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Trib. Milano, 4 settembre 2025 e 23 settembre 2025, Est. Rossetti

DOMANDA DI CONCORDATO PREVENTIVO IN CONTINUITÀ – Inammissibilità – Valore effettivo riservato ai soci.

Postilla a cura di Filippo Salsone , Dottore in giurisprudenza

Trib. Milano, 4 settembre 2025, Est. Rossetti
Trib. Milano, 23 settembre 2025, Est. Rossetti
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 4 e 47 CCII, è inammissibile la domanda di concordato preventivo in continuità che non rappresenti ai creditori il probabile valore effettivo ex art. 120 quater CCII che verrà riservato ai soci all’esito dell’omologazione e del piano, poiché risulta così violato il loro diritto di informazione e di espressione di un voto consapevole sulla proposta. 
 
Massima a cura del Dott. Filippo Salsone 
Riproduzione riservata

art. 4 CCII 
art. 47 CCII 
art. 120 quarter CCII 

POSTILLA

Il tribunale, in sede di ammissione, deve verificare anche il “valore effettivo”?

di Filippo Salsone, Dottore in giurisprudenza

5 Novembre 2025

Abstract
A partire da due decreti del Tribunale di Milano, l’A. analizza i doveri di buona fede e correttezza gravanti sulle parti e, in particolare, gli obblighi informativi del debitore per verificare se e in che misura il controllo del Tribunale in sede di ammissibilità di una proposta di concordato preventivo in continuità possa spingersi sino a una verifica sulla corretta rappresentazione ai creditori del “valore effettivo” che sarà riservato ai soci successivamente all’omologazione e all’esito del piano. 

Starting from two decrees issued by the Court of Milan, the Author analyses the duties of good faith and fair dealing imposed on the parties and, in particular, the debtor’s duty to disclose information, in order to assess whether and to what extent the Court’s review at the stage of admissibility of a proposal for a “concordato preventivo in continuità” may extend to verifying the accuracy of the information provided to creditors regarding “valore effettivo” that will be reserved for shareholders after the confirmation of the plan and upon its implementation


1. La vicenda e la decisione del Tribunale di Milano 
Due società appartenenti al medesimo gruppo depositavano, ognuna per sé, una proposta e un piano di concordato preventivo in continuità diretta. 
Ai sensi dell’art. 47, comma 1, CCII, ognuno degli esperti esprimeva il proprio parere con riferimento alla procedura supervisionata e, pur non ritenendo manifestamente insussistenti le ragionevoli prospettive di superamento dello stato di insolvenza, evidenziava taluni profili critici, anche con riguardo alla prospettata operazione sul capitale sociale. Quanto a tale operazione, entrambi i piani prevedevano l’azzeramento e la successiva ricostituzione del capitale sociale mediante la sottoscrizione della quasi totalità (i.e., 99%) delle quote da parte di un soggetto estraneo all’attuale compagine sociale e la sottoscrizione della residua partecipazione (i.e., 1%) a opera di un individuo già socio. Le quote, tuttavia, non avrebbero attribuito i medesimi diritti: da una parte, infatti, la partecipazione maggioritaria avrebbe garantito al relativo proprietario i soli diritti patrimoniali; dall’altra, la partecipazione minoritaria avrebbe attribuito al socio tutti i rilevanti diritti amministrativi. 
Acquisiti i pareri degli esperti e analizzata la documentazione depositata, il Tribunale di Milano, condividendo le segnalazioni degli esperti ed enfatizzando ulteriori profili critici, riteneva la domanda inammissibile e con due decreti “gemelli” assegnava alle società un termine per apportare le necessarie integrazioni. 
In particolare, il Tribunale ambrosiano prospettava una possibile violazione del principio di buona fede e correttezza di cui all’art. 4, comma 1, CCII in ragione della mancata indicazione nelle proposte depositate del “valore effettivo” che sarebbe stato riservato ai soci all’esito dell’omologazione e dell’esecuzione del piano. Ciò in quanto si sarebbe così pregiudicato il diritto di informazione dei creditori e il loro correlato diritto di esprimere un voto consapevole sulla proposta ammessa a seguito del vaglio giudiziario. 

