Giudizio di fattibilità e “ragionevole probabilità di impedire l’insolvenza”. Ruolo del giudice e poteri dei creditori*
Alida Paluchowski, Presidente Sezione procedure concorsuali del Tribunale di Milano
14 Febbraio 2022
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Sommario:
1 . Premessa della evoluzione del concetto di fattibilità nel concordato
2 . La distonia fra merito e cassazione: Cass. SS.UU. n. 152/2013
2.1 . La giurisprudenza dopo il 2013. il modificarsi dell’ambito di indagine sulla fattibilità
3 . Il D.L. n. 118 del 2021 conv. in L 147 del 23.10.2021
4 . La decisione di omologa, un diverso concetto di fattibilità
L’indagine e la decisione del Tribunale erano un esempio di tutela degli interessi dei creditori che superava il potere della loro convinzione e che esprimeva il massimo del potere di indagine della proposta nel merito, sia in ordine alla sua realizzabilità sia alla sua convenienza.
La riforma degli anni 2005 - 2006 ha capovolto l’approccio del Pubblico all’economia, essa rappresenta uno svincolo dell’Esecutivo dai doveri di indirizzo dell’economia, maturati sul convincimento, formatosi medio tempore, che le questioni economiche potessero e dovessero essere affrontate e risolte efficacemente dai privati portatori di interessi confliggenti. Alla base vi era la convinzione che fonda le sue radici nella teoria dell’analisi economica del diritto che nel gioco di equilibri che i vari interessi riescono legittimamente ad assumere nella realtà del mercato essi tendono a equilibrarsi in modo sostanzialmente corretto così da consentire a tutti gli interessi che contano di ottenere soddisfazione proporzionale appunto alla loro importanza.
La conseguenza diretta di questo mutamento profondo (che comportava anche il sollievo dall’onere di sostenere economicamente l’economia da parte del potere pubblico) è stata l’arretramento della figura del giudice e del potere giudiziario in generale nelle procedure concorsuali da gestore a controllore di legalità di scelte e condotte poste in essere da altri (il debitore, i creditori, i terzi) che naturalmente avrebbero dovuto avere una griglia di principi certi e immanenti ai quali ispirare le proprie condotte (la buona fede nelle trattative, l’obbligo di non danneggiare i creditori con scelte azzardate ponendo in pericolo le loro garanzie, ecc.). Non ci si può esimere, però dall’osservare che l’ideologia liberista influenzò molto la stesura della riforma ponendo in luce una predilezione, fra i vari interessi contrapposti in gioco, per il debitore, al cui comportamento furono riconosciuti molteplici incentivi, abolendo tendenzialmente le sanzioni, ritenendola una scelta più armonica rispetto all’impostazione della riforma. Ciò ha oggettivamente dato vita a un periodo in cui i creditori meno importanti, i chirografari, dopo avere perso le percentuali minime di riparto, che erano prima del 2005 del 40% e poi divennero indeterminate, furono privati anche della volontà di votare o meno, in quanto si allargò il principio del silenzio assenso del concordato fallimentare, al concordato preventivo [1]. Le percentuali libere, come è ovvio nel libero mercato senza alcun controllo, tesero a minimizzarsi, finché, entrato in vigore l’istituto del concordato con riserva, le proposte di concordato ai creditori allora per il 96% di natura liquidatoria, giunsero a essere caratterizzate da percentuali solo virtuali, in quanto ove fossero state attualizzate avrebbero mostrato la loro vera natura di sostanziale prossimità allo zero.
A questo punto socialmente si è riscontrato un fenomeno di ribellione dei piccoli creditori chirografari, che numericamente erano la stragrande maggioranza dei soggetti che, subendo concordati particolarmente miseri, entravano in crisi a loro volta ed erano costretti a proporre concordati indecenti o fallire.
In esito a questo movimento, cui Confindustria ha dovuto dare voce e spazio, denominato “Io non voglio fallire “dal titolo di un libro che ne fu il manifesto, scritto da una piccola imprenditrice veneta, il governo emise la legge n. 132 del 2015[ 2], denominata dai suoi detrattori “controriforma”. Con essa venne reintrodotto un limite all’offerta del debitore ai creditori chirografari nel concordato liquidatorio pari al 20% ed abolito il silenzio assenso, nel 178 l.f., inoltre per evitare la preparazione di proposte preconfezionate e “bloccate” a favore del debitore che si poteva accordare con terzi per imporre ai creditori una soluzione priva di alternative, non la migliore per loro o per l’impresa, ma la migliore per i suoi interessi, la legge adottò la competitività come chiave di lettura delle attività liquidatorie di qualunque proposta di concordato, rendendo possibili persino proposte concorrenti di concordato da parte di terzi , una volta che il debitore vi avesse acceduto.
