Saggio
La cessione d’azienda nella composizione negoziata della crisi e nel concordato semplificato: la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici alla luce (fioca) del decreto correttivo*
Fabrizio Aprile, Consigliere della Corte d’Appello di Torino
18 Novembre 2024
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Sommario:
Nel preliminare approccio alle ricadute lavoristiche della cessione d’azienda nella composizione negoziata riveste un’importanza cruciale e strategica il “fattore tempo”: l’allarme che di norma suscita la notizia del possibile trasferimento di tutto il (o di parte del) compendio produttivo ne pone comprensibilmente gli operatori addetti (e in special modo il personale dirigenziale e direttivo e quello più tecnicamente qualificato: in una parola, i lavoratori “più bravi”, gli altrimenti detti key employees) nell’ottica di un approdo verso altri e più affidabili lidi occupazionali (ove non siano stati previsti “a monte” e in tempi non sospetti appositi patti di stabilità o piani di incentivazione), con quanto ne consegue regressivamente sul valore competitivo dell’azienda in odore di cessione. Sempreché, ovviamente, l’imprenditore non bussi alle porte della procedura dopo avere già provveduto a significativi licenziamenti.
Non a caso, l’impellenza di questa “recherche du temps perdu” (sicché pure i termini ex art. 17, comma 7, CCII rischiano di essere troppo lunghi) è avvertita e intercettata dal legislatore là dove, da un lato, sollecita le parti coinvolte nelle trattative ad assumere “tempestivamente” le iniziative compositive (art. 4, comma 2, lett. b), CCII) e a collaborare tra di loro “in modo sollecito” (art. 16, comma 6, CCII), e, dall’altro, esorta l’esperto a verificare il possesso “della disponibilità di tempo” necessario e a convocare “senza indugio” l’imprenditore (art. 17, comma 5, CCII); e in questa premura cronologica – che diventa ‘cairologica’ – non è detto sia necessariamente un bene la previsione, aggiunta dal D.Lgs. n. 136/2024, per cui “L’attuazione del provvedimento di autorizzazione concesso dal tribunale [compreso quello sulla cessione dell’azienda, n.d.a.] può avvenire prima o successivamente alla chiusura della composizione negoziata se previsto dallo stesso tribunale o se indicato nella relazione finale dell’esperto” (art. 22, comma 1 bis, CCII).
Rimanendo sull’autorizzazione tribunalizia, l’art. 22, comma 1, lett. d), CCII appare letteralmente riferito al solo trasferimento progressivo dell’azienda [2], non anche all’affitto; questa cosa sembra partecipare della disciplina generale della cessione ‘commercialistica’ dell’azienda di cui agli artt. 2558 e ss. c.c. (indirettamente evocata dal richiamo derogatorio all’art. 2560, comma 2, c.c.), che non parlano di affitto se non limitatamente all’estensione ad esso delle disposizioni sull’usufrutto (cfr. art. 2562 c.c.). Se la questione, invece, viene riguardata sub specie della cessione ‘lavoristica’ dell’azienda ex art. 2112, comma 5, c.c. [3] (che “resta fermo” e comprende esplicitamente l’affitto tra le varie forme tipologiche di trasferimento), allora tale limitazione non ha alcuna ragion d’essere [4]; inutile aggiungere, a questo punto, che tutto ciò non interferisce in alcun modo con (e non ostacola) la responsabilità solidale del cessionario per i crediti dei lavoratori imposta dall’art. 2112, comma 2, c.c. [5] A tal proposito, può non essere insensato ritenere che la regola enunciata dall’art. 84, comma 2, CCII – per cui l’affitto d’azienda nel concordato in continuità indiretta deve sempre e comunque porsi “in funzione della presentazione del ricorso” e, quindi, in immediato e adeguato rapporto con la continuità dell’impresa – esprima una valenza generale estensibile a tutte le procedure lato sensu conservative (o “di resilienza”, com’è anche bello chiamarle), tra cui la composizione negoziata della crisi.
A ogni modo, non va mai perso di vista che il trasferimento dell’azienda – e la circostanza non è priva di significato quanto alla messa a fuoco delle aspettative e degli interessi dei lavoratori – dev’essere funzionale, come si legge nell’esordio del comma 1 dell’art. 22 CCII, “alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori” (e non dei prestatori in sé considerati), nonostante, peraltro, esso sia altrove visto come espediente elettivo per il superamento, da parte dell’imprenditore, delle condizioni “di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza” (cfr. art. 12, commi 1 e 2, CCII).
