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Saggio

Brevi spunti intorno alle “variazioni” del piano concordatario nella fase post omologazione – Parte I*

Renato Bogoni ed Emanuele Artuso, Dottori Commercialisti in Padova

23 Ottobre 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Visualizza la "Parte II" cliccando qui


Il presente scritto intende esplorare la vexata quaestio delle “variazioni” relative alla proposta ed al piano, cercando di valorizzare i dati normativi presenti nell’ordinamento ed i principi immanenti la materia contrattualistica e concorsualistica, filtrati attraverso il vaglio giurisprudenziale.
Riproduzione riservata
1 . Premessa: le “variazioni” nel percorso gestionale dell’imprenditore, sotto l’indefettibile lente aziendalistica
Le odierne riflessioni muovono – anzitutto – dal dato empirico ed anelano a ricostruire un quadro normativo ed interpretativo intorno al tema delle possibili “variazioni” ([1]) da apportare al percorso gestionale della società, rispetto alle determinazioni contenute nell’originario piano concordatario; ciò, in specie, con riferimento alla fase dell’esecuzione. 
Dalla ricognizione così effettuata si muoverà – in un secondo, prossimo contributo – verso l’analisi degli effetti, in capo al debitore, derivanti dalla predisposizione (o meno) delle suddette variazioni. 
In questa prospettiva, in primo luogo sia consentita una considerazione fondata su una base fattuale: sovente, successivamente all’omologa, le scelte gestionali seguono percorsi – almeno in parte – diversi rispetto a quanto tratteggiato nel piano industriale esposto nel progetto concordatario originario. 
Tali scostamenti sono dettati dalla necessità di adeguare gli elementi previsionali di partenza all’evoluzione delle “reali” vicende economiche, industriali, finanziarie del debitore: infatti, l’esecuzione di un piano industriale in ambito concorsuale non ne varia comunque il contesto aziendalistico di riferimento (in termini se vogliamo semplicistici, infatti, il debitore continua comunque a svolgere la propria specifica attività, in attuazione dell’oggetto sociale). Ed invero, anche in una situazione di “normalità” (non quindi nella “straordinarietà” della crisi), l’adozione di un corretto assetto organizzativo impone alle imprese ([2]) di pianificare la propria attività tramite la redazione di budget annuali, che si incasellano all’interno di piani industriali pluriennali, normalmente triennali o quinquennali, che delineano il progetto industriale pianificato dal management e consentono allo stesso di dirigere l’impresa in modo ordinato e razionale. Ad evidenza, tali piani industriali non configurano un binario immodificabile nel cui tracciato l’impresa debba essere monoliticamente condotta nel periodo di riferimento, gli stessi essendo oggetto di aggiornamento periodico (in genere annualmente, ma anche in periodi più brevi, a fronte di shock esterni rilevanti, come Covid, eventi bellici, crisi finanziarie impreviste, ecc.), per adattare il progetto aziendale ai mutamenti del contesto economico. 
In concreto, in mancanza di adeguate modifiche al progetto industriale, la società non saprebbe adattarsi all’ambiente economico in cui opera e sarebbe destinata ad essere superata dai concorrenti più dinamici e flessibili. 
Insomma, l’ambito concordatario non muta ciò che già avviene “in natura” nel contesto economico aziendale in cui l’impresa vive e si sviluppa, pertanto l’incapacità (o la non volontà/possibilità) di adeguare il percorso gestionale al mutevole contesto determinerebbe la distruzione di valore, sino anche al risorgere delle situazioni di insolvenza cui lo strumento concorsuale avrebbe dovuto porre rimedio.
La necessità di adeguamento del piano, quindi, almeno da un punto di vista prettamente aziendalistico, ricade pacificamente nell’alveo della fisiologia e delle ordinarie dinamiche economiche, risultando semmai maggiormente complessa laddove essa si collochi in seno ad una procedura.
2 . Le “variazioni” nella prospettiva giuridica: “proposta” vs. “piano”
Da un punto di vista giuridico, quanto prima affermato impone di verificare i vincoli posti dalla normativa concorsuale alle modifiche degli accordi raggiunti con i creditori e, anticipando quanto si dirà nel prosieguo, impone di cogliere le peculiarità poste dal dettato normativo ed in specie dall’art. 87, Codice Crisi, che cesella il diverso (ma complementare) ambito di operatività di “proposta” e “piano”. Si tratta, insomma, di comprendere “cosa” è oggetto di modifica.
Come noto, infatti, si prevede (comma 1) che il debitore presenti, insieme con la proposta, un piano recante: (i) le modalità di ristrutturazione dei debiti (lett. d) e (ii) la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta (lett. e) nonché, (iii) in caso di concordato in continuità, il piano industriale con l’indicazione degli effetti sullo stesso e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria (lett. e) ed, infine, (iv) ove sia prevista la prosecuzione diretta dell’attività, l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e la modalità di copertura (lett. f).
