomma, la situazione è abbastanza arzigogolata ma può ancor più complicarsi se ci s’interroga su come debba essere trattata la parte incapiente del credito privilegiato. Su questo aspetto, entrano in gioco, con una certa sovrabbondanza, due norme, che esprimono sostanzialmente il medesimo enunciato: 
- la parte del credito che resta scoperta dalla garanzia “è trattata come credito chirografario” (art. 84, comma 5; 
- se si prevede, nei limiti di cui all’art. 84, comma 5, una soddisfazione non integrale del credito privilegiato, “[l]a quota residua del credito è trattata come credito chirografario” (art. 109, comma 4). 
A fronte di questa univoca disciplina, tuttavia, si ritiene che il principio di non discriminazione debba applicarsi anche nel rapporto tra le “distinte” classi formate dalla parte incapiente dei crediti privilegiati (“trattata come credito chirografario”) e tutte le altre classi di crediti (ab origine) chirografari, sì che il trattamento delle classi formate dalla parte incapiente di crediti privilegiati (di qualunque grado) deve essere “almeno pari” a quelle formate da crediti chirografari (con la limitata elasticità sopra evidenziata) [72]. 
Resta, a questo punto, il dubbio di come la parte eccedente il valore di liquidazione della provvista concordataria possa essere distribuita tra le diverse classi di crediti privilegiati di diverso grado al fine di rispettare la RPR é73]. Ricordato, innanzitutto, che la parte capiente del credito privilegiato riceve un trattamento esattamente corrispondente all’APR (declinata, quanto ai privilegi speciali, nella particolare disciplina dell’art. 84, comma 5), se si assume che le classi composte dalla parte incapiente non possano essere trattate meglio di quelle dei creditori chirografari, la RPR può trovare applicazione unicamente sulle classi nelle quali è inserita la parte capiente. Visto che l’art. 84, comma 5, prevede solo un limite di soddisfazione inferiore, si può quindi immaginare una proposta che differenzi il trattamento delle diverse classi contenenti la parte capiente nel senso di prevederne una soddisfazione superiore al 100%, con il rispetto della RPR che va commisurato alla percentuale riservata a queste classi [74]; sempre a condizione che il soddisfacimento dell’intero credito privilegiato (parte capiente + parte incapiente) non sia superiore al 100% del credito stesso, anche alla luce dell’art. 112, comma 2, lett. c). 
Si tratta, evidentemente, di una proposta interpretativa fondata sulla rigorosa applicazione del principio di non discriminazione alla parte incapiente dei crediti privilegiati, alla quale se ne possono contrapporre (almeno) altre due: (i) quella che prevede di trattare diversamente le classi composte dalla parte degradata al chirografo dei crediti privilegiati [75]; (ii) quella che prevede di applicare la RPR sul risultato complessivo del trattamento del credito privilegiato, risultante dalla somma di parte capiente e parte incapiente [76]. 
9 . Le classi nel P.R.O. e nel concordato semplificato
Merita tutto sommato una veloce (e cumulativa) trattazione la disciplina delle classi al di fuori del concordato preventivo, in particolare, nell’ambito del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione e nel concordato semplificato liquidatorio, istituti, per certi versi, caratterizzati da impostazioni pressoché opposte (la grande – se non massima – libertà del P.R.O. si contrappone alla rigidità del concordato semplificato). 
Muovendo dal P.R.O., si constata che la classificazione dei creditori è imposta dall’art. 64 bis, comma 1, a prescindere dal contenuto del piano (che può essere anche liquidatorio), con una centralità delle classi pari a quella riservata dal legislatore nel concordato preventivo in continuità aziendale. Come per questo, tuttavia, deve ritenersi chela formazione di classi dei creditori sia per certi versi dipendente dall’attribuzione del diritto di voto e, quindi, dal riconoscimento di un loro “interesse” alla proposta di ristrutturazione, nel senso di cui al comma 7° dell’art. 64 bis, che sostanzialmente ripete il (non richiamato) comma 5, dell’art. 109. Dunque, nonostante la perentorietà della “suddivisione in classi” prevista dal comma 1° dell’art. 64 bis, anche nel P.R.O. deve escludersi la necessità (e direi anche la possibilità) di classificare creditori non abilitati al voto (in quanto non “interessati” nel senso anzi detto). 
Si evidenzia, tuttavia, che il mancato richiamo dell’art. 85 da parte dell’art. 64 bis consente di escludere che, pur se sia obbligatorio (nei limiti testé precisati) classificare i creditori, non esistono classi obbligatorie, ciò in ossequio alla libertà “negoziale” di cui dispone il debitore che aspiri a governare la propria crisi tramite lo strumento del P.R.O. [77]. 
Anche nel P.R.O., ai sensi del comma 1 dell’art. 64 bis, le classi sono formate sulla base del criterio di doppia omogeneità, di posizione giuridica ed interessi economici, già esaminato sopra al par. 5, al quale dunque si può rinviare. Anche nello strumento in esame, la correttezza della formazione delle classi deve essere scrutinata dal tribunale ai sensi dell’art. 64 bis, comma 4, lett. a), nel provvedimento con il quale, espresso un giudizio di “mera ritualità” della proposta (e del piano), dispone l’apertura delle operazioni di voto. 
Il generico riferimento, contenuto nel comma 1° dell’art. 120 ter, a (quasi) qualsiasi “strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza” consente senz’altro di ritenere applicabile la relativa disciplina di classificazione dei soci anche nel P.R.O. Anche le classi di questi, dunque, se “interessati” e quindi votanti, dovranno concorrere al raggiungimento di quella unanimità richiesta dal comma 1° dell’art. 64 bis per l’approvazione del P.R.O. Ovviamente, anche considerata la deroga agli art. 2740 e 2741 c.c., il trattamento dei soci potrà essere del tutto libero, senza che trovi applicazione la stretta via, da percorrere nel concordato preventivo, tracciata dall’art. 120 quater. 
