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Saggio

La cessione d’azienda nella composizione negoziata della crisi e nel concordato semplificato: la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici alla luce (fioca) del decreto correttivo*

Fabrizio Aprile, Consigliere della Corte d’Appello di Torino

18 Novembre 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
La disciplina a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici nel trasferimento d’azienda nella composizione negoziata della crisi (e nel concordato semplificato eventualmente susseguente) sembra ostentare, anche dopo il D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136, una certa linearità apparentemente assicurata dalla “fermezza” (proclamata dall’art. 22, comma 1, lett. d), CCII) delle garanzie approntate dall’art. 2112 c.c. In verità, la “ferma” applicazione di quest’ultima disposizione non va scevra di criticità che possono comportare ricadute afflittive e che, però, possono essere opportunamente lenite (quando non scongiurate) da un preventivo confronto (anche informale) con le organizzazioni sindacali prodromico alla selezione competitiva del cessionario e alla procedura di informazione-consultazione ex art. 47 L. 29 dicembre 1990, n. 428.  
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1 . Accorgimenti introduttivi
Le (scarne) disposizioni sulla cessione d’azienda nella composizione negoziata della crisi non contengono rilevantissime particolarità riguardo al trattamento dei lavoratori coinvolti, che non siano un indistinto e generico richiamo all’ordinaria normativa giuslavoristica: in effetti, l’art. 22, comma 1, lett. d), CCII si limita ad affermare che, in tal caso, “resta fermo l’articolo 2112 del codice civile” – un (apparentemente) inerte frammento formulare per neutralizzare (o almeno questo è l’intento, non privo tuttavia, come si vedrà, di margini fallaci) ogni disturbante interferenza o ibridazione tra il settore disciplinare lavoristico e quello della crisi d’impresa (ed è conforme la previsione dell’art. 18, comma 1, CCII che esclude dalle misure protettive i crediti da lavoro subordinato) [1]. Viene così lasciata pienamente operativa la principale norma di tutela in subiecta materia – con i suoi tre “pilastri” portanti: continuità insoluta dei rapporti di lavoro con il cessionario, solidarietà illimitata tra cedente e cessionario per tutti i crediti dei lavoratori sussistenti al tempo del trasferimento, divieto di licenziamento per motivi attinenti alla cessione – la quale, ciononostante, risulta a un maggiore approfondimento non sempre sufficiente a prevenire tutte le potenziali insidie (e di immaginabile e scongiurabile deriva contenziosa), specie se calate in un contesto ‘alterato’ di un’impresa in difficoltà e alla ricerca di un complicato esito compositivo della propria esposizione debitoria.
Nel preliminare approccio alle ricadute lavoristiche della cessione d’azienda nella composizione negoziata riveste un’importanza cruciale e strategica il “fattore tempo”: l’allarme che di norma suscita la notizia del possibile trasferimento di tutto il (o di parte del) compendio produttivo ne pone comprensibilmente gli operatori addetti (e in special modo il personale dirigenziale e direttivo e quello più tecnicamente qualificato: in una parola, i lavoratori “più bravi”, gli altrimenti detti key employees) nell’ottica di un approdo verso altri e più affidabili lidi occupazionali (ove non siano stati previsti “a monte” e in tempi non sospetti appositi patti di stabilità o piani di incentivazione), con quanto ne consegue regressivamente sul valore competitivo dell’azienda in odore di cessione. Sempreché, ovviamente, l’imprenditore non bussi alle porte della procedura dopo avere già provveduto a significativi licenziamenti.
Non a caso, l’impellenza di questa “recherche du temps perdu” (sicché pure i termini ex art. 17, comma 7, CCII rischiano di essere troppo lunghi) è avvertita e intercettata dal legislatore là dove, da un lato, sollecita le parti coinvolte nelle trattative ad assumere “tempestivamente” le iniziative compositive (art. 4, comma 2, lett. b), CCII) e a collaborare tra di loro “in modo sollecito” (art. 16, comma 6, CCII), e, dall’altro, esorta l’esperto a verificare il possesso “della disponibilità di tempo” necessario e a convocare “senza indugio” l’imprenditore (art. 17, comma 5, CCII); e in questa premura cronologica – che diventa ‘cairologica’ – non è detto sia necessariamente un bene la previsione, aggiunta dal D.Lgs. n. 136/2024, per cui “L’attuazione del provvedimento di autorizzazione concesso dal tribunale [compreso quello sulla cessione dell’azienda, n.d.a.] può avvenire prima o successivamente alla chiusura della composizione negoziata se previsto dallo stesso tribunale o se indicato nella relazione finale dell’esperto” (art. 22, comma 1 bis, CCII).