Sul punto, non essendo questa la sedes materiae idonea per affrontare siffatto, amplissimo tema, rinviando per comodità espositiva alla nota qui in calce ([3]), ci si limita a rammentare che la proposta reca la rideterminazione del fascio di obbligazioni intercorrenti tra il debitore ed i suoi creditori, mentre il piano contiene le modalità di attuazione, ossia le azioni necessarie a creare le risorse idonee ad adempiere alle obbligazioni concordatarie. 
Come autorevolmente e recentemente affermato anche dalla Corte di Cassazione, “la proposta consiste nel contenuto negoziale del concordato, mentre il piano ha la diversa funzione di illustrare la descrizione analitica delle modalità e dei tempi con cui verrà adempiuta la proposta. La prima consente di comprendere il risultato finale della procedura di risanamento, indica eventuali classi di creditori, con le rispettive percentuali di soddisfo, e la natura della procedura (liquidatoria; in continuità diretta o indiretta, o mista), mentre il secondo pone un’attenzione particolare sul processo industriale (nel caso di continuità) o finanziario (nel caso di liquidazione)” (così Cass. Civ., Sez. I, 22 luglio 2022, n. 22988).
I limiti alla modificabilità della proposta concordataria sono facilmente evincibili (i) sia dalla natura contrattuale del concordato ([4]) e quindi in applicazione del principio secondo cui pacta sunt servanda, (ii) sia dal dato normativo che, a seguito dell’omologa, cristallizza una trasformazione dei diritti dei creditori, legittimati da lì in avanti ad esigere solo quanto il debitore si è obbligato a versare in ragione della proposta concordataria ([5]).
3 . Il discrimine giuridico e temporale decisivo: l’omologazione
Prima di approfondire la possibilità di modificare il piano concordatario, conviene ribadire questa distinzione: lo spazio di variazione del progetto concorsuale assume un assetto ben diverso nella fase anteriore all’omologa, rispetto a quella successiva. 
In specie, nella fase antecedente al suggello dei patti concorsuali impressi dall’omologa, esiste un preciso dato normativo cesellato dall’art. 105 CCII, che prevede espressamente che le proposte concordatarie (i.e. quella del debitore e le eventuali proposte concorrenti) “possono essere modificate (n.d.r.: solo) fino a venti giorni prima della data iniziale stabilità per il voto dei creditori”.
Non è superfluo rammentare che il periodo antecedente all’omologa rappresenta una fase particolarmente critica della procedura, in cui si forma la volontà contrattuale dei creditori. 
In tale ambito, quindi, viene definito un intervallo, che inizia con la presentazione del piano e della proposta ai creditori ([6]), in cui è necessario che il contenuto dell’accordo assuma connotati di stabilità. In maggior dettaglio, appare evidente la necessità di definire un arco temporale in cui la volontà negoziale maturi “a bocce ferme”, senza che la proposta, ma ragionevolmente anche il piano (da poco presentato ai creditori), possano essere ulteriormente modificati.
E in effetti, nell’analisi della disciplina in oggetto, la giurisprudenza della Suprema Corte ha specificato che la definizione di un termine ultimo per la modifica della proposta trova base nella stabilità del piano ([7]) che non potrà essere ulteriormente modificato dal debitore proponente, specificando quindi che, in tale ambito, il termine “proposta” include anche il “piano concordatario” ([8]). Pertanto, tra il citato dies a quo ed il momento dell’omologa lo stesso piano non potrà essere ulteriormente mutato. 
Se ciò, certamente, deve valere per la fase anteriore all’omologa, diversi indici normativi portano a ritenere che successivamente ad essa si possa valutare con maggiore apertura la possibilità di gestire l’azienda mediante opportune variazioni al percorso gestionale già delineato nel piano concordatario “originario”.
Tra questi indici, vale la pena di indugiare su quanto dettato dall’art. 118 Codice Crisi, intitolato “esecuzione del concordato”, che specifica come il commissario giudiziale sorvegli “l’adempimento” dello stesso e riferisca dei fatti dai quali possa derivare un pregiudizio ai creditori, mentre il debitore “è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato”. A tale riguardo, poi, il commissario deve rilevare se il debitore non stia “provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta” o ne stia ritardando il compimento. 
Appare evidente come nella fase successiva all’omologa la normativa ponga particolare attenzione all’adempimento della proposta che rappresenta, in effetti, il fine ultimo dei creditori e, da un punto di vista contrattuale, la soddisfazione del sinallagma dell’accordo concordatario ([9]). 
Nella prospettiva appena tracciata, da un punto di vista sistematico, e considerata la natura contrattuale della procedura concordataria, un elemento saldo appare l’applicabilità dell’art. 1372 cod. civ.: infatti, alla luce del nesso esistente tra proposta e piano – come detto, la prima è approvata dai creditori per mezzo del secondo – la proposta approvata ed omologata costituisce comunque la regola dei rapporti tra debitore e creditori anteriori, assumendo forza di legge. 