2. La buona fede nel Codice della Crisi 
Il presente lavoro non può che prendere le mosse da un breve inquadramento del principio di buona fede nel Codice della Crisi. L’art. 4 CCII sancisce, infatti, un generale dovere di buona fede e correttezza nelle trattative relative alla composizione negoziata e ai procedimenti di accesso agli strumenti di regolazione della crisi gravante sul debitore, sui creditori e su ogni altro soggetto interessato[1]. 
È opinione consolidata che tale disposizione costituisca una declinazione specifica del principio civilistico di buona fede e di correttezza[2] e funga da clausola generale messa a disposizione dell’interprete ai fini di un’esegesi sistematica e organica del quadro normativo del diritto concorsuale, vista anche la scarsa armonia dovuta ai continui correttivi[3]. Anche nel contesto della crisi, quindi, buona fede e correttezza assumono una funzione ordinante e conducono l’interpretazione normativa al pari di quanto accade nel diritto privato. 
La ripetizione di tali principi anche nel Codice della Crisi non è ridonante. Difatti, (i) un’affermazione espressa in questo senso non era presente nelle previgenti discipline[4]; (ii) le procedure concorsuali associano aspetti processuali ad aspetti negoziali e autoritativi, con la conseguenza che non si possa parlare di meri accordi tra le parti; e (iii) l’art. 4 CCII riferisce il dovere di buona fede a tutti i soggetti coinvolti nella crisi d’impresa e, in particolare, al debitore e ai creditori, valorizzando così quella dimensione collettiva che caratterizza la materia e la distingue dal canonico binomio debitore-creditore di cui all’art. 1175 c.c.[5]. Ancora, (iv) proprio il ridetto carattere collettivo/collaborativo che connota la risoluzione della crisi e che potenzia l’esigenza di comportamenti improntanti alla correttezza, alla lealtà e alla buona fede evidenzia la necessità – colta dal legislatore – di una codificazione esplicita di tali principi[6]. 
La clausola di buona fede e correttezza costituisce, perciò, il “criterio ispiratore delle parti durante le trattative e nell’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”[7] e un obbligo di carattere generale che riguarda tutte le varie fasi che compongono la vicenda concorsuale sin dal momento in cui tra i vari soggetti interessati sono sorti rapporti obbligatori volti a tentare la definizione della crisi[8]. Tale dovere, nel contesto specialistico, non si esaurisce nella mera trasfusione dello schema generale già in uso nel diritto privato, bensì esige “una ricostruzione” coerente con i tratti distintivi di questo settore[9]. 
Calato, quindi, nel paradigma della risoluzione della crisi, il dovere di buona fede e correttezza impone l’adozione di comportamenti leali e favorisce la cooperazione tra i vari soggetti coinvolti, così da rendere trasparente ed efficiente il dialogo tra le parti[10], nonché determina il passaggio da uno schema di conflitto frontale a una dimensione cooperativa tra le parti allo scopo di realizzare il prioritario interesse dei creditori e dell’economia in generale. 
Quale clausola generale, il dovere di buona fede e correttezza assume contenuti variabili e diversi a seconda delle situazioni in cui viene in rilievo e in funzione della sensibilità sociale con cui un certo comportamento possa di volta in volta ritenersi adeguato o meno[11], con la conseguenza che anche l’eventuale indagine da parte del giudice in merito al rispetto di tali obblighi dovrà atteggiarsi diversamente a seconda del caso. 
L’ampia e vasta portata della clausola non consente, cioè, una definizione aprioristica delle modalità e dell’estensione del vaglio giudiziario in merito all’osservanza dei doveri in parola, sicché questo dovrà necessariamente essere modulato di volta in volta in ragione delle singole fattispecie[12]. 