A differenza del concordato preventivo, le classi non hanno alcuna incidenza sul trattamento (differenziato) dei creditori, perché il P.R.O. si caratterizza per una massima libertà di disposizione, da parte del debitore, della provvista concordataria (salvo per quanto previsto dai creditori con privilegio generale ex art. 2751 bis, n. 1 c.c.), nella distribuzione della quale non si dovrà osservare né l’ordine delle cause di prelazione, né l’APR né la RPR. Le classi assumono quindi essenzialmente la funzione di incrementare la “digeribilità” del principio maggioritario interno, la cui “giustizia” è direttamente proporzionata al quantum di omogeneità (degli interessi e quindi) nella propensione al voto che caratterizza l’insieme dei creditori inseriti in ogni classe. D’altra parte, nel P.R.O. (come anche nel concordato preventivo in continuità aziendale, peraltro) le classi costituiscono l’ultima traccia di sopravvivenza del principio maggioritario, che trova applicazione al loro interno in base al criterio previsto dal comma 7 dell’art. 64 bis. 
Semmai – quasi per eterogenesi dei fini, considerata la loro originaria funzione di deroga alla par condicio creditorum nella legge fallimentare –, se si assume che tutti i creditori parimenti classificati debbano ricevere il medesimo trattamento, le classi implicano nel P.R.O. l’unica regola di distribuzione del valore [78]. Con una massima tensione interpretativa, e quasi per assurdo, si potrebbe peraltro sostenere che l’esplicita deroga agli art. 2740 e 2741 c.c. nella “distribuzione del valore generato dal piano”, consentita dal comma 1° dell’art. 64 bis, si spinga sino all’interno di ogni classe, sì da consentire un trattamento differenziato anche dei creditori accomunati dal medesimo destino classificatorio. Mi sembra, tuttavia, interpretazione che, se pure astrattamente compatibile con la deroga agli art. 2740 e 2741 c.c. e con l’assenza di altra norma che imponga un pari trattamento dei crediti inseriti in una medesima classe, non sia compatibile con l’essenza stessa della classe (descritta in maniera del tutto insufficiente dall’art. 2.r con riferimento alla sola omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici) e, soprattutto, con quell’art. 10.2.b della Direttiva che, tra le condizioni previste per l’omologazione del piano di ristrutturazione, richiede che “i creditori con una sufficiente comunanza di interessi nella stessa classe ricevano pari trattamento”. 
Passando al diverso istituto del concordato semplificato al quale può ricorrere il debitore all’uscita da un percorso di composizione negoziata della crisi, l’art. 25 sexies, al comma 1, prevede laconicamente che “la proposta può prevedere la suddivisione dei creditori in classi”. Si tratta quindi di facoltà rimessa al debitore, senza alcuna previsione di obbligatorietà, relativamente ad uno strumento nel quale le classi perdono – in realtà – gran parte del loro significato. Infatti, come visto, le classi esplicano la loro funzione o nel consentire un trattamento differenziato di creditori di pari rango (con tutti i limiti oggi imposti dal principio di non discriminazione) o nel rendere più “giusta” l’applicazione del principio maggioritario e, quindi, nell’ottica di un più efficiente (ovvero capace di generare il maggiore benessere collettivo tra creditori e soci) esercizio del diritto di voto. Tutto ciò non può accadere nel concordato semplificato, in cui i creditori non votano e la distribuzione della provvista concordataria, quale risultante all’esito di un percorso liquidatorio (anche se in termini di continuità aziendale indiretta), deve seguire rigorosamente l’ordine delle cause di prelazione (cfr. art. 25 sexies, comma 5). 
Si può quindi immaginare l’utilizzo delle classi nel concordato semplificato a meri fini estetico – classificatori, collocando in una specifica classe tutti i crediti collocati allo stesso livello dell’ordine delle cause di prelazione, con una sequenza delle classi che, alla fine, non fa che replicare detto ordine. 
Più utilmente, tuttavia, se si presenti la necessità di apportare risorse esterne per “assicura[re] un’utilità a ciascun creditore” (art. 25 sexies, comma 5), le classi consentono al debitore la distribuzione di dette risorse in maniera asimmetrica e a prescindere dall’ordine delle cause di prelazione [79], senza – ovviamente – che ciò vada a pregiudicare l’applicazione dell’APR sul valore di liquidazione dell’intero patrimonio del debitore. 
Qualora la proposta preveda la suddivisione dei creditori in classi, il tribunale, dovrà, come di consueto (ma con modifica all’art. 25 sexies, comma 3 introdotta dal D.Lgs. n. 136/2024), procedere al controllo sulla corretta formazione delle classi, già con il decreto di “apertura” della procedura di omologazione [80].
10 . Categorie negli ARD e nella convenzione di moratoria: un nome diverso delle classi?
Pur se il presente contributo è volto ad affrontare soltanto il tema delle classi negli strumenti di regolazione della crisi, sembra opportuno confrontare questo istituto con quello del tutto analogo delle categorie negli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa e nelle convenzioni di moratoria [81], anche per stabilire se il legislatore abbia denominato diversamente la medesima fattispecie ovvero se a diverso nome corrisponda anche diversa sostanza. Come noto, l’introduzione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti con efficacia estesa nell’art. 182 septies L. fall. da parte del D.Lgs. n. 83/2015 ha visto altresì l’ingresso del principio maggioritario in questo strumento di regolazione della crisi a vera vocazione contrattuale, ciò che è avvenuto per il tramite del nuovo istituto delle categorie di creditori. Questa impostazione è stata confermata - ed anzi estesa - nel Codice della Crisi con riferimento a qualsiasi creditore, anche non finanziario, dall’art. 61 CCII. 