Sempre sul piano generale, rileva poi l’art. 1453 cod. civ., stando al quale “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”.
Proprio su queste basi riposa la specifica disposizione concorsualistica recata dall’art. 119, Codice Crisi, laddove (a) consente ai creditori ed al commissario giudiziale di richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento (comma 1) e (b) prevede che il concordato non si può risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza (comma 3). 
In termini se vogliamo semplicistici, da tale norma si ricava che l’adempimento del concordato costituisce obbiettivo primario, una sorta di “stella polare”: per l’effetto, il piano potrà (recte, dovrà) essere modificato ogni qual volta si palesi inidoneo a procurare l’adempimento di quanto recato dalla proposta.
Ancora, va considerato che l’art. 113 prevede la chiusura del concordato con la sentenza di omologazione: pertanto, il debitore torna in piena e incondizionata “libertà d’azione”, il che certifica quanto già affermato, ossia che l’adempimento del piano rappresenta solo il “mezzo” per onorare la proposta (o meglio, il nuovo assetto dei rapporti contrattuali tra il debitore ed i creditori concorsuali).
4 . Focus: la Relazione tematica della Corte di Cassazione, n. 56/2020
Sul punto, devesi ribadire che la giurisprudenza e la dottrina hanno fornito indicazioni prevalentemente orientate (i) alla priorità della proposta e (ii) alla possibilità che le evoluzioni ambientali suggeriscano un adeguamento del piano ([10]). 
A tal proposito, un prezioso strumento interpretativo è costituito dalla Relazione tematica della Corte di Cassazione, 8 luglio 2020, n. 56, che eleva a norma cardine l’odierno art. 119 Codice Crisi (già art. 186 L. fall.), il quale “postula che la variazione in fase esecutiva delle modalità proprie del concordato con continuità aziendale potrà essere ammessa qualora l’aspettativa di soddisfacimento dei creditori sia superiore a quella concretamente attesa dall’alternativa della liquidazione dell’attivo, normalmente in sede fallimentare”.
Di più: la predetta Relazione cristallizza una sorta di (condivisibile) clausola generale. 
Come segue: “Le modifiche del piano reclamano, pertanto, semplicemente un canone di riferimento valutativo. A rappresentarlo è proprio il soddisfacimento dei creditori, che da tempo sembra essersi eretto a “clausola generale” in materia concordataria. Quest’ultimo, oltre a costituire un criterio espresso in talune ipotesi normate, si connota quale componente che, accanto alla “regolazione della crisi”, finisce per integrare la causa concreta della proposta di concordato. In tal guisa, esso pare innalzarsi ad una funzione di orientamento generale nella materia concordataria-ristrutturativa, posto che in ciascuna sua fase o evoluzione non si può che tenere conto delle possibilità di soddisfazione, effettivamente alla portata dell’imprenditore, in funzione della migliore regolazione dei crediti. Il criterio in parola può sovrintendere, dunque, anche alla fase esecutiva della singola procedura minore, in rapporto alle modifiche di piano che dovessero rendersi ivi necessarie”.
Insomma, secondo la lente contrattualistica, il soddisfacimento dei creditori rappresenta la causa concreta della proposta di concordato e, ottenuta l’omologa, si dovrebbe ritenere che le modifiche al piano dirette a rafforzare la capacità di adempiere la proposta dovrebbero essere, non solo possibili, ma anzi dovute ([11]).
In definitiva, si dovrebbe reputare che nella fase esecutiva del concordato la gestione aziendale possa discostarsi dal piano originario in funzione della necessità di adempiere alla proposta concordataria, che rappresenterebbe, invece, l’oggetto dell’adempimento concordatario, che dovrebbe rimanere sostanzialmente immodificabile ([12]).


[1] Ex multis, in questo senso, cfr. S. Leuzzi, L’impatto della pandemia, cit.; G. La Croce, La fase successiva all’omologazione del concordato: quali vincoli alla gestione dell’impresa?, in ODC Milano (a cura di G. Rocca – G. Acciaro), Quaderno dott. comm. n. 75, febbraio 2018, Il concordato con continuità aziendale, 58 e ss.; F. Marelli, La fase di attuazione del concordato con continuità aziendale “diretta”, in ODC Milano (a cura di G. Rocca – G. Acciaro), Quaderno dott. comm. n. 75, 71 e ss.; in una prospettiva più rigida, pare invece A. Rossi, L’esecuzione del concordato di risanamento, tra governance e conflitti, in Fallimento, 2017, 1005 e ss. ed in specie 1012.
Per un esauriente inquadramento delle varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali, oltre che per amplissimi riferimenti bibliografici, si veda il contributo di A. Zanardo, La rinegoziazione del concordato preventivo tra vecchie e nuove sollecitazioni, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2021, 913 e ss.
Infine, per una disamina sistematica e puntuale del giudizio di omologazione si veda il recentissimo e chiarissimo contributo di S. Leuzzi, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo: oggetto, regole, controlli, in www.dirittodellacrisi.it, 9 ottobre 2023, nel quale vengono ampiamente affrontate le regole processuali e sostanziali dell'omologazione del concordato preventivo.