Va anche detto che la consultazione sindacale è sì obbligatoria, ma la sua violazione o pretermissione non comportano di per sé l’invalidità del patto di cessione d’azienda comunque raggiunto, pur potendo essere motivo d’insorgenza di una vertenza sindacale o, nella peggiore delle ipotesi, di una causa per condotta antisindacale ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 (St. lav.) a carico dell’imprenditore in composizione negoziata [10] , che, d’altra parte, mantiene ferme tutte le sue responsabilità (art. 21, comma 1, ultimo alinea, CCII) – tenuto sempre presente che la rimozione degli effetti del comportamento illegittimo e antisindacale del datore, pur non incidendo, come si è detto, sul negozio traslativo, può nondimeno incidere, interdicendola o sospendendola, sull’efficacia del passaggio dei contratti di lavoro dal cedente al cessionario [11] .
Questo (inutile) azzardo e la pericolosa tensione che ne può sortire non sono di certo un desiderabile e opportuno viatico per il (e non giovano affatto al) buon esito della composizione negoziata: non solo la fase di informazione-consultazione sindacale è bene sia scrupolosamente osservata – anche per evitare che ciò possa ‘pesare’ quale condotta scorretta e contraria a buona fede e, come tale, ostativa ex art. 25 sexies, comma 1, CCII all’accesso al concordato semplificato – ma è anche auspicabile il raggiungimento di un accordo (previsto, sia pure in prospettiva eventuale, dall’art. 47, comma 2, L. n. 428/1990) quale sorta di “nulla osta” certificante, per così dire, la bontà dell’operazione traslativa. E tanto migliore e proficuo sarà il confronto con le organizzazioni sindacali quanto più scrupolosamente saranno osservati – specialmente da parte dell’esperto, che, a mente degli artt. 12, comma 2, e 17, comma 5, CCII, si ritiene possa (e debba) parteciparvi personalmente [12] – due importanti accorgimenti.
Il primo è quello di non trascurare ma di valorizzare al massimo e fare proprie le tradizioni, le forme, le prassi, le legacy culturali e le consuetudini (anche quando assumono modalità informali e ‘confidenziali’) delle relazioni sindacali come ‘storicamente’ tenute e affrontate da quella determinata impresa e da quei determinati lavoratori, e di rispettarne il portato selettivo e il carico valoriale; il filtro vagliante della specifica vicenda relazionale darà conto del perché talune questioni, piuttosto che altre, siano considerate determinanti, e perché questioni apparentemente di scarso spessore oggettivo rivestano, in quel determinato contesto e in quella determinata congiuntura, un forte e decisivo significato simbolico.
Il secondo è quello di evitare (o di ridurre al minimo) le asimmetrie informative: non è pensabile che la parte sindacale non venga esaustivamente e preventivamente messa a conoscenza delle intenzioni e delle strategie compositive dell’imprenditore, il quale, oltre a quanto indicato dall’art. 47, comma 1, L. n. 428/1990, dovrà metterle a diposizione, quantomeno, la documentazione elencata all’art. 17, comma 3, CCII e informarla (nel rispetto di un vincolo di riservatezza ex art. 16, comma 6, CCII che, perciò, andrà opportunamente calibrato) dello stato di avanzamento delle trattative con i creditori potenzialmente in grado di riverberarsi sui lavoratori e sul livello occupazionale dell’impresa [13] .
Non bisogna peraltro illudersi che l’accordo sindacale sia di per sé solo sufficiente: è vero che i soggetti autorizzati alla definizione della procedura consultivo-concertativa sono in primis le r.s.a. o le r.s.u. (istituzionalmente idonee a garantire una certa vincolante rappresentatività) [14] , ma è anche vero che gli accordi sindacali, anche aziendali, non hanno efficacia erga omnes e vincolano soltanto i lavoratori che aderiscono alle associazioni firmatarie [15] . Occorre perciò che l’intesa sindacale – l’ultimo alinea dell’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990 ne fa fugace cenno – venga recepita in accordi individuali con i lavoratori da sottoscriversi nelle sedi protette di cui all’art. 2113, comma 3, c.c. [16]
Tutto ciò per dire che i lavoratori ceduti possono andare incontro a trattamenti peggiorativi che i loro rappresentanti sindacali hanno il sacrosanto diritto-dovere di regolare e di gestire, per attutirne o diluirne gli effetti più impattanti, nell’ambito della procedura consultiva e di concerto con la controparte datoriale. A tal proposito, è bene chiarire un ulteriore passaggio: poiché difficilmente potrà raggiungersi un’intesa sindacale innanzi a cessioni d’azienda che non prevedano misure lenitive o contenitive dei possibili mutamenti in peius del trattamento economico e normativo dei lavoratori trasferiti alle dipendenze dell’acquirente-cessionario, e poiché la scelta di quest’ultimo è preferibile avvenga, ex art. 22, comma 1, lett. d), CCII, nel “rispetto del principio di competitività”[18], è giocoforza che le organizzazioni sindacali attendano a una sorta di moral suasion pregiudizialmente orientata affinché la scelta del cessionario cada su colui che s’impegni a garantire inalterate (o meno inquietantemente alterate) le precedenti condizioni di lavoro[19].
È allora consigliabile che l’imprenditore in composizione negoziata, ancor prima dell’avvio della procedura ex art. 47 L. n. 428/1990 (ove si presuppone la presenza di un acquirente già individuato) e con i buoni e preziosi uffici dell’esperto (che può così esercitare le prerogative mediatorie, agevolatorie e convocative riconosciutegli dall’art. 17, comma 5, CCII)[20], si attivi con solerzia in vista di contatti anche informali[21], epperò utili a tracciare (sì da provvedervi di conseguenza) la “linea rossa” oltre la quale le organizzazioni sindacali non sono disponibili ad assentire all’operazione traslativa e a sottoscrivere un accordo in tal senso; in modo che simile ‘pre-intesa’, preparatoria ed esplicativa degli insuperabili “paletti” lavoristici, possa venire poi trasfusa nel testo del bando di vendita – in termini, appunto, di clausole condizionanti e perimetranti l’offerta d’acquisto degli imprenditori interessati – e quindi ratificata formalmente nell’accordo sindacale a conclusione dell’esame congiunto[22].
In effetti, è stato condivisibilmente osservato, a margine di un’interessante pronuncia di merito[24], che “il tribunale può autorizzare la cessione dell’azienda o di suoi rami nel corso della composizione negoziata a condizione che la stessa risponda, in prima analisi, all’interesse del ceto creditorio attraverso un raffronto con la presumibile soddisfazione dei medesimi creditori avuto riguardo allo scenario liquidatorio di matrice concorsuale, all’esito di un giudizio [prognostico, n.d.a.] di non inferiorità della provvista generata dalla cessione dell’azienda in continuità in fase di composizione negoziata con il risultato astrattamente atteso dalla vendita endofallimentare dell’azienda in esercizio”[25]. Il ragionamento non fa una grinza: sennonché la comparazione con il presumibile “scenario liquidatorio di matrice concorsuale” in tanto non è concretamente percorribile in quanto, nella composizione negoziata della crisi, l’azienda non può essere ceduta se non a fronte dell’integrale rispetto dell’art. 2112 c.c. e, segnatamente, del mantenimento dell’occupazione di tutti i lavoratori, non uno di meno, presso il cessionario; al contrario, nella liquidazione giudiziale i “pilastri” portanti della predetta disposizione possono essere diffusamente intaccati nei termini di cui all’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990 – cosa che rende di fatto incomparabile (o difficilmente comparabile) il valore competitivo “astrattamente atteso dalla vendita endofallimentare dell’azienda”.
