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La comparazione con lo scenario liquidatorio nella prospettiva delle azioni di responsabilità per mala gestio

Luigi Balestra, Ordinario di diritto privato Università di Bologna

10 Giugno 2024

Lo scritto analizza le plurime questioni che si prospettano allorquando, nell'adozione di uno strumento di risoluzione della crisi, occorra darsi carico di un giudizio comparativo con lo scenario liquidatorio, e ciò al fine di valutare la convenienza dello strumento prescelto per i creditori o, quanto meno, di accertare che ai medesimi non venga riservato un trattamento deteriore. Il contributo si muove lungo la peculiare visuale prospettica delle azioni di responsabilità, nonché delle plurime valutazioni che esse implicano, ponendo in luce le difficoltà che, in via generale, sono insite nella comparazione rispetto ai benefici ricavabili dalla liquidazione giudiziale. 
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1 . Le plurime logiche sottostanti agli strumenti di soluzione della crisi d’impresa in una prospettiva di valutazione comparativa
Le previsioni del codice della crisi che impongono una comparazione tra lo scenario liquidatorio (recte della liquidazione giudiziale) e quello ipotizzato nel contesto dello strumento di volta in volta prescelto dal debitore, al fine di pervenire a dare soluzione alla crisi d’impresa, sono plurime. Un confronto che viene in considerazione a diversi livelli (tra cui il contenuto del piano, la relazione di attestazione, o, ancora, le valutazioni rimesse al tribunale in sede di omologa) e alla luce di criteri differenti (talvolta si impone una valutazione in termini di convenienza, altre volte ci si limita all’accertamento di un trattamento non deteriore). 
Ogniqualvolta venga richiesta una valutazione comparativa tra i possibili scenari, l’obiettivo è di acclarare se vi sia una differenza e, in caso affermativo, quale ne sia la misura, sotto il profilo della soddisfazione delle singole pretese creditorie – da intendersi in senso ampio – nelle ipotesi prese in considerazione. Ben può dirsi che, almeno in prima battuta, i destinatari – sotto il profilo delle tutele che si intendono offrire – siano i creditori. E ciò sotto il profilo sia della consapevolezza della scelta che essi sono chiamati ad effettuare, sia della misurazione del reale impatto dei rimedi approntati contro la crisi. 
In linea generale, il legislatore mette il debitore di fronte alla necessità di darsi carico di una comparazione, «accertando» la soddisfazione che potrebbe conseguirsi per effetto della liquidazione giudiziale, ogniqualvolta questi si avvalga di uno strumento di risoluzione della crisi che preveda l’imposizione di un determinato trattamento economico. Nessuna necessità di procedere a una valutazione comparativa si rinviene con riguardo al piano attestato di risanamento (art. 56 CCII), così come nella disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti conformi al modello, per così dire, tradizionale (art. 57 CCII), ovvero agevolati (art. 60 CCII). In quest’ultimo caso il trattamento riservato ai creditori è per certi versi migliorativo rispetto allo schema generale concepito dal legislatore, in quanto il debitore rinuncia alla moratoria e alle misure protettive. 
Le riforme avutesi a partire dal 2005, culminate nel riassetto dell’intera materia avvenuto con il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, hanno decretato l’emersione di uno scenario variegato, in cui si sono moltiplicati i paradigmi imperanti. Accanto al vecchio fallimento (ora liquidazione giudiziale), in cui il fallito veniva privato dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, sono emersi dirompenti – ciò in quanto su di essi ha puntato con incedere costante il legislatore – strumenti quali, e prima di tutti, il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, a loro volta ispirati e conformati a logiche differenti. Il quadro d’insieme si è notevolmente arricchito. Il fallimento, dominato da una logica prettamente pubblicistica, il concordato da una combinazione di quella pubblicistica con quella privatistica, gli accordi di ristrutturazione dei debiti ispirati da tendenze maggiormente indirizzate verso soluzioni di natura privatistica. Il concordato, a sua volta, infarcito dal paradigma della maggioranza, l’accordo di ristrutturazione dei debiti dall’idea dell’esplicazione dell’autonomia contrattuale. 
Il codice della crisi ha reso ulteriormente variegato il panorama, decretando l’evaporazione della distinzione da ultimo tracciata. Nel concordato preventivo si è assistito all’emersione di un «inedito principio di minoranza», che ha dato vita a un mutamento di pelle della funzione del voto con l’obiettivo di favorire la soluzione concordataria[1]. Negli accordi ad efficacia estesa (e, del pari, alle convenzioni di moratoria ad efficacia estesa), nonché a tutti i casi in cui è possibile procedere all’omologa superando la riottosità dell’amministrazione finanziaria, così come quella degli enti di gestione di forme di assistenza e previdenza obbligatorie, si è assistito alla valorizzazione del paradigma della maggioranza in combinazione con quello facente perno sul contratto[2]. 
È in un contesto di tal fatta, connotato da una incessante e mutevole complessità, così come dianzi descritta in via di estrema sintesi, che trova spazio e fondamento la valutazione comparativa che i diversi protagonisti della soluzione della crisi sono chiamati, di volta in volta, a compiere.
2 . Gli scenari su cui innestare la comparazione
La disciplina del concordato preventivo contempla – ed è l’unica ipotesi – il confronto con la liquidazione giudiziale tra i contenuti essenziali del piano concordatario (art. 87 CCII). Si tratta di un confronto non circoscritto, seppur chiaramente finalizzato a fornire chiarimenti sulla misura di soddisfazione dei creditori. Invero, il comma 1, lett. c), impone al debitore di indicare, nel piano, «il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale»[3] e la successiva lett. h), sancisce che si faccia riferimento alle «azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili», nonché alle «azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e le prospettive di realizzo»[4]. Il comma 2 dell’art. 87 CCII completa il quadro esplicitando che, nella domanda, il debitore deve indicare «le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale»[5]. Preferibilità che non necessariamente consiste in un trattamento economico migliore riservato ai creditori, ben potendo essere legata, solo per fare un esempio, a tempi e modalità di soddisfazione. 
Di consimili verifiche è onerato, nell’eventualità in cui il concordato sia in continuità, anche l’attestatore, la cui relazione, ai sensi del comma terzo del medesimo articolo, oltre che sulla veridicità dei dati aziendali e sulla fattibilità del piano, deve vertere, tra l’altro, sull’idoneità del piano a «riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale». 
Il commissario giudiziale, dal canto suo, è tenuto ad illustrare le utilità ricavabili, in caso di liquidazione giudiziale, dall’esercizio delle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie promovibili nei confronti dei terzi (art. 105, comma 2, CCII). 
Se dalla fase della redazione del piano si passa a quella dell’omologa, viene in rilievo la valutazione comparativa che il tribunale è chiamato ad effettuare per procedere alla omologazione del piano concordatario in presenza di opposizioni fondate su un difetto di convenienza della proposta (art. 112, commi 3 e 5 CCII) [6]. Segnatamente, in tale evenienza, il Tribunale è tenuto a verificare, sulla base della proposta e del piano, che il credito (del creditore opponente) risulti «soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale» e, in caso di risposta affermativa, a provvedere ugualmente alla omologazione[7]. 
Una menzione, al fine di avere un quadro d’insieme tendenzialmente completo, meritano inoltre le seguenti norme: art. 63, comma 2 bis, CCII (il Tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione, anche in mancanza di adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie, quando l’adesione è determinante e, anche sulla base di quanto acclarato nella relazione del professionista, la proposta è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria[8]); art. 64 bis, comma 8, CCII (il tribunale omologa il piano soggetto a omologazione quando, in sede di opposizione, un creditore dissenziente eccepisca il difetto di convenienza della proposta e si accerti che il credito è suscettibile di essere soddisfatto in misura non inferiore a quanto potrebbe ottenersi attraverso la liquidazione giudiziale[9]); artt. 88, comma 2 bis, c.c. (il tribunale omologa il concordato preventivo, anche in mancanza di adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie, quando l’adesione è determinante e, anche sulla base di quanto emerge dalla relazione del professionista, la proposta è conveniente o non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria[10]). 
Vanno, infine, considerate le ipotesi, cui si è già fatta fugace menzione, in cui il confronto con lo scenario liquidatorio viene in considerazione quale presupposto per l’estensione degli effetti (dell’accordo di ristrutturazione o della convenzione di moratoria) ai creditori non aderenti. L’art. 61 CCII ammette – onerando il debitore di formare, sulla scorta del criterio della omogeneità degli interessi economici e della posizione giuridica, apposite categorie (in cui collocare i creditori ai quali si intende imporre l’estensione) – l’estensione degli effetti dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, in deroga agli articoli 1372 e 1411 c.c., a quei creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria[11]. Ciò però solamente sul presupposto che i creditori della medesima categoria, ai quali si intende estendere l’accordo, siano destinati ad essere soddisfatti in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale. 
Anche in questo caso, pur in assenza di una esplicita presa di posizione normativa in tal senso, deve ritenersi che, trattandosi di un presupposto condizionante l’estensione degli effetti dell’accordo di ristrutturazione, della comparazione con lo scenario della liquidazione giudiziale – nella prospettiva vòlta a fornire evidenza del trattamento non deteriore, rispetto alla liquidazione giudiziale, riservato ai creditori non aderenti – debba farsi carico il debitore, con la domanda di omologa[12]. Al tempo stesso, ancorché manchino specificazioni con riferimento al contenuto dell’attestazione – compendiato, in generale, per tutti gli accordi, nell’art. 57, comma 4, CCII – la valutazione circa la veridicità dei dati e la fattibilità del piano sottostante all’accordo, rimesse al professionista indipendente, non possono non concernere anche i dati considerati dal debitore per la comparazione e, sotto il profilo della fattibilità, la correttezza dei risultati a cui la comparazione medesima perviene. 
L’evocata lacuna – come detto, immediatamente colmabile – inerente al contenuto della relazione del professionista indipendente, non si riscontra, invece, con riferimento alla convenzione di moratoria. Qui, l’estensione degli effetti della convenzione ai creditori non aderenti può avvenire sul presupposto che «vi siano concrete prospettive che i creditori della medesima categoria non aderenti, cui vengono estesi gli effetti della convenzione, possano risultare soddisfatti all'esito della stessa in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale» [così l’art. 62, comma 2, lett. c) CCII]. La successiva lett. d) dell’art. 62, comma 2 CCII, poi, richiede che tali prospettive siano oggetto di attestazione – insieme con la veridicità dei dati aziendali e con l'idoneità della convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi – ad opera del professionista indipendente.
3 . Le azioni di responsabilità: profili generali
In relazione alle diverse finalità e ai plurimi contesti in cui viene in considerazione il giudizio comparativo rispetto allo scenario della liquidazione giudiziale[13], non può non farsi riferimento alle indicazioni contenute – solo con riguardo al concordato, ma verosimilmente (anche tenuto conto delle opinioni di dottrina e di giurisprudenza venutesi a formare con riferimento alla legge fallimentare) valide anche per gli altri strumenti di risoluzione della crisi di impresa, ogniqualvolta sia necessario compiere il giudizio comparativo in esame –  nell’art. 87 CCII (oltre che nel già evocato art. 105 CCII). Il tema delle azioni esperibili solo in caso di liquidazione giudiziale, in quanto presuppongono l’apertura di tale procedura o semplicemente perché non contemplate nel piano concordatario, diviene cruciale al fine di esprimere qualsiasi valutazione che possa indurre a preferire l’una anziché l’altra procedura[14]. 
A tal riguardo, occorrerà individuare le azioni promovibili a prescindere dallo scenario in cui ci si colloca e quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale; di fondamentale importanza è l’attenzione da rivolgere alle prospettive di recupero. Fermo restando, ovviamente, che nella valutazione, anche nell’ottica del giudizio di convenienza, non si potrà prescindere, in aggiunta, da elementi ulteriori concernenti non solo il possibile quantum della soddisfazione, ma anche i tempi e le modalità della soddisfazione, l’attendibilità delle prospettive effettive di adempimento proprie della soluzione alternativa, oltre che le eventuali garanzie rilasciate nell’ambito di quest’ultima[15]. Nel concordato liquidatorio, del resto, la necessità che la proposta preveda apporti di risorse esterne che incrementino di almeno il dieci per cento l’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda (art. 87, comma 4, CCII), rappresenta già ex se un elemento capace – seppur non sempre e comunque – di orientare la preferenza verso la scelta concordataria. 
Le indagini e le valutazioni da effettuare presuppongono approfondimenti quanto mai complessi, le quali devono essere condite da una valutazione di essenziale importanza dal punto di vista del pragmatismo a cui devono essere improntate: le prospettive di recupero in caso di esito favorevole dell’iniziativa giudiziaria. In sostanza, si richiede (ai soggetti di volta in volta investiti) di verificare se vi siano azioni esercitabili, di valutarne la concreta esperibilità, anche sotto il profilo della convenienza o comunque della non antieconomicità, di stimare le possibilità di successo e la solvibilità del destinatario dell’azione e, quindi, di quantificare l’effettiva utilità, ovviamente in termini di incremento della massa attiva, che dette azioni potrebbero apportare. 
Le azioni di cui tener conto nello svolgimento di tale verifica sono senza pretesa di esaustività: 
a) le azioni di responsabilità e le azioni risarcitorie nei confronti di amministratori, sindaci, revisori, soggetti esercenti o partecipanti all’attività di direzione e coordinamento, banche (per abusiva concessione di credito), ma anche professionisti o terzi in genere che abbiano recato un danno al patrimonio del debitore; 
b) le azioni recuperatorie in genere, ivi comprese quelle di ripetizione di indebito; 
c) le azioni revocatorie e le azioni di inefficacia (comprese, se si tratta di debitore appartenente ad un gruppo di imprese, le azioni esperibili ai sensi dell’art. 290 CCII).
4 . Le azioni di responsabilità per mala gestio
L’attenzione nei confronti delle azioni di responsabilità per mala gestio nel contesto della crisi d’impresa è esponenzialmente aumentata nel corso del tempo, verosimilmente anche in ragione del correlativo depotenziamento della portata delle azioni revocatorie (alle quali nondimeno il nuovo codice della crisi pare aver donato, in relazione ad alcuni profili, un qualche sussulto di rinnovata vitalità), che ha spinto negli ultimi lustri i curatori fallimentari verso l’utilizzo di altri «strumenti di recupero dell’attivo» alla massa. 
In continuità con l’opinione consolidatasi nella vigenza della legge fallimentare, occorre valutare esclusivamente quanto astrattamente ritraibile, a titolo di risarcimento danni, dall’esercizio dell’azione sociale di responsabilità (ex art. 2393 c.c. e art. 2476, comma 1, c.c.), atteso che, in linea con la più recente giurisprudenza[16], l’art. 115, comma 3, CCII esplicita (seppur con riferimento al concordato liquidatorio) la legittimazione di ogni singolo creditore sociale ad esercitare l’azione di responsabilità prevista dall’art. 2394 c.c., nei confronti degli organi sociali, anche successivamente all’omologa del concordato. 
Lo stesso, a fortiori, deve dirsi per l’azione (intesa ad ottenere il risarcimento dei danni patiti dal singolo socio o da terzi) contemplata dall’art. 2395 c.c. (azione individuale del socio e del terzo) e (per le s.r.l.) dall’art. 2476, comma 6, c.c. (azione creditori sociali), oltre che per quelle di cui all’art. 2497, comma 3 c.c. (azione del socio o creditore sociale contro la società che esercita direzione e coordinamento). 
Nel contesto del gruppo di imprese (attesa la legittimazione in tal senso, riconosciuta dall’art. 291 CCII al curatore) occorre avere altresì riguardo alle azioni ex art. 2497, comma 1, c.c., ossia a quelle intese a far valere la responsabilità della società che esercita direzione e coordinamento. 
L’accertamento del fondamento, nonché l’opportunità di avviare un’azione di responsabilità, richiedono una valutazione quanto mai complessa, venendo in considerazione una molteplicità di elementi su cui incentrare l’attenzione[17]. Questo dipende in primo luogo dalla complessità della fattispecie dell’illecito, la quale consta di una pluralità di elementi costitutivi: la condotta, il nesso di causalità materiale con l’evento dannoso, la sussistenza del dolo ovvero della colpa, la verificazione di conseguenze dannose sul piano patrimoniale direttamente riconducibili, in ragione del nesso di causalità giuridica, all’evento di danno. Ora al di là del soggetto su cui gravi l’onere della prova – ben potendo la posizione dell’attore risultare, sotto questo profilo, alleggerita in sede processuale in ragione della ricostruzione della responsabilità degli amministratori in termini di illecito contrattuale – non v’è dubbio che la valutazioni da effettuare in via preventiva, nel contesto del giudizio comparativo vòlto a stabilire se la liquidazione giudiziale, in quanto idonea a consentire un risultato utile sotto il profilo del recupero del danno subito per effetto della condotta degli amministratori, risulti preferibile, siano tutt’altro che agevoli. 
Più in dettaglio, e al fine di mettere in luce i possibili ostacoli che possono frapporsi al vittorioso esperimento di un’azione di responsabilità, occorre in primo luogo sottolineare come una cattiva gestione, sia che essa concerna un singolo atto o comportamento ovvero una pluralità di condotte, debba innanzitutto essere vagliata alla luce di un consolidato «salvacondotto»: la discrezionalità gestoria (c.d. business judgement rule). In guisa che, solo quelle scelte che, in base a una valutazione ex ante, apparivano totalmente irragionevoli, irrazionali, ovvero ingiustificatamente carenti di ogni approfondimento o istruttoria preventiva – attività che, se compiute, avrebbero pianamente indirizzato verso valutazioni e, conseguentemente, scelte di tutt’altro tenore – possono essere qualificate in termini di illecito. Un cattivo affare può dunque certamente chiamare in causa l’amministratore sotto il profilo del rapporto fiduciario che lo lega alla compagine sociale, ma non necessariamente dà luogo alla nascita di una responsabilità per il pregiudizio risentito dalla società. 
Se poi si guarda alla contrarietà alla legge o all’atto costitutivo di uno o più condotte, va subito sottolineato che esse, per quanto illecite, non è detto che siano foriere in via automatica di un danno risarcibile. La mancata svalutazione di un credito divenuto inesigibile o l’omessa appostazione di un debito sono senz’altro condotte realizzate in violazione della legge, poiché obliterano platealmente la regola per cui il bilancio deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società, nonché il risultato economico dell’esercizio. Tali condotte, tuttavia, non sono ex se fonte di conseguenze dannose patrimoniali; lo diventano, ad esempio, se la situazione rappresentata in modo artefatto sia valsa a dissimulare la perdita del capitale sociale e, dunque, ad occultare l’insorgere di una causa di scioglimento della società che imponeva di virare verso una gestione di tipo conservativo. 
Allo stesso modo, il compimento di un atto ultra vires non è detto che cagioni un pregiudizio al patrimonio della società. L’acquisto di posti barca da parte di una società che si occupi della realizzazione di microchip è sicuramente estraneo all’oggetto sociale. Nondimeno, se si tratta di posti barca collocati in un contesto di pregio, facilmente rivendibili (il che esclude la possibilità di far valere il venir meno della liquidità per compiere operazioni rientranti nell’oggetto sociale) e acquistati per un prezzo corrispondente o inferiore al valore di mercato, diventa impossibile configurare un danno.
5 . Segue: l’illecita prosecuzione dell’attività
Tra le ipotesi di responsabilità che con frequenza vengono alla ribalta v’è quella compendiata dall’illegittima prosecuzione dell’attività caratteristica dopo – e nonostante – l’intervenuta perdita del capitale sociale, in violazione di quanto disposto dall’art. 2486 c.c. Un chiarimento nondimeno s’impone: ciò non significa che, al verificarsi della causa di scioglimento, l’attività d’impresa debba improvvisamente cessare (come sembra sia invece presupposto dal nuovo comma 3 dell’art. 2486 c.c.). È evidente, infatti, ed è confermato sia dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 2487 c.c., sia dall’art. 211 CCII (e, prima, dall’art. 104 L. fall.), che una gestione liquidatoria non è di per sé incompatibile con la prosecuzione dell’attività d’impresa. Nel valutare eventuali profili di responsabilità, dovrà innanzitutto essere accertato, attraverso il filtro della business judgment rule e all’esito di una valutazione rigorosamente ex ante, che la situazione economica e finanziaria della società avrebbe realmente imposto la cessazione hic et nunc dell’attività d’impresa al verificarsi della causa di scioglimento[18]. 
La questione maggiormente delicata attiene alla quantificazione del danno risarcibile, in merito al quale la giurisprudenza ha sovente impiegato criteri di liquidazione presuntivi o sintetici, oscillando fra quello, tradizionale, del deficit fallimentare e quello dei c.d. netti patrimoniali. 
Anche tenuto conto della formulazione dell’art. 2486, comma 2, c.c., la determinazione dell'eventuale danno si snoda sulla scorta dei seguenti passaggi: a) determinazione del momento temporale in cui si è manifestata la causa di scioglimento; b) accertamento dei risultati economici (utili o perdite) effettivamente conseguiti dopo il manifestarsi della causa di scioglimento; c) stima del risultato teorico di liquidazione, ovvero il risultato (utile o perdita) che si sarebbe prodotto nel caso in cui gli amministratori avessero operato nell'ottica conservativa e senza assunzioni di nuovi rischi imprenditoriali. 
Proprio con riferimento alla quantificazione del danno, il comma terzo dell’art. 2486 c.c.  introdotto dal codice della crisi – il che, da un lato, testimonia vieppiù l’importanza annessa alle azioni di responsabilità nel contesto della crisi d’impresa e, dall’altro lato, la rilevanza, sotto il profilo empirico, delle situazioni in cui si assiste all’illecita prosecuzione dell’attività imprenditoriale – apporta significative novità, tipizzando il criterio della differenza dei netti patrimoniali e quello del deficit patrimoniale. 
Sul presupposto della violazione del dovere di gestione conservativa di cui all’art. 2486, comma 1, c.c. e (a contrario dalla lettura del periodo successivo) dell’esistenza di scritture contabili regolarmente tenute, viene introdotta, a livello normativo, una presunzione relativa. In virtù di essa, il danno risarcibile è pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore ha cessato le funzioni ovvero, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura della stessa e quello al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento. Salva la detrazione dei costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. 
Alla presunzione sulla quantificazione del danno, giusta un’opinione emersa in dottrina e in giurisprudenza, se ne affiancherebbe una seconda, concernente il nesso di causalità – il quale, pertanto, non dovrebbe costituire oggetto di verifica in sede di valutazione della esperibilità dell’azione e della sua utilità – tra la condotta illecita (ossia la prosecuzione dell’attività caratteristica, in spregio al dovere di conversione ai fini conservativi) ed il danno[19]. Si tratta di un approdo ragionevole, non fosse altro perché avrebbe poco senso – per non dire che si incorrerebbe in una vera e propria contraddizione – sostenere che dall’illecita prosecuzione dell’attività caratteristica si presume un certo danno, pari alla differenza dei netti patrimoniali, se poi l’attore – a beneficio del quale opera la presunzione – dovesse darsi carico di dimostrarne la riconducibilità, alla stregua del nesso di causalità giuridica, alla condotta illecita. 
Appare inoltre interessante porre in luce quelle che si appalesano come due criticità. Anzitutto, il riferimento al patrimonio netto al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento non consente di tenere conto della fisiologica «attesa» che caratterizza qualunque processo decisionale endosocietario: nella vita reale delle imprese, tra la percezione della perdita qualificata del capitale sociale, la valutazione della necessità di convocazione dell’assemblea, l’effettiva convocazione di questa, l’eventuale ricerca di un investitore interessato alla ricapitalizzazione e, più in generale, il compimento di valutazioni quanto mai complesse, alle quali far seguire una serie di scelte strategiche, trascorre non poco tempo. S’impone dunque una maggiore flessibilità, da cui consegue che la cristallizzazione al momento dell’effettiva perdita del capitale sociale va rapportata alle circostanze concrete, così come accade, per fare un esempio, allorquando, a fronte dei notevoli costi da sostenere per la prosecuzione dell’attività, risultano in modo lampante minime o addirittura inesistenti le possibilità di decretare un’inversione di rotta. 
Parimenti desta perplessità il riferimento – come secondo termine di paragone – al momento di apertura di una procedura concorsuale, senza che assuma rilevanza il deposito della domanda di accesso ad essa. Di modo che – il che rischia di innescare un evidente disincentivo all’accesso al concordato preventivo – sembrerebbe che le perdite accumulate, ad esempio, nel corso della fase prenotativa, rappresentino un danno da conteggiare. Anche qui il criterio dovrebbe essere quello della domanda, salva la verifica dell’irragionevolezza e, quindi, dell’abuso dello strumento prescelto. Si rende pertanto opportuna una lettura della norma in combinato disposto con gli artt. 64 CCII e 89 CCII (rispettivamente dettati per gli AdR, in caso di concessione di misure protettive, e per il concordato), in virtù dei quali, a séguito del deposito di una domanda c.d. protettiva, e sino alla omologa, non trovano applicazione le norme in materia di ricapitalizzazione e non opera la causa di scioglimento per perdita del capitale sociale prevista dal n. 4 dell’art. 2484 c.c.[20]. Con l’ulteriore conseguenza che, in realtà, a séguito della presentazione di una delle domande di cui agli artt. 64 e 89 CCII, così come pure in caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale, la quantificazione del danno dovrebbe assumere come momento di riferimento la situazione patrimoniale accertata alla data di deposito di queste domande, non quello la data di apertura della susseguente procedura di concordato preventivo o quella della dichiarazione di fallimento. 
Il (residuale) criterio del c.d. deficit patrimoniale viene, invece, in considerazione solamente per l’eventualità in cui sia aperta una procedura concorsuale e, in alternativa tra loro, manchino le scritture contabili ovvero, a causa delle irregolarità delle stesse o per altre ragioni, sia impossibile la determinazione dei netti patrimoniali. In questa evenienza, con una presunzione iuris et de iure, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura[21]. In altri termini, l’operatività di tale criterio alternativo viene ancorata alla impossibilità tout court di determinare i netti patrimoniali. Ci si colloca, quindi, su un piano differente rispetto all’art. 1226 c.c., l’interpretazione corrente del quale equipara all’impossibilità l’estrema, notevole o elevata difficoltà di fornire la prova dell’effettiva misura del danno sulla base di elementi oggettivi[22]. In questa prospettiva, il criterio del deficit patrimoniale parrebbe quindi destinato a trovare applicazione in casi tutto sommato circoscritti, caratterizzati dalla totale assenza o inattendibilità della contabilità e dalla indisponibilità di altre fonti idonee a consentire la ricostruzione delle vicende sociali. In guisa che, l’assolutezza del metodo in questione e la sua impermeabilità a correttivi possono verosimilmente rinvenire maggiore giustificazione[23].
6 . La prognosi di recovery
Alla valutazione concernente la fondatezza delle azioni dovrà poi, come anticipato, affiancarsi la stima dei relativi esiti, soprattutto in termini economici. 
A tal riguardo, assumono un ruolo preminente le verifiche sugli indicatori di capienza (attuale e prospettica) dei destinatari delle ipotizzate azioni. L'analisi è normalmente svolta a partire dalla consistenza del patrimonio immobiliare, trattandosi di accertamento più agevole da compiere in ragione del fatto che gli assets che lo compongono sono, data la loro staticità, più facilmente monitorabili, nonché agevolmente suscettibili di formare oggetto di un’esecuzione forzata. Più complicata è la verifica della componente mobiliare del patrimonio, considerata la variegata natura dei beni che possono comporla. Comoda per le partecipazioni societarie, molto meno quando si tratti di opere d’arte, gioielli e denaro o titoli, ancor più quando collocati all’estero. Non priva di rilevanza, inoltre, è l’eventuale esistenza di coperture assicurative, delle quali assai spesso sono muniti almeno i componenti dei collegi sindacali. 
Una volta scattata una fotografia il più possibile aderente alla consistenza (attuale) del patrimonio facente capo a ciascuno dei soggetti astrattamente evocabili in giudizio, occorrerà darsi altresì carico di effettuare valutazioni concernenti il passato e il futuro. Sotto il primo profilo vengono in considerazione eventuali atti di disposizione compiuti in precedenza, di modo che l’azione di responsabilità che si vorrebbe intentare potrebbe combinarsi con l’esperimento di una o più azioni revocatorie. 
Con riferimento allo scenario futuro, in presenza di elementi in grado di evidenziare il pericolo di una «dispersione» del patrimonio, bisogna valutare l’opportunità di avviare un sequestro, magari ante causam, al fine di «congelare» i beni presenti nel patrimonio, ovvero di «raggiungere» quelli nel frattempo  fuoriusciti rispetto ai quali sussistano, in ragione della ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie idonea a consentire una declaratoria di inefficacia, concrete possibilità di recupero. 
Lo scenario può essere, giusta quanto sin qui osservato, quanto mai variegato e frastagliato. In esso ci si deve muovere secondo le dinamiche della (ri)costruzione di un puzzle, risultando evidente come gli atti di disposizione, compiuti dagli autori delle condotte di mala gestio, che si vorrebbero portare all’attenzione del tribunale, possano assumere una marcata rilevanza in più direzioni: recuperabilità, indice di pericolo di possibili pregiudizi futuri. 
Sempre dal punto di vista del «risultato utile», occorre infine ed ovviamente avere riguardo anche ai tempi e ai costi dei giudizi, alla stregua di una valutazione da operare in confronto con l’effettiva consistenza dei patrimoni suscettibili di venire in considerazione ai fini di una compiuta realizzazione della pretesa risarcitoria.
7 . Una valutazione comparativa difficile (o quasi impossibile) da realizzare?
Alcune brevi notazioni finali lasciano trasparire le difficoltà che si annidano dietro l’accertamento richiesto. La valutazione comparativa ha indubbiamente, tra gli altri obiettivi, quello di stimolare il debitore affinché si dia carico di prospettare soluzioni appetibili, soprattutto allorquando la crisi sia maturata in un contesto gestionale connotato da scelte pregresse non propriamente inappuntabili. Essa mira inoltre a scongiurare atteggiamenti riottosi da parte dei creditori rispetto a soluzioni negoziate. Il che potrebbe in qualche modo porsi in conflitto con lo spirito che anima la direttiva Insolvency, la quale mostra di prediligere le soluzioni messe in piedi dal debitore attraverso meccanismi e procedimenti alternativi alla liquidazione giudiziale.  
Da una diversa prospettiva, di taglio più empirico, deve essere sottolineata la complessità degli accertamenti postulati, in un’ottica di comparazione degli scenari e delle possibili maggiori utilità che ai creditori potrebbero derivare da un’ipotesi di liquidazione giudiziale, dal giudizio comparativo. Il tutto, peraltro, deve avvenire nel ristretto lasso temporale in cui la concentrazione è tutta rivolta alla predisposizione del piano e della proposta, nonché al confezionamento della documentazione necessaria al fine di corroborare la soluzione prescelta onde porre rimedio alla situazione di crisi. L’estrema difficoltà di procedere all’accertamento demandato rischia di tradursi in formule tralatizie di maggiore convenienza della scelta effettuata. D’altra parte, sembra difficile che un concreto vaglio possa al riguardo essere compiuto da tutti quei soggetti, per così dire, esterni coinvolti nella gestione della crisi (tribunale, attestatore, commissario nel caso del concordato). Salvo evidentemente il caso di condotte illecite a tal punto eclatanti da imporsi ex se all’attenzione del «valutatore esterno». 
Ci si soffermi su quel che accade in sede di allestimento di una procedura concordataria. L’obbligo, in sede di predisposizione del piano, di disclosure, introdotto dall’art. 87 CCII, in ordine alle possibili azioni risarcitorie, letto insieme con l’art. 115, comma 2 CCII, è stato interpretato come un «invito al tacchino a partecipare alla cena di Natale (o alla cena del ringraziamento, secondo le preferenze di ciascuno)»[24].
Il ruolo dell’interprete risulterà centrale nel «circoscrivere la rilevanza delle indicazioni da inserire nella domanda»[25], dal momento che (e in special modo quelle inerenti alle azioni di responsabilità) potrebbe venire in considerazione un vero e proprio obbligo di menzionare tutti gli atti gestori potenzialmente dannosi, di grave imprudenza o di mala gestio compiuti dagli o ascrivibili agli amministratori. In assenza di un’opera di «riduzione/ delimitazione» delle informazioni che il debitore deve farsi carico di fornire, il concordato rischia di rivelarsi una procedura assolutamente inaccettabile per l’organo gestorio, il quale verrebbe così chiamato ad una sorta di confessio a proprio danno in tutte quelle ipotesi in cui la composizione dell’organo sia rimasta immutata. Diversa l’ipotesi, evidentemente, di mutamento della governance nel tempo: qui però si aprono scenari e possibili conflitti – come è nel caso di mutamento semplicemente parziale della composizione – facilmente immaginabili. Anche perché, se è vero che l’omessa informativa circa fatti integranti ipotesi di responsabilità difficilmente verrà smascherata durante l’iter che conduce all’omologazione – nel qual caso ci si potrebbe addirittura domandare se l’omessa menzione delle azioni risarcitorie possa rientrare tra quegli altri atti di frode di cui parla l’art. 106, comma 1, CCII – nulla esclude che essa possa successivamente essere invocata quale fattispecie di responsabilità da parte del creditore che si ritenga leso.

Note:

[1] 
G. D’Attorre, Classi “interessate” e classi “maltrattate” nella ristrutturazione trasversale, in Dirittodellacrisi.it, 2023, 5. 
[2] 
L. Balestra, voce Accordi ristrutturazione dei debiti, in Enc. dir., in corso di pubblicazione.
[3] 
L’identificazione e la perimetrazione del valore di liquidazione costituisce uno dei temi sui quali si sta focalizzando il dibattito (cfr. ad es. Trib. Roma, 11 aprile 2024, in Dirittodellacrisi.it). Esso viene in considerazione, oltre che con riguardo al tema che ci occupa, con riferimento alla possibilità di far capo, per quel che concerne i creditori privilegiati, alla relativity priority rule così come sancito dall’art. 84, comma 6, CCII: cfr. F. Lamanna, “Valore di liquidazione” e “valori eccedenti” nel concordato preventivo: come calcolarli e come distribuirli, in Ius, 13 ottobre 2023. In giurisprudenza Trib. Lucca, 20 gennaio 2023, in Dir. crisi impr. Con riguardo specifico all’art. 84, comma 6, CCII v. B. Inzitari, Le mobili frontiere della responsabilità patrimoniale: distribuzione del valore tra creditori e soci nel concordato in continuità secondo la negozialità concorsuale del codice della crisi, in Dir. della crisi, 2023, p. 15 ss.; in giurisprudenza Trib. Roma, 24 ottobre 2023. 
[4] 
Specularmente, l’art. 105, comma 2, CCII dispone che nella propria relazione il commissario giudiziale debba, tra l’altro, illustrare «le utilità che, in caso di liquidazione giudiziale, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi».
[5] 
Si tratta di previsioni che confermano l’esigenza (già consolidata prima della entrata in vigore del codice della crisi) di fornire ai creditori tutte le informazioni utili a decidere, con cognizione di causa, quale posizione assumere nei confronti della proposta e, quindi, anche quelle relative alla esistenza o meno di migliori possibilità di realizzo rispetto al concordato (v. per tutte, Cass., 13 marzo 2015, n. 5107, oltre a M. Fabiani, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche, ne Ilcaso.it, 2015, 17). 
[6] 
Nel concordato in continuità qualunque creditore dissenziente sembra poter proporre opposizione; nel concordato liquidatorio, tale legittimazione è riconosciuta solo al creditore dissenziente che appartenga ad una classe dissenziente e, ove non sia stata prevista la suddivisione in classi, a uno o più creditori titolari di crediti pari al 20% dei crediti ammessi al voto.
[7] 
Il rischio è di veder preclusa l’omologazione allorché (anche) uno solo dei creditori dissenzienti riesca a dimostrare che il trattamento previsto dalla proposta concordataria è deteriore rispetto a quello che avrebbe in sede di liquidazione giudiziale.  Un correttivo si ha solo in sede di reclamo: l’art. 53, comma 5 bis, CCII prevede che, in caso di accoglimento del reclamo avverso la sentenza di omologazione di un concordato in continuità, la Corte di Appello, su richiesta delle parti, può confermare l’omologa se «l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno». Il punto critico del sistema disegnato dal CCII sta nel fatto che la previsione in esame vale solo in caso di omologa da parte del Tribunale. Ove, invece, il Tribunale rigetti l’omologa, valutando, nell’ambito della verifica di cui all’art. 112 CCII, che il creditore opponente sia destinato a ricevere un trattamento deteriore in sede concordataria rispetto a quello che potrebbe ottenere nell’àmbito della liquidazione giudiziale, una ponderazione dell’interesse generale (degli altri stakeholders) è preclusa dalla lettera della legge. Sul punto v. S. Ambrosini, Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, ne Ilcaso.it, 9 giugno 2022, il quale rileva anche il carattere di novità, nel nostro ordinamento, della «enucleazione, quale oggetto di specifica tutela, dell’interesse “generale dei creditori e dei lavoratori”», senz’altro gravida di implicazioni sul piano sistematico.
[8] 
Il richiamo esplicito alle risultanze della relazione dell’attestatore trova giustificazione nel secondo periodo del primo comma dell’art. 63 CCII, il quale prescrive un contenuto aggiuntivo per tale relazione, dovendo la stessa, limitatamente ai crediti fiscali e previdenziali, «inerire anche alla convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale»; all’uopo precisando che «tale circostanza costituisce oggetto di specifica valutazione da parte del tribunale». 
[9] 
Il comma secondo del medesimo articolo, dedicato alla relazione del professionista indipendente è piuttosto scarno e scevro da ogni riferimento a tali valutazioni, richiedendo a quest’ultimo unicamente conferme in merito alla veridicità dei dati e alla fattibilità del piano. Pure nel silenzio del legislatore, è ragionevole ritenere che quella di cui al comma 8 dell’art. 64 bis CCII non possa essere una valutazione che il Tribunale esegue in autonomia, apparendo quindi fondamentale, da un lato, che il debitore, nella predisposizione del piano, si dia carico, con riferimento a tutti i creditori, di una comparazione con lo scenario liquidatorio e che, dall’altro, l’attestatore “validi” la comparazione contenuta nel piano medesimo. 
[10] 
Da una lettura d’insieme con il precedente comma 2, il quale disciplina i contenuti della relazione del professionista indipendente, si trae la conferma che la valutazione di convenienza viene in considerazione in caso di piano liquidatorio, mentre quella, più favorevole al debitore, del mero «trattamento non deteriore», concerne il piano in continuità. Ai sensi del secondo comma, invero, qualora con il piano di concordato il debitore proponga altresì il pagamento parziale o dilazionato dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e/o dei contributi amministrati da enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazione obbligatorie, l'attestazione del professionista indipendente (relativamente a tali crediti tributari e contributivi), «ha ad oggetto anche la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale e, nel concordato in continuità aziendale, la sussistenza di un trattamento non deteriore». 
[11] 
Sul tema, cfr. L. Balestra, Diritto dei contratti e crisi d’impresa: il caso del contratto a (s)favore di terzi, in Pactum, 2023, 459 ss.
[12] 
Nel medesimo senso, C. Pagliughi, M.E. Pillon, E. Staunovo Polacco, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2023, 78.
[13] 
Seppur con riferimento alla precedente normativa, si rilevava che il giudizio comparativo tra una proposta concordataria e l’alternativa fallimentare doveva porre a confronto non solo l’ammontare del pagamento concordatario proposto con la sommatoria dei valori di liquidazione ritraibili in sede fallimentare, ma anche gli ulteriori elementi che possono influenzare le condizioni di pagamento e/o il soddisfacimento dei creditori in generale. In particolare, occorre considerare: (i) il grado di certezza e le tempistiche del pagamento dei creditori nelle due ipotesi a confronto; (ii) i vantaggi, anche non meramente monetari, derivanti ai creditori dalla continuity aziendale nel concordato; (iii) l’impatto sociale della continuity sul territorio, anche in termini di conservazione dell’occupazione a favore di dipendenti che, nello scenario fallimentare, troverebbero difficilmente un nuovo impiego, nonché su tutti gli altri stakeholders coinvolti, quali i fornitori, imprese comunque interessate, ecc. (v. da ultimo Trib. Tempio Pausania, 14 febbraio 2023, ne Ilcaso.it.).
[14] 
Trib. Milano, 5 febbraio 2024, in Dirittodellacris.it, in un caso in cui la società, a seguito dei rilievi del tribunale, ha incluso tra i valori di liquidazione l’attivo derivante dall’eventuale esercizio vittorioso di un’azione di responsabilità nei confronti del legale rappresentante.
[15] 
Con riferimento alla ristrutturazione coattiva dei debiti fiscali e contributivi, nell’AdR e nel concordato, ma il discorso vale in termini generali, v. G. D’Attorre, La ristrutturazione “coattiva” dei debiti fiscali e contributivi negli adr e nel concordato preventivo, in Fall., 2021, 2, 158. Analogamente C. Pagliughi, Strumenti di regolazione della crisi ad efficacia estesa: l’attestazione del professionista rispetto all’alternativa liquidatoria, ne Il fallimentarista, 26 settembre 2022, passim.
[16] 
Affronta il tema nella sua complessa e articolata declinazione il volume collettaneo Crisi d’impresa e responsabilità nelle società di capitali, a cura di L. Balestra e M. Martino, Giuffrè, 2022.
[17] 
Cfr. Trib. Tempio Pausania, 14 febbraio 2023, cit.; Trib. Avellino, 26 marzo 2024, in Dirittodellacrisi.it; si veda anche, in una diversa prospettiva, App. Venezia, 9 gennaio 2019, in Giur. Comm., 2021, 130.
[18] 
Cfr. N. Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Le Società, 2019, 408 s. 
[19] 
Cfr. N. Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, cit., 407, secondo i quali «in realtà, dunque, il vero plus della norma non sembra riguardare la quantificazione del danno, ma il nesso di causalità, perché ciò che si presume non è il quantum del danno ma l’esistenza stessa di un danno che sia conseguenza della prosecuzione in sé dell’attività d’impresa, se non orientata alla finalità conservativa imposta dall’art. 2486,comma 1, c.c.». Nel medesimo senso cfr. Trib. Milano 17 marzo 2022, n. 2410, in DeJure; C.App. Torino 3.03.2022, n. 237, entrambe in Dejure. Contra M. Rossi, Prime note sulla quantificazione del danno per violazione dell’art. 2386, comma 1º, cod. civ., in Nuova Giur. Civ. comm., 2019, 1140, osserva: «Infatti, sebbene il criterio dei netti patrimoniali sia orientato ad agevolare l’azione promossa contro gli amministratori, la formulazione normativa non esime la parte attrice dalla previa allegazione delle condotte, attive od omissive, degli amministratori in cui si è compendiata la violazione del dovere di gestione conservativa dell’impresa: un esito siffatto sembra escluso dall’art. 2486, comma 3, cod. civ., il cui incipit chiarisce che la quantificazione del danno segue, logicamente prima ancora che cronologicamente, all’accertamento della responsabilità degli amministratori per la violazione dei limiti al potere gestorio in presenza di una causa di scioglimento». Nel medesimo senso (contrario alla presunzione), in giurisprudenza cfr. Trib. Bologna 9.11.2022, n. 2779 e Trib. Bologna, n. 7.10.2022, n. 2494, entrambe in Dejure
[20] 
N. Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, 410.
[21] 
Nonostante le apparenti similitudini con il criterio elaborato da Cass. Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100, a ben vedere, il legislatore sembra aver preso le distanze da essa, nella misura in cui, negando ingresso nel nostro ordinamento al criterio c.d. differenziale, al limite recuperabile “al fine della liquidazione equitativa del danno”, ribadiva con forza la necessità di verificare l’esistenza di un rapporto di causalità tra gli inadempimenti contestati agli organi sociali e il danno di cui si pretende il risarcimento. 
[22] 
Cfr. ex multis, Cass., 22 marzo 2018, n. 7146; Trib. Udine, 24 maggio 2018, entrambe in Pluris. 
[23] 
N. Abriani - A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, cit., p. 411; M. Rossi, Prime note, cit., 1300.
[24] 
F. Lamanna, II codice della crisi dopo il secondo decreto correttivo, Milano, 2022, 487 s. 
[25] 
F. Lamanna, II codice della crisi dopo il secondo decreto correttivo, cit., 487 s.

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