[2] Bisognosa di approfondita risposta e di apposita sedes materiae è la seguente domanda: risultano ugualmente applicabili gli altri rimedi contrattuali alle situazioni di impossibilità di adempiere del concordato (ad esempio, la sopravvenuta impossibilità)? Ad una prima osservazione, la giurisprudenza sembra orientata negativamente, essendo il contenuto della proposta maggiormente “cristallizzato” per effetto dell’omologa (cfr. ad esempio Trib. Milano, 17 novembre 2022).
[3] Resta, al più, la possibilità di indagare se modifiche del contenuto dell’offerta, prive di alcun rilievo sostanziale, siano ammissibili.
In effetti, un marginale spazio per adattamenti alla proposta, fuori dalla valutazione della gravità dell’inadempimento (l’inadempimento lieve non determina la risoluzione del concordato), dovrebbe permanere proprio a fronte delle molteplici configurazioni che può assumere la proposta concordataria.
Tale residua e marginale modificabilità può essere individuata seguendo quanto statuito da Cass., 22 luglio 2022, n. 22988, in cui, seppur con riferimento alla fase anteriore all’omologa, vengono espressi principi che pare possono essere rilevanti anche nella fase esecutiva.
In tale pronuncia viene delineata la differenza tra (i) “nuova proposta”, (ii) modifiche alla originaria proposta (comunque non ammesse) e (iii) variazioni alla stessa non idonee ad incidere sulla qualità della soddisfazione dei creditori: solo queste ultime sarebbero ammissibili.
In particolare “le modifiche integrano una nuova proposta allorquando: i) mutino la natura dell’accordo proposto ai creditori (o meglio, cambino la logica di superamento della situazione di crisi o di insolvenza nella quale versa la società)” tanto che i creditori “alla luce delle modifiche introdotte, non possono più fare affidamento sull’assetto originario, per essere cambiate le caratteristiche fondamentali della proposta (…) laddove mutino elementi della proposta che vadano ad incidere sull’impianto “satisfattorio” del ceto creditorio, quali, inter alia: il numero e la composizione delle classi, la percentuale riconosciuta ai chirografari, la previsione di nuova finanza”.
Ovviamente, la definizione di una proposta totalmente nuova rappresenta una deviazione dal contenuto degli accordi concordatari che non potrebbe essere adottata unilateralmente da parte del debitore. Peraltro, come già osservato, anche semplici modifiche dell’offerta risultano generalmente idonee a rappresentare una deviazione determinante rispetto alla proposta originaria considerato che esse possono alterare “la sostanziale coincidenza, propria di ogni stipulazione negoziale, tra proposta originaria e sua accettazione”.
D’altro canto proprio l’art. 172 L.F. (ripreso nell’art. 105 del Codice Crisi), che espressamente sancisce l’ambito temporale in cui la proposta diviene immodificabile, non pare escludere tout court ogni aggiustamento alla configurazione dell’offerta, considerato che “quella disposizione, lungi dal doversi intendere riferita ad un qualsivoglia mutamento, magari di carattere assolutamente insignificante, della proposta originaria, deve trovare applicazione in presenza di una modifica che, concretamente, pregiudichi la valutazione (quanto alla convenienza economica, ai suoi rischi, alla sua possibilità di successo) già effettuata dai creditori approvando la proposta ed il piano ad essa relativo” (sempre Cass., 22 luglio 2022, n. 22988).
Pare ragionevole ritenere che tale principio possa essere esteso alla fase successiva all’omologa: pertanto dovrebbero essere ammissibili adattamenti al contenuto di quanto erogato ai creditori, purché tali adeguamenti siano assolutamente non sostanziali e non modifichino in concreto la soddisfazione dei creditori rispetto a quanto previsto nell’offerta oggetto di valutazione al momento del voto. 
Il punto – in questa nota superficialmente trattato – sarà oggetto di specifico approfondimento nel prosieguo.
5 . Il contenuto delle modifiche al piano ed i limiti normativi e sistematici alle stesse
Insomma, non pare ragionevole considerare immodificabile il percorso di esecuzione del piano, in presenza di fattori esogeni che, in funzione della possibilità di adempiere correttamente alla proposta, impongano adeguamenti alla realtà fattuale; sulla scorta di ciò, quale ultimo passaggio della nostra indagine, si tratta di capire se tali variazioni siano totalmente libere o debbano svilupparsi all’interno di confini predeterminati. 
A nostro avviso, modifiche – anche rilevanti, ma che non mutino la struttura e le linee guida del piano concordatario – dovrebbero essere ritenute ammissibili. 
In tal senso, cercando di aggiungere esempi concretamente verificatisi, si pensi ad un’azienda in procedura, che produce scarpe di alta moda, e che nel piano abbia esposto investimenti per la crescita nel mercato russo: dovrebbe ritenersi assolutamente pertinente che gli sforzi commerciali siano dirottati su altri paesi o diverse strutture distributive ([13]). Analogamente, nel caso di azienda che effettua subforniture nel settore degli elettrodomestici, dovrebbe ritenersi ammissibile l’apertura di uno stabilimento di produzione nel sud est asiatico e lo spostamento in loco di parte della propria capacità produttiva, se il cliente principale chiude il proprio stabilimento italiano e si sposta in tale territorio.
Si tratta di variazioni significative al piano industriale, ma che seguono le linee guida dello stesso. 
Per contro, maggiori dubbi possono sorgere di fronte a cambiamenti radicali del modello di business o modifiche della struttura del progetto posto a base del concordato. 
6 . L’interpretazione della giurisprudenza e della prassi in ordine alle “modifiche”
Movendo da queste semplici esemplificazioni, possiamo meglio mettere a fuoco il quesito, ossia quale sia il limite alle modifiche; quindi, se – in ultima istanza – le stesse possano:
(i) coinvolgere l’oggetto stesso dell’attività industriale. A tal proposito, non pare consentito stravolgere così tanto l’attività al punto di modificare l’oggetto della stessa: come per ogni impresa, i piani e i budget vanno aggiornati ed adattati al mercato, tuttavia senza cambiare il modello di business, perché si tramuta completamente il sistema di rischio (infatti, i manager non possono cambiare l’oggetto sociale: nel caso qui studiato non versiamo nel diritto societario “puro”, ma il principio pare ben replicabile e valido);
(ii) trasformare il modello di concordato passando, ad esempio, da una procedura in continuità in un percorso liquidatorio.
Uno spunto per affrontare tale tema può essere assunto da un autorevole arresto giurisprudenziale di merito, il quale espone significativi dubbi sulla possibilità di modificare radicalmente il piano, come segue “nel codice della crisi il legislatore ha considerato il fatto che dopo l’omologazione si rendano necessarie modifiche sostanziali prevedendo un meccanismo per rendere vincolanti e obbligatorie tali modifiche ma esclusivamente a) nel contesto degli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 58 CCII), mentre nulla è previsto nei concordati preventivi, quale che ne sia la natura e la forma e b) solo allorquando, dopo l’omologazione, sia necessario apportare modifiche sostanziali al piano e giammai agli accordi. Tale disposizione conferma a contrariis che una volta raggiunta l’omologazione di uno strumento di regolazione della crisi, la proposta fatta ai creditori non è più, comunque, ulteriormente modificabile” (così Trib. Milano, 17 novembre 2022).
Proprio movendo dalla disposizione richiamata dal Giudice milanese, ossia l’art. 58, Codice Crisi, chi scrive propone di ricavare ulteriori considerazioni.
Infatti – ferma, di base, l’inapplicabilità analogica di tale norma sostanziale al diverso ambito dei concordati – 
essa prevede che nell’accordo di ristrutturazione il tema di una nuova attestazione, ovvero di una possibile opposizione, si ponga solo laddove le modifiche al piano risultino sostanziali. Linearmente, ne deriva che modifiche non sostanziali, comunque funzionali all’adempimento, non soggiacciono ai vincoli appena enunciati.
Cercando di identificare un dato di principio estendibile ai concordati, a nostro avviso le modifiche sostanziali non dovrebbero essere consentite – in difetto, appunto, di una disposizione espressa quale l’art. 58 – tuttavia, proprio come nell’art. 58 il Legislatore ha ritenuto di non dover regolare le modifiche non sostanziali, il medesimo principio dovrebbe valere anche per l’ambito concordatario (a meno di postulare un Legislatore irrazionale…).
Insomma, il dato generale di fondo da cogliere, a nostro avviso, attiene alla riconosciuta modificabilità del piano anche nei concordati, proprio funzionalmente al rispetto della proposta, laddove le modifiche non siano sostanziali.
Assunto quanto sopra, il livello di ragionamento – per quanto riguarda i concordati – va allora spostato sul concreto contenuto ammesso, sul limite della modifica: infatti, il voto dei creditori si è basato anche su un progetto industriale ed ammettere modifiche radicali dell’attività stessa, poste a base del nuovo progetto, significherebbe esporre i creditori a rischi industriali in nessun modo coerenti con il progetto di base (sempre esemplificando in maniera chiara, costituirebbe sicuramente un fuor d’opera se l’azienda che crea scarpe di cui sopra decidesse di produrre bulloni…).
Passando all’esame della seconda categoria di modifiche, ovvero il passaggio da un concordato in continuità a quello liquidatorio (o viceversa), vale la pena di richiamare la più volte citata Cass. Civ., Sez. I, 22 luglio 2022, n. 22988, afferma che “le modifiche integrano una nuova proposta allorquando: i) mutino la natura dell’accordo proposto ai creditori (o meglio, cambino la logica di superamento della situazione di crisi o di insolvenza nella quale versa la società), tanto da rendere necessario un nuovo controllo di ammissibilità da parte del tribunale, una rinnovazione dell’attività di valutazione dell’attestatore, una nuova votazione da parte dei creditori, i quali, alla luce delle modifiche introdotte, non possono più fare affidamento sull’assetto originario, per essere cambiate le caratteristiche fondamentali della proposta”. 