3. I doveri del debitore e, in particolare, il dovere di informazione 
Il successivo comma 2 definisce gli specifici doveri del debitore e stabilisce che questi sia tenuto anzitutto a rappresentare in modo completo, veritiero e trasparente la propria situazione, fornendo tutte le informazioni necessarie e pertinenti in relazione alle trattative avviate, anche nell’ambito della composizione negoziata, e allo strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza prescelto. 
È in primo luogo necessario soffermarsi sulla definizione della portata e dei limiti di tale obbligo, così da comprendere quali e quante informazioni il debitore sia tenuto a mettere a disposizione dei creditori, tenendo pur sempre a mente che (i) il dovere di informazione sia intrinsecamente volto a fare da contrappeso all’asimmetria conoscitiva che notoriamente intercorre fra le parti[13] e (ii) le informazioni di cui il debitore deve (rectius, dovrebbe) essere in possesso derivano in parte dall’obbligo di implementare assetti adeguati alla rilevazione tempestiva della crisi di cui all’art. 2086 c.c. 
Il debitore deve fornire alle proprie controparti – in maniera completa, trasparente e veritiera – tutte quelle informazioni sulle condizioni della propria impresa, ossia sulla propria situazione patrimoniale, economica, etc., necessarie affinché i creditori possano assumere consapevolmente le decisioni a cui sono chiamati[14]. In altri termini, il debitore è obbligato a comunicare tutte le informazioni che, secondo una valutazione di carattere funzionale, si presumono necessarie e appropriate alle trattative in fase di svolgimento e allo strumento a cui egli intende ricorrere, cosicché i destinatari di questo flusso informativo siano messi nelle condizioni di avere una visione completa delle condizioni in cui versa l’impresa e possano adeguatamente valutare la proposta formulata[15]. 
Il debitore deve, in sostanza, garantire alle controparti un’informazione completa, cioè chiara, univoca e non fraintendibile[16]. Il che, tuttavia, non significa che i dati messi a disposizione dei creditori debbano essere oggettivi e inopinabili, ossia privi di valutazioni prognostiche e future. Difatti, ai sensi dell’art. 87 CCII, il piano del debitore deve contenere anche informazioni necessariamente fondate su stime prudenziali e prospettiche, quali l’indicazione dei costi e dei ricavi attesi, le iniziative da adottare in caso di scostamenti dal programma e le prospettive di realizzo[17]. 
Ne consegue che, per diritto positivo, il debitore sia tenuto (rectius, obbligato) a comunicare ai creditori anche dati per propria natura incerti, connotati sia da rischi di avveramento sia dalla necessità di valutazioni economico-reddituali in ottica futura. 
Ebbene, se quindi il profilo prognostico non è sufficiente, da solo, ad escludere che un certo dato debba essere comunicato, allora nulla osta all’inclusone di una stima del “valore effettivo” riservato ai soci di cui all’art. 120 quater, CCII[18] tra le informazioni da condividere ai creditori[19]. 
Da tale conclusione derivano, poi, le possibili conseguenze in termini di vaglio di ammissibilità del concordato preventivo paventate nei decreti in commento; pertanto, giova inquadrare i termini di tale vaglio. 

4. Il vaglio di ritualità del Tribunale nel concordato preventivo in continuità 
A seguito del deposito della domanda di concordato preventivo in continuità, il Tribunale è chiamato a valutare, oltra alla non manifesta inidoneità del piano alla soddisfazione dei creditori e alla conservazione dei beni aziendali[20], anche la ritualità della proposta. 
Parte della dottrina afferma che tale controllo attenga alla regolare instaurazione del procedimento e alla corretta formazione delle classi, senza estendersi al rispetto delle cause legittime di prelazione, configurando così un controllo di contenuto affine, ma meno ampio, rispetto a quello sull’“ammissibilità della proposta” previsto dall’art. 47, comma 1, lett. a), CCII[21]. Tuttavia, la tesi non ha persuaso le corti di merito, presso le quali è invece prevalsa una differente (ed estensiva) interpretazione. 
Secondo la prevalente opinione giurisprudenziale, infatti, il controllo in sede di ammissibilità consiste in una verifica della c.d. legittimità sostanziale, ossia in una verifica del rispetto dei requisiti essenziali per l’accesso al concordato[22], nonché dell’attestazione del professionista ex art. 87, comma 3, CCII[23]. 
La correttezza di tale secondo indirizzo si ricava dal raffronto con il vaglio di ritualità per l’ammissione del concordato semplificato ex art. 25 sexies, CCII, che, per dottrina univoca, consiste nel “controllo di legittimità focalizzato sul rispetto delle condizioni di accessibilità dello strumento”[24]. Ciò significa, in primo luogo, verificare il rispetto da parte del debitore di correttezza e buona fede, ossia che, durante la composizione negoziata, ai creditori sia stata rivolta una “proposta chiara e fattibile ma, altresì, che gli stessi siano stati posti nelle condizioni di pronunciarsi sulla stessa sulla base di informazioni attendibili e verificabili”[25]. 
Appurata, quindi, la natura del vaglio di ritualità, non rimane che capire se tale controllo possa arrivare alla verifica della mancata o imprecisa indicazione del “valore effettivo” che, in base a un giudizio prognostico, sarà riservato ai soci successivamente all’omologazione[26]. 