Si giunge alla medesima conclusione anche per altra via: è discusso e, anzi, è decisamente controverso, se al concordato semplificato, che ha indubbia natura concorsuale [32] , vadano applicate in via analogica le norme sul concordato preventivo [33] ; la tesi negativa – fondata sul fatto che si è davanti a una figura giuridica a sé stante [34] , o che, semmai, meritevoli di applicazione analogica sarebbero solo le norme sul concordato nella liquidazione giudiziale, attesa la corrispondenza funzionale tra i due istituti – non dovrebbe comunque ostare alla regola di “indifferenza” (già ravvisabile, come si è visto, nella fase ‘prodromica’ della composizione negoziata) espressa dall’art. 97, comma 13, CCII [35] , sicché rimarrebbero insensibili al concordato semplificato i rapporti di lavoro pendenti, con conseguente applicazione ‘extraterritoriale’ della loro ordinaria e precipua normativa, compreso, quindi, l’art. 2112 c.c.; e compresa la circostanza (alquanto destabilizzante in verità, e che sembra confermare, com’è stato suggestivamente detto, quell’”idea di una concorsualità liquida” sottesa all’attuale assetto del sistema concordatario nel diritto della crisi d’impresa) [36] per cui la presenza di vizi di nullità del patto di cessione aziendale dev’essere risolta, da parte dei lavoratori coinvolti, non con il reclamo avverso il decreto di omologazione, ma – eco di fondo dell’opzione di “neutralità” verso l’assetto normativo giuslavoristico – con l’impugnazione dell’atto traslativo presso il giudice del lavoro ai sensi del combinato disposto degli artt. 6 L. 15 luglio 1966, n. 604, e 32, comma 4, lett. c), L. 4 novembre 2010, n. 183.
È quindi dubbio, a parere di chi scrive, che alla cessione d’azienda nel concordato semplificato si applichi il regime di deroga alle garanzie dell’art. 2112 c.c. previsto dall’art. 47, comma 5, L. n. 428/1990. L’estensione analogica di tale disposizione dovrebbe ritenersi interdetta ex art. 12, comma 1, prel. c.c. dal carattere di legge speciale (appunto perché consente ampie deroghe contra prestatores ai tre “pilastri” portanti dell’art. 2112 c.c.) e dalla conseguente tassatività dell’elenco delle procedure concorsuali interessate, tra le quali non figura nominatim il concordato semplificato; né la natura indefettibilmente liquidatoria di questa procedura – che potrebbe comunque prevedere ipotesti di continuità indiretta, come l’affitto dell’azienda [37] – basta a forzare il dato normativo limitato letteralmente e insuperabilmente al concordato preventivo, ancorché liquidatorio [38] . È vero (se n’è già accennato) che il testo novellato dell’art. 191 CCII estende ora l’applicazione ‘generalizzata’ dell’art. 47 L. n. 428/1990 a tutti gli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, compreso, quindi, il concordato semplificato; tuttavia, la mancata espressa inclusione di quest’ultimo nell’elencazione – si ripete, tassativa – del comma 5 (posto altresì che il D.Lgs. n. 136/2024 è intervenuto sull’art. 47, sicché, se avesse voluto, lo avrebbe potuto conformemente modificare per scongiurare, appunto, problemi interpretativi di simile portata) dovrebbe consigliare la massima cautela (il concordato è sì semplificato, ma non è che debba essere semplificato tutto ciò che lo riguarda, comprese le garanzie dei lavoratori) e far ritenere piuttosto che il richiamo applicativo sia limitato, in questo specifico ambito, alle sole disposizioni sugli obblighi di informazione e di esame congiunto [39] .
Non è detto, peraltro, che sia necessariamente così, poiché – è verissimo – “la tutela indiscriminata della continuità dei rapporti di lavoro potrebbe addirittura essere ragione di azzeramento, per effetto della disgregazione aziendale, di quello stesso interesse dei dipendenti che si intenderebbe tutelare” [40] . La (pur opinabile) opzione interpretativa qui patrocinata è certamente favorevole ai lavoratori, ma può lasciare scoperta qualche lacuna: essa, tra l’altro, non darebbe ingresso al comma 5 bis dell’art. 47 L. n. 428/1990, ove si prevede pro prestatoribus che “il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell’azienda” e che il relativo Fondo di garanzia dell’I.N.P.S. “interviene anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente”, in quanto – cosa davvero sorprendente – “la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro”. Premesso che l’intervento del Fondo di garanzia deve ritenersi ammissibile, ex art. 2 L. 29 maggio 1982, n. 297, anche nel concordato semplificato [41] (sempre che l’impresa abbia meno di quindici dipendenti), il comma 5 bis si spinge ben oltre facendo sì che la cessione del compendio produttivo equivalga a cesura dei rapporti di lavoro in essere (benché proseguano intonsi con l’impresa cessionaria), funzionale agli effetti dell’art. 2120, comma 1, c.c. e, perciò, al riconoscimento e all’immediata esigibilità del credito per t.f.r. maturato presso l’impresa cedente [42] .
Note: