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Saggio

Brevi spunti intorno alle “variazioni” del piano concordatario nella fase post omologazione – Parte II

Renato Bogoni ed Emanuele Artuso, Dottori Commercialisti in Padova

5 Febbraio 2024

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Il presente scritto prosegue nell’indagine relativa alle “variazioni” relative alla proposta ed al piano, cercando di valorizzare i dati normativi presenti nell’ordinamento ed i principi immanenti la materia contrattualistica e concorsualistica. In specie, quali le conseguenze laddove – pur ossequiando i canoni di comportamento fissati dalla giurisprudenza, ossia operando secondo buona fede e secondo un approccio previsionale plasmato su criteri di ragionevolezza e razionalità – il debitore apporti modifiche “non sostanziali” al piano in funzione dell’auspicato adempimento, che però in concreto non risulti integrato? Un tentativo di risposta viene articolato nella (triplice) direttrice (i) della responsabilità civile degli organi sociali, (ii) della responsabilità penale e, infine, (iii) della revocabilità degli atti. 
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1 . Premessa
In una prospettiva di continuità, con l’odierno contributo si riprendono ed approfondiscono alcuni temi affacciati nel precedente scritto, focalizzando l’analisi sugli effetti, in capo al debitore, derivanti dalla predisposizione (o meno) delle variazioni al piano.
A tal fine, conviene muovere rapidamente proprio dalle (provvisorie) conclusioni cui si era addivenuti, così sintetizzabili:
I. le modifiche al piano nella fase di esecuzione del concordato sono fisiologiche e, se dirette al soddisfacimento della proposta (id est, realizzare un progetto di impresa sostenibile, teso a generare le risorse necessarie a soddisfare quanto offerto ai creditori), devono ritenersi ammissibili, purché non stravolgano le stesse linee guida del progetto, sulle quali si è formata la maggioranza che ha approvato il concordato ([1]);
II. esorbitano quindi da tale ambito: tanto l’eventuale mutamento dell’oggetto sociale, quanto la trasformazione del concordato da “in continuità” a “liquidatorio”, in quanto integrano modificazioni strategiche, ossia alterazioni del modello di rischio e del patto contrattuale suggellato dall’omologazione, che incidono sulla logica stessa di superamento della crisi;
III. tuttavia, eventuali modifiche di carattere sostanziale, che siano dirette all’immediata soddisfazione della proposta, dovrebbero ritenersi ammissibili. Infatti, se il soddisfacimento dei creditori rappresenta la causa concreta della proposta di concordato, ecco che la sua immediata realizzazione – anche con percorsi totalmente disallineati rispetto a quanto originariamente previsto – non solo non sarebbe censurabile, ma addirittura rappresenterebbe il corretto adempimento del precetto secondo cui il debitore “è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato” ([2]).
2 . Sulle modifiche non sostanziali al piano post omologazione, cui segue comunque l’inadempimento: quali conseguenze?
Quanto appena illustrato consente di muovere verso la trattazione di un conseguente, ma diverso, tema.
Laddove – pur ossequiando i canoni di comportamento fissati dalla giurisprudenza, ossia operando secondo buona fede e secondo un approccio previsionale plasmato su criteri di ragionevolezza e razionalità – il debitore apporti modifiche “non sostanziali” al piano in funzione dell’auspicato adempimento che però in concreto non risulti integrato, quali conseguenze derivano?
Ad avviso di chi scrive, si può tentare di fornire una prima risposta, articolandola nella (triplice) direttrice (i) della responsabilità civile degli organi sociali, (ii) della responsabilità penale e, infine, (iii) della revocabilità degli atti.
Come segue.
2.1 . Sull’eventuale azione di responsabilità civile
Secondo il primo angolo visuale ci si deve chiedere se il comportamento del debitore – che, post omologazione, abbia proceduto con le modifiche al piano ispirate a buona fede ed al soddisfacimento della proposta – possa essere censurato mediante lo strumento civilistico dell’azione di responsabilità, qualora i risultati in concreto raggiunti non siano allineati alle attese e, anzi, portino al default dell’impresa.
A tal proposito, pare qui venire in rilievo il noto principio business judgment rule e la relativa esegesi compiuta da giurisprudenza e dottrina ([3]).
Sul punto, in questa sede è appena il caso di ricordare che – in estrema, quasi banalizzante semplificazione – il predetto principio conduce alla tendenziale insindacabilità del merito delle scelte gestorie, qualora le stesse non siano palesemente irragionevoli (secondo un giudizio “ex ante”) e vengano adottate ad esito di una corretta procedimentalizzazione.
In linea generale, la business judgement rule poggia su un trittico di regole fondamentali che investono la fase decisoria dell’azione di governo societario:
  1. l’amministratore deve sempre agire in modo informato ed operare con cautela e diligenza; a tal fine la società deve istituire un adeguato assetto organizzativo;
  2. la decisione deve essere assunta nei limiti della Legge e non in conflitto di interessi;
  3. la decisione deve essere ragionevole, ossia coerente con gli esiti della fase istruttoria.
A seguito delle modifiche recate dal Codice della Crisi, la declinazione stessa della business judgment rule si conforma all’obbligo degli amministratori di attivarsi per intercettare tempestivamente la crisi e, successivamente, scegliere lo strumento più idoneo previsto dall’ordinamento per superare la crisi. 
Tale principio deve guidare la valutazione degli esiti delle scelte degli amministratori, sia in fase pre-concorsuale, sia nelle fasi successive e quindi anche in sede di esecuzione del concordato.
Nella fase di deterioramento delle condizioni finanziarie, tale principio – assurgendo la tutela dei creditori sociali quale focus supremo dell’operato gestorio – diventa centrale nella scelta degli strumenti con cui affrontare lo stato di crisi, che dovranno essere tempestivamente adottati anche grazie alla predisposizione di adeguati meccanismi che, appunto, esplichino pienamente la propria funzione in corrispondenza della predetta, delicatissima fase ([4]). 
Insomma, in altri termini – se vogliamo più semplicistici – si può affermare che, con l’approssimarsi della crisi, viene in luce un “irrobustimento” della diligenza imposta in capo all’organo amministrativo, stante la circostanza che la situazione di patologia reca la seguente criticità: ossia, che chi ricopre l’ufficio gestorio possa implementare operazioni azzardate, ad alto coefficiente di rischio, perniciose per i creditori sociali ([5]). 
Secondo l’interpretazione che appare preferibile, la responsabilità dell’imprenditore può configurarsi solo laddove gli strumenti apprestati risultino irrazionali, nel senso di essere avulsi da criteri di ragionevolezza e logicità ed estranei alle dinamiche ed alle potenzialità dell’azienda ([6]). 
Ancor più in profondità ed in via sistematica: in considerazione dell’essenziale ruolo della business judgment rule nel diritto societario, è necessario riconoscere la sua applicabilità anche nel contesto, delicato e complesso, della specifica fase di esecuzione del piano. 
Nella fase esecutiva, gli amministratori debbono assumere decisioni sotto la “pressione” del dover risanare e rilanciare l’attività aziendale, pur operando in un contesto di (inevitabile) limitazione delle risorse finanziarie.
L’adozione della business judgment rule in questo scenario va quindi intesa come il riconoscimento che, anche nella gestione della risoluzione della crisi aziendale, le decisioni degli amministratori devono essere protette rispetto ad una valutazione eccessivamente rigorosa o retrospettiva, purché assunte in buona fede, sulla base di informazioni adeguate, con ragionevolezza e nell’interesse della società e dei suoi creditori, permettendo agli amministratori di perseguire le soluzioni adeguate per raggiungere il soddisfacimento della proposta concorsuale; per l’effetto, senza il timore di incorrere in responsabilità per il solo fatto che tali decisioni – pur parzialmente in distonia rispetto all’originario piano, ma pur sempre orientate al miglior soddisfacimento dei creditori – comportino dei rischi.
Certamente, è essenziale che la riacquisita autonomia decisionale dell’organo amministrativo, successiva all’omologazione del concordato, venga equilibrata con adeguati sistemi di controllo e trasparenza, e che le decisioni adottate siano in linea con gli obbiettivi del concordato e dirette a proteggere gli interessi dei creditori e degli altri stakeholders coinvolti. 
In questo contesto, i principi stabiliti dalla giurisprudenza relativi alla c.d. business judgment rule possono offrire un criterio di valutazione efficace rispetto ad un’azione amministrativa responsabile e proattiva, anche nei momenti maggiormente critici della vita aziendale. Ciò, anche considerando che le scelte gestorie dovranno essere dirette al successo nell’attuazione del piano, conformandolo – in linea con le recenti evoluzioni del diritto concorsuale ed ai principi indicati nella direttiva insolvency – al raggiungimento della sostenibilità dell’impresa (ossia la c.d. “viability” ([7])).
In definitiva, proprio la valutazione del comportamento degli amministratori ispirata dal principio business judgment rule consente di esonerarli da responsabilità nel caso in cui le loro decisioni gestionali, pur deviando dall’originario piano di concordato, siano comunque orientate al raggiungimento degli obiettivi fondamentali dello stesso ed alla sua causa concreta (id est, la soddisfazione della proposta). 
In questo modo, si riconosce una certa flessibilità nella gestione, permettendo agli amministratori di adattarsi a circostanze impreviste o a cambiamenti del contesto di mercato, sempre nell’ottica di perseguire il miglior interesse dei creditori e la continuità aziendale ([68]).
2.2 . Sull’eventuale bancarotta
Quanto appena offerto con riguardo all’azione di responsabilità si rivela importante anche nello scandagliare l’ambito di possibili responsabilità penali degli organi sociali. 
In tale ambito si deve preliminarmente valutare la possibile esclusione della configurabilità di determinati reati delineata dall'art. 324 del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza. 
In particolare, questa norma stabilisce che "Non si applicano le disposizioni degli articoli 322, comma 3, e 323 nei casi di pagamenti e operazioni effettuati nell’ambito dell'esecuzione di un concordato preventivo...". Le disposizioni penali la cui applicazione viene esclusa si riferiscono alle situazioni di bancarotta preferenziale e alle varie forme di bancarotta semplice, tra cui quelle relative a soggetti che (i) hanno effettuato operazioni gravemente imprudenti al fine di posticipare l'apertura della liquidazione giudiziale e (ii) hanno aggravato la propria situazione di crisi, omettendo di richiedere la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale della propria impresa o attraverso altre gravi colpe ([9]).
Si tratta, dunque, di valutare se l’esenzione dalla responsabilità penale possa essere estesa anche a quelle situazioni in cui gli atti compiuti nell’ambito dell'“esecuzione del concordato preventivo” non corrispondano precisamente a quelli delineati nel piano originario del concordato, in quanto conformati all’esigenza di assicurare l’adempimento della proposta a fronte del mutamento degli scenari in cui l’impresa opera. 
Data l’ampia e generica formulazione del testo normativo, a nostro avviso, se si riconosce la possibilità di apportare modifiche volte all’attuazione della proposta, si dovrebbe ritenere che la norma debba essere interpretata – in linea con la sua ratio – in modo ragionevolmente estensivo, così da includere nell’esclusione tutte le operazioni che siano essenzialmente volte all'esecuzione della proposta, anche se queste differiscono in parte dalle specifiche azioni di risanamento previste nel piano.
Ma non solo.
Se queste prime considerazioni sembrano già fornire un qualche grado di sicurezza agli amministratori che, agendo in buona fede, adeguano le loro decisioni gestionali al mutato scenario economico, vale senz’altro la pena di notare che le interpretazioni elaborate dalla Suprema Corte indicano che l’applicazione delle norme penali in commento dovrebbe essere ispirata ad un approccio cauto e circoscritto nell’attribuire responsabilità penale (rafforzandosi, quindi, il predetto “grado di sicurezza”).
Di nodale importanza, sul punto, la nota Cass., Sez. V pen., 5 gennaio 2022, n. 118, la quale – attingendo a propri precedenti approdi – si pronuncia in maniera estremamente analitica con riferimento alla bancarotta semplice, distinguendo le due fattispecie all’uopo in rilievo, ossia (i) le operazioni di grave imprudenza volte a ritardare il fallimento vs. (ii) l’aggravamento del dissesto astenendosi dal chiedere il proprio fallimento.
Per comodità espositiva e per la chiarezza argomentativa esplicitata dal Supremo Collegio, giova indugiare sul punto, riportandone i passaggi principali: “Quanto alla prima fattispecie di reato, è opportuno ricordare che le operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento consistono nelle operazioni economiche alle quali possono ricorrere gli imprenditori o amministratori ( 217, 224 LF) nella speranza di ritardare o evitare il fallimento, che sono caratterizzate da un alto grado di rischio ma risultano prive di serie e ragionevoli prospettive di successo economico, operazioni che, con riguardo alla complessiva situazione dell'impresa, ormai votata al dissesto, hanno il solo scopo di ritardare il fallimento, essendo consapevole dello stato di crisi l'imprenditore/amministratore (Sez. 5, Sentenza n. 24231 del 20/03/2003 Ud. (dep. 04/06/2003) Rv. 225937 ([10]). […] Per altro verso nella medesima sentenza sono state definite operazioni gravemente imprudenti ai sensi dell'art. 217 nr 3 LF quelle finalisticamente orientate a ritardare il fallimento, ma ad un tempo caratterizzate da grave avventatezza o spregiudicatezza, che superino i limiti dell'ordinaria "imprudenza"; con tale ultimo concetto intendendosi il comportamento che, secondo la comune logica imprenditoriale, può a volte giustificare il ricorso, da parte dell'imprenditore che versi in situazione di difficoltà economica, ad iniziative "coraggiose", da "extrema ratio", ma ragionevolmente dotate di probabilità di successo, al fine di scongiurare il fallimento. Quanto all'elemento soggettivo si è puntualizzato che la finalizzazione che connota la fattispecie, impone la presenza ed il riscontro in sede di accertamento giudiziale del carattere doloso delle condotte (Sez. 5, Sentenza n. 24231 del 20/03/2003 Ud. (dep. 04/06/2003) Rv. 225938”. 
Ancora: “l'aggravamento del dissesto punito dagli artt. 217, comma primo, n. 4 deve consistere nel deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata richiesta di fallimento, della complessiva situazione economico-finanziaria dell'impresa fallita. L'elemento psicologico della colpa grave può essere desunto, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma in concreto, attraverso la dimostrazione di una consapevole omissione (Sez. 5, Sentenza n. 18108 del 12/03/2018 Ud. (dep. 24/04/2018) Rv. 272823 - 01. Massime precedenti conformi: N. 43414 del 2013 Rv. 257533, N. 38077 del 2015. La prima delle pronunzie indicate si è interrogata sulla possibilità che la gravità della colpa debba o meno ritenersi presunta laddove il fallimento non sia tempestivamente richiesto dall'imprenditore in stato di insolvenza fornendo una risposta negativa. Si è, infatti, chiarito che la soluzione affermativa di una siffatta presunzione pare priva di ragionevolezza, evidenziandosi come non sia difficile comprendere come il ritardo nell'adozione della, senza dubbio grave, decisione dell'imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato a una vasta gamma di dinamiche gestionali, che svaria dall'estremo dell'assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell'opinabile valutazione sull'efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse. L'eterogeneità di queste situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa. Il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento, in altre parole, è ancora troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave, dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato”.
Trattasi di principi che, seppur cesellati nell’ambito di scelte adottate in fase pre-concorsuale, si devono giudicare comunque immanenti e – valorizzando i significativi punti di contatto anche con il principio della business judgment rule alla luce di questa prospettiva “garantista” della Cassazione penale – si può fondatamente evincere come le scelte degli amministratori non possano risultare censurabili nell’ambito della normativa penale (beninteso: laddove siano improntate a criteri di ragionevolezza e non affette da elementi patologici, id est, in presenza di condotta non palesemente spregiudicata, inficiata da dolo, ecc.).
2.3 . Sull’eventuale revocatoria
Infine, resta da esplorare la percorribilità di azioni volte a revocare eventuali atti, pagamenti, garanzie, posti in essere dal debitore nei periodi di esecuzione del piano alla luce della possibile operatività della disposizione esimente di cui all’art. 166 CCII che, letteralmente, prevede la non assoggettabilità ad azione revocatoria de “gli atti, i pagamenti e le garanzie su beni del debitore posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, del piano di ristrutturazione di cui all'articolo 64 bis omologato e dell'accordo di ristrutturazione omologato e in essi indicati”.
Giova muovere da una breve analisi del dato normativo.
Ebbene, nella Legge Fallimentare la copertura da revocatoria ex art. 67 risultava ampia, mentre l’odierno art. 166, comma 3, lett. d) e lett. e), Codice Crisi, pone esplicito riferimento agli atti, pagamenti, garanzie che siano “indicati” nel concordato preventivo ([11]).
In altre parole, l’attuale formulazione letterale impone una palese maggiore formalizzazione e proceduralizzazione dei dati e delle operazioni, che – nel caso di specie – per andare esenti dalla revocatoria debbono trovare espressa collocazione nel piano ([12]).
Nell’ambito di esecuzione dei piani di concordato, proprio perché sopravvenute, ad evidenza le modifiche non potranno trovare asilo nell’originario piano e pertanto, a rigore ed in linea di principio, sembrerebbero esporre la controparte a possibili successive declaratorie di inefficacia degli atti.
A parziale temperamento di questa impostazione rigida, si potrebbe porre come contraltare il fatto che la revocatoria ordinaria o fallimentare può scattare solo al sussistere di ulteriori requisiti, tra cui l’eventus damni e, soprattutto, la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del debitore e della controparte (seppur, a certe condizioni, l’applicazione di tali requisiti sia affievolita tramite i meccanismi e le presunzioni previste dagli articoli 165 e 166 Codice Crisi). 
È plausibile sostenere che la buona fede dell’imprenditore e della controparte – manifestata nell’esecuzione di un concordato che, seppur non pedissequamente adagiato nelle previsioni dell’originario piano, non deborda in modifiche sostanziali del progetto concordatario – riduce notevolmente la probabilità che si verifichino le condizioni per l’applicazione delle norme sulla revocatoria. 
In altre parole, l’aderenza sostanziale al progetto originario, anche in presenza di variazioni, non essenziali, dirette alla corretta esecuzione della proposta, in concreto dovrebbe allontanare significativamente il rischio di incorrere nelle situazioni previste dalla normativa per l’attivazione della revocatoria ([13]).
2.4 . Qualche pillola riepilogativa, a mo’ di chiosa
Anche in una prospettiva di coerenza ed armonia del sistema ordinamentale, quindi (i) sia l’azione di responsabilità, (ii) sia il reato di bancarotta semplice, (iii) sia, infine, seppur su un piano più inclinato e “scivoloso”, l’azione revocatoria, appaiono fondatamente esperibili solo laddove il debitore abbia posto in essere un comportamento connotato da palese irrazionalità, ossia abbia perfezionato operazioni imprenditoriali che risultino azzardate, dolose, e così via.
Infatti, i principi (qui elencati rapsodicamente) di adempiere alla proposta, di soddisfare i creditori, di preservare la continuità e di porre in essere tutti i rimedi esperibili per superare la situazione di crisi, conducono verso il “dovere all’azione” in capo all’imprenditore, il che sconta ab origine l’eventualità che possano essere intraprese azioni non ottimali, dovute alla naturale alea imprenditoriale.
Per l’effetto, meritano di essere colpite dai significativi effetti prima rassegnati solo quelle azioni dell’imprenditore affette dalla “gravità” nei termini di cui sopra.
3 . Un problema “relativo” e “collaterale”, ossia sull’autorizzazione da parte degli organi della procedura per atti straordinari non prefigurati nel piano
Quanto fin qui discusso pare offrire spazio per affacciare un tema attiguo – peraltro oggetto di un non trascurabile dibattito giurisprudenziale – inerente all’eventuale necessità di ottenere l’autorizzazione degli organi della procedura.
Più nel dettaglio: gli atti gestori non potranno essere considerati eccedenti l’ordinaria amministrazione per il solo fatto di non essere contemplati dal piano e, d’altro canto, non ogni atto di straordinaria amministrazione per ciò solo deve essere soggetto ad autorizzazione. 
Da quest’ultimo punto di vista, infatti, si tratterebbe di una sorta di ultrattività della disposizione dell’art. 94 del Codice della Crisi (già art. 167, comma 2, L. fall.), che sembra arduo poter argomentare in assenza di qualche solido fondamento da trarre dal sistema della disciplina concorsuale. 
La giurisprudenza di merito che si è fin qui pronunciata pare aderire in maniera prevalente a questa impostazione, registrandosi ex multis in tal senso: 
- Tribunale Monza, 15 febbraio 2015: “l’attività continua sotto la direzione e il controllo dello stesso imprenditore, il quale può compiere qualsiasi tipo di atto senza necessità di autorizzazione, con l’unico limite di indirizzare l’attività d’impresa alla realizzazione del piano”;
- Tribunale Roma, 14 aprile 2016: “nel concordato preventivo con continuità aziendale con l’omologazione il debitore riacquista la piena disponibilità nella gestione del suo patrimonio. Con la chiusura della procedura viene, infatti, meno il principio dello “spossessamento attenuato”, compendiato, nelle fasi precedenti, dalla regola dell’art. 167 legge fall., sicché l’imprenditore può compiere qualsiasi tipo di atto senza necessità di autorizzazione, con l’unico limite di indirizzare l’attività d’impresa alla realizzazione del piano”;
- Tribunale Padova, 29 luglio 2015, secondo cui il debitore “deve operare nel rispetto del piano; in questa fase, il tribunale non è munito di poteri autorizzativi ed il suo ruolo è limitato al controllo, tramite il commissario giudiziale, dell’attività gestoria svolta dagli amministratori”;
- Tribunale Siracusa, 28 aprile 2023, secondo cui, con riferimento all’ipotesi di adesione alla c.d. “rottamazione quater” nella fase di esecuzione “la società debitrice, con l’omologazione del concordato, ha riacquisito la piena disponibilità del suo patrimonio, fatta eccezione per i beni sottoposti a liquidazione; che pertanto la disciplina fallimentare consente alla società di assumere le proprie determinazioni senza necessità di autorizzazione e/o nulla osta da parte degli organi giudiziari, fermo restando l’obbligo della debitrice di dare completa e puntuale esecuzione alla proposta concordataria e di non compiere atti che possano recare pregiudizio ai creditori” ([14]).
A fronte di questo quadro, va segnalato che, di recente, si è espresso in senso contrario il già citato Tribunale Genova, 27 giugno 2023, il quale, nel ritenere legittima la modifica all’esecuzione del piano già omologato, ha ritenuto doverla subordinare alla propria autorizzazione (cfr. la precedente nota 2 a piè di pagina).
Su una posizione ulteriormente sfumata e peculiare si colloca, infine, l’autorevole Tribunale Milano, 17 novembre 2022, secondo cui “In considerazione del nesso esistente tra piano e proposta – la proposta è infatti approvata dai creditori in base ad un piano – può discutersi delle condizioni in presenza delle quali, pur di adempiere alla proposta, il concordante possa modificare il piano, ma la proposta approvata e omologata costituisce comunque la regola (art. 1372 c.c.) dei rapporti tra debitore e creditori anteriori”. 
Per l’effetto, ne consegue che “Una volta cristallizzato il rapporto tra creditori e debitore con l’omologazione del concordato, infatti, la proposta di trattamento ai creditori – quantomeno con riferimento al tempo, alla misura e alle modalità di soddisfacimento – non può più essere oggetto di ulteriori interventi: non da parte del Tribunale, che ha il potere di omologare, sussistendone le condizioni di legge, il concordato e non di espropriare ai creditori i diritti, se del caso già falcidiati, come sanciti nella proposta concordataria; non da parte del giudice delegato i cui poteri sono limitati dal decreto di omologazione sempre al fine di dare attuazione alla proposta concordataria; non da parte del Comitato dei Creditori i quali esercitano poteri di vigilanza, ma che non possono disporre dei diritti dei creditori concorsuali; non da parte degli stessi creditori concorsuali i quali individualmente possono solo scegliere se, nonostante gli eventuali inadempimenti riscontrati, agire o meno per la risoluzione del concordato, senza che in alcun luogo sia prevista la possibilità di una loro convocazione per esprimere la loro eventuale adesione alla modifica della proposta concordataria”
In definitiva, pare di poter concludere come anche la citata pronuncia non indichi possibili interventi modificativi ad opera del Tribunale.

Note:

[1] 
Anche la dottrina più rigorosa, che in linea di principio tende a ricomprendere il piano tra gli elementi non modificabili, non manca di valorizzare la preminente rilevanza del soddisfacimento della proposta. In tal senso cfr. quanto chiaramente argomentato da A. Rossi, L’esecuzione del concordato di risanamento, tra governance e conflitti, in Fallimento, 2017, 1005 e ss. ed in specie 1011, secondo il quale “se un piano non è più in grado di conseguire l’obiettivo dell’adempimento delle obbligazioni concordatarie o si sta rivelando dannoso per la società e dunque anche per i suoi creditori (non solo anteriori ma anche successivi al deposito della domanda di concordato), gli amministratori non solo avranno il potere ma saranno altresì tenuti a dirottare dallo stesso, per adottare le opzioni gestionali funzionali a ridurre il possibile pregiudizio per i creditori stessi. Addirittura, se la continuità soggettiva genera perdite, gli amministratori dovranno provocare l’interruzione dell’attività d’impresa, se non anche lo scioglimento della società, come peraltro suggerito dallo stesso ultimo comma dell’art. 186 bis l.fall. In questa ipotesi, dunque, lo scostamento sarà perfettamente legittimo ed anzi doveroso, coerentemente con quel dovere di discontinuità che caratterizza sempre l’operato degli amministratori al sopravvenire di uno stato di crisi e che impone loro di reagire prontamente alla modifica del contesto di riferimento della loro attività gestionale”.
Sul punto, inoltre, cfr. ex pluribus A. Zanardo, La rinegoziazione del concordato preventivo tra vecchie e nuove sollecitazioni, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2021, 913 e ss., la quale esplora, anche con esaurienti citazioni – i possibili scenari successivi all’omologazione; G. La Croce, La fase successiva all’omologazione del concordato: quali vincoli alla gestione dell’impresa?, in ODC Milano (a cura di G. Rocca – G. Acciaro), Quaderno dott. comm. n. 75, febbraio 2018, Il concordato con continuità aziendale, 58 e ss..
Peraltro, con riferimento alle modifiche in seno agli accordi di ristrutturazione dei debiti, cfr. M. Arato, Modifiche all’accordo di ristrutturazione dei debiti e nuovo controllo giudiziario, in Fallimento, 2012, 209 ss., il quale – correttamente, ad avviso di chi scrive – adotta un approccio casistico ed analizza le varie situazioni possibili in ragione della c.d. “gravità” dello scostamento.
[2] 
Questo principio ha trovato un significativo conforto, ad esempio, nel recentissimo Tribunale Genova, 27 giugno 2023, che ha autorizzato la modifica all’esecuzione del piano omologato, giudicandola legittima ed attuabile.
Più nel dettaglio, da un piano che prevedeva la continuazione dell’attività d’impresa, si passava ad una soluzione contemplante la cessione dell’azienda, atta a realizzare istantaneamente il fabbisogno finanziario complessivo di cui alla proposta. Ebbene, il Giudice genovese ha affermato che “per le ipotesi di impossibilità delle modalità di adempimento originariamente proposte ai creditori il debitore non solo può, ma deve mettere in campo tutte le risorse possibili per adempiere in concreto alla proposta approvata dai creditori”.
In definitiva, quindi, par di poter concludere che, ferma la proposta, rispetto al piano il debitore può operare una serie di modifiche anche di significativo rilievo, funzionalmente all’adempimento della proposta: in questa ottica, il debitore non solo “può”, ma anche “deve” mutare le modalità attuative del concordato (id est, dalla prospettiva di continuità a quella liquidatoria), laddove ciò conduca – quale approdo finale – alla soddisfazione dei creditori.
[3] 
Senza alcuna pretesa di esaustività, sul concetto di business judgment rule – e solo per soffermarsi agli scritti più recenti – cfr. ad esempio: P. Montalenti, Il Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, atti XXXIII Convegno di studio Courmayeur, 20-21 settembre 2019, in Crisi d’impresa, prevenzione e gestione dei rischi; nuovo codice e nuova cultura; V. De Sensi, Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Riv. Soc., 2017, 311 ss.; Id., Adeguati assetti e business judgment rule, in Dirittodellacrisi.it, 16 aprile 2021; L. Benedetti, L’applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Riv. Soc., 2019, 413 ss., il quale offre un’amplissima serie di citazioni giurisprudenziali e bibliografiche; G. La Croce, La fase successiva all’omologazione del concordato: quali vincoli alla gestione dell’impresa?, in ODC Milano (a cura di G. Rocca – G. Acciaro), Quaderno dott. comm. n. 75, febbraio 2018, Il concordato con continuità aziendale, 60. 
[4] 
Insomma, il principio della business judgment rule è immanente nella valutazione delle scelte gestorie e dovrà ispirare il giudizio sulle scelte adottate dall’organo amministrativo nella gestione della crisi. 
Sul punto, si veda ad esempio V. De Sensi, Adeguati assetti e business judgment rule, cit., 6, il quale ben mette in luce la valenza della business judgment rule in seno al diritto societario ed al diritto della crisi, in specie con riferimento agli adeguati assetti: “non solo la rilevanza di una valutazione prospettica, che assume una ragionevole attendibilità a seguito di un attento, puntuale e prudente vaglio delle informazioni disponibili, ma anche l’importanza a questo fine della pianificazione degli interventi da adottare: pianificazione che ricorda molto il contenuto dell’art. 2381 c.c., dal momento che la predisposizione tempestiva degli interventi correttivi dei fattori di crisi presuppone l’attitudine del management quantomeno a pianificare criteri di azione. La declinazione dell’interesse sociale in termini procedimentali, è quindi condizionato dall’esame consapevole ed informato di tutte le variabili in un determinato contesto operativo, nonché la sua visione concreta condizionata dall’attenzione per la continuità aziendale, sono tutti fattori di valorizzazione della ormai imprescindibile funzione degli adeguati assetti”.
Cfr. inoltre – anche per una ampia ricostruzione “storica” ed in punto ratio legis, con specifiche connessioni alle norme del Codice Civile, non senza accenti di problematicità verso la attuale formulazione letterale – A. Rossi, Dagli assetti organizzativi alla responsabilità degli organi sociali nel Codice della crisi (Appunti per una lezione), in Dirittodellacrisi.it, 13 giugno 2023.
Per completezza, va peraltro notato che anche la dottrina maggiormente restia a riconoscere l’applicabilità della business judgment rule all’adozione di idonei strumenti (cfr. per tutti le ricchissime note a piè di pagina in L. Benedetti, Op. cit., n. 24, 423 e 424, e n. 67, 437 e 438, che enucleano i principali sostenitori di tale impostazione esegetica), non manca di rilevare che la scelta in ambito di adeguati assetti gode comunque di ambiti di estrema flessibilità e discrezionalità.
[5] 
Sui doveri di comportamento degli amministratori nelle situazioni di difficoltà economica, si veda quanto efficacemente illustrato da Assonime, Circolare 21 novembre 2022, n. 27, in specie par. 4. 
Inoltre, utile nell’affrontare questo profilo – raccordandolo alle novità introdotte dal D.Lgs. n. 14/2019, profilo che sarà sviluppato nel prosieguo – risulta ancora Assonime, Guida al Codice della Crisi, 14 dicembre 2022, 24 e ss.: “Con riguardo ai doveri di intervento, l’articolo 2086 del Codice civile impone agli amministratori l’obbligo di attivarsi per adottare e attuare uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e per il recupero della continuità aziendale. Tale dovere di attivazione – per effetto dell’introduzione del nuovo istituto della composizione negoziata – si estende, tuttavia, anche al verificarsi di quelle situazioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile una situazione di crisi. L’organo amministrativo, in attuazione di un principio di corretta gestione societaria, è dunque tenuto a valutare e ad attivarsi in uno spettro di situazioni di difficoltà dell’impresa che vanno dalla pre-crisi sino all’insolvenza, secondo una valutazione discrezionale dello strumento più adatto alla situazione concreta.
In particolare, nella situazione di pre-crisi l’organo amministrativo potrà ricorrere agli istituiti di natura privatistica previsti dal Codice civile o dall’autonomia privata secondo i criteri di comune discrezionalità imprenditoriale, oppure accedere al percorso della composizione negoziata della crisi. In caso di crisi o insolvenza, la scelta riguarderà, invece, uno dei diversi strumenti previsti dal Titolo IV del Codice, ferma restando la possibilità di ricorrere alla composizione negoziata della crisi purché ricorrano ragionevoli prospettive di risanamento”.
[6] 
Ex multis, si veda ad esempio il recente Tribunale Roma, 15 settembre 2020, che giova riportare estesamente: “… è necessario chiedersi se la regola della business judgment rule, nata e sviluppatasi con riferimento alle scelte imprenditoriali degli amministratori, possa applicarsi alle scelte «organizzative» da essi poste in essere. Come già ritenuto da questo Tribunale (cfr. Trib. Roma, 8.4.2020 RG n. 8159-1/2017), a tale domanda deve darsi risposta affermativa, partendo proprio dalla formulazione del già citato art. 2381 c.c., che pone a carico degli amministratori il dovere di curare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. In tale prospettiva, in estrema sintesi, devesi evidenziare che la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all'espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. E va da sé che tale obbligo organizzativo può essere efficacemente assolto guardando non tanto a rigidi parametri normativi (non essendo enucleabile dal codice un modello di assetto utile per tutte le situazioni), quanto ai principi elaborati dalle scienze aziendalistiche ovvero da associazioni di categoria o dai codici di autodisciplina. Così, come è stato efficacemente affermato, l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell’adeguatezza e, dunque, una clausola elastica, al pari, della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale. In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità e ciò pur sempre nella vigenza dei limiti sopra esposti e, cioè, che la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell'incarico”.
Per alcuni rilievi critici sulla pronuncia de qua, cfr. A. Rossi, Dagli assetti organizzativi, cit., 11.
[7] 
Sul concetto di “viability” cfr., senza pretesa di esaustività alcuna, S. Leuzzi, L’omologazione del concordato preventivo in continuità, in Dirittodellacrisi.it, 16 febbraio 2023, in specie par. 3.8; Id., Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, 12 settembre 2022; P. Bastia, La sostenibilità economica nel concordato in continuità aziendale, in Ristrutturazioni aziendali, 15 giugno 2023, in specie 15 e ss.; R. Ranalli, Alcune riflessioni aziendalistiche sulla viability of the business della direttiva Insolvency, con particolare (ma non esclusivo) riguardo al concordato in continuità, in Dirittodellacrisi.it, 2 gennaio 2023.
[8] 
La dottrina, secondo la quale il piano rappresenta una sorta di “totem” tendenzialmente immutabile, ritiene altresì come le modifiche rivelatesi “peggiorative” portino poi a responsabilità degli amministratori non rimediabili dalla guarentigia della business judgment rule: con tali azioni, infatti, gli amministratori “si pongono al di fuori della copertura protettiva della business judgment rule e risponderanno del danno che i creditori eventualmente subiranno, a seguito dell’eventuale (e inaspettato) inadempimento delle obbligazioni concordatarie (ciò che, peraltro, potrà altresì determinare la risoluzione del concordato)” (così A. Rossi, L’esecuzione del concordato, cit., 1013).
[9] 
Su tale disposizione vedi M. Fabiani – G.B. Nardecchia, Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. Formulario commentato, Milano, 2023, 2984 e ss.; G. Casaroli, Disposizioni penali. Commento al Titolo IX, in A. Maffei Alberti (a cura di), Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa ed insolvenza, Milano, 2023, 2288 e ss. ed in specie 2400 e ss.; A. Mangione, Disposizioni penali. Commento al Titolo IX, in F. Santangeli (a cura di), Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, Milano, 2023, 1533 ss.
[10] 
Interessante la casistica concreta offerta dalla pronuncia con riferimento al caso di specie: “In questo senso sono state considerate gravemente imprudenti nella pronunzia testé citata, alcune operazioni negoziali poste in essere da una società in stato di dissesto, e precisamente : a) la locazione dell'intera azienda in favore di altra società, che non offriva peraltro serie garanzie di solvibilità, e per un canone locativo di gran lunga inferiore rispetto al valore dei beni locati; b) un contratto estimatorio mediante il quale la merce di magazzino era immediatamente consegnata all'altra società, con facoltà per quest'ultima di acquistarla per sé, venderla a terzi o restituirla alla controparte; c) una cessione di contratti relativi a beni oggetto di locazione finanziaria detenuti dalla stessa società cedente”.
[11] 
Per un primo inquadramento sull’art. 166, si vedano: M. Fabiani – G.B. Nardecchia, Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. Formulario commentato, Milano, 2023, 1864 e ss.; L. Carrioli, Commento art. 166, in A. Maffei Alberti (a cura di), Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa ed insolvenza, Milano, 2023, 1266 e ss.; M. Bellomo, Commento art. 166, in F. Santangeli (a cura di), Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, Milano, 2023, 946 ss.
[12] 
Tale esigenza, di specifica individuazione degli atti che godono dell’esenzione da revocatoria, si trova ancora più marcata nell’ambito dei piani di risanamento (si vedano congiuntamente gli articoli 56 e 166 del Codice della Crisi). In tale ambito, infatti, “il piano deve avere data certa” e, soprattutto, “gli atti unilaterali e i contratti posti in essere in esecuzione del piano devono essere provati per iscritto e devono avere data certa”. Considerando che anche nel piano attestato godono di esenzione gli atti “in esso indicati”, appare evidente che le azioni coperte da esenzione da revocatoria nell’ambito dei piani attestati devono essere, in via preliminare, individuate e, poi, specificamente convalidate e documentate, non essendo più sufficiente un piano “generale” che individui un fascio di atti di esecuzione del piano attestato.
[13] 
Per una convincente esegesi normativa in materia, cfr. A. Zanardo, Op. cit., 938 ss., la quale pare abbracciare la ricostruzione attenta al sistema di cui sopra.
Con specifico riferimento alle variazioni quali “reazioni” rispetto alla crisi pandemica, cfr. anche A. Guiotto, Il ruolo del commissario giudiziale nei concordati preventivi influenzati dalla pandemia da Covid-19, in Fallimento, 2020, 1029.
[14] 
Le conclusioni cui addiviene il Tribunale di Siracusa muovono dalle seguenti premesse, che giova proporre nella loro integralità: “Con l’omologazione si esaurisce la procedura di concordato preventivo, aprendosi una fase meramente esecutiva, durante la quale il debitore riacquista la disponibilità del proprio patrimonio e la sua gestione, secondo le modalità e le regole previste nel piano, senza necessità di un’autorizzazione del giudice delegato o del tribunale nel caso in cui intenda compiere un atto sia di ordinaria che di straordinaria amministrazione. Le uniche limitazioni cui soggiace il debitore sono quelle imposte dall’esecuzione del concordato, ossia quelle derivanti dalla necessità di conformarsi agli obblighi assunti verso i creditori sociali; durante la fase esecutiva il debitore deve infatti compiere, sotto la sorveglianza degli organi della procedura, gli atti necessari all’esecuzione del piano di concordato indicati nel decreto di omologazione. Dopo l’omologazione dunque il debitore, salvo il caso di concordato con cessione di beni e salvo il caso di diverse indicazioni contenute nel piano omologato, riacquista la piena capacità dispositiva patrimoniale e la libertà di esercizio dell’attività imprenditoriale, essendo egli libero di compiere qualsiasi atto negoziale, senza bisogno di autorizzazioni e senza comminatorie di invalidità ed inefficacia dell’atto (cfr. Cass. n. 748/1962). 
Durante tale fase, il commissario giudiziale deve sorvegliare, a garanzia di tutti i creditori, l’adempimento degli obblighi concordatari, avendo il dovere di: riferire al giudice delegato ogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio ai creditori; riferire al tribunale se il debitore non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta o ne sta ritardando il compimento; adottare le iniziative per provocare l’intervento del tribunale, ai fini dei provvedimenti di cui agli artt. 137 e 138 l. fall., richiamati dall’art. 186, comma 5, l. fall.”. 
In capo al giudice delegato ed al tribunale residua unicamente un potere di controllo indiretto, in quanto destinatari delle segnalazioni del commissario giudiziale nonché delle iniziative dei creditori dirette ad ottenere l’annullamento del concordato o a provocarne la risoluzione, non potendo tali rimedi essere attivati d’ufficio dal tribunale né dal giudice delegato”.

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