5. Il controllo del Tribunale sul valore effettivo destinato ai soci 
Aderendo alla tesi espressa dal Tribunale di Milano, proprio in ragione del ridetto obiettivo di garantire ai creditori la possibilità di esprime il proprio consenso in maniera informata sulla proposta presentatagli, il vaglio di ammissibilità non può che estendersi fino a un controllo sulla corretta prospettazione del “valore effettivo”. 
Come rimarcato a più riprese nel corso di questo lavoro, infatti, l’intero impianto degli obblighi di buona fede e correttezza è finalizzato a rendere i creditori pienamente edotti su quella che è la proposta di risanamento del debitore. A tal fine, quest’ultimo deve necessariamente mettere a loro disposizione un set di informazioni da cui essi possano evincere tanto le azioni che il debitore intende implementare per uscire dallo stato di difficoltà e i benefici derivanti loro dall’adesione, quanto i vantaggi che saranno riservati al debitore medesimo, tra cui spicca il “valore effettivo”. 
Se così non fosse, d’altronde, si finirebbe per pregiudicare il diritto di informazione dei creditori, specie con riguardo a quelli non professionali, di norma più esposti ad abusi, e, conseguentemente, per legittimare il debitore a violare i propri doveri[27]; violazione che, in quanto tale, non può essere lasciata impunita. 
Valorizzando la funzione armonizzatrice e ordinante della clausola di buona fede, un altro argomento a favore dell’ampliamento del vaglio di ritualità può trarsi dalla disciplina del concordato semplificato di cui già si è detto. Difatti, posto che in tale sede, pur in assenza di una fase di voto, il controllo di ritualità si estende pacificamente alla verifica sulla formulazione ai creditori, durante la composizione negoziata, di una proposta chiara e fattibile e sul fatto che gli stessi siano stati posti nelle condizioni di pronunciarsi su tale proposta sulla base di informazioni attendibili e verificabili, perché ciò non potrebbe ritenersi pure nel caso in cui i creditori, invece, siano chiamati a esprimere il proprio consenso? Detto altrimenti, per quale motivo la latitudine del vaglio di ammissibilità a cui il Tribunale è chiamato rispetto a un concordato preventivo in continuità dovrebbe essere inferiore di quella riconosciutagli con riguardo a uno strumento in cui i creditori sono inibiti del proprio diritto di voto in ragione di una presunta piena disponibilità delle informazioni sulla situazione del debitore e sulla proposta formulata loro per via del precedente (e necessario) step dell’infruttuoso tentativo di composizione negoziata della crisi? Non pare esservene alcuno. 

6. Conclusioni 
In definitiva, vi è più di una ragione per ritenere che il Tribunale, già in sede di ammissione della proposta di concordato preventivo di continuità, debba effettuare un controllo di ritualità a tal punto esteso da verificare se la condotta del debitore sia stata corretta e in buona fede, ossia se il medesimo abbia offerto ai creditori un set informativo tale da consentirgli la massima consapevolezza sul piano e sulla proposta sottopostagli, nonché un voto pienamente edotto. 
Con la conseguenza che, laddove – come per lo più accade – si preveda (o, si possa presumere) che un certo valore verrà riservato ai soci all’esito dell’omologazione, anche di questa informazione deve essere fatta ampia disclosure ai creditori, sicché essi possano valutare se aderire o meno alla proposta; o almeno, in ragione della difficoltà di calcolo, la proposta e il piano dovranno indicare il procedimento con cui il debitore intende accertare il predetto dato[28]. 
Seguendo, poi, l’insegnamento del Tribunale di Milano, il difetto di tale indicazione dovrà portare, in prima istanza, a una richiesta di precisa integrazione sul punto; successivamente, se tale integrazione non dovesse avere luogo oppure dovesse ritenersi inadeguata, la domanda di concordato preventivo sarà inevitabilmente destinata a una pronuncia di inammissibilità ai sensi dell’art. 47, comma 4, CCII. 


Note
[1] Il tema è stato oggetto di ampi studi da parte della dottrina. Sul punto, si rimanda ai più recenti contributi di L. Panzani, I doveri delle parti, in Cagnasso e Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedura concorsuali, Milano, 2025, 649 e ss.; M. Fabiani, Il ruolo delle parti e dei professionisti nel film della crisi d’impresa, in Dirittodellacrisi.it, 2025; G. Meruzzi, I doveri delle parti, in Irrera e Cerrato (diretto da) Crisi e insolvenza dopo il Correttivo-ter, Bologna, 2024, 94 e ss.; S. Leuzzi, I creditori e la buona fede in concreto nelle crisi d’impresa, in Dirittodellacrisi.it, 2025; S. Ambrosini, Ambito di applicazione, definizioni, principi generali, in Pacchi e Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2025, 75 e ss. In precedenza, cfr. anche R. Rordorf, Interferenze tra diritto della crisi e dell’insolvenza e diritto dei contratti, in Dirittodellacrisi.it, 2022; Id, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell'ambito dei principi generali del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Il Fall., 2021, 589 e ss.; S. Pacchi, L’esperto: un’“alta” professionalità dinanzi alle trattative e alla gestione dell’impresa, in Ristrutturazioni Aziendali, 2022; A. Maffei Alberti, sub art. 4, in AA.VV., Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa ed insolvenza, in Maffei Alberti (a cura di), Padova, 2023, 52 e ss.; A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Le procedure concorsuali, Bologna, 2023, 62 e ss.
Solo con il Correttivo-ter è stato aggiunto il riferimento a “ogni altro interessato”, che, secondo S. Ambrosini, Ambito di applicazione, definizioni, principi generali, cit., 76 indica i terzi garanti, i co-obbligati del debitore, le parti correlate, i soci, i soggetti acquirenti di beni messi in vendita dal debitore e le rappresentanze sindacali.
[2] V., ex multis, R. Rordorf, Interferenze tra diritto della crisi e dell’insolvenza e diritto dei contratti, cit., 2022; G. D’Attorre, I principi generali nel diritto della crisi d’impresa, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1090; e, in particolare, S. Ambrosini, I principi generali nel Codice della crisi d’impresa, in Ilcaso.it, 2021, secondo cui “[i]n ciò si avverte assai distintamente l’eco delle corrispondenti previsioni codicistiche in tema di comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto (art. 1375) e nello svolgimento delle trattative e nella formazione dello stesso (art. 1337), sebbene entrambe le previsioni parlino solo di buona fede, essendo il canone della correttezza contenuto notoriamente nelle disposizioni preliminari in tema di obbligazioni in generale (art. 1175); con la precisazione, peraltro, che la norma sull’esecuzione del contratto in buona fede costituisce applicazione in ambito negoziale del più generale principio di correttezza, senza che fra i due concetti sia possibile ravvisare una distinzione precisa”. È dato altrettanto consolidato che i principi di buona fede e correttezza di cui al Codice Civile siano a propria volta una declinazione specifica del principio solidaristico enucleato dall’art. 2 della Costituzione; in giurisprudenza, cfr., ex multis, Cass., Sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in OneLegale.
[3] Così S. Ambrosini, loc. cit.
[4] In tal senso, G. Meruzzi, op. cit., 94; tuttavia, per la tesi opposta, v. M. Fabiani, op. cit., nt. 6, il quale sostiene che “se si guarda al passato e si riconosce che le procedure di regolazione della crisi di fonte pattizia si fondavano sulla autonomia negoziale, l’avvicinamento progressivo ma inesorabile del diritto civile consentiva di configurare l’importazione nell’ambiente concorsuale dei principi del diritto privato e dei contratti, tra cui, appunto, buona fede e correttezza”. Nel medesimo senso, ma con diversità di argomentazioni, anche S. Leuzzi, loc. cit.
[5] Diffusamente, L. Panzani, loc. cit.
[6] Ed è proprio questo l’aspetto enfatizzato da R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell'ambito dei principi generali del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, cit., 595. Anzi, l’A. ritiene non vi sia il minimo dubbio che il dovere di correttezza e buona fede vada esteso anche nell’ambito delle diverse procedure di allerta a cui seguiranno, eventualmente, la composizione negoziata della crisi ovvero altre forme di regolazione.
[7] Così R. Brogi, Clausole generali e diritto concorsuale, in Il Fall., 2022, 885. Valorizza il principio di buona fede F. Viola, Soci e amministratori nella gestione della crisi d’impresa. Dalla scelta dello strumento di regolazione della crisi all’omologazione, Torino, 2025, 154 ss. al fine di ricostruire, sia pure con certi distinguo, un dovere in capi agli amministratori di coinvolgere i soci prima dell’assunzione della decisione di fare accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza.
[8] Cfr. R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell'ambito dei principi generali del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, cit., 596, il quale sottolinea a fortiori come sia lo stesso Codice della Crisi a comprovare la propria tesi, laddove introduce sanzioni di carattere processuale a carico sia del debitore sia del creditore relativamente alla causazione e/o all’aggravamento del sovraindebitamento. Ma si consideri, altresì, come la violazione del canone di buona fede sia ostativa all’accesso alla procedura di concordato semplificato ex art. 25-sexies CCII. In tal senso, da ultimo, Trib. Bologna, 23 settembre 2025, inedito, nonché M. Fabiani, loc. cit.
[9] Cfr. S. Leuzzi, loc. cit.
[10] Il punto è evidenziato da S. Leuzzi, loc. cit., il quale sottolinea altresì come “[l]a leale collaborazione è, del resto, un dovere reciproco, che si proietta sul debitore, i creditori e i terzi interessati”.
[11] Cfr. R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell'ambito dei principi generali del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, cit., 594 e ss.
Ciò, a ben vedere, è in linea con la tesi maggioritaria che ha abbracciato una visione più ampia della buona fede, da cui pacificamente si ritiene derivino obblighi giuridici ulteriori e supplementari rispetto a quelli previsti ora dalla legge ora dall’accordo fra le parti. Sul punto, in luogo di molti, v. F. Galgano, Trattato di diritto civile, Padova, 2015, 647 e ss. e, inter alia, Cass. civ., Sez. II, 16 febbraio 2022, n. 5024, in DeJure.
[12] Spunti, in questo senso, in A. Maffei Alberti, op. cit., 54, laddove l’A. sottolinea come – nel silenzio della legge – sia rimessa all’interprete l’individuazione dello specifico rimedio da adottare. Secondo G. D’Attorre, loc. cit., il ventaglio dei rimedi disponibili sarebbe ridotto alla sola tutela risarcitoria; contra, M. Fabiani, loc. cit., che ipotizza anche una forma di neutralizzazione dei modi di partecipazione al concorso per i creditori in malafede, e, nello stesso senso, anche D. Lenzi, I doveri dei creditori nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Ilcaso.it, 2020. Diversamente, A. Nigro, D. Vattermoli, op. cit., 64 e ss. ritengono che alla violazione delle regole di cui all’art. 4 CCII non sia ricondotta alcuna sanzione, neppure risarcitoria. Tuttavia, se così fosse, ci troveremmo davanti a un’evidente falla normativa che legittimerebbe – in sostanza –il debitore e gli altri soggetti gravati dagli obblighi di buona fede e correttezza a violare impunitamente le prescrizioni di legge. Il che, come ovvio, non è accettabile, specie se si considera, al pari di quanto già accennato e di quanto poi si dirà, le varie “sanzioni” previste dal Codice della Crisi per la violazione di tali doveri, quale, ad esempio, l’inammissibilità della domanda di concordato preventivo ex art. 25 sexies CCII.
[13] Il punto è ripreso anche da S. Leuzzi, loc. cit., il quale aggiunge che “[g]li obblighi di informazione trovano fondamento nella necessità di garantire chiarezza e correttezza nei rapporti contrattuali, e si concretizzano nella comunicazione puntuale e completa di costi, oneri, rischi e criticità, oltre che nella gestione responsabile di eventuali conflitti di interesse”.
[14] Sul punto, cfr. R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell'ambito dei principi generali del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, cit., 596.
[15] Cfr. L. Panzani, op. cit., 655.
[16] Informazione completa che, però, non è illimitata. Il debitore, infatti, non può ritenersi tenuto a una full disclosure di tutti i dati di cui è in possesso attinenti alla propria impresa, bensì delle sole informazioni che sono necessarie ai creditori e agli altri interessati al fine di avere un’adeguata visione delle condizioni in cui versa quest’ultima. Sulla scia di tali considerazioni, L. Panzani, op. cit., 658, osserva correttamente come il debitore non debba, allora, comunicare ai propri interlocutori le informazioni legate al ciclo produttivo, al know how e ai brevetti.
[17] Osserva, infatti, R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell'ambito dei principi generali del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, cit., 597 come pure l’obbligo per il debitore ex art. 87, comma 1, lett. h), CCII implichi una serie di valutazioni, anche giuridiche, le quali non sono nient’affatto scontate. Sul punto, A. Maffei Alberti, loc. cit., afferma che il dovere di trasparenza implica la comunicazione di “fatti e circostanze che possano legittimare la società debitrice all’esercizio di un’azione di responsabilità a carico dei propri organi sociali”. Con riferimento alla L. fall, v. già Ambrosini, Gli atti di frode nel concordato preventivo: un tema sempre attuale (e scivoloso), in Ilcaso.it, 2019. In tema di necessità di valutazioni ipotetiche ai fini dell’ammissione del concordato preventivo, cfr. altresì N. Cadei, Il valore riservato ai soci ex art. 120-quater CCII: brevi riflessioni de iure condito sulla possibile quantificazione, in Ristrutturazione Aziendali, 2024 e Cndcec, Fnc, Principi per la redazione dei piani di risanamento, 2022, 46, secondo cui “[o]gni valutazione prognostica è intrinsecamente connotata da un proprio grado di rischio di avveramento. È opportuno, perciò, che le previsioni ipotetiche siano sottoposte ad analisi di sensitività. Le analisi di sensitività presuppongono l’individuazione e la misurazione dei fattori di rischio ai quali sono soggetti l’impresa e il Piano. Tale individuazione si pone a valle di una argomentata valutazione della situazione aziendale e del contesto in cui opera l’azienda. I rischi inerenti devono essere assunti in termini di rischio residuo dopo le azioni di mitigazione che il Management potrà al bisogno attivare”.
[18] Prima del Correttivo-ter, che ha posto fine alla questione, in dottrina si era aperto un vivo dibattito sui metodi di calcolo di tale valore. Ex multis, v. M. Fabiani, A. Guiotto, Il valore della ristrutturazione destinabile ai soci, in Il Fall., 2024, 605 e ss.; N. Cadei, loc. cit.; B. Inzitari, Le mobili frontiere della responsabilità patrimoniale: distribuzione del valore tra creditori e soci nel concordato in continuità secondo la negozialità concorsuale del codice della crisi, in Dirittodellacrisi.it, 2023; M. Campobasso, La posizione dei soci nel concordato preventivo delle società, in Banca, borsa e tit. cred., 2023, 166 e ss. Per una critica al meccanismo dell’art. 120 quater CCII, v. A. Nigro, Qualità della legislazione e Codice della crisi: considerazioni critiche e qualche puntualizzazione in tema di strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società, in Dirittodellacrisi.it, 2024, il quale, addirittura, arriva a ipotizzare profili di incostituzionalità.
Per una ricostruzione completa sul tema della definizione del valore riservato ai soci sia prima che a seguito del Correttivo-ter, si rinvia al recente saggio di S. Dorsi, Omologazione del piano e interesse patrimoniale dei soci nel regime degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in Dirittodellacrisi.it, 2025. Invece, sulle ragioni dello “scomputo”, ai fini del calcolo del valore riservato ai soci, dei valori da costoro apportati avuto riguardo alle imprese di minori dimensioni e, più in generale, sulle questioni distributive in relazione alla loro posizione v. Viola, loc. cit., 111 ss. e 197 ss.
[19] Diversamente, N. Cadei, loc. cit., sostiene che questo profilo di incertezza, unito a evidenti difficoltà di calcolo, porta a escludere che il pacchetto informativo debba essere arricchito anche di questo dato, con la conseguenza che il vaglio del Tribunale in sede di ammissione non possa estendersi fino a questo controllo.
[20] Su tale aspetto, che non verrà trattato nel presente contributo, si rinvia a S. Ambrosini, Concordato preventivo e controllo giudiziale: spigolature sui concetti di “fattibilità”, “non manifesta inidoneità” e “ragionevoli prospettive” (con una proposta de iure condendo), in Ristrutturazioni Aziendali, 2024; P. F. Censoni, Note minime sul controllo giudiziale nel concordato preventivo, in Ristrutturazioni Aziendali, 2024. In giurisprudenza, cfr., da ultima, Cass. civ. n. 3790/2025 in OneLegale.
[21] Sempre S. Ambrosini, loc. cit. Di diversa opinione, tuttavia, G. Nardecchia, Il valore di liquidazione, in Il Fall., 2024, 1398, secondo il quale deve “ritenersi che l’esame sulla ritualità della proposta di concordato con continuità non sia, di fatto, dissimile da quello sull’ammissibilità della proposta di concordato liquidatorio”. In giurisprudenza, v. Trib. Monza, 17 aprile 2023, in Dirittodellacrisi.it, secondo cui “il vaglio sulla ritualità rappresenti, nell’intenzione del legislatore, un quid minus rispetto a quello sull’ammissibilità”.
