Il maggior interesse destato dalla prima fattispecie, “vicentina”, attiene alla possibilità di ricorrere al PRO con finalità esclusivamente liquidatoria e non soltanto per il risanamento in continuità. Lo si evince dalla lettura del ricorso, mentre il decreto di ammissione non fornisce indicazioni decisive, in quanto la conferma del commissario giudiziale, già nominato nella “fase” ex art. 44 CCII, viene disposta, «occorrendo, anche quale liquidatore» (ben potendo, in astratto, trattarsi di piano in continuità con la previsione della dismissione di alcune componenti dell’attivo).
Che la “genesi” del PRO abbia riguardo ad un piano in continuità non pare revocabile in dubbio, perché “strumento” introdotto dal D.Lgs. n. 83/2022, di novellazione del CCII per adeguarlo alla dir. 1023/2019, relativa ai «quadri di ristrutturazione preventiva» (i.e. in continuità). Ne costituisce conferma la Relazione illustrativa al menzionato decreto legislativo, che richiama gli artt. 9-11 dir. 1023 e dà conto del profilo problematico a cui si è ritenuto di dare risposta, vale a dire quale disciplina vada applicata in ipotesi di piano di risanamento approvato all’unanimità dalle classi di creditori.
Appare opportuno qualche chiarimento.
In primo luogo, quel profilo mostra come – di là dalla collocazione “geografica” nel CCII – il PRO sia un “derivato” del concordato preventivo, e non solo per la messe di norme richiamate. Infatti, è nel concordato preventivo (in continuità, per l’appunto) che si sarebbe potuto affrontare (e sciogliere) il “nodo” dell’approvazione unanime, siccome l’art. 11 dir. 1023 disciplina la c.d. “ristrutturazione trasversale”, imponendo solo in essa l’adozione di una regola di distribuzione del patrimonio (o del valore aziendale, se si preferisce), che sia l’APR o la RPR (e, en passant, sia dato soggiungere che si è adottata un’APR “temperata”, tenuto conto che l’APR va applicata sul valore – virtuale – di liquidazione, sì che non è stata per nulla accantonata). Ne discende che l’approvazione da parte della totalità delle classi prescinde dall’adozione di una regola generale di distribuzione del valore: che, poi, il riferimento sia all’art. 9 (che detta la regola generale dell’approvazione unanime e che non può leggersi senz’aver riguardo alle due disposizioni seguenti) o, a contrariis, all’art. 11 dir. 1023, è questione davvero di poco conto. Senza introdurre un nuovo “strumento”, dunque, si sarebbe potuto regolare il profilo in esame nell’ambito del concordato preventivo in continuità, là dove ha trovato disciplina la “ristrutturazione trasversale” (all’art. 112, comma 2, CCII) ([1]); ma la scelta è stata di politica legislativa, nel convincimento che vi sia un “nucleo minimo” incomprimibile della concorsualità costituito dall’adozione di un criterio di distribuzione del valore (e, dunque, dal rispetto, in senso assoluto o relativo, delle regole di priorità, il che val quanto dire dell’ordine delle cause legittime di prelazione) ([2]). Si può discutere, per il vero, se il risultato sia stato conseguito, siccome non v’è alcuna definizione legislativa di “procedura concorsuale”, i cui tratti identificativi – proprio in ragione di questa lacuna definitoria – sono variabili in funzione dell’interpretazione sistematica che si prediliga ([3]); tuttavia, se un valore, come si ritiene, debba ancora attribuirsi alla funzione nomofilattica della Suprema Corte – pur facendosi in dottrina parola di «nomofilachia inversa» ([4]) –, è ai «cerchi concentrici» di Cass. 9087/2018 ([5]), testualmente ripresa da Cass. 40913/2021 ([6]), che occorre riferirsi, e alla riconduzione degli accordi di ristrutturazione all’alveo delle procedure concorsuali, anche prima dell’introduzione della “variante” dell’efficacia estesa di essi, là dove di regole di distribuzione del patrimonio non v’è traccia (né può ritenersi che, implicitamente – e surrettiziamente –, una definizione di procedura concorsuale sia stata introdotta proprio nel “gioco differenziale”, sul punto di quella distribuzione, tra PRO e concordato preventivo in continuità). E la questione non è oziosa, sol che si consideri che l’art. 170, comma 2, CCII, nel regolare la retrodatazione del periodo sospetto ai fini della revocatoria, fa parola di «apertura della liquidazione giudiziale» che segue «alla domanda di accesso a una procedura concorsuale».
In secondo luogo, l’introduzione della “ristrutturazione trasversale” all’art. 112, comma 2, CCII non ha risolto in toto il “nodo” problematico sopra cennato, almeno in termini di compiutezza astratta della disciplina. La tutela imposta dall’art. 11 dir. 1023, attraverso la necessaria adozione di un criterio di distribuzione del valore (RPR o APR che sia, quand’anche “temperata” ex art. 11, par. 2, comma 2, dir. 1023), concerne, esclusivamente, la classe dissenziente, e non già la totalità delle classi, come all’apparenza si legge nell’art. 84, comma 6, CCII. Quest’ultima, tuttavia, non è disposizione con piena valenza precettiva (vi si ritornerà subito appresso), contenendo – lo si legge nella Relazione illustrativa sub art.16 del(lo schema di) D.Lgs. – delle mere «istruzioni per l’uso» a beneficio dell’impresa che si “affaccia” al concordato in continuità e dei professionisti che l’assistono. Assai semplicemente, qualora si ignori l’orientamento dei creditori nei riguardi del piano in corso di predisposizione (rectius, della proposta che si andrà a formulare), per certo non si sbaglia se si “costruisce” il piano prevedendo che il surplus da continuità venga distribuito in modo tale che ogni classe di rango superiore riceva, «complessivamente», di più della classe di rango inferiore: se la classe superiore sarà dissenziente, ne risulterà rispettato il disposto dell’art. 112, comma 2, CCII; se la classe superiore sarà consenziente, la proposta risulterà contraddistinta da un “eccesso di zelo”. Ma, per l’appunto, non per questo può trasformarsi in requisito di ammissibilità ciò che, in fedele attuazione della dir. 1023, è requisito soltanto di omologazione (del che si trae conferma dall’art. 47, comma 1, lett. b), CCII, con riguardo al controllo di mera «ritualità della proposta» ([7])). Ora, se la tutela è della sola classe dissenziente, appare irragionevole ritenere che la norma dell’art. 112, comma 2, CCII trovi applicazione anche in ipotesi di consenso unanime delle classi. Qui potrebbe venire in soccorso la parziale precettività della disposizione dell’art. 84, co. 6, CCII, tale limitatamente alla necessità di distribuire il valore di (virtuale) liquidazione giudiziale secondo l’APR; d’altronde, l’art. 87, comma 3, CCII (norma condivisibilmente non oggetto di relatio per il PRO, attesane la ratio) prescrive che l’attestatore asseveri, tra l’altro, che «il piano è atto […] a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale». Se ne potrebbe desumere che quella da ultimo richiamata è previsione inderogabile nel concordato in continuità (ma non nel PRO, salvo il dubbio per l’applicabilità dell’art. 153 CCII per il tramite del rinvio all’art. 96 CCII), anche in caso di approvazione unanime delle classi, potendosi, per l’effetto, distribuire liberamente il surplus da continuità e, dunque, senza i vincoli dell’art. 112, comma 2, CCII (il più stringente dei quali è nel principio di c.d. “non discriminazione”, vale a dire nella necessità di trattare la classe dissenziente in modo eguale ad altra classe di creditori di pari rango; il che pone fuori gioco – almeno, prima facie – la possibilità di creare una classe di creditori “strategici”, a cui riservare un maggior soddisfacimento, a dispetto del Considerando 56 dir. 1023, quale “temperamento” dell’APR). Se, però, dal piano della (in)compiutezza astratta della disciplina introdotta, si passi a considerazioni empiriche, è altamente improbabile che, ove si ritenga di poter ottenere il consenso unanime delle classi, ci si “avventuri” in un concordato in continuità, tenuto conto, per un verso, che vi è flessibilità nel passaggio dal PRO al concordato (v. art. 64 quater CCII), e viceversa; per l’altro, che il PRO consente la distribuzione libera dell’intero valore aziendale, e non del solo surplus da continuità e lascia “nelle mani” dell’imprenditore la gestione, anche straordinaria. In vero, la lettera dell’art. 64 bis, comma 1, CCII potrebbe indurre ad opinare diversamente, là dove si fa parola di distribuzione del «valore generato dal piano» «anche in deroga agli articoli 2740 e 2741 del codice civile e alle disposizioni che regolano la graduazione delle cause legittime di prelazione […]». In particolare, per «valore generato dal piano» si potrebbe intendere il surplus da continuità, perché è il solo valore che, per l’appunto, può essere «generato», diacronicamente, dalla prosecuzione dell’attività d’impresa, laddove il valore di liquidazione (giudiziale) esiste ex se, in una dimensione temporale sincronica. Tuttavia, l’eliminazione della relatio all’art. 84, comma 5, CCII – raccogliendo alcune considerazioni critiche all’indomani del “varo” della proposta di d.lgs. di attuazione della dir. 1023 ([8]) –, in una con la mancata relatio all’art. 87, comma 3, CCII, sono indice della scelta di rimettere esclusivamente al creditore la contestazione del difetto di convenienza rispetto alla liquidazione giudiziale; ed è coerente con la scelta di fondo di consentire al debitore di distribuire quel che vuole e nei termini che vuole, derogando ai principi della responsabilità patrimoniale generica, della par condicio e (del rispetto) dell’ordine delle cause di prelazione ([9]). Resta il dubbio, sopra cennato, dell’applicabilità dell’art. 153 CCII, a cui rinvia, nel concordato preventivo, l’art. 96 CCII, a sua volta richiamato dall’art. 64 bis, comma 9, CCII; ciò perché l’art. 153, comma 1, CCII prevede che «[i] creditori garantiti da ipoteca, pegno o privilegio fanno valere il loro diritto di prelazione sul prezzo dei beni vincolati per il capitale, gli interessi e le spese […]», così segnando, attraverso la mera riaffermazione di regole altrove codificate (così, per l’ipoteca, all’art. 2808 c.c.), la misura minima del soddisfacimento. Proprio in questa considerazione, però, sta il superamento del dubbio, nel rapporto tra lex generalis (all’art. 153 CCII) e lex specialis (all’art. 64 bis, comma 1, CCII, nel delineare il contenuto libero del PRO), e nella conseguente in-applicabilità dell’art. 153 CCII al PRO, in quanto “non compatibile” (criterio che presiede sempre alla relatio normativa, peraltro esplicitato nell’incipit dell’art. 64 bis, comma 9, CCII).
Posti i chiarimenti che precedono, si può tornare al quesito dell’ammissibilità di un PRO liquidatorio. La “genesi” di esso – nell’attuazione della dir. 1023, nonostante le molteplici voci contrarie riguardo al nesso con la “Insolvency” ([10]) – dovrebbe portare a ritenere che il piano di ristrutturazione possa essere solo in continuità. Vero è che il legislatore non ha introdotto nessuna disposizione univoca al riguardo (e lo “switch” bidirezionale col concordato preventivo non è, ex litteris, limitato al solo concordato in continuità); e, se lo avesse fatto nella direzione liquidatoria, avrebbe potuto tacciarsi, qui sì, di eccesso di delega. Ora, però, che si dispone di un nuovo istituto, è auspicabile, pur con una consapevole forzatura, che la prassi – come nella fattispecie in esame – vada nella direzione di un utilizzo ad ampie “maglie” ([11]); tanto più perché il futuro del concordato preventivo liquidatorio non è roseo dopo la legge-delega n. 155/2017 (e la previsione dell’apporto di risorse esterne tali da incrementare l’attivo del 10%) e la “variante” liquidatoria del PRO copre una lacuna non colmabile tramite gli accordi di ristrutturazione, perché l’efficacia estesa di essi postula, in termini generali, la continuità (v. art. 61, comma 2, lett. b), e comma 5, seconda proposizione). Di là dall’auspicio, gli indici normativi, per l’appunto, non sono univoci nella direzione della necessaria continuità: il riferimento più netto è alla esplicita inapplicabilità dell’art. 114 CCII (oltre al rinvio a norme dettate esclusivamente per il concordato in continuità, quale, su tutte, l’art. 94 bis CCII ([12])); va, però, aggiunto che, in sede di definitiva adozione del D.Lgs., si è introdotta la relatio all’art. 84, comma 8, CCII – che concerne, tra l’altro, la «liquidazione del patrimonio» –, così depotenziando quel riferimento (sebbene si potrebbe ritenere che la nomina del liquidatore ivi prevista sia compatibile con la continuità del piano, solo in parte, dunque, e non in toto, liquidatorio). Al riguardo si è pure osservato che, qualora il piano abbia carattere liquidatorio e dovesse convertirsi in concordato preventivo ex art. 64 quater CCII, «non potrà aspirare alla ristrutturazione trasversale», limitata ai concordati in continuità ([13]).