L’assonanza di categorie e classi di creditori è di immediata evidenza, specialmente con riferimento all’obbligo di individuare la categoria “tenuto conto dell’omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici” (cfr. art. 61, comma 1). Si possono tuttavia rimarcare alcune differenze, tra classi e categorie, che spiegano la differente denominazione di insiemi di creditori comunque caratterizzati dalla menzionata doppia omogeneità. Resta l’ambiguità dell’assenza, nell’art. 2, di una definizione delle “categoria” e, forse ancor peggio, di una definizione della “classe dei creditori” che, in quanto caratterizzata dalla sola regola di doppia omogeneità (con la ricordata confusione tra fattispecie e disciplina), comprende in sé anche le categorie [82]. 
Occorre innanzitutto ricordare che nell’ambito degli accordi di ristrutturazione non c’era (inizialmente) spazio per l’applicazione del principio di par condicio creditorum, ben potendo il debitore offrire qualsiasi trattamento ai propri creditori, senza l’applicazione di alcuna regola di distribuzione della provvista. Per trattare in maniera diversa creditori di pari rango, dunque – a differenza di quanto prevedeva la legge fallimentare per il concordato preventivo – non c’era alcun bisogno di formare classi diverse: semplicemente, il creditore mal trattato avrebbe sempre avuto la possibilità di non aderire all’accordo e quindi pretendere l’integrale (anche se non proprio “esatto”) soddisfacimento del proprio credito. 
Solo allorché il legislatore ha avvertito l’opportunità di prevedere una possibilità di estensione degli effetti dell’accordo (o della convenzione di moratoria) ai creditori non aderenti, tramite una circoscritta applicazione del principio maggioritario, è sorta la necessità di segregare, all’interno di un’unica categoria, creditori aderenti e creditori non aderenti (coartati) portatori dei medesimi interessi, sempre al fine di giustificare massimamente la repressione di un dissenso che, rappresentando una minoranza degli interessi di “categoria”, si assume irrazionale (tanto più omogenei gli interessi, tanto meno giustificata la mancata adesione all’accordo di una minoranza recalcitrante). 
Le categorie, dunque, a differenza delle classi, sono state inizialmente introdotte nell’art. 182 septies L. fall. non al fine del superamento della par condicio creditorum (principio che abbiamo ritenuto assente sia negli accordi di ristrutturazione dei debiti, sia nella convenzione di moratoria) ma esclusivamente come tecnica di applicazione del principio maggioritario in un contesto squisitamente contrattuale. Pertanto, la suddivisione dei creditori in categorie costituisce sempre un onere per il debitore, mai un obbligo (oggi neppure nel caso di ricorso alla disciplina in materia di trattamento dei crediti tributari e contributivi ex art. 63), dovendo ricorrervi se (e solo se) il debitore pretenda di avvalersi della disciplina di estensione degli effetti. 
Un’altra importante differenza fra categorie e classi di creditorista nella circoscritta applicazione delle prime, che entrano in gioco solo limitatamente a creditori caratterizzati da un livello minimo di omogeneità con gli interessi (e la posizione giuridica) di quei creditori ai quali si vuole imporre l’estensione degli effetti, mentre le classi, una volta (quasi sempre) introdotte nella proposta di concordato preventivo, caratterizzano tutti i creditori destinatari della stessa. Negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nella convenzione di moratoria, invece, anche i creditori “interessati”, in quanto aderenti, non sono a stretto rigore chiamati all’esercizio del voto e, dunque, se il loro coinvolgimento non è necessario per il raggiungimento della maggioranza richiesta per l’estensione degli effetti [83], non devono essere inseriti in alcuna categoria. 
Peraltro, considerata la formulazione dell’art. 61, comma 2, lett. c) (ove la maggioranza viene riferita a “tutti i creditori appartenenti alla categoria”), sembra che, una volta fissati i criteri che delimitano l’omogeneità per posizione giuridica ed interessi economici, non possano tenersi fuori dalla categoria creditori aderenti che rispecchino detti criteri. Vero è che, mentre nel concordato preventivo la formazione delle classi costituisce un ex ante rispetto alla manifestazione di voto dei creditori classificati, negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nella convenzione di moratoria il debitore procede alla formazione delle categorie anche solo in occasione della domanda di omologazione dell’accordo o della convenzione e, dunque, successivamente alla constatazione di quali siano i creditori aderenti e di quanto possano pesare, ai fini della formazione della maggioranza, se inseriti all’interno di una categoria[84]. Tuttavia, non è possibile una selezione opportunistica dei creditori aderenti da inserire in categoria con i non aderenti. Ciò, dunque, incide sul trattamento riservato nell’accordo ai creditori omogenei al dissenziente perché, anche se non esplicitato dal legislatore (e neppure ricavabile direttamente dall’art. 10.2.b Dir., che parla solo di classi), non c’è dubbio che la formazione della categoria implichi altresì la previsione di un medesimo trattamento dei crediti inseriti in categoria, con la conseguenza che tutti i creditori omogenei ai non aderenti, in quanto inseriti in una medesima categoria, dovranno ricevere il medesimo trattamento: il principio maggioritario si porta appresso la par condicio creditorum, anche all’interno di ogni categoria degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Note:

[1] 
Cfr. G.U. Tedeschi, Piano di risanamento e concordato nell’amministrazione straordinaria speciale, in Dir. fall., 2005, I, p. 744 ss.; F. Fimmanò, La ristrutturazione mediante concordato della grande impresa in amministrazione straordinaria, in Dir. fall., 2010, I, p. 328 ss.