[22] Nel senso del testo, la consolidata giurisprudenza romana, tra cui, esemplificativamente, Trib. Roma, 11 aprile 2024, in Il Fall., 2024, 1389 e ss., con nota di G, Nardecchia, che ulteriormente precisa come “[i]l Tribunale dovrà quindi verificare non solo la competenza territoriale, la completezza della documentazione, la regolarità formale e procedimentale, la corretta qualificazione del piano come in continuità o liquidatorio ma, quanto alla proposta, potrà e dovrà controllare in particolare la corretta formazione delle classi; il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione nelle due declinazioni dell’absolute priority rule per il valore di liquidazione e della relative priority rule per l’eccedenza, la regolare introduzione della transazione fiscale se necessaria; quanto al piano, il rispetto dei contenuti descritti dall’art. 87 del CCII; quanto all’attestazione, la sua adeguatezza motivazionale”; nonché Trib. Roma, 22 aprile 2025, in OneLegale e Trib. Roma, 20 febbraio 2023, in Ilfallimentarista.it. In dottrina, cfr. Panzani, L’assetto degli organi, in Cagnasso e Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedura concorsuali, in Milano, 2025, 1385, il quale acutamente osserva come “[a]lla luce degli orientamenti della giurisprudenza deve ritenersi che l’accertamento in sede di ammissione non sia soltanto formale, ma di legalità sostanziale, che avrà ad oggetto non soltanto la legittimazione alla domanda o la regolarità e completezza della documentazione depositata, ma anche la legittimità sostanziale della proposta, così come la valutazione in ordine alla percorribilità della stessa e alla sua coerenza con il fine ultimo del risanamento dell’impresa”.
[23] Cfr., Trib. Bologna, 14 maggio 2024, in Ilcaso.it e Trib. Roma, 11 aprile 2024, loc. cit. In questo controllo, finalizzato a parere di P. F. Censoni, loc. cit., a verificare la ragionevolezza, la correttezza metodologica, la coerenza logica e la chiarezza dei criteri adottati dall’attestatore, anche con riguardo alla completezza argomentativa della relazione, così da assicurare ai creditori, prima della votazione, un’informazione adeguata e un consenso effettivamente informato, il Tribunale potrà avvalersi del parere del commissario giudiziale. Ritiene che il parere del commissario giudiziale svolga la funzione di filtro S. Ambrosini, loc. cit.
[24] Così M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, Piacenza, 2023, 271, nonché S. Leuzzi, Il concordato semplificato nel prisma delle prime applicazioni, in Dirittodellacrisi.it, 2023. La tesi è pacifica anche in giurisprudenza e, infatti, v., inter alia, Trib. Firenze, 31 agosto 2022, in Ilcaso.it, Trib. Parma, 12 luglio 2023, in Dirittodellacrisi.it; Trib. Torino, 4 gennaio 2024, in Dirittodellacrisi.it; App. Milano, 21 marzo 2024, in Dirittodellacrisi.it.
[25] Cfr., Trib. Bologna, 23 settembre 2025, cit, nonché già Trib. Firenze, 31 agosto 2022, cit. V. anche Trib. Milano, 20 dicembre 2023, in Dirittodellacrisi.it, secondo cui “l’apparato informativo offerto dal debitore de[ve] essere completo ed esaustivo, e soprattutto […] i termini della proposta devono essere chiari e privi di qualsiasi elemento di incertezza o di ambiguità, pena l’irritualità della proposta e del piano”.
[26] Tuttavia, si segnala l’illustre tesi di M. Campobasso, op. cit., 173 e ss., il quale esclude vi sia spazio per “sostenere che il rispetto del criterio di priorità fra creditori e soci non sia una condizione di ammissibilità della proposta da valutare d’ufficio e a priori in sede di apertura della procedura concordataria”.
[27] Si aderisce, pertanto, all’illustre tesi di M. Fabiani, A. Guiotto, op. cit., 614 e ss., secondo cui “nella nozione di ritualità vada ricompresa la verifica del set informativo offerto alla valutazione dei creditori perché il debitore deve, sempre, osservare e rispettare i principi fondamentali espressi nell’art. 4, comma 2, lett. a), CCII che evocano, proprio, una condotta trasparente. Se nella proposta e nel piano di concordato non si parla di valore attribuito ai soci epperò al termine del piano si prevede che il capitale sociale - dopo l’esdebitazione - resti posseduto dai soci originari, il tribunale dovrebbe avvalersi dei poteri di cui all’art. 47, comma 4, secondo periodo, CCII e chiedere al debitore integrazioni della proposta. Ed ancora, sebbene la questione del valore divenga rilevante solo in presenza del dissenso di una o più classi, riteniamo che il commissario giudiziale nella relazione debba esporre quanto sarebbe il valore per i soci e ciò perché l’ostensione del valore deve precedere la votazione”; in senso conforme già B. Inzitari, loc. cit., secondo cui piano e proposta dovrebbero almeno includere il procedimento con cui il debitore intende accertare tale valore.
[28] Così come suggerito da B. Inzitari, loc. cit.

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