Tra le ipotesi di responsabilità che con frequenza vengono alla ribalta v’è quella compendiata dall’illegittima prosecuzione dell’attività caratteristica dopo – e nonostante – l’intervenuta perdita del capitale sociale, in violazione di quanto disposto dall’art. 2486 c.c. Un chiarimento nondimeno s’impone: ciò non significa che, al verificarsi della causa di scioglimento, l’attività d’impresa debba improvvisamente cessare (come sembra sia invece presupposto dal nuovo comma 3 dell’art. 2486 c.c.). È evidente, infatti, ed è confermato sia dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 2487 c.c., sia dall’art. 211 CCII (e, prima, dall’art. 104 L. fall.), che una gestione liquidatoria non è di per sé incompatibile con la prosecuzione dell’attività d’impresa. Nel valutare eventuali profili di responsabilità, dovrà innanzitutto essere accertato, attraverso il filtro della business judgment rule e all’esito di una valutazione rigorosamente ex ante, che la situazione economica e finanziaria della società avrebbe realmente imposto la cessazione hic et nunc dell’attività d’impresa al verificarsi della causa di scioglimento[18].
La questione maggiormente delicata attiene alla quantificazione del danno risarcibile, in merito al quale la giurisprudenza ha sovente impiegato criteri di liquidazione presuntivi o sintetici, oscillando fra quello, tradizionale, del deficit fallimentare e quello dei c.d. netti patrimoniali.
Anche tenuto conto della formulazione dell’art. 2486, comma 2, c.c., la determinazione dell'eventuale danno si snoda sulla scorta dei seguenti passaggi: a) determinazione del momento temporale in cui si è manifestata la causa di scioglimento; b) accertamento dei risultati economici (utili o perdite) effettivamente conseguiti dopo il manifestarsi della causa di scioglimento; c) stima del risultato teorico di liquidazione, ovvero il risultato (utile o perdita) che si sarebbe prodotto nel caso in cui gli amministratori avessero operato nell'ottica conservativa e senza assunzioni di nuovi rischi imprenditoriali.
Proprio con riferimento alla quantificazione del danno, il comma terzo dell’art. 2486 c.c. introdotto dal codice della crisi – il che, da un lato, testimonia vieppiù l’importanza annessa alle azioni di responsabilità nel contesto della crisi d’impresa e, dall’altro lato, la rilevanza, sotto il profilo empirico, delle situazioni in cui si assiste all’illecita prosecuzione dell’attività imprenditoriale – apporta significative novità, tipizzando il criterio della differenza dei netti patrimoniali e quello del deficit patrimoniale.
Sul presupposto della violazione del dovere di gestione conservativa di cui all’art. 2486, comma 1, c.c. e (a contrario dalla lettura del periodo successivo) dell’esistenza di scritture contabili regolarmente tenute, viene introdotta, a livello normativo, una presunzione relativa. In virtù di essa, il danno risarcibile è pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore ha cessato le funzioni ovvero, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura della stessa e quello al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento. Salva la detrazione dei costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione.
Alla presunzione sulla quantificazione del danno, giusta un’opinione emersa in dottrina e in giurisprudenza, se ne affiancherebbe una seconda, concernente il nesso di causalità – il quale, pertanto, non dovrebbe costituire oggetto di verifica in sede di valutazione della esperibilità dell’azione e della sua utilità – tra la condotta illecita (ossia la prosecuzione dell’attività caratteristica, in spregio al dovere di conversione ai fini conservativi) ed il danno[19]. Si tratta di un approdo ragionevole, non fosse altro perché avrebbe poco senso – per non dire che si incorrerebbe in una vera e propria contraddizione – sostenere che dall’illecita prosecuzione dell’attività caratteristica si presume un certo danno, pari alla differenza dei netti patrimoniali, se poi l’attore – a beneficio del quale opera la presunzione – dovesse darsi carico di dimostrarne la riconducibilità, alla stregua del nesso di causalità giuridica, alla condotta illecita.
Appare inoltre interessante porre in luce quelle che si appalesano come due criticità. Anzitutto, il riferimento al patrimonio netto al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento non consente di tenere conto della fisiologica «attesa» che caratterizza qualunque processo decisionale endosocietario: nella vita reale delle imprese, tra la percezione della perdita qualificata del capitale sociale, la valutazione della necessità di convocazione dell’assemblea, l’effettiva convocazione di questa, l’eventuale ricerca di un investitore interessato alla ricapitalizzazione e, più in generale, il compimento di valutazioni quanto mai complesse, alle quali far seguire una serie di scelte strategiche, trascorre non poco tempo. S’impone dunque una maggiore flessibilità, da cui consegue che la cristallizzazione al momento dell’effettiva perdita del capitale sociale va rapportata alle circostanze concrete, così come accade, per fare un esempio, allorquando, a fronte dei notevoli costi da sostenere per la prosecuzione dell’attività, risultano in modo lampante minime o addirittura inesistenti le possibilità di decretare un’inversione di rotta.
Parimenti desta perplessità il riferimento – come secondo termine di paragone – al momento di apertura di una procedura concorsuale, senza che assuma rilevanza il deposito della domanda di accesso ad essa. Di modo che – il che rischia di innescare un evidente disincentivo all’accesso al concordato preventivo – sembrerebbe che le perdite accumulate, ad esempio, nel corso della fase prenotativa, rappresentino un danno da conteggiare. Anche qui il criterio dovrebbe essere quello della domanda, salva la verifica dell’irragionevolezza e, quindi, dell’abuso dello strumento prescelto. Si rende pertanto opportuna una lettura della norma in combinato disposto con gli artt. 64 CCII e 89 CCII (rispettivamente dettati per gli AdR, in caso di concessione di misure protettive, e per il concordato), in virtù dei quali, a séguito del deposito di una domanda c.d. protettiva, e sino alla omologa, non trovano applicazione le norme in materia di ricapitalizzazione e non opera la causa di scioglimento per perdita del capitale sociale prevista dal n. 4 dell’art. 2484 c.c.[20]. Con l’ulteriore conseguenza che, in realtà, a séguito della presentazione di una delle domande di cui agli artt. 64 e 89 CCII, così come pure in caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale, la quantificazione del danno dovrebbe assumere come momento di riferimento la situazione patrimoniale accertata alla data di deposito di queste domande, non quello la data di apertura della susseguente procedura di concordato preventivo o quella della dichiarazione di fallimento.
Il (residuale) criterio del c.d. deficit patrimoniale viene, invece, in considerazione solamente per l’eventualità in cui sia aperta una procedura concorsuale e, in alternativa tra loro, manchino le scritture contabili ovvero, a causa delle irregolarità delle stesse o per altre ragioni, sia impossibile la determinazione dei netti patrimoniali. In questa evenienza, con una presunzione iuris et de iure, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura[21]. In altri termini, l’operatività di tale criterio alternativo viene ancorata alla impossibilità tout court di determinare i netti patrimoniali. Ci si colloca, quindi, su un piano differente rispetto all’art. 1226 c.c., l’interpretazione corrente del quale equipara all’impossibilità l’estrema, notevole o elevata difficoltà di fornire la prova dell’effettiva misura del danno sulla base di elementi oggettivi[22]. In questa prospettiva, il criterio del deficit patrimoniale parrebbe quindi destinato a trovare applicazione in casi tutto sommato circoscritti, caratterizzati dalla totale assenza o inattendibilità della contabilità e dalla indisponibilità di altre fonti idonee a consentire la ricostruzione delle vicende sociali. In guisa che, l’assolutezza del metodo in questione e la sua impermeabilità a correttivi possono verosimilmente rinvenire maggiore giustificazione[23].