La novità introdotta dalla riforma è stata la scissione tra l’ipotesi in cui nel giudizio di omologazione non venissero presentate opposizioni e quella invece in cui le opposizioni si introducessero con ricorso depositato 10 giorni prima dell’udienza fissata dal tribunale.
Quando non vi erano opposizioni, il tribunale doveva limitarsi, si affermava usualmente, alla verifica della procedura sotto il profilo della sua legalità, al controllo dell’esito del voto e poi doveva procedere alla omologazione [3]). La suprema Corte puntualizzava che il tribunale è privo del potere di valutare d’ufficio il merito della proposta di concordato preventivo perché tale potere appartiene solo ai creditori e solo in caso di dissidio tra i medesimi in ordine alla fattibilità, denunciabile attraverso l’opposizione all’omologazione, il tribunale, preposto per sua natura alla soluzione dei conflitti, poteva intervenire risolvendo il contrasto con una valutazione di merito in esito a un giudizio in cui le parti contrapposte potevano esercitare appieno il loro diritto di difesa.
Ciò escludeva in ogni caso che, pur di fronte a un piano privo di qualunque attitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati, ove l’attestatore avesse invece concluso in modo diverso, il tribunale potesse rifiutare di procedere all’omologa, in quanto il suo potere di indagine e sulle condizioni di ammissibilità della procedura, valutate ai sensi dell’articolo 163 l.f., era in questo caso ritenuto inesistente. Serpeggiava tra i giudici di merito la rivendica della possibilità di valutare la fattibilità della proposta anche in sede di omologa e pure in assenza di opposizione, mentre la Cassazione insisteva nell’affermazione della inesistenza di un potere del tribunale poiché, mancando le opposizioni, il tribunale aveva solamente una funzione di presidio di legalità. È evidente che l’orientamento dei giudici di merito era direttamente figlio di quella propensione all’etero tutela sostitutiva ed integrativa da parte del giudice di cui ho detto in apertura, tesa a tutelare gli interessati spesso colpiti da fenomeni di disincentivazione ad assumere iniziative legali di qualunque tipo.
Speculare in qualche modo alla “contrapposizione” che si era verificata tra i sostenitori della soluzione liberistica assoluta e quelli della soluzione liberistica calmierata, si era innestata una evidente distonia fra i giudici di merito ed i giudici di legittimità in ordine al contenuto dei poteri del giudice in sede di omologa e sul contenuto della indagine che poteva essere svolta in quella sede definitiva per la procedura.
Per la Corte di cassazione a sezioni semplici nel 2011, invece, il tribunale era addirittura privo del potere di valutare d’ufficio il merito della proposta sia in sede di ammissione alla procedura, che nel procedimento per l’eventuale revoca [4].Una successiva pronuncia, però, dello stesso 2011, stabiliva che il tribunale poteva invece rilevare d’ufficio eventuali nullità, quali l’illiceità o l’impossibilità dell’oggetto (ad es., incommerciabilità dei beni), e ciò non impediva al medesimo, nel procedimento di omologazione, di verificare, anche d’ufficio, la iniziale o sopravvenuta non fattibilità del piano. [5] Questa pronuncia veniva assunta come orientamento leader della giurisprudenza di merito e stante il contrasto all’interno della stessa sezione prima della Cassazione, la questione veniva rimessa alla Sezioni unite[6].
La pronuncia che ne usciva era vistosamente frutto di un compromesso fra due orientamenti che si contrapponevano anche nel giudice di legittimità. La decisione arcinota, SS.UU. n. 1521 del 2013, si è espressa in termini complessi, prima di tutto affermando che vi è un dovere del giudice in sede di omologa, analogo a quello esistente in ogni altra fase della procedura (di ammissione, di revoca, di omologa) di controllo di legittimità, che si esplica anche sulla fattibilità della proposta di concordato, non risultando questo giudizio escluso da un diverso giudizio dell’attestatore, mentre è riservata solo ai creditori la valutazione di merito che riguarda la probabilità di successo economico ed i rischi inerenti “l’operazione concordato” nel suo complesso , espressione che si riassume comunemente nel termine: “convenienza”.