Rimanendo sull’autorizzazione tribunalizia, l’art. 22, comma 1, lett. d), CCII appare letteralmente riferito al solo trasferimento progressivo dell’azienda [2], non anche all’affitto; questa cosa sembra partecipare della disciplina generale della cessione ‘commercialistica’ dell’azienda di cui agli artt. 2558 e ss. c.c. (indirettamente evocata dal richiamo derogatorio all’art. 2560, comma 2, c.c.), che non parlano di affitto se non limitatamente all’estensione ad esso delle disposizioni sull’usufrutto (cfr. art. 2562 c.c.). Se la questione, invece, viene riguardata sub specie della cessione ‘lavoristica’ dell’azienda ex art. 2112, comma 5, c.c. [3] (che “resta fermo” e comprende esplicitamente l’affitto tra le varie forme tipologiche di trasferimento), allora tale limitazione non ha alcuna ragion d’essere  [4]; inutile aggiungere, a questo punto, che tutto ciò non interferisce in alcun modo con (e non ostacola) la responsabilità solidale del cessionario per i crediti dei lavoratori imposta dall’art. 2112, comma 2, c.c. [5] A tal proposito, può non essere insensato ritenere che la regola enunciata dall’art. 84, comma 2, CCII – per cui l’affitto d’azienda nel concordato in continuità indiretta deve sempre e comunque porsi “in funzione della presentazione del ricorso” e, quindi, in immediato e adeguato rapporto con la continuità dell’impresa – esprima una valenza generale estensibile a tutte le procedure lato sensu conservative (o “di resilienza”, com’è anche bello chiamarle), tra cui la composizione negoziata della crisi.
A ogni modo, non va mai perso di vista che il trasferimento dell’azienda – e la circostanza non è priva di significato quanto alla messa a fuoco delle aspettative e degli interessi dei lavoratori – dev’essere funzionale, come si legge nell’esordio del comma 1 dell’art. 22 CCII, “alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori” (e non dei prestatori in sé considerati), nonostante, peraltro, esso sia altrove visto come espediente elettivo per il superamento, da parte dell’imprenditore, delle condizioni “di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza” (cfr. art. 12, commi 1 e 2, CCII).
2 . La procedura informativo-consultiva ex art. 47 L. 29 dicembre 1990, n. 428
Il “nudo” rinvio all’art. 2112 c.c. e alle garanzie ivi assicurate va necessariamente coniugato, nelle imprese che occupano più di quindici dipendenti, con gli adempimenti di informazione e di eventuale esame congiunto sindacale previsti dall’art. 47, commi 1-4, L. n. 428/1990 [6] ; il mancato accenno in parte qua a questa indispensabile procedura [7] può, in un certo senso, legittimarsi ex post alla luce dei dati statistici dell’ultimo report dell’Unioncamere relativi alle imprese ammesse alla composizione negoziata e attestanti che “La maggioranza delle 83 imprese analizzate (circa il 52%) presenta un numero di addetti inferiore alle 9 unità. Seguono le piccole imprese con un numero di addetti compresi tra le 10 e le 29 unità che rappresentano il 35% del totale. Con riferimento alle imprese di maggiori dimensioni, considerando che sono ancora poche quelle che presentano istanza di accesso alla Composizione negoziata, si rinvengono percentuali più basse ma comunque significative: il 10% ha un numero di addetti compreso fra 50 e 249 mentre le grandi imprese, con più di 250 dipendenti, rappresentando all’incirca il 4% del totale” [8] , con una sensibile prevalenza, sembrerebbe, di piccole-medie imprese con modesti livelli occupazionali, inferiori alle quindici unità. Peraltro, la soglia dei quindici dipendenti per l’attivazione della procedura informativo-consultiva sindacale dev’essere ora tendenzialmente intesa in maniera più elastica ed evolutiva innanzi alle osservazioni della Corte Costituzionale, per cui “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari […] il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli” [9] .
Va anche detto che la consultazione sindacale è sì obbligatoria, ma la sua violazione o pretermissione non comportano di per sé l’invalidità del patto di cessione d’azienda comunque raggiunto, pur potendo essere motivo d’insorgenza di una vertenza sindacale o, nella peggiore delle ipotesi, di una causa per condotta antisindacale ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 (St. lav.) a carico dell’imprenditore in composizione negoziata [10] , che, d’altra parte, mantiene ferme tutte le sue responsabilità (art. 21, comma 1, ultimo alinea, CCII) – tenuto sempre presente che la rimozione degli effetti del comportamento illegittimo e antisindacale del datore, pur non incidendo, come si è detto, sul negozio traslativo, può nondimeno incidere, interdicendola o sospendendola, sull’efficacia del passaggio dei contratti di lavoro dal cedente al cessionario [11] .
Questo (inutile) azzardo e la pericolosa tensione che ne può sortire non sono di certo un desiderabile e opportuno viatico per il (e non giovano affatto al) buon esito della composizione negoziata: non solo la fase di informazione-consultazione sindacale è bene sia scrupolosamente osservata – anche per evitare che ciò possa ‘pesare’ quale condotta scorretta e contraria a buona fede e, come tale, ostativa ex art. 25 sexies, comma 1, CCII all’accesso al concordato semplificato – ma è anche auspicabile il raggiungimento di un accordo (previsto, sia pure in prospettiva eventuale, dall’art. 47, comma 2, L. n. 428/1990) quale sorta di “nulla osta” certificante, per così dire, la bontà dell’operazione traslativa. E tanto migliore e proficuo sarà il confronto con le organizzazioni sindacali quanto più scrupolosamente saranno osservati – specialmente da parte dell’esperto, che, a mente degli artt. 12, comma 2, e 17, comma 5, CCII, si ritiene possa (e debba) parteciparvi personalmente [12] – due importanti accorgimenti.
Il primo è quello di non trascurare ma di valorizzare al massimo e fare proprie le tradizioni, le forme, le prassi, le legacy culturali e le consuetudini (anche quando assumono modalità informali e ‘confidenziali’) delle relazioni sindacali come ‘storicamente’ tenute e affrontate da quella determinata impresa e da quei determinati lavoratori, e di rispettarne il portato selettivo e il carico valoriale; il filtro vagliante della specifica vicenda relazionale darà conto del perché talune questioni, piuttosto che altre, siano considerate determinanti, e perché questioni apparentemente di scarso spessore oggettivo rivestano, in quel determinato contesto e in quella determinata congiuntura, un forte e decisivo significato simbolico.
Il secondo è quello di evitare (o di ridurre al minimo) le asimmetrie informative: non è pensabile che la parte sindacale non venga esaustivamente e preventivamente messa a conoscenza delle intenzioni e delle strategie compositive dell’imprenditore, il quale, oltre a quanto indicato dall’art. 47, comma 1, L. n. 428/1990, dovrà metterle a diposizione, quantomeno, la documentazione elencata all’art. 17, comma 3, CCII e informarla (nel rispetto di un vincolo di riservatezza ex art. 16, comma 6, CCII che, perciò, andrà opportunamente calibrato) dello stato di avanzamento delle trattative con i creditori potenzialmente in grado di riverberarsi sui lavoratori e sul livello occupazionale dell’impresa [13] .
Non bisogna peraltro illudersi che l’accordo sindacale sia di per sé solo sufficiente: è vero che i soggetti autorizzati alla definizione della procedura consultivo-concertativa sono in primis le r.s.a. o le r.s.u. (istituzionalmente idonee a garantire una certa vincolante rappresentatività) [14] , ma è anche vero che gli accordi sindacali, anche aziendali, non hanno efficacia erga omnes e vincolano soltanto i lavoratori che aderiscono alle associazioni firmatarie [15] . Occorre perciò che l’intesa sindacale – l’ultimo alinea dell’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990 ne fa fugace cenno – venga recepita in accordi individuali con i lavoratori da sottoscriversi nelle sedi protette di cui all’art. 2113, comma 3, c.c. [16] 
3 . L’opportunità di una ‘pre-intesa’ con le organizzazioni sindacali
Tutto questo è importante da precisare affinché “non inganni l’ampiezza de l’intrare” nell’art. 2112 c.c., che mostra un inatteso dark side e che non è così ‘innocuo’ e ingenuamente garantista come potrebbe sembrare – a conferma del fatto che il richiamo ‘rassicurante’ alla sua “fermezza” può, in realtà, non esserlo del tutto; è vero che “restano ferme” le tre fondamentali guarentigie dei lavoratori, ma è anche vero che il passaggio di questi ultimi da un datore a un altro può esporli a conseguenze comunque afflittive. Lo dimostra il comma 4 dell’art. 2112 c.c., che non solo fa salva la facoltà per l’imprenditore di licenziare, ancorché per motivi diversi da quelli attinenti alla cessione d’azienda (ad esempio, per la necessità di esternalizzare taluni servizi o di sopprimere posti di lavoro prescindenti dalla manovra traslativa), ma autorizza anche il prestatore a dimettersi per giusta causa quando le “condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda” – chiara e diretta allusione all’eventualità ch’egli, a seguito dell’avvicendamento datoriale, possa trovarsi costretto, per esempio, ad accollarsi spese di trasferta presso la nuova sede lavorativa prima non necessarie, a mutare turni e orari di servizio (magari più disagevoli o meno compatibili con le esigenze personali e familiari), a svolgere nuove mansioni, pure d’inquadramento inferiore (nei limiti consentiti dall’art. 2103 c.c.). Tra le pieghe insidiose dell’art. 2112 c.c. sta anche il comma 3, ove si consente che il contratto collettivo applicato dall’impresa cedente sia sostituito con quello applicato dal cessionario[17], non necessariamente migliore (in tempi di “giungla” contrattuale) e che, anzi, potrebbe comportare la perdita di talune indennità retributive prima riconosciute.
Tutto ciò per dire che i lavoratori ceduti possono andare incontro a trattamenti peggiorativi che i loro rappresentanti sindacali hanno il sacrosanto diritto-dovere di regolare e di gestire, per attutirne o diluirne gli effetti più impattanti, nell’ambito della procedura consultiva e di concerto con la controparte datoriale. A tal proposito, è bene chiarire un ulteriore passaggio: poiché difficilmente potrà raggiungersi un’intesa sindacale innanzi a cessioni d’azienda che non prevedano misure lenitive o contenitive dei possibili mutamenti in peius del trattamento economico e normativo dei lavoratori trasferiti alle dipendenze dell’acquirente-cessionario, e poiché la scelta di quest’ultimo è preferibile avvenga, ex art. 22, comma 1, lett. d), CCII, nel “rispetto del principio di competitività”[18], è giocoforza che le organizzazioni sindacali attendano a una sorta di moral suasion pregiudizialmente orientata affinché la scelta del cessionario cada su colui che s’impegni a garantire inalterate (o meno inquietantemente alterate) le precedenti condizioni di lavoro[19].
È allora consigliabile che l’imprenditore in composizione negoziata, ancor prima dell’avvio della procedura ex art. 47 L. n. 428/1990 (ove si presuppone la presenza di un acquirente già individuato) e con i buoni e preziosi uffici dell’esperto (che può così esercitare le prerogative mediatorie, agevolatorie e convocative riconosciutegli dall’art. 17, comma 5, CCII)[20], si attivi con solerzia in vista di contatti anche informali[21], epperò utili a tracciare (sì da provvedervi di conseguenza) la “linea rossa” oltre la quale le organizzazioni sindacali non sono disponibili ad assentire all’operazione traslativa e a sottoscrivere un accordo in tal senso; in modo che simile ‘pre-intesa’, preparatoria ed esplicativa degli insuperabili “paletti” lavoristici, possa venire poi trasfusa nel testo del bando di vendita – in termini, appunto, di clausole condizionanti e perimetranti l’offerta d’acquisto degli imprenditori interessati – e quindi ratificata formalmente nell’accordo sindacale a conclusione dell’esame congiunto[22].
4 . L’inviolabilità assoluta dell’art. 2112 c.c.
Il fatto che l’art. 2112 “resta fermo” ne esclude per principio (e per forza) qualunque ipotesi derogatoria, comprese, in particolare, quelle consentite dai commi 4 bis e 5 dell’art. 47 L. n. 428/1990, pertinenti soltanto alle procedure concorsuali ivi tassativamente indicate, quale non è quella di composizione negoziata della crisi[23]– a dispetto, se n’è già accennato, del testo novellato dell’art. 191 CCII, che, se applicabile alla composizione negoziata, non può travolgere, se non scadendo in contraddizione, la “fermezza” delle garanzie dei lavoratori. E anche questo, però, non va scevro di qualche perplessità.
In effetti, è stato condivisibilmente osservato, a margine di un’interessante pronuncia di merito[24], che “il tribunale può autorizzare la cessione dell’azienda o di suoi rami nel corso della composizione negoziata a condizione che la stessa risponda, in prima analisi, all’interesse del ceto creditorio attraverso un raffronto con la presumibile soddisfazione dei medesimi creditori avuto riguardo allo scenario liquidatorio di matrice concorsuale, all’esito di un giudizio [prognostico, n.d.a.] di non inferiorità della provvista generata dalla cessione dell’azienda in continuità in fase di composizione negoziata con il risultato astrattamente atteso dalla vendita endofallimentare dell’azienda in esercizio”[25]. Il ragionamento non fa una grinza: sennonché la comparazione con il presumibile “scenario liquidatorio di matrice concorsuale” in tanto non è concretamente percorribile in quanto, nella composizione negoziata della crisi, l’azienda non può essere ceduta se non a fronte dell’integrale rispetto dell’art. 2112 c.c. e, segnatamente, del mantenimento dell’occupazione di tutti i lavoratori, non uno di meno, presso il cessionario; al contrario, nella liquidazione giudiziale i “pilastri” portanti della predetta disposizione possono essere diffusamente intaccati nei termini di cui all’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990 – cosa che rende di fatto incomparabile (o difficilmente comparabile) il valore competitivo “astrattamente atteso dalla vendita endofallimentare dell’azienda”.
5 . Si applica l’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990 al concordato semplificato?
Anche nella cessione d’azienda che si realizzi nell’ambito del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio – quale possibile ripiego liquidatorio ex art. 25 sexies, comma 1, CCII al “fallimento” (è il caso di dirlo) della procedura compositiva[26]– si ritiene debba trovare applicazione, in forma altrettanto integrale e inderogabile, l’art. 2112 c.c. [27] : ciò sia nel caso in cui il negozio traslativo partecipi invariatamente dell’autorizzazione tribunalizia già concessa ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. d), CCII (con conseguente ‘trascinamento’ conservativo, in forza dell’art. 24, comma 1, CCII, degli effetti dei provvedimenti autorizzatori, nonché, occorre ritenerlo, anche degli effetti di “fermezza” dell’art. 2112 c.c.) [28] , sia nel caso in cui l’autorizzazione venga sussunta sotto l’omologazione ex art. 25 sexies, comma 5, CCII della proposta concordataria [29] . Non solo: l’eventualità che la concreta gestione della composizione negoziata rimanga sottratta al controllo giudiziale [30] potrebbe prestarsi a (e favorire) malaugurati accessi strumentali al concordato semplificato [31] , magari proprio al malcelato fine di derogare alle garanzie dei lavoratori ceduti.
Si giunge alla medesima conclusione anche per altra via: è discusso e, anzi, è decisamente controverso, se al concordato semplificato, che ha indubbia natura concorsuale [32] , vadano applicate in via analogica le norme sul concordato preventivo [33] ; la tesi negativa – fondata sul fatto che si è davanti a una figura giuridica a sé stante [34] , o che, semmai, meritevoli di applicazione analogica sarebbero solo le norme sul concordato nella liquidazione giudiziale, attesa la corrispondenza funzionale tra i due istituti – non dovrebbe comunque ostare alla regola di “indifferenza” (già ravvisabile, come si è visto, nella fase ‘prodromica’ della composizione negoziata) espressa dall’art. 97, comma 13, CCII [35] , sicché rimarrebbero insensibili al concordato semplificato i rapporti di lavoro pendenti, con conseguente applicazione ‘extraterritoriale’ della loro ordinaria e precipua normativa, compreso, quindi, l’art. 2112 c.c.; e compresa la circostanza (alquanto destabilizzante in verità, e che sembra confermare, com’è stato suggestivamente detto, quell’”idea di una concorsualità liquida” sottesa all’attuale assetto del sistema concordatario nel diritto della crisi d’impresa) [36] per cui la presenza di vizi di nullità del patto di cessione aziendale dev’essere risolta, da parte dei lavoratori coinvolti, non con il reclamo avverso il decreto di omologazione, ma – eco di fondo dell’opzione di “neutralità” verso l’assetto normativo giuslavoristico – con l’impugnazione dell’atto traslativo presso il giudice del lavoro ai sensi del combinato disposto degli artt. 6 L. 15 luglio 1966, n. 604, e 32, comma 4, lett. c), L. 4 novembre 2010, n. 183.
È quindi dubbio, a parere di chi scrive, che alla cessione d’azienda nel concordato semplificato si applichi il regime di deroga alle garanzie dell’art. 2112 c.c. previsto dall’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990. L’estensione analogica di tale disposizione dovrebbe ritenersi interdetta ex art. 12, comma 1, prel. c.c. dal carattere di legge speciale (appunto perché consente ampie deroghe contra prestatores ai tre “pilastri” portanti dell’art. 2112 c.c.) e dalla conseguente tassatività dell’elenco delle procedure concorsuali interessate, tra le quali non figura nominatim il concordato semplificato; né la natura indefettibilmente liquidatoria di questa procedura – che potrebbe comunque prevedere ipotesti di continuità indiretta, come l’affitto dell’azienda [37] – basta a forzare il dato normativo limitato letteralmente e insuperabilmente al concordato preventivo, ancorché liquidatorio [38] . È vero (se n’è già accennato) che il testo novellato dell’art. 191 CCII estende ora l’applicazione ‘generalizzata’ dell’art. 47 L. n. 428/1990 a tutti gli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, compreso, quindi, il concordato semplificato; tuttavia, la mancata espressa inclusione di quest’ultimo nell’elencazione – si ripete, tassativa – del comma 5 (posto altresì che il D.Lgs. n. 136/2024 è intervenuto sull’art. 47, sicché, se avesse voluto, lo avrebbe potuto conformemente modificare per scongiurare, appunto, problemi interpretativi di simile portata) dovrebbe consigliare la massima cautela (il concordato è sì semplificato, ma non è che debba essere semplificato tutto ciò che lo riguarda, comprese le garanzie dei lavoratori) e far ritenere piuttosto che il richiamo applicativo sia limitato, in questo specifico ambito, alle sole disposizioni sugli obblighi di informazione e di esame congiunto [39] .
Non è detto, peraltro, che sia necessariamente così, poiché – è verissimo – “la tutela indiscriminata della continuità dei rapporti di lavoro potrebbe addirittura essere ragione di azzeramento, per effetto della disgregazione aziendale, di quello stesso interesse dei dipendenti che si intenderebbe tutelare” [40] . La (pur opinabile) opzione interpretativa qui patrocinata è certamente favorevole ai lavoratori, ma può lasciare scoperta qualche lacuna: essa, tra l’altro, non darebbe ingresso al comma 5 bis dell’art. 47 L. n. 428/1990, ove si prevede pro prestatoribus che “il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell’azienda” e che il relativo Fondo di garanzia dell’I.N.P.S. “interviene anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente”, in quanto – cosa davvero sorprendente – “la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro”. Premesso che l’intervento del Fondo di garanzia deve ritenersi ammissibile, ex art. 2 L. 29 maggio 1982, n. 297, anche nel concordato semplificato [41] (sempre che l’impresa abbia meno di quindici dipendenti), il comma 5 bis si spinge ben oltre facendo sì che la cessione del compendio produttivo equivalga a cesura dei rapporti di lavoro in essere (benché proseguano intonsi con l’impresa cessionaria), funzionale agli effetti dell’art. 2120, comma 1, c.c. e, perciò, al riconoscimento e all’immediata esigibilità del credito per t.f.r. maturato presso l’impresa cedente [42] .

Note:

[1] 
Sorprende, d’altronde, che l’art. 17, comma 3, CCII non annoveri alcuna documentazione, tra quelle necessarie per l’accesso alla procedura, direttamente riguardante i dipendenti (a parte il certificato dei debiti contributivi), neppure in relazione al loro numero e alla tipologia dei contratti di lavoro.
[2] 
Cfr. L. Piccininni, La circolazione dell’impresa nelle procedure concorsuali, in A. D. De Santis - A. Patti (a cura di), Lavoro e crisi d’impresa, Bari, 2023, 206. Peraltro, ai sensi dell’art. 21, comma 2, CCII, l’imprenditore può cedere (non, forse, l’intera azienda, ma di certo) un ramo di essa anche al di fuori dell’ambito autorizzatorio ex art. 22, comma 1, lett. d), CCII e della procedura competitiva di vendita, non trattandosi di vendita concorsuale; l’autorizzazione del tribunale sembra allora necessaria non per la validità dell’atto traslativo, ma per consentire l’esenzione del cessionario dalla responsabilità solidale ex art. 2560, comma 2, c.c.: cfr. Trib. Piacenza 1 giugno 2023, in Fallimento, 2023, 1462. Si rammenta, inoltre, che il ramo d’azienda può non corrispondere ad asset materiali, ma anche a un gruppo di lavoratori (c.d. labour intensive) che condividono in forma unificante una certa specifica competenza tecnologica o un certo know-how aziendale.
[3] 
In base al quale costituisce “trasferimento di azienda qualunque operazione che […] comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata e che conserva nel trasferimento la propria identità”. Si nota agevolmente il saldo ancoraggio dell’effetto traslativo, ai fini del mantenimento dei diritti dei lavoratori ceduti, alla titolarità soggettiva dell’azienda (che cambia) e all’identità oggettiva dell’azienda (che non cambia). Stesso concetto che si ritrova (ma con linguaggio più contorto) nel testo dell’art. 29, comma 3, D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, in tema di cambio d’appalto, per cui, nel subentro dell’appaltatore avvicendatario, non si verifica alcun trasferimento d’azienda quando “siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa”, ovverosia quando muta l’identità dell’azienda, in maniera incompatibile con la definizione lavoristica di cessione.
[4] 
Cfr. L. Piccininni, op. cit., 224.
[5] 
Cfr. M. Arato, La cessione d’azienda nella composizione negoziata, in Dirittodellacrisi.it, 2024, 3.
[6] 
Che, è bene ricordarlo, “mira a rendere possibile una trattativa sulle “conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori” e non già sull’adozione della scelta imprenditoriale di attuare la cessione”: I. Alvino, Art. 2086 c.c. e procedure di informazione e consultazione sindacale, in Lav.dir.europa, 2023, 1, 16.
[7] 
Il richiamo operato dal testo novellato dell’art. 191 CCII, ai fini dell’applicazione dell’art. 47 L. n. 428/1990, a tutti “gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” può dare adito a dubbi sull’inclusione, in tale novero, della composizione negoziata della crisi – e l’art. 2, comma 1, lett. m-bis, CCII conferma la perplessità. Nel senso (più corretto, a parere di chi scrive) di non considerarla uno strumento di regolazione della crisi, almeno in senso stretto, cfr. S. Pacchi, La scelta dello strumento di regolazione della crisi, in Ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2024, 7 e passim. A margine, va accolta favorevolmente la possibilità di fare ricorso anche in questa procedura al c.d. work buyout, ossia all’acquisto dell’azienda da parte dei lavoratori riuniti in cooperativa ai sensi dell’art. 11, comma 2, D.L. 23 dicembre 2013, n. 145 (convertito nella L. 21 febbraio 2014, n. 9), citato, appunto, nell’art. 191 CCII.
[8] 
UNIONCAMERE, La composizione negoziata per la crisi d’impresa. Osservatorio semestrale. Quarta edizione, in Unioncamere.gov.it, 16 novembre 2023, 15.
[9] 
Corte Cost. 22 luglio 2022, n. 183.
[10] 
Nonché dell’imprenditore “che intenda proporre offerta di acquisto dell’azienda” (art. 47, comma 1 bis, L. n. 428/1990), tenuto, anche in via surrogatoria rispetto al cedente, a inoltrare le dovute comunicazioni alle organizzazioni sindacali.
[11] 
Cfr. I. Alvino, op. cit., 15, il quale, perdipiù, ritiene che simile condotta abbia a che fare con l’art. 2086, comma 2, c.c., là dove “consente di ricondurre il corretto adempimento delle procedure di informazione e consultazione sindacale all’interno del modo stesso di fare impresa, divenendo parte della costruzione di assetti organizzativi adeguati ai sensi della medesima disposizione” – nonché, si aggiunge, dell’art. 3, commi 2 e 3, CCII.
[12] 
Di parere difforme L. Piccininni, op. cit., 233. In ogni caso, l’intervento correttivo del D.Lgs. n. 136/2024 ha voluto precisare, a scanso di equivoci, che l’individuazione della soluzione per il superamento della crisi (compreso il trasferimento del compendio aziendale) spetta in prima battuta al solo imprenditore (art. 21, comma 1, CCII), comunque tenuto a informare “l’esperto sullo stato delle trattative che conduce senza la sua presenza” (art. 17, comma 5, CCII).
[13] 
Si pensi, ad esempio, alle trattative per la cessione di un marchio di prodotti lavorati in un’apposita linea produttiva, che, perciò, potrebbe andare soppressa agli effetti dell’art. 24, comma 1, L. 23 luglio 1991, n. 223, sui licenziamenti collettivi. Si rammenta quindi che, in forza degli artt. 4, comma 2, lett. a), e 16, comma 4, CCII, l’imprenditore ha l’onere di “illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo tutte le informazioni necessarie e appropriate rispetto alle trattative avviate” e di “rappresentare la propria situazione all’esperto, ai creditori e agli altri soggetti interessati [compresi, quindi, i lavoratori, n.d.a.] in modo completo e trasparente”.
[14] 
È da notare come non ci sia piena e perfetta corrispondenza, quanto alle organizzazioni sindacali coinvolte, tra il comma 1 dell’art. 47 L. n. 428/90 e i commi 4-bis e 5: mentre la prima norma le fa coincidere in via prioritaria e ‘gerarchica’ con le r.s.u. e le r.s.a., le seconde, richiamando l’art. 51 D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, sembrano invece mettere sullo stesso piano gli accordi collettivi aziendali sottoscritti dalle relative rappresentanze con quelli “stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
[15] 
Il ricorso alle c.d. intese di prossimità previste dall’art. 8 D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (convertito nella L. 14 settembre 2011, n. 148) – che possono derogare a pressoché tutte le norme legislative e collettive e che hanno “efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali” – non è praticabile nella fattispecie, dato che la materia della cessione d’azienda è esclusa da quelle su cui possono insistere tali accordi. 
[16] 
Con le conciliazioni ex art. 2113 c.c. i singoli lavoratori, in cambio della corresponsione di una somma di denaro, possono anche rinunciare tout court al passaggio presso il cessionario: cfr. A. M. Riva, Il trasferimento dell’impresa in crisi e i rapporti di lavoro, in Lav.dir.europa, 2023, 1, 8.
[17] 
In questo senso, cfr. Cass. (ord.) 15 aprile 2024, n. 10120.
[18] 
Sulle possibili modalità tecniche, cfr. Trib. Milano 16 marzo 2024, in ilCaso.it.
[19] 
L’eventualità è valutata in comprensibili termini allarmati da L. Piccininni, op. cit., 234, per cui “La prassi e l’esperienza sveleranno se tale esito, ragionevole in astratto ed in chiave sistematica, possa concretamente esercitare una forza deterrente, di allontanamento dalla dinamiche della composizione negoziata, per l’imprenditore che intenda affrontare la crisi con soluzioni traslative del complesso aziendale”.
[20] 
Di cui egli deve dare sempre conto nei pareri che gli vengano richiesti (cfr. art. 16, comma 2 bis, CCII).
[21] 
Cfr. L. Piccininni, op. cit., 223-224. Contatti che ben potrebbero tenersi nell’apposita sede di confronto ex art. 4, comma 3, CCII. 
[22] 
Si propone, cioè, qualcosa di simile a quanto previsto dall’art. 11 D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, in tema di appalti pubblici, per cui nei bandi delle stazioni appaltanti dev’essere obbligatoriamente specificato il contratto collettivo da applicare al personale impiegato nell’appalto, sicché l’appaltatore viene messo in condizione di conoscere subito e preventivamente, già al momento in cui trasmette l’offerta, il complessivo trattamento normativo ed economico, non modificabile in peius, che dovrà riconoscere ai lavoratori.
[23] 
Cfr. L. Panzani, La composizione negoziata della crisi: il ruolo del giudice, in Dirittodellacrisi.it, 2022, 1.
[24] 
Si tratta di Trib. Parma 4 novembre 2022, in ilCaso.it.
[25] 
A. Farolfi, La composizione negoziata nel nuovo codice della crisi: prime applicazioni, in Lav.dir.europa, 2023, 1, 12.
[26] 
Che è “antecedente logico” del concordato semplificato: cfr. A. Bonivento, Opportunità e criticità del concordato semplificato: aspetti operativi, in Ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2024, 3.
[27] 
Il primato assiologico della continuità aziendale e della soddisfazione dei creditori, rispetto ai precipitati lavoristici della cessione d’azienda, appare un po’ affievolito nel concordato semplificato se si valorizza “l’opinione che sottolinea la matrice strettamente liquidatoria del semplificato, segnalando che quand’anche avvenga la cessione dell’azienda, la stessa “non è … funzionalizzata alla continuità ma alla massimizzazione del valore”, quindi all’ottenimento di un “ricavato migliore” per i creditori”: S. Leuzzi, Il concordato semplificato nel prisma delle prime applicazioni, in Dirittodellacrisi.it, 2023, 2.
[28] 
Cfr. L. Piccininni, op. cit., 234, e G. D’attorre, Il trasferimento dell’azienda nella composizione negoziata, in Dirittodellacrisi.it, 2021, 10-11. Possono così essere qui replicate le medesime argomentazioni svolte nei precedenti paragrafi. In particolare, l’art. 25 septies, comma 1, CCII, nel richiamare l’art. 114 CCII sulla liquidazione nel concordato liquidatorio, sembra disporre l’adozione di procedure competitive per la vendita dell’azienda anche nell’ambito del concordato semplificato; cfr. S. Leuzzi, op. cit., 32-33. Forti perplessità in merito sono invece espresse da G. Bozza, Il ruolo del giudice nel concordato semplificato, in Ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2023, 15-17, e da T. Senni, Il concordato liquidatorio semplificato e le sue insidie: la pronuncia del tribunale di Como del 27 ottobre 2022. Riflessioni sull’approccio del creditore bancario, in Dirittodellacrisi.it, 2023, 7. Occorre perciò ribadire l’opportunità di una ‘pre-intesa’ con le organizzazioni sindacali, quand’anche fosse ammissibile un’offerta “chiusa” da parte di un acquirente già determinato e impegnatosi irrevocabilmente (cfr. art. 114, comma 1 bis, CCII).
[29] 
C’è da ritenere che pure nel concordato semplificato l’imprenditore, come già nella composizione negoziata della crisi, possa alienare l’azienda (o, verosimilmente, parti di essa) ai sensi degli artt. 46 e 94 CCII, richiamati dall’art. 25 sexies, comma 2, CCII; cfr. T. Senni, op. cit., 7.
[30] 
Cfr., sul punto, Trib. Milano 23 aprile 2024, in Dirittodellacrisi.it, per cui “le modalità concrete di svolgimento delle trattative e degli incontri programmati non sono sindacabili dal Tribunale né sono tali allo stato da determinare una manifesta inammissibilità della domanda per difetto di correttezza e buona fede, salvi i necessari approfondimenti dell’esperto”.
[31] 
Paventa questo rischio B. Conca, Il ruolo dell’esperto e la gestione dell’impresa, in L. Calcagno - F. DI Marzio (a cura di), Composizione negoziata della crisi di impresa e concordato semplificato. Quaderni SSM, 2023, 23, 81-82.
[32] 
Cfr. Cass. (ord.) 12 aprile 2023, n. 9730, e Trib. Milano 16 settembre 2022, in Fallimento, 2023, 699; cfr. anche A. Bonivento, op. cit., 3.
[33] 
Cfr. G. Bozza, op. cit., 3. Il D.Lgs. n. 136/2024 ha determinato un certo ‘avvicinamento’ tra i due istituti, là dove, per esempio, è stato inserito nell’art. 25 sexies, comma 1, CCII il richiamo all’art. 84, comma 5, CCII sul trattamento dei crediti garantiti da privilegio, pegno e ipoteca, che comprendono anche i crediti da rapporto di lavoro subordinato e che, pertanto, possono subire la falcidia concordataria.
[34] 
Cfr. G. Carmellino, Prove di concorsualità per il concordato semplificato, in Fallimento, 2023, 702, e M. Cardanobile - P. De Santis, Il concordato semplificato introdotto dal D.L. 118/2021, in Diritto.it, 2022, 6.
[35] 
Cfr., in senso dubitativo, P. F. Censoni, Il concordato «semplificato»: un istituto enigmatico, in Ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2022, 22, e M. Spiotta, Evoluzione del diritto concorsuale e modello concordatario: unitarietà o pluralità?, in Fallimento, 2023, 876.
[36] 
Ibid., 872.
[37] 
Cfr. A. Bonivento, op. cit., 29.
[38] 
Cfr. L. Piccininni, op. cit., 234.
[39] 
Di parere contrario G. Bozza, La vendita dell’azienda nel concordato semplificato, in Dirittodellacrisi.it, 2024, 7-8 e 24, ove si afferma che il nuovo art. 191 CCII ha natura di norma generale e integrativa, anche nell’interesse dei lavoratori, dell’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990.
[40] 
R. Bellè, Trasferimento di azienda in crisi, licenziamento dei lavoratori e altre modifiche minori ai rapporti di lavoro. Stato dell’arte e scenari evolutivi, in Lav.dir.europa, 2023, 2, 3. 
[41] 
Cfr. Trib. Como 27 ottobre 2022, in ilCaso.it.
[42] 
Cfr. F. Aprile, La formazione progressiva del credito per t.f.r. e la sua incidenza sull’ammissione al passivo del fallimento datoriale: sentieri battuti e nuove prospettive, in Fallimento, 2022, 662-663.

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