[2] 
V. le Nuove regole per le crisi d’impresa pubblicate, a cura della Direzione, in Giur. comm., 2000, I, p. 8.
[3] 
In tal senso, cfr. R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato dell’Autorità giudi­ziaria, nel Fallimento, Allegato, 1, 2009, p. 33 ss.; M. Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed ob­bligatorietà delle classi nei concordati, nel Fallimento, 2009, p. 440; P. Catallozzi, La formazione delle classi tra autonomia del proponente e tutela dei creditori, nel Fallimento, 2009, p. 585 ss. Altri riferimenti in P. Catallozzi, Le classi dei creditori e la votazione nel concordato preventivo, nel Fallimento, 2010, p. 113. Concludeva sostanzialmente per l’obbligatorietà delle classi, come strumento atto a prevenire fenomeni di abuso del voto, con un giudizio del Tribunale ex post e rimesso alla fase di omologazione, piuttosto che alla decisione sull’ammissibilità del concordato, anche G.B. Nardecchia, Le classi e la tutela dei creditori nel concordato preventivo, in Giur. comm., 2011, II, p. 95 ss. Per maggiori dettagli sul dibattito di allora, v. – se si vuole – Ant. Rossi, Le scelte strategiche in tema di formazione delle classi di creditori, in Il ruolo del professionista nei risanamenti aziendali, a cura di M., Fabiani e A. Guiotto, Torino, 2012, p. 228 ss. 
[4] 
Nel vigore della legge fallimentare, hanno optato per la facoltatività delle classi, tra gli altri, M. Ferro, voce Classe di creditori, nelle Insinuazioni al passivo, Trattato a cura di M. Ferro, Tomo I, CEDAM, Padova, 2005, p. 140 e p. 153; L. Stanghellini, L’approvazione dei creditori nel concordato preventivo: legittimazione al voto, maggioranze e voto per classi, nel Fallimento, 2006, p. 1064 ss.; Id., Commento all’art. 124 L. fall., nel Nuovo diritto fallimentare, diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Zanichelli, Bologna, 2007, Tomo 2, p. 1965; G. Bozza, La facoltatività della formazione delle classi nel concordato preventivo, nel Fallimento, 2009, p. 424 ss.; G. Lo Cascio, Concordati, classi di creditori ed incertezze interpretative, nel Fallimento, 2009, p. 1132 ss.; Id., Classi di creditori e principio di maggioranza nel concordato preventivo, nel Fallimento, 2010, p. 385 ss.; G. Minutoli, Il controllo giudiziale sul mancato o insufficiente «classamento» dei creditori: il punto nella prassi e in dottrina, nel Fallimento, 2010, p. 48 ss.; A. Penta, Obbligatorietà o facoltatività nel «classamento» dei creditori e carattere autonomo o dipendente della transazione fiscale, nel Fallimento, 2010, p. 233 ss.; P.F. Censoni, Sull’ammissibilità di classi con unico creditore nel concordato fallimentare e preventivo, nel Fallimento, 2010, p. 329 ss.; U. Macrì, Il sindacato del Tribunale sul corretto utilizzo dei criteri di formazione delle classi, nel Fallimento, 2010, p. 958 ss.; A.M. Perrino, I limiti del controllo giudiziale tra classamento e voto, nel Fallimento, 2010, p. 1290 ss.; D. Galletti, Classi obbligatorie?No, grazie!, in Giur. comm., 2010, II, p. 346 ss.; F. Guerrera, Struttura finanziaria, classi dei creditori e ordine delle prelazioni nei concordati delle società, in Dir. fall., 2010, I, p. 709. In giurisprudenza, seppure in materia di concordato fallimentare, si registra l’importante arresto di Cass. civ., sez. I, 10 febbraio 2011, n. 3274, nel Fallimento, 2011, p. 403 ss. Per altri riferimenti, si rinvia a G. Ballerini, Le ricadute di diritto italiano della regola di non discriminazione nella Direttiva Restructuring, in Giur. comm., 2021, I, p. 970, nota 15, nonché a M. Fabiani, Revisione critica dei principi in tema di classi dei creditori, in Dirittodellacrisi.it, 3 febbraio 2025, p. 15.
[5] 
Per l’approvazione di una proposta concordataria con classi, l’art. 177, comma 1, L. fall. richiedeva infatti la maggioranza dei crediti ammessi al voto in generale nonché la maggioranza dei crediti ammessi al voto nella maggioranza delle classi (si potrebbe quindi parlare non di doppia ma di tripla maggioranza).
[6] 
Anche se non l’unico: v. il Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione di cui agli artt. 64 bis e segg. CCII.
[7] 
E forse anche del soggetto imprenditore: il Considerando n. 1, esplicitando “L’obiettivo della presente direttiva”, evoca una ristrutturazione preventiva che consenta agli imprenditori di “continuare ad operare”, così assumendo l’idea di una continuità aziendale meramente soggettiva; ma l’ambiguità dei Considerando impone di non indulgere alla tentazione di farne dei criteri interpretativi dell’articolato della Direttiva stessa.
[8] 
Evidente l’assonanza con i creditori “substantially similar” della Sect. 1122 del Chapter 11 statunitense.
[9] 
Si segnala, peraltro, che M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 17 s., ritiene non tassativa l’elencazione dei casi di obbligatoria classificazione dei creditori contenuta nell’art. 85, sì che “il tribunale, al cospetto di situazione disomogenee fra creditori potrebbe sindacare la mancata formazione delle classi”.
[10] 
Tali intendendosi quelli che rispettino le condizioni dimensionali prescritte dall’art. 85, comma 3.
[11] 
In realtà – se si vuole, in maniera abbastanza paradossale – anche l’art. 109, comma 5, esordisce con una prima parte dedicata al solo concordato in continuità aziendale (!), mentre la parte dell’articolo che inizia dalla terza frase in poi (“I creditori muniti di diritto di prelazione non votano …” dovrebbe riferirsi a tutti i creditori privilegiati in generale e completare – piuttosto che la prima parte del comma 5° - il comma 3 dell’art. 109.
[12] 
È lecito ritenere che, per l’individuazione di siffatte “parti correlate”, considerato anche l’art. 3.1.a) del Regolamento CONSOB approvato con delibera n. 17221 del 12.03.2010 (e successive modifiche), si possa (o addirittura si debba) fare riferimento alle definizioni contenute nel principio contabile IAS 24.
[13] 
Si può peraltro immaginare una persistente competenza dell’assemblea dei soci per quelle modificazioni statutarie, previste dal piano, che debbano essere (deliberate ed) eseguite prima dell’omologazione del concordato preventivo (v. art. 116, comma 3) ovvero, di converso, per quelle che eventualmente debbano intervenire dopo (specie considerato che l’art. 120 quinquies, come novellato dal D. Lgs. n. 136/2024, sembra escludere la possibilità di attribuire agli amministratori il potere di disporre dette modificazioni, limitando il loro intervento solo agli atti esecutivi delle modificazioni determinate dalla sentenza di omologazione).
[14] 
Cfr. R. Sacchi, La governance societaria nella crisi d’impresa, in La crisi d’impresa nel nuovo codice: problemi e prospettive, Giappichelli, 2024, p. 182.
[15] 
V. Relazione Illustrativa del D. Lgs. n. 83/2022, p. 75: “La formazione delle classi imposta dal comma 2 consente ai soci di esprimere il diritto di voto sulla proposta, in misura proporzionale alla partecipazione al capitale e indipendentemente dai diritti di voto loro riconosciuti dallo statuto”. 
[16] 
Si veda, a tal proposito, anche il Considerando n. 57 della Direttiva, per il quale gli Stati membri dovrebbero garantire che i detentori di strumenti di capitale “non possano impedire irragionevolmente l’adozione di un piano di ristrutturazione che ripristinerebbe la sostenibilità economica del debitore”.
[17] 
E dei titolari di strumenti finanziari, precisazione che nel testo dovrà ritenersi implicita nel riferimento ai soli soci.
[18] 
Non così per M. Spadaro, Il concordato delle società, in Studi sull’avvio del Codice della Crisi, a cura di Dirittodellacrisi.it, p. 121: “L’attribuzione del diritto di voto ai soci, in misura proporzionale alla quota di capitale da ciascuno posseduta, implica che, al fine di calcolare correttamente le maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato, sia appostato tra le passività (quanto meno figurativamente) anche il valore nominale del capitale sociale”. 
[19] 
Si vedano, nell’art. 120 ter, i riferimenti allo statuto e al voto commisurato alla partecipazione al capitale sociale, soprattutto. La considerazione, peraltro, vale per tutti gli articoli inclusi nel Capo III-bis del Codice.
[20] 
Per la nozione di “società che fanno ricorso al mercato di capitale di rischio” dovrà farsi riferimento all’art. 2325 bis c.c., come integrato, a seguito dell’entrata in vigore della L.n. 21/2024, dall’art. 2325 ter c.c.
[21] 
Cfr. M. Campobasso, La posizione dei soci nel concordato preventivo delle società, in La crisi d’impresa nel nuovo codice: problemi e prospettive, Giappichelli, 2024, p. 164; R. Sacchi, op. cit., p. 181.
[22] 
In tal senso v. M. Campobasso, La posizione dei soci, cit., p. 157.
[23] 
L’art. 120 ter, comma 2, trova probabilmente origine nella definizione di “parti interessate” contenuta all’art. 2 par. 1, n. 2) della Direttiva Insolvecy, tra le quali stanno anche “i detentori di strumenti di capitale, sui cui … interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione”.
[24] 
Cfr. da ultimo, S. Addamo, Diritto di recesso e modifica dei diritti di voto e di partecipazione, Milano, 2022. 
[25] 
Cfr. Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2019, n 13845, nelle Società, 2019, p. 936 ss., con nota di A. Busani e D. Corsico, Il “punto g)” del recesso (ovvero: quando c’è modifica dei “diritti di partecipazione” del socio di S.p.A.).
[26] 
Modificazioni che, sembra di capire, per M. Fabiani, L’avvio del codice della crisi, in Dirittodellacrisi.it, 05.05.2022, p. 19, possono addirittura consistere in una vera e propria espropriazione delle partecipazioni sociali (ovvero nel “trasferimento delle azioni o quote della società cedente”). 
[27] 
Ritenuto sufficiente alla classificazione obbligatoria dei soci da Trib. Milano, 2 maggio 2024, in Dirittodellacrisi.it.
[28] 
Per un’interessante disamina di varie ipotesi ritenute “incidenti direttamente” sui diritti di partecipazione dei soci, cfr. App. Trento, 24 settembre 2024, in Ristrutturazioni aziendali.
[29] 
Si segnala la posizione “intermedia” di R. Sacchi, op. cit., p. 191, per il quale, anche relativamente a modificazioni statutarie diverse da quelle contemplate dall’art. 116, interverrebbe la sospensione (non del diritto di recesso ma) del rimborso del valore della partecipazione del socio receduto sino alla completa esecuzione del piano solo se al rimborso debba provvedere la società debitrice (in luogo di soci e terzi).
[30] 
Contra R. Sacchi, op. cit., p. 191, sulla base del principio per cui “chi esercita il diritto di recesso deve essere tenuto indenne dalle conseguenze pregiudizievoli dell’operazione che è causa del recesso e non può approfittare delle sue conseguenze vantaggiose”.
[31] 
“che sarebbero soddisfatti in tutto o in parte qualora si applicasse l’ordine delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”.
[32] 
Cfr. A. Nigro, La nuova disciplina degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società, in Ristrutturazioni Aziendali, 11 ottobre 2022, p. 9.
[33] 
Per ottenere la quadratura del cerchio, G. Scognamiglio e F. Viola, I soci nella ristrutturazione dell’impresa. Prime riflessioni, in NDS, 2022, p. 1183, nota 45, ritengono “non … del tutto peregrina la tesi della suddivisione dei soci in incisi e interessati”, i primi da classificare obbligatoriamente, i secondi ammessi al voto previa loro classificazione facoltativa. Sembra invece tranchant L. Stanghellini, Il governo della società fra codice civile e codice della crisi, in AGE, n. 1-2/2023, p. 41, per il quale i soci “non sono mai indifferenti alla ristrutturazione”, ciò che potrebbe renderli sempre e comunque “interessati” alla ristrutturazione.
[34] 
In senso diverso cfr. R. Sacchi, op. cit., p. 182, pel quale la necessità di formare più classi di soci in presenza di strumenti finanziari di diverse categorie s’imporrebbe solo qualora “il piano non abbia effetti asimmetrici per le singole categorie”.
[35] 
Cfr. G. Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione delle classi e le maggioranze richieste dalla nuova disciplina, nel Fallimento, 2005, p. 1209.
[36] 
L’omogeneità degli interessi dovrebbe essere sempre l’antecedente necessario del principio maggioritario: cfr. F. Galgano, La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio di maggioranza, Bologna, 2007, passim.
[37] 
Sia in base alla regola della maggioranza dei due terzi su almeno il 50% dei creditori votanti, sia in applicazione della disciplina sulla ristrutturazione trasversale.
[38] 
Cfr. M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 5 s., ex multis. 
[39] 
Cfr. P. Catallozzi, La formazione delle classi tra autonomia del proponente e tutela dei creditori, nel Fallimento, 2009, p. 584, nonché, anche per ulteriori riferimenti, M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 6 s. Non mancano, tuttavia, interpretazioni più rigorose: cfr. S. Pacchi, Il concordato fallimentare, nel Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia e L. Panzani, Torino, 2009, vol. 2, p. 1410, che distingue tra natura del credito (in prededuzione, privilegiato, chirografario, postergato), stato del credito (contestato, condizionale, assistito da titolo esecutivo), stato del creditore (persona fisica o giuridica, creditore estero, banca, artigiano, lavoratore).
[40] 
Cass. civ., sez. I, ord. 16 aprile 2018, n. 9378.
[41] 
Cfr. D. Galletti, La formazione di classi nel concordato preventivo: ipotesi applicative, Ilcaso.it, doc. n. 52/2007, p. 5 ss.; S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, nel Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, vol. XI.1, Padova, 2008, p. 44; A. Penta, Obbligatorietà o facoltatività nel “classamento” dei creditori e carattere autonomo o dipendente della transazione fiscale, nel Fallimento, 2010, p. 237, nota 32.
[42] 
Ove si fa riferimento a creditori “substantially similar”.
[43] 
Cfr. Trib. Messina, 30 dicembre 2005 (decr.), in Giur. it., 2006, p. 1635, e App. Torino, 23 aprile 2009 (decr.), nel Fallimento, 2010, p. 322 ss. (questo in materia di concordato fallimentare).
[44] 
In tal senso, v. Cass. civ., sez. I, 31 luglio 2024, n. 21431, che pure ammette la possibilità di costruire una classe di soli crediti contestati. Contra, da ultimo, M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 7: “se i creditori contestati sono più di uno e il loro titolo e la tipologia della contestazione è diversa, le classi debbono essere separate”.
[45] 
La par condicio creditorum ormai opera soltanto all’interno di ogni classe di creditori, oltre alla improbabile ipotesi di proposta di concordato liquidatorio senza classi. 
[46] 
Sembra non abbia particolari ricadute interpretative la sostituzione del “rango” con il “grado” disposta dal D. Lgs. n. 136/2024 agli artt. 84 e 112: cfr. F. Rolfi, Ristrutturazione trasversale e principio di non discriminazione: todos Caballeros?, nel Fallimento, 2024, p. 1572 s. Nello stesso senso, v. anche App. Milano, 8 novembre 2024, in Dirittodellacrisi.it. 
[47] 
Per incidens, l’applicazione della RPR “a prescindere”, seppure solo in sede di omologazione, rende rilevante, al fine della ristrutturazione trasversale, solo il requisito della lettera d) del comma 2° dell’art. 112, poiché le lettere a), b) e c) pongono regole da applicarsi anche in caso di approvazione della proposta concordataria da parte di tutte le classi. 
[48] 
Il legislatore non dimostra troppa attenzione alla distinzione tra “proposta” e “piano” di concordato (sia nell’art. 85, sia nell’art. 87): se è vero, infatti, che la prima contiene il “trattamento” dei crediti e, dunque, la rimodulazione delle obbligazioni del debitore (semplificando: il passivo), il tema delle classi dovrebbe attenere alla proposta, non al piano, destinato ad illustrare le modalità di acquisizione della provvista concordataria (semplificando: l’attivo). 
[49] 
Cfr. M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 24 s. 
[50] 
“1) ai quali è offerto un importo non integrale del credito; 2) che sarebbero soddisfatti in tutto o in parte qualora si applicasse l’ordine delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”. 
[51] 
Paventa già il rischio App. Trento, 24 settembre 2024, cit. 
[52] 
Per M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 20, “non sarebbe mai legittimo formare più classi tra creditori omogenei e di pari situazione giuridica con identico trattamento perché questo vorrebbe dire creare classi ai soli fini della raccolta del consenso”. Il problema sta nel concetto stesso di omogeneità – specie degli interessi economici-, di cui è difficile stigmatizzare l’eccesso, poiché direttamente correlato – v. infra nel testo – all’efficace funzionamento del principio maggioritario. 
[53] 
In senso contrario, però, cfr. M. Ferro, Commento agli artt. 162 e 163 L. fall., nel Nuovo diritto fallimentare, diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2007, t. I, p. 2372: “il giudizio di ammissione è dunque aperto sia alla ricognizione dell’astratta ammissibilità delle classi stesse (…) sia all’individuazione in concreto delle propor­zioni e coerenze di trattamento interne a ciascuna ed equilibrate nei rapporti reciproci”. 
[54] 
Parla delle classi come “tecnica di deliberazione” L. Pecorella, Le classi come tecnica di distribuzione nel concordato in continuità tra dimensione “orizzontale” e “verticale”. Una prospettiva applicativa, in Dirittodellacrisi.it, 17 maggio 2024, p. 6. 
[55] 
Nel solo caso in cui un solo creditore sia titolare della maggioranza dei crediti ammessi al voto, occorre anche la maggioranza per teste dei creditori ammessi al voto. 
[56] 
Di segno opposto M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 8, per il quale la scelta del legislatore (unionale e nazionale) di suddividere i creditori in classi “muove dall’idea di rafforzare il consenso in termini di omogeneità”. 
[57] 
Cfr. G. D’Attorre, Dal principio di maggioranza al principio di minoranza, nel Fallimento, 2023, p. 301 ss. 
[58] 
In giurisprudenza, cfr. Trib. Prato, 30 marzo 2020, nel Fallimento, 2021, p. 537, con nota di I. Nocera, L’efficacia “estesa” degli accordi di ristrutturazione tra principio di conservazione, conflitto d'interessi e contrasto d'interessi, ove, per l'appunto, si adombra in motivazione “la distinzione tra conflitto di interessi e contrasto di interessi", solo il primo, e non anche il secondo, in grado di sterilizzare l’adesione del creditore interessato al fine dell’estensione degli effetti. 
[59] 
Sul quale, prima di altri, v. G. Ballerini, op. cit., p. 987 ss. 
[60] 
Cfr. L. Pecorella, op cit., p. 18. Di segno contrario M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 22, per il quale il principio di non discriminazione si applica solo sul valore eccedente quello di liquidazione e immagina quindi un trattamento differenziato operato sul valore di liquidazione, “pur a dispetto di una compressione della razionalità e pur nella consapevolezza che le procedure nelle quali il valore di liquidazione consente una distribuzione ai creditori chirografari sono davvero poche”. 
[61] 
Per un’interpretazione “lasca” dell’art. 84, comma 6, che valorizza il nuovo riferimento al “grado” e dunque limiterebbe l’applicazione della norma ai soli crediti privilegiati, cfr. L. Pecorella, op. cit., p. 35. La sostituzione del “rango” con il “grado” anche nell’art. 112, tuttavia impone di escludere – se si vuole mantenere la conformità dell’ordinamento italiano alla Direttiva – che il principio di non discriminazione, ai fini della ristrutturazione trasversale, non operi relativamente ai crediti chirografari. Sul punto, con esaustiva dimostrazione, cfr. F. Rolfi, op. cit, p. 1570 ss.; nello stesso senso, v. anche App. Milano, 8 novembre 2024, cit., che cassa un concordato preventivo proprio per “[l]’assenza di parità di trattamento tra la classe chirografaria e le altre classi chirografarie”. 
[62] 
Continua ad applicarsi il principio affermato da Cass. civ., sez. I, 8 giugno 2012, n. 9373, per la quale l’apporto del terzo deve risultare “neutrale rispetto allo stato patrimoniale della debitrice”? In particolare, i conferimenti risultanti da un aumento di capitale sociale c.d. reale sono risorse esterne o concorrono al valore eccedente quello di liquidazione? Come trattiamo l’apporto di un amministratore che “compensa” la rinuncia all’azione sociale di responsabilità? 
[63] 
Cfr. G. Ballerini, op. cit., p. 986. 
[64] 
Diversa la soluzione interpretativa avanzata da L. Pecorella, op cit., p. 34, per il quale la proposta deve assicurare a tutte le classi di creditori pari-ordinati “la medesima percentuale di soddisfacimento del credito”, salvo poter operare trattamenti differenziati quanto alle altre “utilità” (tempo del pagamento compreso) della proposta. 
[65] 
Cfr. App. Bologna 23 febbraio 2024, in Dirittodellacrisi.it. 
[66] 
Si segnala anche la tesi di D. Vattermoli, Ristrutturazione trasversale dei debiti, in La questione distributiva nel diritto della crisi e dell’insolvenza, a cura di D. Vattermoli, Pisa, 2023, p. 95, nota 17, per cui “il trattamento differenziato tra i creditori del medesimo rango, ma appartenenti a classi distinte, deve necessariamente passare per una diversa distribuzione del valore di liquidazione”, distribuzione tuttavia vincolata, ai sensi dell’art. 84, comma 6, al rispetto dell’APR. 
[67] 
Contra M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 34. 
[68] 
“al netto del presumibile ammontare delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali”. 
[69] 
Cfr. S. Rossetti, Appunti sul classamento dei creditori nel concordato in continuità, in Dirittodellacrisi.it, 30 novembre 2023, p. 5 s. V. anche G. Ballerini, Le riorganizzazioni societarie fra Absolute e Relative Priority Rule, Torino, 2023, p. 182. 
[70] 
In questo caso, al solo fine di agevolare il funzionamento della RPR, dovrà essere classificata una frazione di credito non votante, perché soddisfatta tempestivamente ed integralmente. 
[71] 
Con qualche dubbio se il voto possa essere divergente, ciò che non escluderei, considerato che il creditore può ritenere congruo il trattamento di una parte del credito e non congruo il trattamento dell’altra. 
[72] 
Si può addirittura immaginare che la parte incapiente di tutti i crediti privilegiati sia inserita in un’unica classe (in tal senso cfr. M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 4), magari composta anche da altri crediti originariamente chirografari, specie se s’intende che la “distinzione” di classi prevista dall’art. 109, comma 5, sia riferita soltanto alla necessità di tenere separate parte capiente e parte incapiente del medesimo credito. 