Pare quindi di capire che, secondo la Suprema Corte, il mutamento del modello di gestione della crisi sia equiparabile non tanto ad una modifica del piano, bensì ad una modifica della proposta, di conseguenza non consentita.
In definitiva, seguendo quanto sino a qui considerato, pare che le modifiche al piano siano possibili solo dove non siano sostanziali e dove non travalichino la loro natura, diventando vere e proprie modifiche alla proposta, come nell’ipotesi di cambiamento del modello di concordato.
Si tratta, a questo punto di comprendere quando la modifica possa considerarsi sostanziale, aspetto non sempre di immediata individuazione ([14]). 
Un’autorevole indicazione viene offerta dai Principi di attestazione dei piani di risanamento, delibera CNDCEC 16 dicembre 2020 (cfr. par. 9.2), secondo i quali “La modifica del Piano è “sostanziale” quando si verifichino congiuntamente tutte le seguenti situazioni:
  1. Si verifica uno scostamento rispetto al contenuto ed alle previsioni del Piano, tale da incidere sulla realizzabilità dello stesso (e non consentirne il rispetto) sui tempi e sulle modalità del percorso di superamento della crisi;
  2. Lo scostamento non è “assorbito” da risparmi (savings) e/o correttivi e meccanismi di aggiustamento, in quanto non previsti e/o non sufficienti;
  3. Occorra modificare le intenzioni strategiche del piano. 
Non è una modifica sostanziale la modifica dell’action plan che non comporti un cambiamento delle intenzioni strategiche del piano”, aggiungendo peraltro un caso concreto, ossia che “costituisce, ad esempio, un cambiamento di intenzioni strategiche la dismissione di un ramo aziendale del quale era previsto dal Piano originario la conduzione diretta”.
Se ne ricava che le modifiche sostanziali del piano sono integrate in casi particolarmente importanti, non a caso i richiamati Principi le contemplano laddove gli elementi ricorrano congiuntamente!
7 . Osservazioni conclusive
Movendo da queste argomentazioni, chi scrive ritiene che le due ipotesi ([15]), sopra poste all’attenzione del Lettore, costituiscano in linea di principio modifiche non ammissibili: infatti, tanto l’eventuale mutamento dell’oggetto sociale, quanto la trasformazione del concordato da “in continuità” a “liquidatorio”, integrano modificazioni strategiche, alterazioni del modello di rischio e del patto contrattuale suggellato dall’omologazione, che incidono proprio sulla logica stessa di superamento della crisi (giusto per utilizzare le categorie concettuali fissate dalla giurisprudenza e dalla prassi).
In conclusione, tuttavia, uno spunto di ulteriore riflessione, condito dall’auspicio di poterlo ulteriormente approfondire in futuro, magari anche alla luce delle sopravvenute interpretazioni giurisprudenziali: quid iuris, per la “trasformazione” del concordato in continuità a quello liquidatorio, laddove si comprovi che la continuità erode valore e l’alternativa liquidatoria (realizzata, ad esempio, tramite la cessione dell’azienda non performante) consente per contro di realizzare un prezzo idoneo a soddisfare la proposta? 
A nostro avviso, anche a seguire la rigorosa impostazione indicata dalla sentenza sopra citata, resta che, se per effetto della dismissione aziendale si realizzano somme sufficienti per adempiere integralmente all’offerta concordataria, in nessun modo la procedura potrebbe essere risolta. 
Infatti, se il soddisfacimento dei creditori rappresenta la causa concreta della proposta di concordato (in precedenza la abbiamo icasticamente definita “stella polare”), ecco che la sua realizzazione, anche con percorsi disallineati rispetto a quanto originariamente previsto, non solo non sarebbe censurabile, ma addirittura rappresenterebbe il corretto adempimento del precetto secondo cui il debitore “è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato”. 
Pare quindi potersi affermare che le conclusioni sistematiche di cui sopra non debbano erigersi su una struttura manichea, dovendosi in ogni caso privilegiare un approccio attento anche al caso concreto e che – quale fine ultimo – aneli indefettibilmente al soddisfacimento del ceto creditorio.

Note:

[1] 
Nel senso che sarà articolatamente chiarito nel prosieguo dello scritto.
[2] 
Quanto meno, con riferimento alle imprese di non piccolissime dimensioni.
[3] 
In via meramente compendiosa, cfr. sul punto: M. Fabiani, Un affresco sulle nuove 'milestones' del concordato preventivo, in Dirittodellacrisi.it, 6 ottobre 2022, in specie par. 11; Id., Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, in Fallimento, 2011, 172 e ss.; Id., Diritto fallimentare. Un profilo organico, 2011, 607 e ss.; M. Ferro, Commento sub art. 161 L.F., in M. Ferro (a cura di), La Legge Fallimentare. Commentario teorico-pratico. Terza edizione, Padova, 2014, 2116 e ss.; A. Audino, Commento sub art. 87 Codice Crisi, in A. Maffei Alberti, Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa ed insolvenza. Settima edizione, Milano, 2023, 622 e ss.; S. Leuzzi, L’impatto della pandemia sui concordati preventivi omologati in continuità diretta: l’indagine, le soluzioni, in Dirittodellacrisi.it, 3 maggio 2020; Id., Commento sub art. 87 Codice Crisi, in F. Di Marzio (diretto da), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2022, 399 e ss.; oltre ai contributi citati alle note 5 e 10.
[4] 
Su questi aspetti, vedi la chiarissima impostazione di S. Leuzzi, L’impatto della pandemia, cit., in specie par. 7, oltre agli ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali dallo stesso citati.
[5] 
Vedi S. Leuzzi, L’ omologazione del concordato preventivo in continuità, in Dirittodellacrisi.it, 16 febbraio 2023.
[6] 
O meglio, inizia in un istante immediatamente successivo, come già detto identificato normativamente nei 20 giorni antecedenti all’avvio delle operazioni di voto (art. 105, co. 4), per svilupparsi nella fase in cui gli stessi saranno chiamati ad esprimere la propria volontà, e terminerà con la definizione degli accordi, sancita dall’omologa.
[7] 
A commento dell’art. 179, comma 2, Legge Fallimentare, la Suprema Corte ha infatti specificato che anche variazioni che non comportano un mutamento della percentuale di soddisfacimento dei crediti indicata nella proposta, ma soltanto delle modalità di attuazione del piano concordatario, “non potevano considerarsi indifferenti per i creditori, in quanto, indipendentemente dall'incertezza sussistente in ordine alla loro portata migliorativa, le nuove condizioni risultavano suscettibili d'incidere non solo sui tempi della liquidazione, ma anche sulla fruttuosità della stessa, e quindi sulla fattibilità economica del concordato”, elemento che non consentirebbe, quindi, di “escludere che, ai fini di un'informata e consapevole espressione del voto, i creditori dovessero essere adeguatamente ragguagliati in ordine alle prospettive temporali ed economiche di realizzazione del piano” (così Cass., 28 aprile 2015, n. 8575).
[8] 
Ancora Cass., 28 aprile 2015, n. 8575, specifica che “nessun rilievo può assumere, al riguardo, la circostanza che le modifiche prospettate non si estendessero alle condizioni offerte ai creditori, ma riguardassero esclusivamente le modalità di attuazione del piano, non potendo quest'ultimo essere disgiunto dalla proposta, della quale costituisce lo strumento di realizzazione, con la conseguenza che la prognosi favorevole in ordine all'esito del concordato è inevitabilmente connessa, dal punto di vista causale, alla buona riuscita del piano”.
[9] 
Benché si tratti di una situazione giuridica ben diversa, appare interessante notare che anche nell’ambito degli accordi di ristrutturazione le modifiche al piano sono trattate diversamente nella fase anteriore o posteriore all’omologa. Rinviando a quanto si esporrà diffusamente nel prosieguo, giova sin da ora rilevare che le modifiche “sostanziali” nella fase antecedente all’omologa impongono il riavvio della fase contrattuale ed il rinnovo delle manifestazioni di interesse, mentre nella fase successiva il debitore, previa attestazione, potrà modificare liberamente il piano, seppur al solo fine di apportarvi “le modifiche idonee ad assicurare l’esecuzione degli accordi”, con prosecuzione automatica dell’accordo, salvo eventuali opposizione da parte dei creditori.
[10] 
Ex multis, in questo senso, cfr. S. Leuzzi, L’impatto della pandemia, cit.; G. La Croce, La fase successiva all’omologazione del concordato: quali vincoli alla gestione dell’impresa?, in ODC Milano (a cura di G. Rocca – G. Acciaro), Quaderno dott. comm. n. 75, febbraio 2018, Il concordato con continuità aziendale, 58 e ss.; F. Marelli, La fase di attuazione del concordato con continuità aziendale “diretta”, in ODC Milano (a cura di G. Rocca – G. Acciaro), Quaderno dott. comm. n. 75, 71 e ss.; in una prospettiva più rigida, pare invece A. Rossi, L’esecuzione del concordato di risanamento, tra governance e conflitti, in Fallimento, 2017, 1005 e ss. ed in specie 1012.
Per un esauriente inquadramento delle varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali, oltre che per amplissimi riferimenti bibliografici, si veda il contributo di A. Zanardo, La rinegoziazione del concordato preventivo tra vecchie e nuove sollecitazioni, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 2021, 913 e ss.