Il contenuto del controllo di legittimità si realizzava attraverso la verifica della realizzabilità della causa concreta del concordato. La causa concreta, categoria introdotta per la prima volta in una procedura e, quindi al di fuori dell’ambito ordinario negoziale andava intesa «come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro». La soluzione accolta dalla Suprema Corte creava una soluzione binaria, che mantenendo ai creditori una posizione di primo piano purtuttavia recuperava il giudice ad un ruolo maggiormente attivo rispetto a quello del notaio. Infatti, al tribunale veniva riconosciuta la possibilità di valutare – già dalla fase di ammissione – la fattibilità giuridica, con la possibilità quindi di operare una valutazione circa la sussistenza di eventuali violazioni di norme inderogabili, che potessero incidere sulla concreta realizzabilità della proposta. Tale valutazione poteva e doveva essere ripetuta anche in sede di omologa attraverso la individuazione della causa concreta del negozio proposto ai creditori. Il mezzo attraverso il quale la valutazione era compiuta era la ricerca ed il controllo della causa contrattuale del concordato che variava, ovviamente a seconda di come il concordato era concepito, vista la atipicità di base della sua conformazione. Il concordato inammissibile e illegittimo diveniva quello in cui il negozio era palesemente inidoneo, quindi, a realizzare la causa concreta cui le parti tendevano cioè a superare la crisi da un lato, soddisfacendo in qualche misura anche modesta e parziale, il diritto dei creditori in tempi ragionevoli, dall’altro lato[7].
Pacificamente non vi era una percentuale obbligatoria minima, né vi era obbligo, di corrispondere davvero quella percentuale proposta in caso di concordato liquidatorio, salvo che vi fosse garanzia in tal senso del debitore.
Perciò gli elementi su cui l’esame in sede di omologa poteva appuntarsi anche in caso di mancanza di opposizioni erano l’assenza di violazioni di norme inderogabili, e la presenza della causa giuridica ovvero la idoneità o meglio non manifesta inidoneità del concordato a superare la crisi (attraverso la ristrutturazione dei debiti) in qualsiasi forma, soddisfacendo parzialmente ed anche in misura modesta i creditori, ma in tempi ragionevoli, che divenivano, pertanto anche essi un aspetto della idoneità del procedimento che poteva legittimare il rifiuto di omologa .
Questo tipo di concordato è l’estrema ratio per evitare la liquidazione giudiziale-fallimento ed è molto difforme da quello ordinario, non ha una attestazione, non ha un momento di ammissione vero e proprio, non ha un commissario giudiziale, perché l’amministrazione ordinaria e straordinaria rimangono in mano all’imprenditore, non ha una votazione dei creditori con la relativa adunanza, perché non è richiesta la loro volontà; esso appare infatti intimamente un procedimento coattivo, ispirato a quello delle amministrazioni straordinarie o delle liquidazioni coatte amministrative. Con chiaro parallelismo con quelle ipotesi vi è chi sorveglia e tutela degli interessi dei creditori che non possono votare, affinché non siano inutilmente lesi. Il controllo non può che essere giurisdizionale e si svolge quindi in fase di omologa.
Tra gli scopi della creazione e formulazione di questa procedura vi è quello di ridurre all’osso i tempi (si pensi che prima deve essere stata tentata infruttuosamente la composizione negoziale e quindi possono essere passati dai 120 ai 240 giorni, durata massima delle procedure protettive e cautelari degli artt. 6 e 7 del d.l. n. 118) e i costi, infatti la commissione ha preso atto che le procedure giurisdizionali hanno costi rilevanti per attestatori, per advisors esperti, consulenti, periti, commissari e liquidatori. L’alzare l’asticella della indagine e la qualità della attestazione secondo l’indagine della commissione riferita dal Prof. Stanghellini che mi ha preceduto porta ad una fuga dal Tribunale da parte delle imprese in crisi, che temono anche l’eccesso di analisi delle decisioni. Lo strumento dovrebbe essere eccezionale, destinato a ipotesi di crisi irresolubile con l’ordinario concordato che ha soglie di soddisfazione dei creditori troppo alte ed è teso al raggiungimento del best interest per i creditori. Qui il meccanismo è sostanzialmente a contraddittorio posticipato e assicura che l’operazione non sia più dannosa per i creditori rispetto alla soluzione liquidatoria fallimentare che evita. Alcuni opportuni aggiustamenti occorsi in sede di conversione alla stesura originaria del d.l. n. 118 [16] rassicurano che l’idea di fondo sia quella di uno strumento ad utilizzo molto delimitato, così da fugare i timori in ordine alla possibilità di strumentalizzare la stessa composizione negoziata come un semplice escamotage preparatorio alla vera volontà di convogliare i creditori all’interno di un concordato semplificato perché sostanzialmente coattivo e senza soglie minime.