[73] 
Si muove dalla tesi fatta propria dalla dottrina maggioritaria, per cui la RPR si applichi solo relativamente al valore eccedente quello di liquidazione: cfr. G. Ballerini, Le riorganizzazioni societarie, cit., p. 301, ove ulteriori riferimenti. 
[74] 
Resta, per vero, il problema di trattare i crediti privilegiati totalmente degradati, per i quali la tesi prospettata nel testo avrebbe bisogno di immaginare comunque la scissione del credito in due classi: l’una contenente la parte capiente del credito, pari a zero, sulla quale prevedere il trattamento differenziato funzionale alla RPR; l’altra contenente la parte incapiente del credito, pari all’intero suo ammontare, da trattare come credito chirografario. Costruzione forse macchinosa ma necessaria a far “girare” il sistema. 
[75] 
In tal senso, v. già Trib. Milano, 30 maggio 2024, n. 382, in Diritto della Crisi. 
[76] 
L’applicazione della RPR ai crediti privilegiati è quindi un bel rompicapo. Come riferito nel testo, si possono immaginare tre diverse soluzioni, per le quali un esempio pratico può agevolare la spiegazione. Immaginiamo di dover soddisfare due crediti, entrambi privilegiati, di € 100 ciascuno: il primo (C1) di grado superiore, con garanzia capiente per € 20 ed incapiente per € 80; il secondo (C2) di grado inferiore, con garanzia capiente per € 40 ed incapiente per € 60. 
La tesi (A) esposta nel testo prevede che il trattamento differenziato imposto dalla RPR intervenga solo sulla parte capiente, quindi C1, per la parte capiente (€ 20), dovrà ricevere un trattamento percentualmente superiore (immaginiamo il 200%) a quello offerto alla classe contenente la parte capiente (€ 40) di C2 (immaginiamo il 150%). Assumendo un soddisfacimento (identico) della parte incapiente dei due crediti al 10%, avremo il seguente risultato: (i) C1 soddisfatto con € (40+8=) 48; C2 soddisfatto con € (60+6=) 66. 
Se invece si ritiene possibile intervenire, per fare applicazione della RPR, sulla parte incapiente del credito privilegiato (tesi B), tenendo fermo al 100% il soddisfacimento della parte del credito coperta dal valore della prelazione, C1 dovrà ricevere un trattamento migliore di C2 sulla parte incapiente del credito. Se immaginiamo di riconoscere a C1 il 50% del credito degradato e a C2 il 40%, avremo il seguente risultato: (i) C1 soddisfatto con € (20+40=) 60; (ii) C2 soddisfatto con € (40+24=) 64. 
In entrambi i casi, tuttavia, C1 riceverà una percentuale di soddisfacimento del proprio credito complessivamente inferiore a quella riconosciuta a C2, ciò che dipende dalla inferiore percentuale di assistenza della causa di prelazione. Se si volesse fare applicazione della RPR in relazione alla complessiva percentuale di soddisfacimento del credito privilegiato (tesi C), entrambe le soluzioni (A e B) ipotizzate sarebbero inammissibili. 
[77] 
Ciò potrebbe astrattamente dirsi anche per tributi e contributi trattati ai sensi del nuovo comma 1 bis dell’art. 64 bis, se non fosse che la specificità della proposta indirizzata agli enti gestori, che si aggiunge a quella sottoposta ai creditori ai sensi del comma 1° dell’art. ult. cit., rende del tutto inutile il riferimento al concetto stesso di classe. 
[78] 
Regola che, dunque, se si assume come scriminante nella qualificazione della fattispecie, consente di riconoscere nel P.R.O. – per quanto utile o meno possa essere ai fini della selezione della disciplina – una vera e propria procedura concorsuale. 
[79] 
Cfr. Trib. Udine, 24 gennaio 2023, in Dirittodellacrisi.it; nella proposta di concordato si prevedeva un’iniezione di risorse esterne, destinate a dare una minima soddisfazione ai creditori nello scenario “base” di liquidazione atomistica del patrimonio aziendale. 
[80] 
Per l’individuazione di un momento di “apertura” della procedura anche nell’ambito del concordato semplificato, v. – se si vuole – Ant. Rossi, L’apertura del concordato semplificato, in Dirittodellacrisi.it, 18 marzo 2022. 
[81] 
Le considerazioni che si svolgeranno di seguito nel testo devono intendersi estese anche alla convenzione di moratoria di cui all’art. 62, dove peraltro neppure si ripete la necessità di rispettare il criterio della doppia omogeneità interna ad ogni categoria, criterio di cui quindi assumiamo pressoché naturalmente l’applicazione. 
[82] 
In forza della proprietà transitiva: (i) se la classe di creditori è un “insieme di creditori che hanno posizione giuridica e interessi economici omogenei” [art. 2, lett. r)]; (ii) se le categorie sono formate da creditori che hanno “omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici” (art. 61, comma 1), allora (iii) le categorie sono classi. Si tratta evidentemente di falsa affermazione, per le ragioni esposte nel testo, che conferma da ulteriore punto di vista l’ambiguità ed insufficienza della definizione (di dubbia utilità) delle “classi di creditori” posta dall’art. 2 cit. 
[83] 
75% o 60% se l’accordo di ristrutturazione dei debiti costituisce l’esito di un percorso di composizione negoziata della crisi: cfr. art. 23, comma 2, lett. b). 
[84] 
Considerate le differenze esposte nel testo, non sembra che la distinzione tra classi e categorie possa ridursi ad un “criterio formale” (così, invece, M. Fabiani, Revisione critica, cit., p. 5). 

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  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

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