Infine, per una disamina sistematica e puntuale del giudizio di omologazione si veda il recentissimo e chiarissimo contributo di S. Leuzzi, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo: oggetto, regole, controlli, in Dirittodellacrisi.it, 9 ottobre 2023, nel quale vengono ampiamente affrontate le regole processuali e sostanziali dell'omologazione del concordato preventivo. 
[11] 
Bisognosa di approfondita risposta e di apposita sedes materiae è la seguente domanda: risultano ugualmente applicabili gli altri rimedi contrattuali alle situazioni di impossibilità di adempiere del concordato (ad esempio, la sopravvenuta impossibilità)? Ad una prima osservazione, la giurisprudenza sembra orientata negativamente, essendo il contenuto della proposta maggiormente “cristallizzato” per effetto dell’omologa (cfr. ad esempio Trib. Milano, 17 novembre 2022).
[12] 
Resta, al più, la possibilità di indagare se modifiche del contenuto dell’offerta, prive di alcun rilievo sostanziale, siano ammissibili. 
In effetti, un marginale spazio per adattamenti alla proposta, fuori dalla valutazione della gravità dell’inadempimento (l’inadempimento lieve non determina la risoluzione del concordato), dovrebbe permanere proprio a fronte delle molteplici configurazioni che può assumere la proposta concordataria.
Tale residua e marginale modificabilità può essere individuata seguendo quanto statuito da Cass., 22 luglio 2022, n. 22988, in cui, seppur con riferimento alla fase anteriore all’omologa, vengono espressi principi che pare possono essere rilevanti anche nella fase esecutiva. 
In tale pronuncia viene delineata la differenza tra (i) “nuova proposta”, (ii) modifiche alla originaria proposta (comunque non ammesse) e (iii) variazioni alla stessa non idonee ad incidere sulla qualità della soddisfazione dei creditori: solo queste ultime sarebbero ammissibili. 
In particolare “le modifiche integrano una nuova proposta allorquando: i) mutino la natura dell’accordo proposto ai creditori (o meglio, cambino la logica di superamento della situazione di crisi o di insolvenza nella quale versa la società)” tanto che i creditori “alla luce delle modifiche introdotte, non possono più fare affidamento sull’assetto originario, per essere cambiate le caratteristiche fondamentali della proposta (…) laddove mutino elementi della proposta che vadano ad incidere sull’impianto “satisfattorio” del ceto creditorio, quali, inter alia: il numero e la composizione delle classi, la percentuale riconosciuta ai chirografari, la previsione di nuova finanza”. 
Ovviamente, la definizione di una proposta totalmente nuova rappresenta una deviazione dal contenuto degli accordi concordatari che non potrebbe essere adottata unilateralmente da parte del debitore. Peraltro, come già osservato, anche semplici modifiche dell’offerta risultano generalmente idonee a rappresentare una deviazione determinante rispetto alla proposta originaria considerato che esse possono alterare “la sostanziale coincidenza, propria di ogni stipulazione negoziale, tra proposta originaria e sua accettazione”. 
D’altro canto, proprio l’art. 172 L. fall. (ripreso nell’art. 105 del Codice Crisi), che espressamente sancisce l’ambito temporale in cui la proposta diviene immodificabile, non pare escludere tout court ogni aggiustamento alla configurazione dell’offerta, considerato che “quella disposizione, lungi dal doversi intendere riferita ad un qualsivoglia mutamento, magari di carattere assolutamente insignificante, della proposta originaria, deve trovare applicazione in presenza di una modifica che, concretamente, pregiudichi la valutazione (quanto alla convenienza economica, ai suoi rischi, alla sua possibilità di successo) già effettuata dai creditori approvando la proposta ed il piano ad essa relativo” (sempre Cass., 22 luglio 2022, n. 22988). 
Pare ragionevole ritenere che tale principio possa essere esteso alla fase successiva all’omologa: pertanto dovrebbero essere ammissibili adattamenti al contenuto di quanto erogato ai creditori, purché tali adeguamenti siano assolutamente non sostanziali e non modifichino in concreto la soddisfazione dei creditori rispetto a quanto previsto nell’offerta oggetto di valutazione al momento del voto. 
Il punto – in questa nota superficialmente trattato – sarà oggetto di specifico approfondimento nel prosieguo.
[13] 
A fronte del drastico mutamento di tale mercato, stanti i noti fattori politici.
[14] 
F. Lamanna, Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza dopo il secondo correttivo, Milano, 2022, 363, acutamente osserva che “la tendenza sarebbe stata, e si è rivelata in effetti quella, di interpretare la sostanzialità tautologicamente: intendendosi come sostanziali quelle modifiche così incisive del piano da non essere coperte dalla precedente attestazione e da richiederne quindi una nuova. Quando e quanto siano incisive abbastanza da essere sostanziali, resta quindi “sostanzialmente” rimesso al prudente apprezzamento di fatto del giudice di merito”.
[15] 
Lo si ricorda: (i) il mutamento dell’oggetto dell’attività industriale o (ii) la conversione del concordato in continuità in un percorso liquidatorio.

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