L’art. 18, così come modificato dalla legge di conversione, specifica che quando l’esperto nella relazione finale dichiara che le trattative si sono svolte secondo correttezza e buona fede ma, ciò nonostante, non hanno avuto esito positivo ed altresì dichiara che le soluzioni individuate non sono praticabili, allora si verifica la condizione che legittima la presentazione di una proposta di concordato semplificato che il legislatore definisce per cessione di beni; esso deve essere accompagnato da un piano di liquidazione e dagli stessi documenti indicati nell’art. 161, secondo comma, lettere A, B, C e D della legge fallimentare. L’imprenditore chiede l’omologazione del concordato con un ricorso presentato al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede [17], ricorso che va comunicato al pubblico ministero e pubblicato a cura del cancelliere nel registro delle imprese entro il giorno successivo al suo deposito in cancelleria.
Dalla pubblicazione della notizia della presentazione del ricorso sul registro delle imprese si producono gli effetti tipici degli artt. 167, 168, 169 e del 111, in ordine alla prededucibilità.
Il tribunale, a questo punto, inizia una fase che si può definire istruttoria (visto che non vi è mai stata ammissione) e deve valutare numerosi aspetti della domanda presentata avvalendosi degli strumenti esistenti.
In primo luogo, esamina la ritualità della stessa, ovvero che sia stata presentata dopo che è stata tentata una seria composizione negoziale, la quale pur tuttavia non ha avuto esito positivo. Questo tipo di controllo avviene attraverso l’acquisizione della relazione finale di cui al comma uno dell’articolo 18 redatta dall’esperto all’esito della composizione negoziale negativa. Nel protocollo allegato al decreto dirigenziale al punto 14,7 si afferma che quando in esito alle trattative non sia stato raggiunto alcun accordo con le parti interessate l’esperto può riportare nella relazione finale la propria opinione sulla praticabilità tra gli esiti di cui all’articolo 11 di una soluzione concordata della crisi.
Se il tribunale lo ritiene, per poter interpretare gli elementi della relazione finale dell’esperto e le risposte del medesimo riferite nel parere, potrà nominare un ausiliario ex art. 68 c.p.c. che però non equivale al commissario giudiziale [18] e non ne ha i penetranti poteri, circostanza che il legislatore della riforma pare voler evitare; è un consulente tecnico d’ufficio iscritto agli albi del tribunale che giura, con capacità contabili ed amministrative, conoscenze commercialistiche e di bilancio, capace di valutare un’azienda, di esaminare un budget o un piano industriale. Ciononostante, per la disciplina, la legge ha dovuto poi fare riferimento agli artt. 173, 184, 185, 186, 217-bis e 236 l.f., affermando che devesi sostituire alla figura del commissario giudiziale quella dell’ausiliario.
L’aiuto dell’ausiliario, di tipo sostanzialmente tecnico scientifico, serve non solo a superare i limiti della capacità aziendalistica del giudice delegato, ma a valutare le affermazioni sia dell’esperto che del debitore, e, come si vedrà, può essere utilizzato anche oltre il primo parere previsto dall’art. 18, quarto comma, probabilmente per valutare anche le affermazioni degli eventuali soggetti opponenti nel procedimento di omologazione.
L’opposizione può essere proposta da qualunque creditore e da qualsiasi interessato, senza limitazioni numeriche o di percentuale, i quali si devono costituire, come nel concordato ordinario nel termine perentorio di 10 giorni prima dell’udienza fissata dal tribunale.
Le condizioni perché l’omologa possa essere pronunciata riguardano innanzitutto il controllo di legalità e quindi la regolarità del contraddittorio e del procedimento, invece con riferimento al merito vi sono alcune condizioni che influenzano in tutta evidenza il concetto di fattibilità che è alla base della omologabilità di questo particolare tipo di concordato. In primo luogo, il rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione ed anche, in caso di suddivisione in classi, la correttezza e legittimità della determinazione delle stesse. La sussistenza della cosiddetta “fattibilità del piano di liquidazione”, cui è consustanziale l’accertamento che la proposta non arrechi pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare e che, naturalmente la proposta assicuri a ciascun creditore una utilità facilmente apprezzabile.
In apparente contrasto concettuale con quanto auspicato nella relazione che mi ha preceduta sulla necessità di abbassare l’asticella dell’intensità dell’indagine giurisdizionale, la commissione, a mio avviso, ha recuperato nella funzione giurisdizionale del Tribunale un’ampiezza di poteri che è addirittura pari a quella esistente in epoca antecedente alla riforma del 2006, probabilmente perché esso, nei limiti precisi indicati dalla norma, opera come garanzia sostitutiva della partecipazione di ciascun creditore al procedimento concordatario. [19] Il legislatore pur avendo assoluta contezza di tutte le problematiche che hanno portato alla pronuncia della sentenza SS.UU. n. 1522 del 2013, non ha differenziato il tipo di fattibilità cui il tribunale deve indirizzare la sua disamina. In altre parole, non ha indicato come limite della disamina sulla fattibilità l’indagine sulla causa concreta del negozio, e non ha ripreso la differenziazione fra fattibilità giuridica e fattibilità economica del negozio. Non l’ha fatto probabilmente perché quello in parola non è affatto un negozio, trattandosi sostanzialmente di una procedura coattiva, nella quale è il tribunale a dover garantire che la stessa non sia una soluzione deteriore rispetto a quella fallimentare. Quindi probabilmente non ha alcun senso in questa sede distinguere fra fattibilità giuridica e fattibilità economica. D’altra parte, sia l’esperto che l’ausiliario sono in grado di esprimersi competentemente in tema di fattibilità economica della proposta e il tribunale, dovendo accertare che la soluzione non sia pregiudizievole per i creditori, ha una indicazione ben precisa di quale deve essere la soglia economica al di sotto della quale la proposta non può andare, a differenza di quello che avviene nel concordato ordinario. La soglia del pregiudizio è quella economica realizzabile in sede di liquidazione fallimentare, in merito alla quale può essere condotta l’indagine se la soluzione liquidatoria offerta dall’imprenditore assicura un risultato identico o migliore, perché in caso diverso la proposta non può trovare omologazione. L’indagine sulla mancanza di pregiudizio non si sostanzia in una valutazione bilanciata tra il pregiudizio delle ragioni dei creditori e la prosecuzione dell’attività di impresa, in quanto c’è un limite ben preciso indicato dalla legge della valutazione di convenienza che è in definitiva indipendente dalla valutazione della continuità. La valutazione che il tribunale può dare della liquidazione fallimentare, oltre ad essere aiutata dal parere dell’esperto e dell’ausiliario, dovrà tenere conto del fatto che non vi è una norma di retrodatazione del periodo sospetto della revocatoria [20]al momento della nomina dell’esperto o al momento del deposito della proposta di concordato semplificato, cosicché una serie di vantaggi che il concordato ordinario realizza attraverso la consecuzione di procedure in questo caso non è ravvisabile.
La fattibilità che va valutata in questa sede è la realizzabilità della proposta di liquidazione proposta dal debitore. La complessità del giudizio rispetto al concordato ordinario è decisamente minore non dovendosi valutare un piano di continuità che ha anni di sviluppo, ma esclusivamente una operazione di alienazione, che poggia sulla attendibilità della valutazione del complesso aziendale, per il quale vi sarà una perizia e sulla idoneità delle garanzie di adempimento da parte dei soggetti che hanno formulato le offerte o sono stati individuati come acquirenti.
Recuperando qui il tema generale della fattibilità e della sua evoluzione osservo che la comparazione che sostiene il giudizio è ridotta di entità e semplificata concettualmente, perché non è chiesto il best interest ma una soluzione non deteriore rispetto a quella liquidatoria fallimentare, in presenza della quale l’eventuale opposizione risulta infondata perché non vi è esproprio delle ragioni creditorie, ma semplicemente la preferenza del legislatore per una scelta di continuità indiretta rispetto a quella liquidatoria fallimentare atomistica. Nell’ottica dello strumento di utilizzo limitato nel tempo e nelle ipotesi di cui si è detto più sopra, pertanto, si tratta di una scelta opportuna e chiarificatrice, condivisibile ad una analisi più attenta.
Note: