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Saggio

Transazione Fiscale: Come cambia a seguito del Codice della Crisi e della Direttiva Insolvency*

Giulio Andreani, Dottore Commercialista e Consulente fiscale in Milano

6 Febbraio 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Lo scritto costituisce la rielaborazione della relazione tenuta dall’A. al convegno dal titolo “Il soddisfacimento dei creditori nelle procedure di composizione della crisi d’impresa”, tenutosi a Reggio Emilia il 28 ottobre 2022, coordinato scientificamente da S. Bonfatti.
Con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (di seguito “Codice”), avvenuta il 15 luglio 2022, l’istituto della transazione fiscale e previdenziale, in precedenza disciplinato dall’art. 182 ter della legge fallimentare, si è arricchito di ulteriori disposizioni, derivanti, in buona misura, dal decreto legislativo 17 giugno 2022, n. 83, emanato in attuazione della Direttiva UE 2019/1023.
Nel prosieguo si intende fornire un’illustrazione di tali disposizioni e degli effetti che esse producono sull’assetto normativo di questo istituto.
Riproduzione riservata

Sommario:

1 . Transazione fiscale e utilizzo dei flussi di cassa

1.1 . Patrimonio di liquidazione e i criteri di ripartizione dell’attivo ai creditori

1.2 . Natura e utilizzo dei flussi di cassa secondo la circolare n. 16/E/2018

1.3 . Natura e utilizzo dei flussi di cassa secondo la circolare n. 34/E/2020

1.4 . La natura derogatoria dell’art. 182 ter L. fall. rispetto alle cause legittime di prelazione

1.5 . La giurisprudenza della Corte di Cassazione

1.6 . Le modifiche introdotte dal Codice

2 . La transazione fiscale nel concordato preventivo

2.1 . Il trattamento “non deteriore” o “conveniente” previsto dai commi 2 e 2 bis dell’art. 88

2.2 . L’incipit dell’art. 88, comma 1

3 . La transazione fiscale negli accordi di ristrutturazione dei debiti

3.1 . Il trattamento dei crediti tributari e contributivi

3.2 . L’operatività del cram down fiscale

3.3 . I presupposti del cram down fiscale

3.3.1 . Il carattere “determinante” dell’adesione

3.3.2 . La “convenienza” della proposta di transazione fiscale

3.3.3 . La compatibilità con le regole UE

4 . Il trattamento dei tributi locali

4.1 . Recente evoluzione del dibattito sul “dogma” dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria

4.2 . Trattamento dei tributi locali nel concordato preventivo

4.3 . Trattamento dei tributi locali negli accordi di ristrutturazione dei debiti

5 . La sorte dei coobbligati

5.1 . Le questioni interpretative sorte anteriormente alla modifica normativa

5.2 . La disciplina vigente

5.2.1 . L’efficacia degli accordi nei confronti di fideiussori e coobbligati

5.2.2 . Quid iuris in caso di omologazione forzosa della transazione fiscale?

1 . Transazione fiscale e utilizzo dei flussi di cassa
Com’è noto, il più importante dei presupposti di approvazione della proposta di transazione fiscale è costituito dalla convenienza della stessa per l’Erario, la quale emerge dal confronto tra l’ammontare del soddisfacimento offerto al Fisco e quello che questi riceverebbe in alternativa, a seguito della liquidazione dell’impresa debitrice. La determinazione del soddisfacimento discendente dalla liquidazione richiede, a sua volta, la determinazione del valore del patrimonio del debitore realizzabile in tale ipotesi e l’individuazione dei criteri di ripartizione dello stesso fra i creditori e quindi della parte di esso attribuibile all’Amministrazione finanziaria. Tanto sulla determinazione del patrimonio di liquidazione dell’impresa debitrice quanto sui criteri del suo riparto sono state espresse in dottrina e in giurisprudenza tesi contrastanti e nel corso degli ultimi anni anche l’Agenzia delle entrate ha espresso al riguardo la propria opinione.
1.1 . Patrimonio di liquidazione e i criteri di ripartizione dell’attivo ai creditori
In merito ai criteri di attribuzione ai creditori del ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore è noto che sono state sostenute due diverse tesi: 
a) la tesi della priorità assoluta, secondo cui il ricavato dovrebbe essere rigidamente destinato ai creditori privilegiati in base all’ordine delle cause di prelazione, con la conseguenza che un credito privilegiato potrebbe essere soddisfatto solo se vengono prima integralmente soddisfatti i crediti privilegiati di rango superiore[1]; 
b) la tesi della priorità relativa, secondo cui il ricavato potrebbe essere invece destinato alla soddisfazione di tutti i crediti privilegiati o chirografari anche in assenza dell’integrale soddisfacimento di quelli di rango superiore, essendo unicamente necessario assicurare al credito privilegiato un trattamento migliore rispetto a quelli di rango inferiore[2]. 
Chi scrive ha da tempo sostenuto, da un lato, che la “tesi della priorità relativa” non trovava conforto nel comma 2 dell’art. 160 L. fall., considerato il soddisfacimento che i crediti di rango superiore avrebbero ricevuto alternativamente in caso di fallimento, e, dall’altro lato, che la distribuzione delle risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” avrebbe potuto essere eseguita senza tenere conto dell’ordine delle cause di prelazione, poiché esse non fanno parte di quel patrimonio che in caso di liquidazione va ripartito secondo tale ordine[3]. Ed invero la versione “forte” della priorità è stata condivisa dalla Corte di cassazione con la sentenza 8 giugno 2020, n. 10884, secondo cui, ai sensi e per gli effetti dell’art. 160, comma 2, L. fall., nel concordato preventivo il soddisfacimento parziale dei creditori muniti di privilegio generale poteva trovare un fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore; infatti, in forza di detta disposizione la possibilità di sottoporre a falcidia, a beneficio di altri creditori, crediti garantiti da privilegio generale richiedeva necessariamente che: o i beni avevano un valore eccedente i crediti garantiti, e allora questi dovevano essere soddisfatti integralmente, o i beni avevano un valore inferiore rispetto ai crediti privilegiati, e allora i creditori di rango inferiore non potevano essere soddisfatti in alcuna misura, risultando prioritario il pagamento di quelli di rango superiore.
Proprio perché le risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” sono sottratte alle regole del concorso e possono essere quindi liberamente utilizzate dal debitore, era dirimente stabilire se in tale nozione rientrassero o meno anche i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività da parte del debitore nell’ambito del concordato preventivo in continuità. Anche su tale questione si registravano due diverse correnti di pensiero: 
1) secondo un orientamento “restrittivo”, nella nozione di “finanza esogena” sarebbero rientrate unicamente le risorse finanziarie messe a disposizione da terzi senza vincolo di restituzione, mentre “la prosecuzione dell’attività di impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 c.c.), non creando la prosecuzione dell’attività di impresa un patrimonio separato o riservato in favore di alcune categorie di creditori (anteriori o posteriori alla domanda di concordato). Né pare consentito azzerare in sede concordataria il rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.), che è un corollario della responsabilità patrimoniale”[4]. Per questa corrente di pensiero, dunque, i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività sarebbero rientrati nella nozione di “nuova finanza” ma non in quella di “finanza esterna” (tuttavia spesso tali termini sono utilizzati anche come sinonimi e possono quindi essere fonte di equivoci; a ben vedere l’espressione più appropriata per qualificare le risorse di cui trattasi, come detto, dovrebbe essere quella di “surplus concordatario”)[5]; 
2) secondo un orientamento più morbido, invece, le risorse finanziarie originate dalla prosecuzione dell’attività di impresa (ovvero i flussi finanziari disponibili o free cash flow), sebbene da essa provenienti, avrebbero avuto natura “esogena”, non facendo parte del patrimonio dell’impresa debitrice all’apertura della procedura[6]. Per questa diversa corrente di pensiero, infatti, il valore del patrimonio del debitore esistente in tale momento costituiva il limite di soddisfazione della garanzia dei creditori prelatizi ex art. 160, comma 2, L. fall. e, perciò, da tenersi distinto dal valore del patrimonio del debitore successivamente formatosi per effetto della prosecuzione dell’attività, con il quale va invece identificato il “surplus concordatario” al pari degli apporti finanziari esterni al patrimonio del debitore. In altri termini, sulla base di questo indirizzo, al divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione e alla regola del concorso non avrebbero dovuto soggiacere le risorse, di qualsiasi natura, eccedenti l’ammontare ricavabile dalla liquidazione dell’attivo (determinato sulla base della relazione prevista dal citato art. 160, comma 2), dal che si desumeva come “l’ammontare della somma ritraibile dalla liquidazione concorsuale segni il limite minimo di soddisfacimento dei creditori privilegiati” (così Cass., sentenza n. 10884/2020).
1.2 . Natura e utilizzo dei flussi di cassa secondo la circolare n. 16/E/2018
Ciò posto, con la circolare n. 16/E del 23 luglio 2018 l’Agenzia delle entrate aveva precisato che, ai fini della comparazione, l’attestatore doveva “tenere conto anche del maggiore apporto patrimoniale, rappresentato dai flussi o dagli investimenti generati dalla eventuale continuità aziendale oppure ottenuto all’esito dell’attività liquidatoria gestita in sede concordataria, che non costituisce una risorsa economica nuova, ma deve essere considerato finanza endogena, in quanto, ai sensi dell’art. 2740 c.c., l’imprenditore è chiamato a rispondere dei debiti assunti con tutti i propri beni, presenti e futuri”[7]. L’Agenzia aveva così mostrato di aderire all’orientamento restrittivo, secondo cui i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività, da parte dell’impresa debitrice nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, avrebbero avuto natura “endogena” (in quanto non derivanti da un apporto esterno) e sarebbero stati quindi da considerare parte del patrimonio di tale impresa a un duplice fine: 
a) per determinare il valore del patrimonio realizzabile in caso di liquidazione che, ai sensi del comma 1 dell’art. 182 ter, un professionista indipendente doveva comparare con l’offerta formulata al Fisco dall’impresa debitrice mediante la proposta di transazione fiscale, allo scopo di attestarne la necessaria convenienza per l’Erario rispetto all’alternativa costituita dalla liquidazione dell’impresa stessa; 
b) per stabilire se i suddetti flussi potevano essere destinati liberamente dall’impresa debitrice al soddisfacimento di alcuni crediti piuttosto che di altri, posto che il patrimonio “endogeno”, a differenza di quello “esogeno” (almeno secondo l’orientamento più “rigoroso”), avrebbe dovuto essere utilizzato per il pagamento dei creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione previste dalla legge e non liberamente (art. 160, comma 2, L. fall.). 
Tale tesi non appariva però conforme alla ratio dell’art. 182 ter, comma 1, che - come detto - richiedeva all’attestatore di confrontare il trattamento dei crediti tributari contemplato dalla proposta di transazione fiscale con quello discendente dalla liquidazione fallimentare dell’impresa debitrice e, ai fini della determinazione del parametro di raffronto, non poteva rilevare il “patrimonio futuro” di quest’ultima. Infatti, per quantificare il soddisfacimento derivante dallo scenario alternativo indicato dall’art. 160, comma 2, l’attestatore doveva valutare la situazione che si sarebbe verificata in caso di fallimento del debitore, senza dunque tenere conto della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che erano attuabili nel concordato preventivo (ma non nel fallimento), giacché tra la continuazione dell’attività economica ivi prevista e i flussi finanziari che ne sarebbero discesi sussisteva un evidente rapporto di causa-effetto, nel senso che questi non avrebbero potuto manifestarsi senza l’attuazione del risanamento indicato nel relativo piano: quest’ultimo non è che il frutto della ristrutturazione dell’azienda, delle azioni strategiche volte alla riduzione dei costi e al conseguimento di maggiori ricavi, della conversione di debiti in equity nonché dell’acquisizione di nuovi investimenti - da parte dei soci o di nuovi finanziatori - destinati a sostenere la continuazione dell’attività (che costituisce quindi l’indefettibile presupposto di tutte le suddette misure).
Che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica siano classificabili come “finanza esterna” si sarebbe potuto possibile desumerlo altresì dalle disposizioni contenute negli artt. 104 e 104 bis L. fall., nell’ammettere la prosecuzione dell’attività economica (nella forma dell’esercizio provvisorio o dell’affitto d’azienda) soltanto a titolo temporaneo, qualora ciò fosse considerato (nel primo caso) strettamente necessario per non recare maggiore pregiudizio ai creditori oppure (nel secondo) conveniente per rendere più proficua la vendita del complesso aziendale. In entrambi i casi, la continuazione dell’attività viene ammessa soltanto nella prospettiva di conseguire una migliore liquidazione, ma mai in un’ottica di risanamento, che rimane del tutto estranea rispetto alla procedura fallimentare[8]. Ne consegue che le stime effettuate dal curatore (e, prospetticamente, dall’attestatore) non potevano riguardare un’azienda in normale esercizio, essendo l’eventuale prosecuzione in via temporanea dell’attività diretta unicamente alla conservazione dell’azienda in uno stato di efficienza, al fine di preservare il valore residuo ancora presente (e non per generare nuovo valore)[9]. La situazione cui far riferimento era infatti quella prevista dall’art. 105 L. fall., il quale disciplinava, appunto, la vendita (mediante procedure competitive) dell’azienda nello stato in cui si trovava, in maniera unitaria oppure attraverso singoli rami oppure ancora atomisticamente[10], senza potere considerare gli effetti derivanti dagli atti previsti nella proposta concordataria per riportare l’azienda in una condizione di equilibrio economico. Del resto, se l’attivo discendente dall’ipotesi della liquidazione fallimentare avesse dovuto essere valutato anche assumendo l’avvenuta attuazione delle misure previste nella proposta concordataria, non si vede come essa potrebbe essere definita quale ipotesi alternativa.
Pertanto, poiché i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività economica post risanamento non sarebbero potuti entrare nel patrimonio del debitore in caso di fallimento, essi non potevano essere considerati nel computo dell’attivo di liquidazione da destinare al soddisfacimento dei creditori privilegiati e, quindi, nemmeno nella valutazione del trattamento che sarebbe riservato ai crediti tributari in tale ipotesi. 
Un indirizzo per così dire “intermedio” era stato affermato dal Tribunale di Milano con l’articolata e approfondita sentenza del 5 dicembre 2018, il quale ha affermato che “i flussi della continuità, allorquando siano generati da una prosecuzione aziendale resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, non possono ritenersi assoggettati al rispetto dell’ordine delle cause di prelazione, per la semplice ragione che detti flussi, nella prospettiva fallimentare, semplicemente non esisterebbero. Un conto è che i flussi della continuità siano comunque generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore, giacché in tal caso appare assai complesso condurre i suddetti flussi al di fuori della regola dell’art. 2741 c.c.; un altro - ben diverso - conto è che tali flussi siano resi possibili da una prosecuzione aziendale resa a propria volta possibile unicamente dall’apporto di risorse esterne da parte di un terzo. In tal caso ben può affermarsi che tali flussi, in quanto generati da una finanza esterna, ne ereditino i caratteri, e risultino, quindi, liberamente distribuibili, sol che si consideri che, in assenza dell’apporto del terzo, detti flussi non esisterebbero, e conseguentemente le cause di prelazione - in primis il privilegio generale mobiliare - non avrebbero oggetto alcuno su cui esercitarsi”. In sostanza, i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica, la quale a propria volta è stata resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, sarebbero anch’essi classificabili come “finanza esterna”, per il semplice fatto che non esisterebbero in assenza di tale apporto.
In proposito era stato peraltro evidenziato[11] che, a differenza del caso concreto cui si riferiva la sentenza da ultimo citata, “è spesso tutt’altro che immediato determinare se la prosecuzione dell’attività aziendale sia resa possibile esclusivamente da apporti esterni, o se invece gli apporti esterni la facilitino e la supportino, senza che una qualche prosecuzione possa essere tassativamente esclusa in loro assenza. In altri termini, può spesso rivelarsi assai complicato ricondurre la continuità aziendale al solo apporto da parte di terzi, tanto più che in numerosi casi l’apporto di terzi è funzionale (anche) a una migliore proposta ai creditori e, quindi, ad aumentare la probabilità della sua approvazione”. Tuttavia, quando la continuazione dell’attività d’impresa è impedita dall’assenza di disponibilità finanziarie, è difficile negare che il presupposto imprescindibile per la sua ripresa fosse rappresentato dal reperimento delle relative risorse finanziarie di ammontare necessariamente significativo.
1.3 . Natura e utilizzo dei flussi di cassa secondo la circolare n. 34/E/2020
Con la circolare n. 34/E del 29 dicembre 2020, l’Agenzia delle entrate aveva rettificato il tiro, affermando che, nonostante la natura “endogena” dei flussi di cui trattasi (che è stata comunque dalla stessa ribadita), essi non concorrevano a formare il patrimonio dell’impresa in caso di liquidazione da assumere ai fini della comparazione di cui si è detto. Questa precisazione fu assai opportuna, perché ciò che l’art. 182 ter richiedeva di comparare è chiaro: il pagamento offerto con il soddisfacimento discendente dall’alternativa liquidazione fallimentare, per quantificare il quale il professionista indipendente doveva considerare la situazione che si sarebbe verificata in caso di fallimento del debitore, senza tener conto di scenari non realizzabili in tale circostanza, qual era appunto quello della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che erano attuabili nel concordato preventivo ma non nel fallimento, e dunque senza considerare i flussi suscettibili di essere generati solo da tale attività.
Quanto ai criteri di ripartizione del ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore, l’Agenzia delle entrate aveva affermato, con la medesima circolare, che la distribuzione delle somme provenienti dai flussi generati dalla continuità aziendale dovesse comunque avvenire “in modo tale da assicurare un trattamento non deteriore della pretesa tributaria rispetto ai creditori concorrenti”; pertanto, pur continuando ad aderire all’indirizzo che escludeva la natura di “finanza esterna” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività d’impresa (e quindi la possibilità di destinarli liberamente), si era orientata verso l’applicazione della tesi della “priorità relativa” circa la ripartizione del “surplus concordatario”.
Sulla base degli indirizzi espressi dall’Agenzia delle entrate, ai fini dell’approvazione della proposta di transazione fiscale formulata nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, pur essendo i suddetti flussi da qualificare come “endogeni” e dunque non potendo essere liberamente attribuiti ai creditori: 
- la comparazione, fra il soddisfacimento dei debiti fiscali offerto con la proposta di transazione fiscale e quello alternativamente conseguibile dal Fisco mediante la liquidazione del patrimonio dell’impresa, andava eseguita senza far concorrere tali flussi alla formazione del patrimonio oggetto di liquidazione; 
- era sufficiente prevedere un trattamento dei crediti fiscali più vantaggioso di quello destinato ai crediti privilegiati di grado inferiore e a quelli chirografari, purché fosse al tempo stesso migliore rispetto al soddisfacimento che tali crediti avrebbero ricevuto mediante l’alternativa liquidazione, e non era necessario stabilirne l’integrale pagamento fino a concorrenza del valore del patrimonio comprensivo di tali flussi (peraltro il Codice prevede che l’alternativa da considerare è costituita anche a questo riguardo dalla liquidazione giudiziale dell’impresa debitrice).
In sintesi, l’Agenzia delle entrate aveva considerato i flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività finanza endogena ma, ciò nonostante, seppur cripticamente aveva mostrato di ritenere distribuibile ai creditori il ricavato della liquidazione secondo il criterio della priorità relativa, pur dovendosi prendere atto del fatto che la prassi delle singole direzioni provinciali e regionali non era sempre stata rispettosa di tale interpretazione.
1.4 . La natura derogatoria dell’art. 182 ter L. fall. rispetto alle cause legittime di prelazione
Chi scrive aveva sostenuto in passato che l’approccio avrebbe dovuto essere esattamente l’opposto, ovverosia che l’attribuzione ai creditori sarebbe dovuta avvenire secondo il criterio della priorità assoluta e i flussi sarebbero stati da considerare finanza esogena, con la duplice conseguenza che, da un lato, ogni creditore privilegiato avrebbe potuto essere soddisfatto solo dopo che quelli assistiti da gradi di privilegio superiori fossero stati completamente pagati e, dall’altro lato, che le somme rivenienti dai flussi prodotti dalla continuità potevano essere liberamente destinate al soddisfacimento dei creditori senza dover rispettare l’ordine delle cause di prelazione.
La posizione dell’Agenzia delle entrate circa la natura “endogena” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività traeva origine dai principi (sopra richiamati) secondo cui (i) la prosecuzione dell’attività d’impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (ex art. 2740 c.c.), e (ii) non sarebbe stato consentito azzerare mediante il concordato il rispetto delle legittime cause di prelazione (ex art. 2741 c.c.). 
In realtà, come dapprima evidenziato, tale posizione non sembrava considerare che: 
- la regola generale dell’attribuzione ai creditori privilegiati di tutto il patrimonio del debitore fino a concorrenza dei loro crediti posta dall’art. 160, comma 2, L. fall. - che era indefettibile nel concordato liquidatorio, salvo l’apporto di nuova finanza che poteva essere utilizzata anche senza il rispetto di tale ordine, proprio perché non promanava dal patrimonio del debitore e non era vincolata a garantirne le obbligazioni - doveva essere nel concordato in continuità limitata, quanto al tempo, alla data della presentazione della domanda di concordato e, quanto all’entità, al patrimonio del debitore esistente in quel momento
- la verifica della violazione o meno dell’ordine delle cause di prelazione doveva essere quindi eseguita con riferimento alla predetta data, perché ciò che era valutabile ai fini della capienza era solo il patrimonio del debitore esistente in tale momento, e non quello che sarebbe residuato, dopo vari anni e vari interventi altrimenti inattuabili. Infatti, senza concordato il risanamento non sarebbe stato per nulla conseguito, o avrebbe avuto quanto meno una ben diversa consistenza, e certamente non sarebbero sussistiti in tal caso i flussi generabili dalla continuità dell’attività, incompatibile con la liquidazione; 
- la natura “esogena” di un’entrata va ricercata nel maggior valore derivante dall’attuazione delle azioni previste nel piano concordatario di risanamento e comprende dunque anche quello generato dalla prosecuzione dell’attività dell’impresa.
La tesi su cui si fondava l’indirizzo espresso dall’Agenzia circa i criteri di ripartizione del patrimonio del debitore era stata inoltre smentita dalla Corte di cassazione con la citata sentenza n. 10884/2020, secondo cui nel concordato preventivo il soddisfacimento parziale dei creditori muniti di privilegio generale poteva trovare un fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore. Infatti, come dapprima già evidenziato, la possibilità di sottoporre a falcidia, a beneficio di altri creditori, crediti garantiti da privilegio generale richiedeva necessariamente che: o i beni avessero un valore eccedente i crediti garantiti, e allora questi dovevano essere soddisfatti integralmente, o i beni avessero un valore inferiore rispetto ai crediti privilegiati, e allora i creditori di rango inferiore non potevano essere soddisfatti in alcuna misura, risultando prioritario il pagamento di quelli di rango superiore.
La posizione a cui era alla fine pervenuta l’Agenzia delle entrate con la circolare n. 34/E/2020, secondo cui i flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività fossero da considerare finanza endogena ma, ciò nonostante, fossero liberamente distribuibili a favore dei creditori (a condizione che ai crediti erariali privilegiati non venisse offerto un trattamento deteriore rispetto a quello previsto per i crediti ad essi postergati e ai crediti erariali chirografari venisse garantito il trattamento più favorevole rispetto a quello applicato ai crediti chirografari) si scontrava, peraltro, anche con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i flussi di cassa generati dalla prosecuzione dell’attività economica (se ed in quanto qualificabili come “finanza endogena”) andavano invece necessariamente computati nel calcolo del valore di realizzo del patrimonio aziendale derivante dalla liquidazione e non potevano perciò essere destinati al soddisfacimento di un creditore di rango inferiore in assenza dell’integrale soddisfacimento dei creditori di grado poziore. 
Tuttavia tale conflitto si sarebbe potuto superare in presenza dell’approvazione della proposta di transazione fiscale da parte dell’Amministrazione finanziaria, sostanziandosi tale adesione in una “riduzione” del credito erariale giustificata dalla convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidazione. In assenza di voto favorevole o di adesione alla transazione fiscale, invece, la proposta concordataria (che la comprende) si poteva ritenere non omologabile da chi aderiva al predetto orientamento giurisprudenziale, in quanto contrastante con gli effetti derivanti dal considerare i flussi finanza endogena e dall’adozione, al tempo stesso, della tesi della priorità assoluta. Ciò non di meno, tale conflitto poteva essere superato in maniera naturale qualora l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 182 ter (che imponeva il divieto di trattamento deteriore e il principio di trattamento più favorevole con riferimento, rispettivamente, ai crediti tributari privilegiati e ai crediti tributari chirografari) fosse stato inteso - come ritenuto da chi scrive - quale implicita deroga alla tesi della priorità assoluta e quindi quale affermazione della regola della priorità relativa limitatamente ai crediti erariali, indipendentemente dall’utilizzo di tale tesi con riguardo agli altri crediti. 
Si intende dire che la legge fallimentare già prevedeva la possibilità di soddisfazione parziale dei crediti tributari privilegiati, nonostante la capienza dell’attivo distribuibile (purché essi non fossero trattati in maniera deteriore rispetto a quelli di rango inferiore)[12], in virtù della “specialità” delle norme disciplinanti il trattamento dei crediti erariali (e contributivi), nonostante la maggior capienza dell’attivo distribuibile, a patto che il soddisfacimento di tali crediti non fosse inferiore a quello discendente dalla liquidazione dell’impresa debitrice. Ciò posto, vi è da aggiungere che un pagamento parziale dei crediti fiscali poteva quindi essere consentito, a dispetto della maggior capienza dell’attivo costituito anche dai flussi gestionali (ferma restando l’incapienza di quello di liquidazione), anche in assenza dell’approvazione della transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate, qualora il concordato fosse stato comunque approvato dagli altri creditori, non essendo la mancata adesione del Fisco decisiva, ovvero quando esso fosse stato oggetto di omologazione forzosa disposta da parte del tribunale, ricorrendone i relativi presupposti.
Con riguardo all’assetto giuridico derivante dalla legge fallimentare sussistevano dunque margini per evitare, pur in presenza della assunzione della natura endogena dei flussi contestualmente all’adozione (per la generalità dei crediti privilegiati) della tesi della priorità assoluta, il conflitto sopra evidenziato dovuto alla posizione assunta dall’Agenzia delle entrate in ordine alla natura endogena dei flussi di cui trattasi, sempreché sussistessero i presupposti dell’adesione alla proposta transattiva (spontanea o disposta dal Tribunale).
1.5 . La giurisprudenza della Corte di Cassazione
La natura derogatoria dell’ordine delle cause di prelazione rinvenibile nella disposizione recata dal comma 1 dell’art. 182 ter L. fall. era stata espressamente condivisa dalla Corte di cassazione con l’ordinanza 26 maggio 2022, n. 17155.
I giudici di legittimità avevano innanzitutto ribadito che l’art. 160, comma 2, L. fall., nell’imporre che il trattamento stabilito per ciascuna classe non potesse avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione, “viene tradizionalmente interpretato come norma traspositiva, già in fase di ammissione del concordato preventivo, del criterio di matrice nordamericana della c.d. d. absolute priority rule, per cui una classe di grado inferiore non può ricevere alcun soddisfacimento se quella di grado poziore non sia stata integralmente soddisfatta”. Tuttavia, l’art. 182 ter, comma 1, L. fall. “elimina la condizione preclusiva dell’integrale soddisfazione dei crediti di rango superiore ai fini del soddisfacimento di quelli di rango inferiore; il che significa che ai crediti tributari e contributivi può essere applicata, in luogo della c.d. absolute priority rule, la c.d. relative priority rule, sia pure in forma diversa e più favorevole rispetto a quella successivamente declinata come regola di default nell’art. 11, par. 1, lett. c), della direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019” (di cui si dirà nel prossimo paragrafo).
Pertanto, a conferma di quanto riferito al termine del precedente paragrafo, con la sentenza n. 17155/2022 i giudici di legittimità avevano per la prima volta affermato la natura speciale delle regole sancite dal comma 1 dell’art. 182 ter L. fall. con specifico riferimento ai crediti tributari e contributivi, che nella disciplina del concordato preventivo andavano inquadrate come norme derogatorie della regola della priorità assoluta sancita dall’art. 160, comma 2, L. fall., la quale trovava invece applicazione in ordine al soddisfacimento di tutti gli altri crediti (Cassazione 10884/2020). Pertanto, i crediti di rango inferiore rispetto a quelli fiscali potevano essere parzialmente soddisfatti anche ove quelli fiscali non fossero stati pagati integralmente, purché il soddisfacimento offerto a questi ultimi fosse maggiore di quello destinato ai crediti di rango inferiore.
In altri termini, una parte del patrimonio dell’impresa debitrice poteva essere “sottratto” al soddisfacimento dell’Erario, se ciò era necessario per soddisfare anche altri creditori, il cui consenso fosse utile ai fini della prosecuzione dell’attività e risultava quindi strumentale per la produzione di quelle entrate da impiegare per assicurare agli stessi crediti fiscali un soddisfacimento migliore di quello che questi avrebbero ricevuto in caso di liquidazione dell’impresa debitrice. È evidente che per il Fisco è meglio ripartirsi con i creditori inferiori i flussi generati dalla continuazione dell’attività, piuttosto che impedirne la creazione senza vantaggio.
La disciplina della transazione fiscale era e tuttora è fondata su due principi: quello della convenienza per l’Erario rispetto alla liquidazione e (con riguardo al concordato preventivo) quello del divieto di prevedere per i crediti fiscali un trattamento deteriore rispetto a quello offerto ai crediti di rango inferiore. Ciò posto, questo secondo principio sarebbe risultato privo di significato, se non avesse comportato anche una deroga alla rigida applicazione delle cause legittime di prelazione secondo la regola della priorità assoluta, in base alla quale un credito di rango inferiore non può essere soddisfatto in alcuna misura, se i crediti poziori non vengono prima soddisfatti integralmente; se così non fosse stato, infatti, tale principio sarebbe risultato inutile, posto che la regola della priorità assoluta di per sé esclude un trattamento dei crediti fiscali deteriore rispetto a quello offerto ai crediti di rango inferiore.
Per questi motivi tale principio consentiva di derogare sia al comma 2 dell’articolo 160 della legge fallimentare sia alle norme disciplinanti l’ordine delle cause di prelazione, fermo restando che il soddisfacimento offerto al Fisco mediante la transazione fiscale doveva essere migliore di quello che esso avrebbe tratto dalla liquidazione.
La pronuncia della Corte di cassazione assumeva fondamentale importanza per le ristrutturazioni aziendali fondate sulla prosecuzione dell’attività, in cui era prevista la produzione di flussi gestionali, i quali, grazie a essa, anche ove fossero considerati “finanza endogena”, potevano essere distribuiti ai creditori, se non liberamente (come sarebbe accaduto per la “finanza esogena”), con la maggior elasticità consentita dalla regola della priorità relativa.
1.6 . Le modifiche introdotte dal Codice
In considerazione delle modifiche e integrazioni apportate al Codice dal D.Lgs. n. 83/2022, la specialità delle regole sulla transazione fiscale e contributiva nell’ambito del concordato preventivo con continuità aziendale è venuta meno, pur continuando a trovare applicazione, in quanto assorbita da una norma rilevante per tutti i creditori e non solo per il Fisco e gli enti previdenziali.
Infatti, da un lato l’art. 88, comma 1, primo periodo, del Codice continua ad affermare (in continuità con quanto dapprima previsto dal comma 1 dell’art. 182 ter L. fall.) la possibilità di proporre la soddisfazione parziale dei tributi e contributi, purché “in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista indipendente”.
Dall’altro, a differenza di quanto dapprima previsto dal comma 2 dell’art. 160 L. fall., il comma 6 dell’art. 84 del Codice stabilisce testualmente quanto segue: “Nel concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; per il valore eccedente è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”. Invero, nell’art. 85, comma 4, del CII è stato confermato il principio generale per cui la suddivisione dei creditori in classi “non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”, ma “[F]ermo quanto previsto dall’articolo 84, commi 5, 6 e 7”. 
Le disposizioni dell’art. 84 sull’affermazione della regola della priorità relativa nell’ambito del concordato preventivo con continuità aziendale sono state così esplicitamente qualificate come eccezione al principio generale sancito dall’art. 2741 c.c.[13], attraverso l’introduzione di due principi distinti da osservare nella ripartizione dell’attivo concordatario, a seconda della natura delle risorse distribuite:
a) il valore di liquidazione del patrimonio del debitore (da determinare, dunque, secondo una dimensione “statica”) va distribuito tra i creditori secondo la regola della priorità assoluta (che impedisce la soddisfazione del creditore di rango inferiore se non vi è stata la piena soddisfazione del credito di grado superiore), e dunque nel pieno rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione;
b) il valore del patrimonio del debitore eccedente il valore di liquidazione può essere distribuito tra i creditori, tranne che ai lavoratori dipendenti, secondo la regola della priorità relativa (fatta eccezione per i crediti da lavoro, per i quali occorre rispettare la regola della priorità assoluta anche con riguardo a detta eccedenza)[14].
Ne discende che, con riferimento alla distribuzione del cosiddetto “plusvalore da continuità”, “surplus concordatario” o “flusso di cassa gestionale”, è sufficiente che i crediti di una classe siano pagati in ugual misura rispetto alle classi di pari grado e in misura maggiore rispetto alla classe di rango inferiore[15], anziché in misura integrale.
In questo nuovo assetto normativo, dunque, le regole specificamente dettate dal comma 1 dell’art. 88 non si distaccano più da quelle ordinariamente previste per il concordato in continuità, posto che sia per la soddisfazione parziale dei tributi e dei contributi sia per la soddisfazione parziale della generalità dei crediti privilegiati il rigido rispetto dell’ordine delle cause di prelazione vige limitatamente al valore di liquidazione attribuibile a detti crediti, che dunque rappresenta una sorta di soglia minima; poiché i flussi di cassa generati dalla continuazione dell’attività d’impresa eccedono il valore di liquidazione, la distribuzione degli stessi può avvenire per la generalità dei crediti privilegiati secondo la regola della priorità relativa (per cui è sufficiente che i crediti di una classe siano pagati in ugual misura rispetto alle classi di pari grado e in misura maggiore rispetto alla classe di rango inferiore).
A seguito delle integrazioni apportate dal decreto legislativo emanato a recepimento delle prescrizioni della Direttiva (UE) 2019/1023, con l’entrata in vigore del Codice è stata dunque definitivamente risolta la querelle sorta in vigenza della legge fallimentare con riguardo all’utilizzo dei flussi di cassa per la soddisfazione di crediti di rango posteriore a quelli tributari e contributivi.
2 . La transazione fiscale nel concordato preventivo
Come riferito in premessa, la disciplina della transazione fiscale attuabile nel concordato preventivo, dapprima recata dai primi quattro commi dell’art. 182 ter L. fall., è stata trasfusa nell’art. 88 del Codice. Rispetto all’assetto applicabile in vigenza della legge fallimentare, con il comma 2 bis dell’art. 88 il legislatore continua ad attribuire al tribunale il potere di omologare il concordato preventivo con transazione fiscale “anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all’articolo 109, comma 1, e, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente o non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria”.
Dunque, in sostanza anche nel Codice le condizioni da soddisfare ai fini dell’attuazione del cram down fiscale continuano a essere due:
1) il carattere determinante della mancanza di adesione da parte dell’Agenzia delle Entrate;
2) la convenienza del trattamento proposto rispetto all’alternativa liquidatoria 8ma sul punto si veda quanto riferito nel prossimo paragrafo).
È rimasto del pari invariato l’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale, attraverso la quale il debitore “può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazione per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti obbligatorie e dei relativi accessori, se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista indipendente”.
A seguito delle modifiche apportate a tale norma dal decreto legislativo di recepimento della Direttiva (UE) 2019/1023, tuttavia, l’art. 182 ter L. fall. e l’art 88 Codice presentano differenze non marginali.
Una riguarda proprio la formulazione del testé citato comma 2 bis; l’altra concerne l’incipit dell’art. 88, in base al quale le disposizioni in esso previste si applicano “Fermo restando quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dall’articolo 112, comma 2, ………..”.
2.1 . Il trattamento “non deteriore” o “conveniente” previsto dai commi 2 e 2 bis dell’art. 88
Quanto alla prima differenza, in base all’ultima parte del comma 2 bis dell’art. 88 del Codice, ai fini della omologazione forzosa è richiesto che il trattamento dei crediti tributari e contributivi deve essere sia conveniente, sia “non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria”, mentre l’art. 182 ter L. fall. richiede al medesimo fine la sola convenienza del soddisfacimento offerto.
Inoltre, il comma 2 del medesimo art. 88 stabilisce che “L’attestazione del professionista indipendente, relativamente ai crediti tributari e contributivi, ha ad oggetto anche la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale e, nel concordato in continuità aziendale, la sussistenza di un trattamento non deteriore”. 
Sebbene l’inserimento del presupposto del criterio del trattamento non deteriore in entrambe le disposizioni sia stato previsto dal D.Lgs. n. 83/2022 e sebbene il contenuto dell’attestazione del professionista indipendente risulti chiaramente strumentale al provvedimento che il tribunale deve adottare con riguardo alla cosiddetta “omologazione forzosa”, esse presentano delle diversità, poiché: 
Ø per quanto concerne l’attestazione, è previsto che la valutazione della proposta in base al criterio del trattamento non deteriore rileva solo per il concordato in continuità, ma non viene precisato rispetto a quale parametro il carattere deteriore del trattamento oggetto della proposta vada rilevato, potendo esso essere alternativamente rappresentato (i) dal trattamento riservato ai crediti postergati a quelli tributari e contributivi oppure (ii) dal trattamento spettante a questi ultimi in caso di liquidazione giudiziale (analogamente a quanto previsto per valutare la convenienza della proposta); 
Ø sempre per quanto concerne l’attestazione, non è precisato se con riguardo al concordato in continuità rilevi sia il criterio della convenienza sia quello del trattamento non deteriore oppure solo quest’ultimo criterio, rilevando quello della convenienza soltanto per il concordato liquidatorio; 
Ø per quanto concerne l’omologazione forzosa, viene stabilito che il presupposto del trattamento non deteriore dei crediti tributari e contributivi va valutato rispetto al trattamento a essi spettante in caso di liquidazione giudiziale, analogamente a quanto previsto per il criterio della convenienza (da usare in alternativa, giusta l’utilizzo della locuzione “o”), ma non viene precisato se tale criterio valga solo per il concordato in continuità, rilevando quello della convenienza solo per il concordato liquidatorio, oppure se entrambi i criteri rilevano per tutte e due le due tipologie di concordato e, in questo caso, se devono essere impiegati congiuntamente o alternativamente e, in quest’ultima ipotesi, quali siano le regole da applicare per stabilire il criterio da utilizzare.
Purtroppo, per sciogliere questo groviglio di disposizioni la relazione che ha accompagnato l’iter di approvazione del decreto legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 non solo non si rivela di alcun ausilio, ma è addirittura fuorviante, perché vi si afferma che la nuova formulazione dell’art. 88 è diretta a recepire, “come fatto per l’articolo 63 sugli accordi di ristrutturazione, la disposizione dell’attuale articolo 48, comma 5, sull’omologazione anche in assenza di adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie”; invece il comma 5 dell’art. 48 del Codice previgente non faceva in alcun modo riferimento al trattamento non deteriore, così come il nuovo comma 2 bis dell’art. 63, inserito dal medesimo decreto legislativo per disciplinare il cram down fiscale relativamente alla transazione fiscale attuata nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. 
Con riferimento al contenuto dell’attestazione, le disposizioni recate dall’art. 88 del Codice sono suscettibili di quattro diverse interpretazioni:
1) l’attestatore deve valutare se il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità, è conveniente per i creditori pubblici e al tempo stesso non deteriore, cioè almeno pari al trattamento riservato ai crediti postergati a quelli tributari e contributivi;
2) l’attestatore deve valutare se il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità, è conveniente per i creditori pubblici e al tempo stesso non deteriore, cioè almeno pari al trattamento che gli stessi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale;
3) l’attestatore deve valutare solo se il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità, è non deteriore, cioè almeno pari al trattamento riservato ai crediti postergati a quelli tributari o erariali;
4) l’attestatore deve valutare solo se il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità, è non deteriore, cioè almeno pari al trattamento che gli stessi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale.
Con riferimento all’omologazione forzosa, le disposizioni recate dall’art. 88 appaiono suscettibili delle quattro diverse interpretazioni di seguito indicate: 
a) presupposto per l’omologazione forzosa è che il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità come in quello liquidatorio, sia per i creditori pubblici conveniente o (alternativamente) non deteriore rispetto a quello che questi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale;
b) presupposto per l’omologazione forzosa è che il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità, sia conveniente per i creditori pubblici o non deteriore rispetto a quello che essi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale, ovvero, nel concordato liquidatorio, sia conveniente rispetto a quello che tali creditori riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale;
c) presupposto per l’omologazione forzosa è che il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità, sia conveniente per i creditori pubblici o non deteriore rispetto a quello che essi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale, ovvero, nel concordato liquidatorio, sia non deteriore rispetto a quello che tali creditori riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale;
d) presupposto per l’omologazione forzosa è che il trattamento dei crediti tributari e contributivi, nel concordato in continuità, sia non deteriore rispetto a quello che i creditori pubblici riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale, ovvero, nel concordato liquidatorio, sia conveniente per i creditori pubblici rispetto a quello che tali creditori riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale.
Orbene, per districarsi in questo intricato intreccio normativo appare opportuno partire dalla considerazione che il presupposto del trattamento non deteriore è stato introdotto simultaneamente con riguardo sia all’oggetto dell’attestazione, nel comma 2 dell’art. 88, sia all’omologazione forzosa, nel comma 2 bis del medesimo articolo, in merito alla quale (omologazione forzosa) il parametro di raffronto (tanto della convenienza quanto della non deteriorità) è rappresentato unicamente dal trattamento che verrebbe riservato ai creditori pubblici in caso di liquidazione giudiziale. Inoltre, il divieto di trattamento deteriore dei creditori pubblici rispetto a quello dei creditori postergati è imposto dal comma 1 dell’art. 88, quale requisito di ammissibilità della proposta di transazione, il cui rispetto va accertato già in fase di apertura della procedura. 
Per quanto concerne l’omologazione forzosa, il comma 2 bis non opera alcun distinguo, ma si limita a prevedere che, ricorrendo gli altri presupposti a tal fine richiesti, il tribunale omologa la proposta se per i creditori pubblici essa è conveniente o non deteriore rispetto alla liquidazione giudiziale. Pertanto, l’interpretazione più aderente alla lettera della norma potrebbe sembrare quella indicata sub a), secondo cui occorre valutare se il trattamento dei crediti tributari e contributivi, tanto nel concordato in continuità quanto quello liquidatorio, sia conveniente per i creditori pubblici rispetto a quello che essi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale o sia (alternativamente) non deteriore. 
Resta peraltro da chiedersi quale sia la differenza fra un trattamento dei crediti tributari e contributivi “conveniente rispetto alla liquidazione giudiziale” e un trattamento “non deteriore rispetto alla liquidazione giudiziale”, atteso che tali espressioni potrebbero essere sostanzialmente equivalenti, considerando che un trattamento può essere non deteriore rispetto un altro in quanto è a esso esattamente equivalente, mentre un trattamento conveniente implica che esso sia migliore e non paritetico rispetto a un altro, ma la differenza fra le due espressioni potrebbe essere costituita semplicemente da un euro o da poche migliaia di euro con riguardo a debiti di rilevante ammontare.
 Giova richiamare al riguardo la Direttiva (UE) 2014/59, relativa alle c.d. “procedure di bail in”, nonché la Direttiva (UE) 2019/1023. La prima direttiva invero fa riferimento al criterio noto come “no creditor worse off than liquidation” (o “no creditor worse off than in insolvency”[16]), per cui nessun creditore può subire perdite maggiori di quelle che avrebbe subito secondo una normale procedura di insolvenza. Allo stesso modo la seconda direttiva, in presenza di creditori dissenzienti, richiede l’effettuazione del “best interests of creditors test” (o “verifica del miglior soddisfacimento dei creditori”), che impone di verificare se questi soggetti riceverebbero, al valore attuale (“present value”), quanto avrebbero ricevuto se il debitore avesse optato per la soluzione liquidatoria. In entrambi i provvedimenti il trattamento proposto al creditore non deve essere peggiore di quello che spetterebbe a tale creditore in caso di liquidazione, che dunque costituisce una sorta di benchmark[17] o di “punto di indifferenza” sotto cui viene così meno ogni interesse a prendere in considerazione l’intesa negoziale. Entrambi i criteri sono attuativi del principio in base al quale il creditore dissenziente non può essere obbligato a subire un trattamento peggiorativo rispetto a quello che gli sarebbe riservato in caso di liquidazione del debitore.
Pertanto, il criterio del trattamento non deteriore deve intendersi come il criterio in base al quale il trattamento proposto al creditore dissenziente è quello che in termini satisfattivi è almeno pari (ovverosia è equivalente) al trattamento che spetterebbe al creditore pubblico in caso di liquidazione giudiziale. Esso non coincide quindi con il criterio del trattamento conveniente, il quale dovrebbe prevedere un trattamento migliorativo, ovverosia richiedere la presenza di un quid pluris, di un elemento ulteriore che (sempre in termini satisfattivi) comporti una differenza rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale, in quanto foriero di una maggiore utilità ovvero di un vantaggio non altrimenti ottenibile, tale da favorire e giustificare l’interesse ad accettare la proposta e raggiungere così l’intesa negoziale.
In sostanza il miglior trattamento offerto deve essere tale da giustificare, sotto il profilo della convenienza economica, la decisione di approvare la transazione fiscale, potendo in tal modo l’Erario godere di un vantaggio economico concreto.
Più precisamente, le ragioni dell’integrazione (concernente la non deteriorità della proposta di transazione) inserita nel comma 2 bis dell’art. 88 (rispetto all’omologa previsione contenuta nel comma 5 dell’art. 48) potrebbero essere da ricercare nel complesso delle disposizioni disciplinanti il concordato in continuità aziendale, essendo sufficiente, con riguardo al concordato liquidatorio, quelle già presenti, che facevano riferimento alla convenienza. In altri termini, al pari dell’incipit inserito nel comma 1 dell’art. 88 (di cui si dirà infra), anche l’adeguamento della disposizione sul cram down fiscale sembrerebbe riconducibile all’esigenza di “circoscriverne la portata in ragione della nuova disciplina del concordato preventivo in continuità”, come rilevato nella relazione che ha accompagnato l’iter di approvazione del decreto legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023. Inoltre, se è vero che il comma 5 dell’art. 84 del Codice prescrive - in generale - la regola del trattamento non deteriore per i crediti privilegiati anche con riguardo al concordato liquidatorio, è altrettanto vero che il comma 4, nello stabilire che la proposta deve prevedere “un apporto di risorse esterne che incrementi di almeno il 10 per cento l’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda”, finisce comunque per imporre un quid pluris rispetto alla liquidazione giudiziale. 
Per questi motivi l’interpretazione più corretta, in quanto frutto della interconnessione delle due previsioni normative, sembra essere quella secondo cui ai fini dell’omologazione forzosa è necessario e sufficiente: (i) nel concordato in continuità, che il trattamento dei crediti tributari e contributivi sia non deteriore rispetto a quello che essi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale; (ii) nel concordato liquidatorio, che il trattamento dei creditori pubblici sia conveniente rispetto a quello che essi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale. Ciò non tanto perché nel concordato liquidatorio il tribunale si troverebbe a dover valutare il requisito del trattamento non deteriore in assenza di una valutazione dell’attestatore in merito (non richiesta dalla norma), atteso che un trattamento conveniente (qual è quello che deve essere attestato nel concordato liquidatorio) è necessariamente anche non deteriore; ciò per altri due motivi: a) perché tale interpretazione è l’unica coerente con il principio della maggior convenienza del concordato liquidatorio rispetto alla liquidazione desumibile dal citato comma 4 dell’art. 84 del Codice (maggior convenienza discendente dall’apporto di risorse esterne imposto da detta norma); b) perché tale interpretazione è l’unica che rispetta l’interrelazione che sotto il profilo logico deve necessariamente sussistere tra il disposto del comma 2 e quello del comma 2 bis del citato art. 88, essendo il primo strumentale rispetto al secondo.
Questa interpretazione potrebbe sembrare ostacolata dal fatto che nel comma 2 dell’art. 88 viene utilizzata la congiunzione “e”, per il che l’interpretazione più aderente alla lettera della norma dovrebbe essere quella sopra indicata sub 2), secondo cui nel concordato in continuità l’attestatore deve accertare che il trattamento dei crediti tributari e contributivi sia al tempo stesso conveniente per i creditori pubblici e non deteriore rispetto al trattamento che questi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale. Tuttavia ciò sarebbe vero se tale norma così recitasse: “L’attestazione del professionista indipendente, relativa ai crediti tributari e contributivi, ha ad oggetto anche la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale e inoltre, nel concordato in continuità aziendale, la sussistenza di un trattamento non deteriore”. L’avverbio “inoltre” però manca, come manca, alternativamente, la particella aggiuntiva “anche” dopo la parola “aziendale”. Si intende dire che la congiunzione “e” sta semplicemente a disporre che nel concordato non qualificato (tipicamente quello liquidatorio) è necessario attestare la convenienza del trattamento e che in quello in continuità è necessario (e sufficiente) attestare la non deteriorità del trattamento.
In conclusione, l’assetto normativo ricostruito in base alle considerazioni che precedono è il seguente:
1) nel concordato liquidatorio, l’attestatore deve accertare solo la convenienza del trattamento dei crediti tributari rispetto alla liquidazione e la omologazione forzosa è disposta dal tribunale (anche sulla scorta dell’attestazione) se la proposta di soddisfacimento di tali crediti è conveniente per i creditori pubblici rispetto alla liquidazione dell’impresa debitrice;
2) nel concordato in continuità, l’attestatore deve accertare solo che il trattamento dei crediti tributari è non deteriore rispetto alla liquidazione e la omologazione forzosa è disposta dal tribunale (anche sulla scorta dell’attestazione) se la proposta di soddisfacimento di tali crediti è non deteriore al soddisfacimento che tali crediti riceverebbero a seguito della liquidazione dell’impresa.
 Così stando le cose, la novità normativa parrebbe essere diretta a legittimare l’approvazione della proposta transattiva nel concordato liquidatorio solo se il trattamento dei crediti tributari e contributivi è effettivamente, e non solo nominalmente, conveniente per i creditori pubblici rispetto alla liquidazione giudiziale. E, sulla base di tale lettura della norma, la differenza fra le due previsioni, una relativa al concordato liquidatorio e l’altra riguardante il concordato in continuità, appare giustificata dai vantaggi generali che questa seconda forma di concordato produce rispetto alla soluzione liquidatoria. 
 Dei principi sopra esposti devono tenere conto anche l’Agenzia delle Entrate e gli enti di previdenza e assistenza, posto che i presupposti dell’omologazione forzosa sopra indicati indicano anche il “grado di soddisfacimento” che tali soggetti devono considerare ai fini dell’approvazione e del rigetto delle proposte di transazione fiscale e contributiva: approvandole quando il soddisfacimento proposto è conveniente, se la domanda di transazione è formulata nel concordato liquidatorio, o quando il soddisfacimento è non deteriore, se la proposta è formulata nel concordato in continuità, e rigettandole nel caso opposto.
 Infatti, nella maggior parte dei casi una proposta non deteriore è anche conveniente per i creditori, perché è difficile che il soddisfacimento da essa previsto (inteso anche in senso sostanziale e non nominale) sia proprio coincidente con quello consentito dalla liquidazione e, se non è deteriore né coincidente, non può che essere migliore di quest’ultimo; in questi casi, quindi, i suddetti creditori pubblici, in base al principio di buon andamento della Pubblica amministrazione statuito dall’art. 97 della Costituzione, sono tenuti ad approvare la proposta di transazione, perché ne traggono un vantaggio altrimenti non conseguibile. Tuttavia, fermo restando che quando il trattamento offerto è deteriore rispetto a quello derivante dalla liquidazione dell’impresa la proposta deve essere rigettata, con riguardo al caso in cui tale coincidenza (intesa in senso sostanziale e non nominale) tra proposta e liquidazione dovesse sussistere, vi è da domandarsi che motivo avrebbero tali creditori di approvare una proposta il cui accoglimento, producendo effetti sostanzialmente analoghi a quelli discendenti dalla liquidazione, si rivelerebbe privo di vantaggi per l’Erario rispetto a quelli generati da quest’ultima soluzione. In questa circostanza è da ritenersi che la non deteriorità del soddisfacimento offerto, pur essendo sufficiente ai fini della omologazione forzosa da parte del tribunale, non basti per imporre l’approvazione della proposta all’Agenzia delle Entrate e agli enti previdenziali e assistenziali, i quali, nell’ambito del concordato in continuità saranno invece tenuti ad accogliere la domanda di transazione ove il suddetto soddisfacimento, oltre che non deteriore, sia anche conveniente; fermo restando che, nel caso in cui la proposta non venisse approvata, il tribunale dovrebbe omologarla semplicemente in quanto preveda un trattamento non deteriore, ancorché non conveniente, per l’Erario.
Come rilevato al paragrafo 11 della relazione n. 87 del 15 settembre 2022, predisposta dall’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, ne discende che “nel piano liquidatorio non soltanto il trattamento della parte prelatizia non possa essere inferiore a quella realizzabile con il bene oggetto di garanzia nello scenario liquidatorio, ma che - almeno complessivamente - il trattamento riservato ai crediti tributari e contributivi debba essere “conveniente” ed oggetto di specifica ulteriore attestazione in tal senso”.
2.2 . L’incipit dell’art. 88, comma 1
Quanto alla seconda delle differenze fra il testo dell’art. 182 ter L. fall. e quello del corrispondente art. 88 del Codice, rimane anche in quest’ultima norma l’obbligo di presentare all’Agenzia delle Entrate una proposta di transazione fiscale per poter soddisfare parzialmente e/o in forma dilazionata i crediti tributari. Tuttavia, rispetto al comma 1 dell’art. 182 ter L. fall., il comma 1 dell’art. 88 del Codice, a seguito delle modifiche recate dal D.Lgs. n. 83/2022, contiene una novità, rappresentata dall’inserimento della locuzione iniziale “Fermo restando quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dall’articolo 112, comma 2, ……….”, il cui significato si presenta (almeno in prima battuta) abbastanza oscuro; né si rivela di particolare ausilio la relazione illustrativa del suddetto provvedimento normativo, la quale si limita ad affermare che l’incipit del comma 1 dell’art. 88 è stato inserito “per circoscriverne la portata in ragione della nuova disciplina del concordato in continuità”.
Occorre al riguardo rammentare che nella previgente formulazione l’art. 112 del Codice si limitava a disciplinare soltanto alcuni aspetti particolari del giudizio di omologazione, continuando ad attribuire al tribunale (in analogia a quanto previsto dalla legge fallimentare) il potere di omologare il concordato nonostante il dissenso di una parte dei creditori, nel caso in cui essi possano ottenere dall’esecuzione del concordato un soddisfacimento non inferiore a quello che otterrebbero accedendo all’alternativa procedura di liquidazione giudiziale. Veniva infatti previsto che, se vi è contestazione in ordine alla convenienza della proposta da parte di un creditore dissenziente appartenente ad una classe dissenziente oppure se la contestazione proviene da creditori dissenzienti che rappresentano almeno il venti per cento dell’ammontare complessivo dei crediti ammessi al voto, “il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”.
Con le modifiche previste nel D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, l’art. 112 risulta radicalmente sostituito, venendo precisato al comma 1 il contenuto delle verifiche che il tribunale è tenuto a compiere ai fini del giudizio di omologazione, a seconda che il concordato sia in continuità aziendale o meno. Nel comma 2 di tale articolo sono invece inserite le regole che disciplinano la omologazione forzosa nel caso della cosiddetta “ristrutturazione trasversale” (“cross class cram down”) prevista dall’art. 11, paragrafo 1, lettere a) e b) della citata Direttiva, le quali consentono il cram down nel concordato in continuità aziendale, solo a patto che, oltre ad altre condizioni, ricorra quella dell’espressione di un voto favorevole da parte della maggioranza delle singole classi (in caso di mancato ottenimento del voto favorevole di tutte le classi richiesto, come regola generale, dal comma 1, lett. f), del medesimo art. 112 ). 
Per effetto di tali modifiche, infatti, il testo del comma 2 del nuovo art. 112 è diventato il seguente:
Nel concordato in continuità aziendale, se una o più classi sono dissenzienti, il tribunale, su richiesta del debitore o con il consenso del debitore in caso di proposte concorrenti, omologa altresì se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: 
a) il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; 
b) il valore eccedente quello di liquidazione è distribuito in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore, fermo restando quanto previsto dall’articolo 84, comma 7; 
c) nessun creditore riceve più dell’importo del proprio credito; 
d) la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”.
Si tratta dunque di una serie di presupposti che, se soddisfatti congiuntamente, consentono al tribunale di omologare il concordato con continuità aziendale anche in caso di dissenso manifestato da parte di una o più classi, in deroga alla regola generale sancita dal comma 1 del medesimo art. 112: tra i presupposti richiesti risaltano quelli indicati alla lett. a) e alla lett. b), secondo cui il valore di liquidazione deve essere distribuito nel rispetto delle cause legittime di prelazione (applicando la regola della priorità assoluta) e il valore eccedente quello di liquidazione deve essere distribuito, seppur derogando a tale regola, in modo da rispettare quella della priorità relativa, che consente di pagare un creditore sebbene quelli di grado poziore non siano stati soddisfatti in maniera integrale ma ricevano semplicemente un trattamento più favorevole.
Ciò posto, con riguardo all’art. 88, in base a una prima lettura l’incipit di tale norma (“Fermo restando quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dall’articolo 112, comma 2”) potrebbe essere inteso nel senso che le norme disciplinanti la transazione fiscale trovano applicazione solo per il concordato liquidatorio, ma non nell’ambito del concordato con continuità aziendale, al quale – per effetto del suddetto incipit - si applicherebbero esclusivamente le norme recate dal citato art. 112, comma 2. La medesima restrizione dovrebbe in ipotesi valere quindi anche per le disposizioni dettate relativamente al cram down fiscale dal comma 2 bis del medesimo art. 88, che permette al tribunale (ricorrendone i presupposti) di omologare la proposta concordataria anche in mancanza di adesione (espressa o tacita) del creditore pubblico. Peraltro il citato comma 2 bis attribuisce tale potere al tribunale quando la mancanza di adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui al comma 1 dell’art. 109 (in base al quale il concordato è approvato con il voto favorevole che rappresenta la maggioranza dei crediti ammessi al voto), senza fare alcun riferimento al successivo comma 5 del medesimo art. 109, che con riguardo al concordato con continuità aziendale ne prevede l’approvazione se tutte le classi votano a favore. Dunque, il richiamo al solo comma 1 - e non anche al comma 5 - dell’art. 109, da parte del comma 2 bis dell’art. 88, potrebbe essere inteso come conferma del fatto che per il concordato in continuità rilevino unicamente le previsioni contenute nel comma 2 dell’art. 112, consentendo esse di per sé la omologazione del concordato anche se vi sono delle classi dissenzienti e permettendone quindi la omologazione anche se le classi relative ai crediti fiscali e contributive sono dissenzienti. 
Questa prima lettura, tuttavia, non si rivela corretta, perché, in forza della norma da ultimo citata, il tribunale può omologare il concordato in continuità aziendale anche ove una o più classi abbiano espresso il loro dissenso rispetto alla proposta di concordato, se ricorrono talune condizioni, tra le quali rientra anche quella per cui la proposta di concordato deve essere stata approvata dalla maggioranza delle classi. Pertanto, nel caso in cui la proposta non fosse approvata dalla maggioranza dei creditori a causa della mancata adesione dei creditori pubblici, l’omologazione risulterebbe preclusa laddove dal campo di applicazione del comma 2 bis dell’art. 88 dovesse ritenersi escluso tout court il concordato in continuità aziendale. 
Questa interpretazione appare contraria alle finalità che hanno indotto il legislatore a introdurre il cram down fiscale e ciò la rende non coerente con altre disposizioni che disciplineranno il concordato. Inoltre, se il legislatore avesse voluto escludere l’applicazione della transazione fiscale al concordato con continuità aziendale, sarebbe stato assai più semplice delimitare l’ambito applicativo di tale istituto al concordato liquidatorio, senza necessità, per giungere a tale conclusione, di richiamare le disposizioni dettate dal comma 2 dell’art. 112 relativamente al giudizio di omologazione. Nella citata relazione n. 87 del 15 settembre 2022 (§ 11), pur riconoscendosi che “il testo non è in effetti chiarissimo”, si evidenzia come “il ‘fermo quanto previsto dall’art. 112 comma 2’ (in tema di cross class cram down o ristrutturazione trasversale dei debiti di cui all’art. 11 della Direttiva Insolvency) non escluda le regole di trattamento appena indicate, stante la specialità e la ribadita esclusività della disciplina di cui all’art. 88 in commento”.
Va dunque ricercata una diversa interpretazione dell’incipit aggiunto al comma 1 dell’art. 88, che privilegi la coerenza e la sistematicità di tale disposizione rispetto alle altre norme del Codice. Questa diversa interpretazione è quella che si ottiene se si attribuisce a tale incipit lo scopo di affermare l’applicazione delle norme recate dal comma 2 dell’art. 112 del Codice in aggiunta a (anziché in sostituzione di) quelle dell’art. 88 che regolamentano la transazione fiscale. Sulla base di questa diversa interpretazione, pertanto, mentre nel concordato non in continuità gli effetti previsti dall’art. 88 - falcidia e dilazione dei debiti fiscali - si producono secondo le regole generali, in quello in continuità essi si generano soltanto se si verificano anche gli ulteriori presupposti previsti dal comma 2 dell’art. 112. Di conseguenza, nel concordato in continuità il voto espressamente favorevole del Fisco non è di per sé sufficiente, perché ai fini della omologazione della proposta (in caso di mancata approvazione della domanda di concordato da parte di tutte le classi, come discende dal terzo periodo del comma 5 dell’art. 109) occorre anche il rispetto delle ulteriori condizioni poste dal comma 2 dell’art. 112, tra le quali quella che richiede la necessaria approvazione della proposta di concordato da parte della maggioranza delle classi.
Nel formulare la proposta di trattamento dei debiti tributari (e contributivi) in caso di concordato preventivo con continuità aziendale, perciò, il debitore resta tenuto (a pena di inammissibilità della stessa) a rispettare i vincoli sanciti dal comma 1 dell’art. 88, mentre in sede di omologazione le regole statuite nel comma 2 dell’art. 112 in tema di cross class cram down si affiancano (integrandole, e non sostituendole) a quelle contenute nel comma 2 bis dell’art. 88 in tema di cram down fiscale, con la conseguenza che:
· in caso di mancato voto favorevole di tutte le classi a causa del dissenso (non “determinante”) del Fisco ed eventualmente di altri creditori, il tribunale omologa comunque la proposta concordataria se questa viene approvata dalla maggioranza delle classi e ricorrono gli altri presupposti richiesti dal comma 2 dell’art. 112, senza dover dar corso al cram down fiscale, che risulta in tal caso inutile e non attuabile, non essendo l’adesione del Fisco “determinante”;
· in caso di mancato raggiungimento del voto favorevole da parte della maggioranza delle classi a causa del dissenso “determinante” del Fisco, il tribunale omologa la proposta concordataria mediante il cram down fiscale previsto dal comma 2 bis dell’art. 88, se ne sussistono i presupposti, e ai sensi del comma 2 dell’art. 112, se ricorrono congiuntamente le condizioni ivi previste.
Questa interpretazione ha il pregio di non privare di significato l’incipit del comma 1 dell’art. 88 e di rispettare al tempo stesso la ratio del comma 2 bis del medesimo articolo, risultando coerente con quanto affermato sul punto nella relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva (UE) 2019/1023 e con le altre disposizioni del Codice. 
In tal senso nella citata relazione n. 87 del 15 settembre 2022 (§ 11) è testualmente osservato quanto segue: “Non si ritiene, invece, stante la già individuata specialità di questa norma, che i medesimi effetti del cram down, limitatamente a tributi e contributi, possano essere raggiunti attraverso la cross class cram down di cui all’art. 112 comma 2, giacché altrimenti rischierebbe di non avere senso la formulazione conservata dell’art. 88 comma 2 bis. Del resto, la esclusività che la norma in commento continua a declamare non può essere ‘annacquata’ dal ricorso ad un istituto che la medesima norma non richiama: la stessa mantiene fermo l’art. 109 comma 1, ma nessun rilievo è dato all’art. 112 comma 2 che, stante la specialità della presente disposizione, appare perciò arduo ritenere possa trovare spazio rispetto ai debiti erariali, anche in via analogica”.
3 . La transazione fiscale negli accordi di ristrutturazione dei debiti
In continuità con l’art. 182 bis L. fall. (a suo tempo introdotto dall’art. 2 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35), l’art. 57 del Codice prevede che il debitore può depositare presso il Tribunale competente gli accordi per la ristrutturazione dei debiti, stipulati con creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti, con domanda di accesso al giudizio di omologazione da sottoporre all’autorità giudiziaria. Allo stesso modo l’art. 63 del Codice stabilisce (in continuità con l’art. 182 ter L. fall.), che nell’ambito delle trattative che precedono la stipulazione degli accordi di ristrutturazione di cui agli artt. 57, 60 e 61 il debitore può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti obbligatorie e dei relativi accessori.
Il riferimento testuale agli accordi di ristrutturazione di cui agli artt. 57, 60 e 61 fa chiaramente intendere che la transazione fiscale opera non solo con riguardo alla fattispecie ordinaria disciplinata dall’art. 57, ma anche in relazione alle due fattispecie “speciali”, ovverosia agli accordi di ristrutturazione agevolati di cui all’art. 60 e agli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa di cui all’art. 61; ciò a differenza di quanto previsto dall’art. 182 ter L. fall., che al comma 5 richiamava unicamente gli accordi di ristrutturazione da omologare ai sensi dell’art. 182 bis (senza dunque citare le altre due fattispecie disciplinate dagli artt. 182 septies e 182 novies L. fall.), il che chiarisce la disciplina futura, senza tuttavia escluderne una analoga, sulla base di un ragionamento a contrario, con riguardo a quella prevista dalla legge fallimentare (si veda quanto esposto al riguardo nel par. 2).
 Nel citato art. 182 novies la riduzione della percentuale richiesta è concessa a condizione che il debitore rinunci alla moratoria legale di centoventi giorni, automaticamente prevista dall'art. 182 bis per i creditori estranei. Meno precisa sul punto sembrerebbe la formulazione dell’art. 60, lett. a), del Codice, ai sensi del quale la riduzione ricorre quando il debitore “non proponga la moratoria dei creditori estranei agli accordi”, atteso che tale moratoria si applica di default e, perciò, non deve essere di per sé proposta, anche se la condizione recata dall’espressione “non proponga” può essere agevolmente interpretata come equivalente a quella costituita da una rinuncia alla moratoria.
Inoltre, nonostante l’assenza di un espresso richiamo al comma 3 dell’art. 88 da parte del comma 2 dell’art. 63, nella prassi operativa è d’uso depositare anche la copia delle dichiarazioni fiscali per le quali non è pervenuto l’esito dei controlli automatici e delle dichiarazioni integrative relative al periodo fino alla data di presentazione della proposta. Infatti, una volta ricevuta la proposta e la relativa documentazione ad essa allegata, gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate devono procedere alla liquidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni e alla notifica dei relativi avvisi di irregolarità, unitamente a una certificazione attestante l’entità del debito derivante da atti di accertamento, ancorché non definitivi, per la parte non iscritta a ruolo, nonché dai ruoli vistati, ma non ancora consegnati all’agente della riscossione e possono provvedervi più agevolmente grazie al deposito di tali dichiarazioni.
Stante l’espresso richiamo all’art. 39, commi 1 e 3, contenuto nell’art. 57, è curioso osservare che la documentazione che accompagna la proposta di transazione fiscale deve comprendere anche “un’idonea certificazione sui debiti fiscali, contributivi e per premi assicurativi”, sebbene l’oggetto della proposta riguardi proprio la corretta quantificazione e certificazione dei debiti fiscali all’esito della procedura.
3.1 . Il trattamento dei crediti tributari e contributivi
Anche a seguito dell’integrazione operata dal D.Lgs. n. 147/2020, il comma 1 dell’art. 63 prevede che la transazione fiscale e previdenziale può concernere il pagamento parziale o anche dilazionato “dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti obbligatorie e dei relativi accessori”, senza alcuna previsione dei principi di trattamento “non deteriore” (per i crediti erariali privilegiati) e di trattamento non differenziato o “più favorevole” (per i crediti erariali chirografari), che sono invece ancora previsti dall’art. 88 del Codice relativamente al concordato preventivo.
Invero la relazione che accompagnò l’approvazione del Codice non si soffermava per nulla sulle ragioni del mancato richiamo, nell’art. 63, del principio di trattamento non deteriore e del principio di trattamento più favorevole, spiegando invece che l’art. 63 “costituisce la riproposizione dei commi 5 e 6 del vecchio art. 182 ter”, in perfetta continuità della disciplina vigente in forza della legge fallimentare con quella del Codice; il che, a ben vedere, parrebbe costituire ulteriore conferma della tesi secondo cui entrambi i suddetti principi in realtà non avrebbero mai trovato collocazione nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti soggetti a omologazione, come a suo tempo aveva rilevato dal Tribunale di Milano con il decreto 15 novembre 2011. 
Con l’entrata in vigore del Codice, dunque, il trattamento dei crediti erariali (e previdenziali) nell’ambito degli accordi di ristrutturazione non è soggetto al rispetto del principio di trattamento non deteriore o più favorevole, il che appare giustificato dalla rilevata possibilità di derogare in detto contesto all’ordine delle legittime cause di prelazione. Ne discende che in base alla normativa vigente è altresì venuta meno in radice la problematica concernente il confronto del trattamento dei crediti erariali con quello riservato dalla legge ai creditori estranei, non essendo più previsto alcun confronto con creditori diversi da quelli pubblici, e tantomeno con quelli estranei (fatto salvo quanto sarà osservato a breve con riguardo al cram down fiscale).
Allo stesso modo nel comma 1 dell’art. 63 manca la riproposizione o il richiamo all’altro precetto contenuto nel comma 1 dell’art. 88, in forza del quale nel concordato preventivo il debitore può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei contributi “se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista indipendente”. Occorre in proposito però rilevare che il secondo e ultimo periodo del comma 2 dell’art. 63 stabilisce espressamente che “l’attestazione del professionista indipendente, relativamente ai crediti fiscali e previdenziali, deve inerire anche alla convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale”. Si intende dire che nella sostanza gli effetti delle due disposizioni sono coincidenti, poiché soddisfare un credito in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione del debitore equivale a soddisfare quel credito in misura non deteriore, cioè peggiore, rispetto a quella che alternativamente discenderebbe dalla liquidazione giudiziale di quel debitore applicando l’ordine delle cause legittime di prelazione. Inoltre, le risultanze della relazione del professionista indipendente, da cui emerga che la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria, costituiscono il fondamento per l’omologazione forzosa degli accordi di ristrutturazione e della proposta di transazione fiscale in essi compresa, giusta il disposto del comma 2 bis dell’art. 63. È dunque del tutto razionale che non sia prevista l’applicazione congiunta di due regole che, in quanto coincidenti, costituiscono l’una la ripetizione sostanziale dell’altra.
È, altresì, da notare la totale assenza di qualsiasi richiamo al criterio del trattamento non deteriore rispetto alla liquidazione giudiziale, su cui pure si fonda a quest’ultimo fine la valutazione della proposta di transazione fiscale con riferimento al concordato preventivo in continuità aziendale, giusta il disposto dei commi 2 e 2 bis che il D.Lgs. n. 83/2022 ha aggiunto all’art. 88. Invero il fatto che si provveda integrare unicamente la disciplina del concordato preventivo costituisce una circostanza che difficilmente potrebbe giustificare l’estensione del medesimo criterio anche per gli accordi di ristrutturazione, sebbene tale diversità appaia poco comprensibile, visto che l’accordo di ristrutturazione è generalmente diretto a preservare anch’esso la continuità aziendale.
3.2 . L’operatività del cram down fiscale
Ai sensi dell’art. 48, comma 4, del Codice, dopo la presentazione e la pubblicazione della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione, il Tribunale fissa l’udienza in camera di consiglio per la comparizione delle parti (ovverosia il debitore, i creditori e i terzi che abbiano proposto opposizione alla omologazione) nonché del commissario giudiziale (se nominato) e, assunti i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, omologa con sentenza gli accordi sussistendone i presupposti. Il successivo comma 6 dispone che, se il tribunale non omologa gli accordi di ristrutturazione, dichiara con sentenza, su ricorso di uno dei soggetti legittimati, l’apertura della liquidazione giudiziale.
Tali norme disciplinano dunque l’omologazione “ordinaria” degli accordi, cioè quella che ha a oggetto accordi approvati e sottoscritti dai creditori aderenti. Tuttavia, per quanto attiene alla transazione fiscale, come emerge anche dalla stessa relazione di accompagnamento del Codice, spesso nella prassi operativa sono state registrate “ingiustificate resistenze alle soluzioni” di risanamento proposte, giacché gli uffici territorialmente competenti hanno non di rado ritenuto non accettabile la proposta di transazione fiscale quando la percentuale di pagamento offerta è risultata inferiore a una determinata soglia auto-imposta dagli stessi Uffici, sebbene la soluzione proposta prevedesse un trattamento pacificamente migliore rispetto a quello spettante al creditore pubblico in caso di liquidazione giudiziale. Per questa ragione alle disposizioni di carattere generale che disciplinano l’omologazione degli accordi contenute nell’art. 48 il legislatore ha aggiunto una disposizione speciale, per la transazione fiscale, inizialmente contenuta nel comma 5 di tale articolo (e poi nello stesso art. 63, in cui è stato inserito il comma 2 bis), in base alla quale il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui agli articoli 57, comma 1, e 60, comma 1, e, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria. 
Si tratta di una norma speciale, perché l’istituto del cram down è previsto solo per la transazione fiscale (oltre che per quella contributiva,) e non anche per gli altri accordi di ristrutturazione, e la norma contenuta nel comma 2 bis dell’art. 63 costituisce dunque l’unica fattispecie di tal guisa (fatta eccezione, invero, per gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa di cui all’art. 61), la quale ripropone la medesima disposizione inserita nel comma 4 dell’art. 182 bis L. fall. dalla L. n. 159/2020. Il potere del tribunale può essere esercitato una volta decorso il termine di novanta giorni dal deposito della proposta di transazione fiscale ovvero, se anteriore, dal momento in cui l’Amministrazione finanziaria ha espresso il proprio diniego (chiaramente sempre che il debitore presenti la domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti contenenti la proposta di transazione fiscale).
Sulla base della disciplina introdotta con il Codice, come peraltro in quella precedente, la transazione fiscale è omologabile anche in mancanza di adesione dell’Amministrazione finanziaria, a condizione che tale adesione risulti determinante al fine del raggiungimento della percentuale dei creditori aderenti stabilita per la omologabilità degli accordi stessi. Sotto questo profilo si presenta tuttavia una importante differenza (almeno sul piano formale) rispetto alla corrispondente disposizione aggiunta al comma 4 dell’art. 182 bis L. fall.; infatti, mentre quest’ultima norma fa esclusivamente riferimento “al raggiungimento della percentuale di cui al primo comma” ovverosia alla percentuale del sessanta per cento prevista per gli accordi di ristrutturazione “ordinari”, il testé citato comma 2 bis dell’art. 63 richiama le “percentuali di cui agli articoli 57, comma 1, e 60, comma 1”, cioè sia quella del sessanta sia quella del trenta per cento: significa dunque che il cram down fiscale può trovare applicazione anche con riguardo agli accordi di ristrutturazione agevolati, che richiedono il raggiungimento della maggioranza ridotta del trenta per cento dei crediti di cui sono titolari i creditori aderenti. È stata dunque così chiarita la possibilità di applicare il cram down fiscale anche agli accordi di ristrutturazione agevolati, che nell’ambito della legge fallimentare poteva apparire dubbia a causa del mancato richiamo all’art. 182 novies (anche se il fatto che tale articolo sia stato inserito dopo l’approvazione del Codice proprio per anticipare l’entrata in vigore delle disposizioni sul punto, lascia propendere per un’interpretazione estensiva).
Sebbene ai sensi dell’art. 63, comma 1, giusta il richiamo dell’art. 61, la transazione fiscale possa essere proposta anche nell’ambito delle trattative che precedono la stipulazione degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, il citato comma 2 bis dell’art. 63 richiama solo gli articoli 57, comma 1, e 60 comma 1, e non anche l’art. 61, che disciplina tale tipo di accordo. 
Occorre pertanto chiedersi se, a causa di tale mancato richiamo, ne discende che la omologazione forzosa, pur potendo avere a oggetto un accordo di ristrutturazione agevolato (di cui all’art. 60), non può riguardare anche un accordo a efficacia estesa (di cui all’art. 61). 
In tal senso potrebbero deporre sia il dato letterale, cioè appunto il mancato richiamo dell’art. 61 nel citato comma 2 bis dell’art. 63, sia il fatto che tale istituto già prevede di per sé l’effetto di vincolare i creditori non aderenti appartenenti alla medesima categoria dei creditori aderenti (purché siano rappresentativi, questi ultimi, del 75% dei crediti complessivi della stessa), dal che potrebbe trarsi la conseguenza che il trascinamento dei creditori “di minoranza” operi solo a seguito di un’approvazione espressa dei creditori “di maggioranza” e non per effetto di un’approvazione imposta a questi ultimi dal tribunale mediante il cram down, con una sorta di doppio trascinamento.
In senso opposto, e cioè tale da consentire il trascinamento previsto dall’accordo con efficacia estesa anche nel caso in cui l’adesione dei creditori “di maggioranza” derivi dal cram down, depone il fatto che il richiamo agli articoli 57, comma 1, e 60, comma 1, presente nel comma 2 bis, ha semplicemente lo scopo di individuare le percentuali rispetto alle quali l’adesione del fisco e degli enti previdenziali deve risultare determinante ai fini della omologazione forzosa della transazione fiscale e contributiva. Tale richiamo non rileva in alcun modo (e nulla comporta) in ordine all’accordo di ristrutturazione a efficacia estesa, producendo esso solo il medesimo effetto che si verificherebbe se il citato comma 2 bis stabilisse che “Il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione dei creditori pubblici è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali del sessanta e del trenta per cento e, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”.
Se la norma fosse scritta così, a nessuno verrebbe in mente di trarne considerazioni circa l’inapplicabilità del cram down nell’ambito di un accordo a efficacia estesa e non vi è dunque alcun motivo per pervenire a diverse conclusioni in presenza del testo del suddetto comma 2 bis per come è realmente scritto, giacché nella sostanza ciò che tale disposizione afferma è esattamente coincidente con il disposto della rielaborazione della norma poc’anzi esposta. 
Inoltre, occorre considerare che attraverso la omologazione forzosa il legislatore ha attribuito al contribuente una effettiva tutela giurisdizionale rispetto a decisioni dell’Amministrazione finanziaria che non siano conformi alla legge (ad esempio, perché costituite dal rigetto di proposte convenienti per l’Erario), in virtù della quale, mediante l’istanza di omologazione forzosa, l’impresa debitrice chiede nella sostanza al tribunale di emettere un provvedimento con il quale la pronuncia dei creditori pubblici viene riformata. Così stando le cose, sarebbe del tutto illogica una disciplina che consentisse l’estensione dell’efficacia dell’accordo in presenza dell’approvazione della transazione fiscale deliberata dall’Agenzia delle Entrate in conformità alla legge e la impedisse qualora l’approvazione della proposta derivasse, invece, dalla omologazione forzosa disposta dal tribunale, in conformità alla legge, per porre rimedio a una pronuncia illegittima dell’Amministrazione finanziaria; equivarrebbe, infatti, ad attribuire rilevanza a un provvedimento illegittimo, nonostante la censura e la riforma di tale provvedimento da parte dell’Autorità giudiziaria.
Per questi motivi, l’estensione dell’efficacia dell’accordo di ristrutturazione dei debiti è da ritenersi applicabile ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria di quelli che vi aderiscono, non solo quando la transazione fiscale è stata direttamente approvata da questi ultimi, ma anche quando la sua approvazione è stata disposta dal tribunale in via sostitutiva mediante la omologazione forzosa[18].
I creditori ai quali possono essere estesi gli effetti della transazione fiscale sono, peraltro, per loro natura assai limitati, attesa la necessità che si tratti di creditori della medesima categoria, individuata sulla base dell’omogeneità di posizione giuridica e interessi economici, e possono essere individuati esclusivamente nei creditori pubblici titolari di crediti contributivi (Inps e Inail principalmente) e dei tributi locali (regioni, comuni e province). Pertanto, se la proposta di transazione fiscale viene approvata e i crediti erariali sono rappresentativi di almeno il 75% dei debiti tributari complessivi, il medesimo trattamento previsto dalla proposta di transazione può essere esteso, ad esempio, ai tributi locali esclusi dalla transazione, essendo la posizione degli enti pubblici destinatari degli stessi equiparabile a quella dell’Erario per posizione giuridica e interessi economici (sul trattamento dei tributi locali si avrà modo di tornare più avanti).
3.3 . I presupposti del cram down fiscale
Come detto, anche nel Codice le condizioni da soddisfare ai fini dell’attuazione del cram down fiscale continuano a essere due:
1) il carattere determinante della mancanza di adesione da parte dell’Agenzia delle Entrate;
2) la convenienza del trattamento proposto rispetto all’alternativa liquidatoria.
3.3.1 . Il carattere “determinante” dell’adesione
L’adesione dell’Agenzia delle Entrate va ritenuta determinante quando di per sé o congiuntamente a quella di altri creditori consente di raggiungere la percentuale richiesta dei crediti complessivi: l’adesione della stessa deve dunque risultare indispensabile per consentire il raggiungimento della percentuale richiesta a seconda del tipo di accordo di ristrutturazione.
Ordinariamente lo è quindi l’adesione del Fisco, se, a titolo esemplificativo, l’ammontare dei suoi crediti e l’ammontare dei crediti di cui sono titolari gli altri creditori aderenti rappresentano rispettivamente il 41% e il 20% dell’esposizione debitoria complessiva dell’impresa proponente. Inoltre, sempre a titolo esemplificativo, l’adesione del Fisco è determinante qualora l’accordo di ristrutturazione proposto concerna unicamente il Fisco e i crediti erariali sono rappresentativi di per sé almeno del 60% dell’esposizione debitoria complessiva negli accordi di ristrutturazione ordinari ovvero almeno del 30% negli accordi di ristrutturazione a efficacia estesa. 
Cosa accade però se ognuna delle due adesioni (quella del fisco e quella dell’INPS) risulta decisiva congiuntamente all’altra, ma non considerando anche le adesioni di altri creditori? Si pensi, per esempio, al caso in cui i crediti tributari, i crediti contributivi e i crediti delle banche aderenti rappresentano rispettivamente il 41%, il 20% e il 21% dell’esposizione debitoria complessiva: in questo caso sarebbe possibile considerare non decisiva la mancata adesione dell’INPS, atteso che per raggiungere la maggioranza del 60% sarebbe sufficiente l’adesione del Fisco? In questi casi è da ritenere che le adesioni di altri creditori non possono far venir meno il ruolo decisivo che avrebbero quelle dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, poiché entrambe le adesioni dovrebbero essere considerate decisive se autonomamente o unitariamente considerate, in quanto i creditori pubblici, rappresentano la maggioranza qualificata richiesta. Per converso la mancanza di adesione da parte dei creditori pubblici dovrebbe essere considerata non decisiva solo quando gli altri creditori aderenti rappresentano da soli il 60% dei crediti. 
È vero che l’adozione di questo criterio, circa l’individuazione della natura “determinante” dell’adesione da parte dei creditori pubblici fa sì che il cram down fiscale potrebbe essere disposto quando il consenso degli altri creditori è minore della maggioranza richiesta, ma non quando è maggiore[19], il che è logico nell’ambito di un procedimento in cui trova applicazione il principio maggioritario, ma non in un diverso contesto qual è quello dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ove l’adesione della maggioranza dei creditori non vincola i creditori di minoranza (tranne che nell’ipotesi di accordo con efficacia estesa). Tuttavia, ad avviso di chi scrive non appare possibile superare il dettato normativo che indubbiamente sembra fare appello al cram down fiscale solo quando strettamente necessario per l’omologazione degli accordi. 
Vi è ciò nonostante da considerare che, ai fini di cui trattasi, l’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali dovrebbero essere considerati come un unico soggetto, poiché è del tutto illogico che, ad esempio in una situazione in cui il credito fiscale rappresenta il 65% dei crediti complessivi e il credito previdenziale solo il 5%, il tribunale possa disporre il cram down relativamente alla transazione fiscale che preveda un soddisfacimento del 30% dei crediti tributari in dieci anni, in quanto conveniente per l’Erario (la cui adesione è al tempo stesso determinante), e non possa disporlo per la transazione previdenziale che preveda il pagamento integrale dei debiti contributivi con una dilazione in cinque anni, sebbene anche tale proposta sia conveniente per l’ente di previdenza, solo perché l’adesione di quest’ultimo non è determinante. In altri termini, il carattere determinante dell’adesione di uno dei creditori pubblici estende il campo di applicazione del cram down agli altri creditori pubblici, ancorché l’adesione di ognuno di essi non sia di per sé determinante.
Sotto altro verso, in dottrina è stato peraltro osservato come il termine “determinante” possa essere interpretato nel significato di “condizionante”, nel senso che l’adesione del Fisco potrebbe considerarsi determinante quando risulti essenziale per la fattibilità giuridica ed economica dell’intero piano di risanamento, in quanto solo lo stralcio dei crediti tributari previsto dalla proposta di transazione potrebbe liberare le risorse necessarie per dar corso al risanamento. Secondo questo indirizzo interpretativo, dunque, per ragioni logico-sistematiche il potere sostitutivo del tribunale andrebbe esercitato “anche quando la posizione del creditore erariale sia, seppur non di maggioranza, comunque idonea a condizionare la misura della soddisfazione degli altri creditori”[20]. Anche questa tesi, per quanto ragionevole, pare però scontrarsi con la lettera della norma, che collega il carattere determinante dell’adesione al raggiungimento delle percentuali richieste (e non alla concreta fattibilità del piano, che deve essere di per sé già oggetto di attestazione da parte del professionista indipendente). 
Va infine riferito che è stata prospettata la possibilità di interpretare le due condizioni previste per il cram down fiscale come tra loro alternative, sicché, una volta appurata dal tribunale la convenienza della proposta, il trattamento ivi previsto sarebbe imposto al Fisco sia quando il consenso dell’Amministrazione finanziaria risulti decisivo, sia quando la maggioranza richiesta sia raggiunta indipendentemente dal consenso del Fisco. In base a questa tesi, in caso di mancata adesione del Fisco sarebbe dunque possibile imporre un determinato trattamento per i crediti erariali (in quanto palesemente conveniente rispetto alla liquidazione) per il solo fatto che l’accordo di ristrutturazione è stato già concluso con altri creditori che rappresentino la maggioranza richiesta, risultando a tal fine non decisiva l’adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria[21]. Come già rilevato, tuttavia, questa conclusione non appare condivisibile, in quanto in senso difforme alla tesi dell’alternatività depongono sia la lettera della norma (in considerazione dell’utilizzo della congiunzione “e”), sia le precisazioni presenti nella relazione illustrativa, ove si spiega che la possibilità di omologare gli accordi di ristrutturazione presuppone che “l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle percentuali di legge”. Occorre inoltre considerare che, se all’accordo di ristrutturazione dei debiti hanno aderito creditori (diversi dal Fisco) che rappresentano almeno il 60% dei creditori e l’attuabilità del relativo piano di risanamento è attestata da un professionista indipendente, la falcidia dei crediti erariali non risulterebbe strettamente necessaria per consentire all’impresa debitrice di uscire dallo stato di crisi. Poiché la “sostituzione d’ufficio” della mancata adesione del Fisco con l’assenso stabilito (in sua vece) da parte del Tribunale competente costituisce una deroga rispetto ai principi generali sulla conclusione di un negozio bilaterale, non pare legittimo estendere tale “sostituzione” a situazioni non espressamente previste dal legislatore, in considerazione della sua natura eccezionale. L’effetto paradossale del rigetto, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di una proposta che è conveniente per lo stesso Erario, indipendentemente dal raggiungimento delle soglie di cui sopra anche in assenza dell’approvazione di tale proposta da parte del Fisco e l’emersione del danno erariale che deriva da tale condotta, dunque giustificano certamente una correzione, ma ciò, ad avviso di chi scrive, può avvenire esclusivamente tramite una modifica legislativa del testo normativo (e non in via meramente interpretativa). Modifica che è certamente da auspicare, anche in considerazione del fatto che attraverso l’omologazione forzosa - come già si è osservato – il legislatore ha fornito al contribuente una reale tutela giurisdizionale avverso gli illegittimi provvedimenti di rigetto adottati dall’Amministrazione finanziaria, di cui vi è bisogno ogniqualvolta un provvedimento sia illegittimo, indipendentemente dal fatto che l’adesione dell’ente pubblico che lo ha adottato sia, o meno, anche determinante ai fini del raggiungimento della soglia di efficacia dell’accordo prevista dalla legge.
3.3.2 . La “convenienza” della proposta di transazione fiscale
L’ulteriore condizione richiesta, affinché l’accordo possa essere omologato anche in assenza di un espresso consenso (con conseguente efficacia degli effetti che ne derivano con riguardo al trattamento dei crediti erariali), è che il soddisfacimento dei crediti fiscali offerto dall’impresa debitrice si riveli, anche alla luce delle risultanze dell’attestazione resa da un professionista indipendente, più conveniente rispetto a quello derivante dall’alternativa liquidazione.
Tuttavia, con il D.Lgs. n. 83/2022 è stata prevista, con riguardo al concordato preventivo con continuità aziendale, l’introduzione dell’ulteriore criterio del trattamento non deteriore, mentre con riguardo all’omologazione forzosa degli accordi di ristrutturazione tale integrazione non è stata prevista. Verosimilmente il mancato richiamo al trattamento non deteriore (invero assente anche nella seconda parte del comma 1, relativamente al contenuto dell’attestazione) è dovuto al fatto che il legislatore ha ritenuto di integrare così l’art. 88 (che disciplina la transazione fiscale nel concordato preventivo) solo per coordinarne le norme con la nuova disciplina del concordato con continuità aziendale, interamente informata alla distinzione tra il valore di liquidazione (da distribuire secondo la regola della priorità assoluta) e il surplus concordatario (distribuibile secondo la regola della priorità relativa). 
Ciò nonostante, atteso che la concreta applicazione del criterio del trattamento non deteriore (ovvero del trattamento equivalente a quello spettante in caso di liquidazione giudiziale) può dare luogo a talune differenze rispetto all’applicazione del trattamento conveniente (che evidentemente presuppone un quid pluris), la scelta adottata dal legislatore appare anche in questo caso, se non discriminatoria, quanto meno non omogenea, in considerazione del fatto che il più delle volte gli accordi di ristrutturazione sono diretti proprio a salvaguardare la continuità aziendale.
3.3.3 . La compatibilità con le regole UE
Un’ultima questione da affrontare consiste nel verificare la compatibilità della disciplina del cram down fiscale prevista dal Codice con le norme sulla cosiddetta “ristrutturazione trasversale” (ovvero “regola di non discriminazione”) contenuta nella Direttiva (UE) 2019/1023, posto che – come si avrà modo di riferire a breve – essa è stata messa in dubbio in dottrina. Se così fosse, potrebbe infatti sussistere il rischio che i tribunali, nel decidere se omologare o meno le proposte di transazione fiscale ai sensi del comma 2 bis dell’art. 63, le rigettino nonostante la acclarata presenza dei due presupposti testé illustrati, ove ritengano detta norma in contrasto con la normativa euro-unionale[22].
A questo proposito occorre in sintesi rammentare che, in base alle disposizioni contenute nella Direttiva (UE) 2019/1023, è possibile individuare tre distinti istituti per la ristrutturazione delle imprese in crisi:
1) la ristrutturazione che, ai sensi degli artt. 6 e 7 della direttiva, si perfeziona con il consenso di alcuni creditori e che consente di beneficiare di misure protettive. Nel nostro ordinamento corrisponde agli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 57 e all’art. 60 del Codice;
2) la ristrutturazione che, ai sensi degli artt. 9 e 10 della direttiva, si perfeziona con il consenso di una maggioranza qualificata di creditori, ma il cui contenuto può assumere carattere vincolante anche per i creditori non aderenti rientranti nella medesima categoria dei creditori aderenti. Nel nostro ordinamento corrisponde agli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa di cui all’art. 61 del Codice nonché al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione di cui all’art. 64 bis del Codice;
3) la ristrutturazione disciplinata dall’art. 11 della direttiva, basata sul voto della maggioranza dei creditori, che vincola anche i creditori dissenzienti e che è perciò denominata “ristrutturazione trasversale” (o “cross class cram down”). Nel nostro ordinamento corrisponde al concordato preventivo[23].
Mentre il cram down previsto per gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa si applica ai creditori non aderenti all’imprescindibile condizione che essi appartengano a una classe che per posizione giuridica e interessi economici è omogenea a quella cui appartiene la classe di creditori che vi hanno aderito con la maggioranza qualificata di (almeno) il 75%, l’art. 11, paragrafo 1, della direttiva stabilisce che, “affinché il piano di ristrutturazione che non è approvato da tutte le parti interessate di cui all’articolo 9, paragrafo 6, in ciascuna classe di voto, possa essere omologato dall’autorità giudiziaria o amministrativa su proposta del debitore o con l’accordo del debitore, e possa diventare vincolante per le classi di voto dissenzienti”, esso:
a) deve incidere sui crediti o sugli interessi delle parti interessate dissenzienti e deve prevedere nuovi finanziamenti;
b) deve essere stato approvato dalla maggioranza delle classi di voto di parti interessate, purché almeno una di esse sia una classe di creditori garantiti o abbia rango superiore alla classe dei creditori non garantiti, oppure in mancanza da almeno una delle classi di voto di parti interessate[24];
c) deve assicurare che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori, quindi secondo la regola della priorità relativa sancita prima nel comma 1 dell’art. 182 ter L. fall. e ora, con riguardo al concordato preventivo, nell’art. 88, comma 1, del Codice; 
d) nessuna classe di parti interessate può ricevere o conservare in base al piano di ristrutturazione più dell’importo integrale dei crediti o interessi che rappresenta.
Ciò posto, occorre chiedersi se la previsione speciale sul cram down fiscale, destinata a essere “trasferita” nel comma 2 bis dell’art. 63 del Codice, sia idonea ad attrarre nella fattispecie della “ristrutturazione trasversale” gli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 57 o all’art. 60 e, per l’effetto, si rendano perciò applicabili le regole imposte dal paragrafo 1 dell’art. 11 della direttiva e, in particolare, quella indicata sub c) relativamente al trattamento non deteriore. 
A questa domanda ha risposto positivamente, con riferimento al testo del Codice previsto anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 83/2022, la dottrina dapprima citata, secondo cui “la ristrutturazione ‘coattiva’ dei debiti fiscali e contributivi può essere ricondotta alla terza tipologia, ossia alla ‘ristrutturazione trasversale’, in quanto si vincola un’intera classe di creditori dissenzienti (l’amministrazione), che ha posizione giuridica e interessi economici non omogenei con quelli dei creditori consenzienti”[25]; ciò perché il meccanismo del cram down fiscale consente di considerare l’assenso dell’Amministrazione finanziaria ai fini del raggiungimento della maggioranza qualificata richiesta (se tale assenso è decisivo a tal fine e se la proposta di transazione fiscale è conveniente), ma non “trasforma” per questo l’Erario da creditore dissenziente a creditore aderente. Alla qualificazione dell’accordo di ristrutturazione imposto all’amministrazione in termini di “ristrutturazione trasversale” conseguirebbe, quindi, l’applicazione della regola della priorità relativa, ovverosia - come detto - la regola di assicurare all’Amministrazione finanziaria un trattamento non deteriore rispetto a quello previsto per i creditori di grado successivo. Poiché solitamente tra i creditori rimasti estranei all’accordo di ristrutturazione figurano creditori titolari di crediti chirografari, risulterebbe dunque impedita dall’art. 11, paragrafo 1, lett. c), della direttiva l’omologazione forzosa della proposta di transazione fiscale (rigettata dall’Erario) qualora preveda lo stralcio o anche la semplice dilazione del credito tributario assistito da privilegio: infatti “in tale ipotesi il credito privilegiato del creditore dissenziente (l’amministrazione) riceverebbe un trattamento inferiore, in termini di percentuale o tempi di pagamento, rispetto al credito di rango inferiore del creditore estraneo, che viene pagato integralmente e con la sola moratoria legale di centoventi giorni”. L’unico modo per consentire lo stralcio anche della porzione di credito privilegiato dell’amministrazione sarebbe, perciò, “quello di dimostrare che il trattamento dei creditori estranei chirografari avviene con finanza esterna, come tale liberamente distribuibile”.
La sussistenza di un presunto contrasto tra il cram down fiscale e l’art. 11 della direttiva, per esempio, è stata rilevata dal Tribunale di Trani, decr. 21 dicembre 2021, che addirittura ha ritenuto applicabile tale norma ancor prima dell’approvazione del decreto legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 e dell’entrata in vigore del Codice[26]. I giudici pugliesi, pur riconoscendo che ai sensi dell’art. 180, comma 4, L. fall. negli accordi di ristrutturazione sussiste il potere del tribunale di esercitare il cram down fiscale e contributivo anche in caso di diniego espresso (e non solo in caso di inerzia) della proposta di transazione manifestato attraverso il voto contrario dei creditori pubblici, hanno respinto la domanda di omologazione della proposta di transazione fiscale, in quanto la proposta prevedeva il pagamento parziale dei tributi erariali nella misura del 45,52% del debito originario, a fronte del pagamento integrale dei creditori estranei, titolari di crediti chirografari e dunque postergati rispetto ai cediti erariali di cui si richiedeva lo stralcio. Condividendo in pieno l’indirizzo interpretativo dapprima citato, tali giudici hanno quindi ritenuto che l’accordo proposto non potesse essere omologato per la ragione assorbente, rispetto ad ogni altra considerazione, “della sua incompatibilità con la normativa comunitaria e, in particolare, con le regole previste dalla Dir. UE 1023/2019 concernenti i limiti per l’omologa dei piani di ristrutturazione che contemplino una ‘ristrutturazione trasversale’, ossia una ristrutturazione attuata (come nel caso della proposta in questione, in virtù dell’art. 182 bis, comma quarto, più volte richiamato) malgrado il dissenso espresso da una classe dissenziente e che, ciò nondimeno, sia per questa vincolante”. Infatti, “in questo modo il credito privilegiato del creditore dissenziente (l’amministrazione finanziaria) riceverebbe un trattamento inferiore, in termini sia di percentuale che di tempi di pagamento, rispetto al credito di rango inferiore dei detti creditori chirografari estranei all’accordo, che dovrebbero invece essere pagati integralmente e con la sola moratoria legale di centoventi giorni, senza peraltro che risulti che il pagamento di questi ultimi avvenga con finanza esterna”.
La corrente di pensiero sopra riportata non è tuttavia condivisibile per una serie di ragioni.
Innanzitutto, non è affatto assodata la riconducibilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti con transazione fiscale alla fattispecie della “ristrutturazione trasversale”, posto che questa richiede la previa suddivisione in classi dei creditori e l’approvazione del piano di ristrutturazione da parte della maggioranza delle classi di voto, con il necessario coinvolgimento, dunque, di tutte le parti interessate. Inoltre, la regola della priorità relativa opera, in deroga alla regola della priorità assoluta, nella distribuzione dell’attivo dell’impresa debitrice, il che presuppone, a monte, la necessità di rispettare le regole del concorso nella distribuzione dell’attivo della società debitrice.
Orbene nessuno di questi presupposti ricorre con riguardo all’accordo di ristrutturazione dei debiti, a differenza di quanto accade per il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione ai sensi dell’art. 64 bis (che il D.Lgs. n. 83/2022 ha aggiunto al Codice) o per il concordato preventivo; tant’è che il nuovo Codice, rispettivamente nel medesimo art. 64 bis e nell’art. 84, prevede espressamente per entrambi gli istituti la deroga agli artt. 2740 e 2741 del Codice civile, relativamente alle regole da ottemperare nella distribuzione dell’attivo dell’impresa debitrice. Lo dimostra proprio l’operato del legislatore, che nell’ambito del decreto legislativo di attuazione della direttiva, ha escluso in radice il dovere di adeguare le norme regolanti gli accordi di ristrutturazione dei debiti (tra cui l’art. 63 del Codice) ovvero di renderle compatibili con le regole imposte dall’art. 11 della direttiva sulle “ristrutturazioni trasversali” (al contrario di quanto accaduto per la disciplina del concordato preventivo). Non solo: come dianzi riferito, con l’entrata in vigore del Codice nella disciplina della transazione fiscale attuata nell’ambito degli accordi di ristrutturazione viene eliminato tout court qualsiasi riferimento al raffronto tra il trattamento offerto al Fisco e quello offerto ai creditori di rango inferiore.
Inoltre, se è vero che ai sensi dell’art. 63, comma 2 bis, del nuovo Codice, negli accordi di ristrutturazione sussiste il potere del tribunale di esercitare il cram down fiscale e contributivo anche in caso di diniego espresso della proposta di transazione manifestato attraverso il voto contrario dei creditori pubblici, è altrettanto vero che tale potere non potrebbe essere mai esercitato in concreto, se la proposta di transazione fiscale dovesse prevedere un trattamento non deteriore rispetto ai creditori estranei[27], posto che in tal caso, considerato che qualche creditore non aderente è sempre presente e, a norma dell’art. 182 bis, deve essere pagato integralmente ed entro centoventi giorni dalla omologazione, il pagamento dei debiti fiscali dovrebbe anch’esso essere eseguito in misura integrale entro il medesimo termine.
Dunque, l’interpretazione restrittiva sopra riportata risulta in contrasto con la ratio dell’omologazione forzosa degli accordi di ristrutturazione, ovverosia proprio per il primo istituto con riguardo al quale il cram down è stato introdotto dal Codice. 
Infine, ma non da ultimo, occorre rilevare che il secondo periodo del paragrafo 2 dell’art. 11 della direttiva stabilisce quanto segue: “Gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni che derogano al primo comma, qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate”. Pertanto, anche qualora gli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 57 o all’art. 60 del Codice con transazione fiscale potessero effettivamente rientrare nella fattispecie della “ristrutturazione trasversale”, la previsione originariamente contenuta nel comma 5 dell’art. 48 (ora trasferita nel nuovo comma 2 bis dell’art. 63) è da considerarsi comunque compatibile con l’art. 11 della direttiva, in quanto costituente espressione di detta facoltà di deroga.
4 . Il trattamento dei tributi locali
Il Codice non ha invece introdotto alcuna disposizione in merito al trattamento dei tributi locali nell’ambito del concordato preventivo e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. 
Anche a seguito dell’entrata in vigore del Codice, quindi, rientrano nella transazione fiscale
1) i tributi erariali, in quanto certamente amministrati dall’Agenzia delle entrate o dall’Agenzia delle dogane; 
2) i tributi diversi da quelli erariali che, pur essendo di spettanza di altri enti (come Comuni e Regioni), sono amministrati dalle agenzie fiscali ex lege[28] oppure sulla base di una convenzione stipulata con il soggetto attivo del tributo ai sensi dell’art. 57 del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300[29]. 
Posto che il discrimine, fra i crediti non erariali che possono essere oggetto della transazione fiscale e quelli che ne rimangono esclusi, è rappresentato dal soggetto che li gestisce[30] e considerato che i tributi locali normalmente non sono amministrati dall’Agenzia delle entrate né dall’Agenzia delle dogane, nel silenzio della legge il relativo trattamento appare meritevole di qualche approfondimento, soprattutto con riferimento alla possibilità - per gli enti locali - di derogare al c.d. principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria[31]. 
4.1 . Recente evoluzione del dibattito sul “dogma” dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria
Sin dalla sua introduzione la transazione fiscale è stata infatti interpretata come un istituto del tutto innovativo nell’ordinamento tributario, dove sarebbe tradizionalmente vigente il c.d. dogma dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, sicché, specialmente in una fase iniziale, era stato sostenuto che, al di fuori dell’istituto della transazione fiscale, i crediti tributari non avrebbero potuto subire alcuna falcidia
In questo solco interpretativo si era in particolare collocata l’Agenzia delle entrate, la quale, nel paragrafo 4 della circolare 18 aprile 2008, n. 40/E, ebbe ad affermare quanto segue: “la relativa disciplina normativa, in quanto derogatoria di regole generali, è di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione analogica o estensiva (art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale). Pertanto, per effetto del richiamato principio di indisponibilità del credito tributario, non è possibile pervenire ad una soddisfazione parziale dello stesso al di fuori della specifica disciplina di cui all’art. 182 ter”. La medesima posizione è stata sostanzialmente ribadita anche nell’ambito della circolare 29 dicembre 2020, n. 34/E (sebbene in termini “meno rigidi”), venendo rammentato che l’istituto della transazione fiscale “è apparso del tutto innovativo nell’ordinamento tributario, poiché ha permesso un parziale superamento del principio di indisponibilità del credito erariale, in ragione della necessità di tutelare altri interessi di pari rilievo costituzionale”.
Sulla mancanza di una rilevanza costituzionale del precetto in commento si era invero pronunciata, oltre alla giurisprudenza di merito[32], la Corte di cassazione con le sentenze n. 22931 e n. 22932 del 4 novembre 2011, secondo cui l’indisponibilità del credito tributario esiste nella misura in cui la legge non vi deroghi e non sono certo estranee all’ordinamento ipotesi di rinuncia dell’Amministrazione all’accertamento (i cosiddetti ‘condoni tombali’) o alla completa esazione dell’accertato in vista di finalità particolari”. L’assenza di copertura costituzionale del principio di indisponibilità del credito tributario è stata successivamente avvalorata dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza 15 luglio 2014, n. 225, ove è stato testualmente sancito che l’art. 182 ter L. fall. “è, di per sé, disciplina eccezionale rispetto al principio dell’indisponibilità della pretesa erariale”, perciò derogabile da una norma di rango ordinario.
Il chiarimento definitivo sui rapporti tra l’art. 182 ter L. fall. e il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria è infine intervenuto con l’ordinanza 25 marzo 2021, n. 8504, con cui la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, ha affermato come “una qualche non affatto irrilevante portata sistematica in relazione al principio, illo tempore quasi un ‘dogma’, della indisponibilità del credito tributario”, fosse da attribuire già alla “transazione sui ruoli”, che però era rimasta “confinata nell’ambito dell’esecuzione esattoriale e quindi nell’ambito tributario, senza alcun riferimento diretto alle coeve esecuzioni concorsuali ordinarie”. Con la transazione fiscale, invece, si è palesata una “radicale deroga al detto principio di indisponibilità dei crediti tributari”, prevedendosi testualmente per la prima volta “la possibilità di un accordo tra ente impositore e contribuente insolvente sul pagamento parziale non satisfattivo ovvero sul dilazionamento del pagamento dei debiti tributari di quest’ultimo, ancorché non ancora cristallizzati da iscrizioni a ruolo a titolo definitivo ed anzi nemmeno ancora iscritti a ruolo”.
Tuttavia le Sezioni Unite non si sono fermate qui, ma hanno altresì rilevato che, attraverso le modifiche progressivamente apportate e, in ultimo, in considerazione della collocazione che ne è stata data con il Codice, ha ormai assunto prevalenza “la ratio concorsuale su quella fiscale dell’istituto in esame, almeno nel senso funzionale ossia nel senso che questo ‘incidente tributario’ è - essenzialmente - finalizzato alla definizione concordataria o di ristrutturazione debitoria della crisi di impresa, secondo le regole procedurali dettate per tali procedure concorsuali e di quelle più specifiche di cui all’art. 182 ter, L. fall.”[33].
In tal senso si era invero espressa qualche mese prima anche la Sezione tributaria della stessa Corte di cassazione con la sentenza 16 ottobre 2020, n. 22456, la quale, con riguardo al concordato preventivo, ha affermato che il principio dell’indisponibilità della pretesa erariale è “privo di ‘copertura’ costituzionale; sicché, assumendo rilievo nella misura in cui la legge non vi deroghi, non può trovare applicazione in ambito concorsuale. Nella materia concordataria, la deviazione alla regola dell’indisponibilità va identificata nell’art. 184 L. fall., comma 1, che stabilisce che, una volta omologato, il concordato spiega effetti nei confronti di tutti i creditori anteriori, senza che sia dato ravvisare alcuna esenzione in favore del Fisco, nonché nell’art. 160, comma 2, che prevede la possibilità del pagamento in percentuale dei creditori privilegiati - fra i quali rientra anche l’Erario - a condizione di non sovvertire l’ordine delle cause legittime di prelazione: come si evince dalle citate disposizioni, oltre che dallo stesso art. 182 ter, il legislatore non ha previsto un trattamento preferenziale ed esente dalla regola della par condicio per i crediti tributari, unico limite invalicabile essendo il rispetto del grado di privilegio che ad essi compete, ovvero il rispetto del principio di omogeneità di posizione giuridica e di interesse economico con le altre categorie di creditori”. 
Pertanto, la deroga legislativa al principio dell’indisponibilità sarebbe da rinvenire non solo nell’art. 182 ter L. fall. e nelle omologhe disposizioni attualmente contenute negli artt. 63 e 88 del Codice, ma già nelle disposizioni che prevedono in generale la possibilità di soddisfare in misura parziale i debiti privilegiati in ragione della crisi dell’impresa. 
Se ne trova diretta conferma nel comma 3 dell’art. 80 del Codice, che conferisce al giudice ordinario il potere di omologare la procedura del concordato minoreanche in mancanza di adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria” (quando la proposta di soddisfacimento è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria), sebbene nessuna, tra le disposizioni disciplinanti detto istituto, contenga una previsione analoga a quella presente negli artt. 63 e 88 del Codice in tema di trattamento dei crediti tributari e contributivi[34]; così come nel comma 3 quater dell’art. 12 della Legge 27 gennaio 2012, n. 3, la quale prevedeva una regola del tutto analoga a quella dettata dal citato art. 80, comma 3, del Codice, nonostante l’assenza di una disposizione ad hoc in tema di trattamento dei crediti tributari e contributivi, quale quella contenuta nell’art. 182 ter L. fall.[35].
La questione assume contorni più articolati con riguardo al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione regolato dall’art. 64 bis del Codice, poiché tale norma non contiene alcun rinvio alle disposizioni dell’art. 63 né a quelle dell’art. 88; ciò rende sicuramente non applicabile la transazione fiscale nell’ambito del nuovo strumento di regolazione della crisi d’impresa e, in particolare, la possibilità di ricorrere al cram down fiscale[36]. È stato tuttavia correttamente rilevato che la suddetta omissione non dovrebbe condurre ad escludere, di per sé, “la possibilità di proporre un pagamento parziale dei crediti tributari o previdenziali e, malgrado il fatto che l’art. 85, comma 2, CCI non si applichi espressamente al piano di ristrutturazione, comunque una tale proposta imporrebbe l’inserimento dei crediti fiscali e previdenziali in apposite classi”[37]. D’altra parte, il mancato richiamo al cram down fiscale nell’art. 64 bis è probabilmente da ricondurre al fatto che per il piano di ristrutturazione soggetto a omologa “è richiesta la maggioranza in tutte le classi, sicché la mancata adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie, che evidentemente non possono essere allocati in una classe con soggetti diversi (e il secondo comma dell’art. 85 - neanche questo richiamato dall’art. 64 bis - prevede l’obbligo della classazione per tali creditori quando viene offerto un pagamento parziale), blocca in radice la possibilità di arrivare all’omologa”[38].
4.2 . Trattamento dei tributi locali nel concordato preventivo
In questa prospettiva, quindi, le regole di trattamento dei crediti tributari contenute nell’art. 182 ter L. fall. e ora nell’88 del Codice sono inquadrabili come regole speciali da applicare a detta tipologia di crediti nel concordato preventivo; i crediti tributari non rientranti nell’ambito oggettivo della transazione fiscale, dunque, non restano soggetti alle specifiche regole di trattamento previste (tanto sotto il profilo sostanziale quanto quello strettamente procedurale)[39] dalle norme testé citate, ma devono considerarsi disciplinati dalle regole di trattamento applicabili in via ordinaria alla generalità dei crediti verso l’impresa in crisi.
Pertanto, nel predisporre la domanda di accesso al concordato preventivo, il debitore può proporre la soddisfazione parziale dei tributi locali senza dovere presentare al contempo una proposta ad hoc sulla falsariga di quella imposta per proporre la soddisfazione parziale dei crediti erariali. Infatti, dalla loro esclusione dall’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale discende unicamente l’inapplicabilità agli stessi della disciplina prevista dalla norma testé citata, ma non certo della disciplina generale, restando quindi possibile la loro falcidia nei termini generali previsti: tanto nella Legge fallimentare quanto nel Codice, infatti, non è rinvenibile alcuna norma che vieti espressamente lo stralcio di detti crediti[40]. 
A questa conclusione, a cui la dottrina era pervenuta già sulla base della formulazione dell’art. 182 ter antecedente le modifiche recate dalla Legge 11 dicembre 2016, n. 232[41], non può ostare il fatto che il legislatore abbia espressamente escluso dalla transazione fiscale i tributi diversi da quelli erariali non gestiti da agenzie fiscali, poiché, a ben vedere, con tale norma ha assoggettato quelli erariali a un sub-procedimento speciale, più che sottratto quelli locali alle regole generali.
4.3 . Trattamento dei tributi locali negli accordi di ristrutturazione dei debiti
Alle medesime conclusioni, seppur in assenza di una disposizione vincolante per i creditori non aderenti analoga a quella recata dall’art. 184, comma 1, L. fall. e ora dall’art. 117, comma 1, del Codice, deve giungersi anche con riguardo agli accordi ristrutturazione dei debiti.
Infatti, il superamento del “dogma” dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria attraverso norme di rango ordinario, sancito dai provvedimenti adottati dalla Corte di cassazione, opera anche con riguardo a questo istituto, la cui finalità, al pari di quanto è previsto per il concordato preventivo, è quella di consentire la soluzione della crisi d’impresa. Come rilevato nella citata ordinanza n. 8504/2021, anche nell’ambito degli accordi ristrutturazione dei debiti prevale la ratio concorsuale su quella fiscale, in quanto istituto diretto alla ristrutturazione debitoria della crisi di impresa secondo le regole dettate in generale dall’art. 182 bis e di quelle più specifiche dettate dall’art. 182 ter in tema di transazione fiscale. Se, dunque, con riferimento al concordato preventivo la Corte di cassazione, con la citata sentenza n. 22456/2020, ha affermato che “la deviazione alla regola dell’indisponibilità va identificata nell’art. 184 L. fall., comma 1, che stabilisce che, una volta omologato, il concordato spiega effetti nei confronti di tutti i creditori anteriori, senza che sia dato ravvisare alcuna esenzione in favore del Fisco”, con riguardo agli accordi di ristrutturazione dei debiti la “deviazione alla regola dell’indisponibilità” va rinvenuta nelle disposizioni stesse dell’art. 182 bis L. fall. nonché, ora, in quelle contenute nell’art. 57 del Codice. 
Collocata la questione di cui trattasi in questo contesto, le disposizioni contenute nell’art. 182 ter L. fall. e ora nell’art. 63 del Codice costituiscono espressa attuazione del bilanciamento degli interessi in gioco e, in specie, dell’esigenza di derogare al principio di indisponibilità per poter rispettare il criterio di economicità sancito dall’art. 97 Cost., nonché di scongiurare il dissesto irreversibile dell’impresa per salvaguardare i posti di lavoro; tuttavia le medesime esigenze sono rinvenibili anche con riferimento ai crediti diversi da quelli erariali non gestiti dalle agenzie fiscali, tant’è che l’esclusione della possibilità per il debitore di soddisfare in misura parziale i tributi locali non potrebbe ragionevolmente condurre ad esiti diversi a seconda che l’amministrazione del tributo locale sia stata affidata a una agenzia fiscale oppure sia rimasta direttamente appannaggio dell’ente impositore. È anche per queste ragioni che la deroga non si esaurisce con le specifiche previsioni contenute nelle predette norme, ma discende più in generale dalle disposizioni contenute (prima) nell’art. 182 bis L. fall.[42] e (poi) nell’art. 57 del Codice, che per salvaguardare l’impresa in crisi contemplano il sacrificio degli interessi dei creditori, compreso il Fisco. Non costituendo la norma che disciplina la transazione fiscale la fonte della deroga al principio di indisponibilità dei crediti tributari, la mancata inclusione dei tributi locali nel campo di applicazione della transazione fiscale non ne impedisce la falcidia; cambia solo il procedimento adottabile dal creditore pubblico al fine di definirne il trattamento.
A questa conclusione è pervenuta la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Toscana, con la deliberazione n. 4/2021/PAR del 15 giugno 2021, emessa in risposta a un quesito con cui il Comune di Livorno chiedeva se fosse legittima l’adesione ex art. 182 bis L. fall. a un accordo di ristrutturazione dei debiti che prevedeva il pagamento parziale dell’IMU e delle relative sanzioni, ancorché in misura comunque superiore a quella che sarebbe derivata dalla liquidazione dell’impresa[43]. 
In proposito la Sezione toscana della Corte dei conti, da un lato, ha confermato che, “in considerazione della chiarezza del dato letterale della norma, nel campo di applicazione dell’art. 182 ter non possono rientrare ulteriori situazioni creditorie di spettanza degli enti locali (ossia quelli che non risultino amministrati dalle agenzie fiscali)”; dall’altro ha però riconosciuto come, “al di fuori della transazione fiscale, i crediti (non solo fiscali) riferiti agli enti locali possano comunque essere oggetto di accordo ‘transattivo’ (con riduzione dell’ammontare del debito, dilazione di pagamento, ecc.), così come previsto per tutti gli altri crediti nell’ambito del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione. Proprio quest’ultimo, pertanto, potrà essere lo strumento a cui l’imprenditore può ricorrere per attenuare la pressione dei tributi e dei crediti degli enti locali, nei modi previsti dall’art. 182 bis. Ciò in conformità all’obiettivo del sistema normativo in esame, che è quello di evitare all’imprenditore in crisi il dissesto irreversibile dell’impresa consentendogli di ridurre in termini percentuali i crediti fiscali (e non), diversi da quelli oggetto di transazione”. 
Per altro verso la Sezione toscana della Corte dei conti ha altresì evidenziato che, se le norme in commento dovessero essere interpretate nel senso di negare la possibilità di aderire a un siffatto accordo e di imporre il pagamento integrale di tali crediti, si perverrebbe all’assurdo risultato per cui l’ordinamento giuridico garantirebbe ai tributi locali un trattamento migliore rispetto ai crediti erariali, sebbene i primi siano normalmente assistiti da un grado di privilegio inferiore. 
Per tutte queste ragioni la Sezione toscana della Corte dei conti ha quindi testualmente evidenziato “come l’art. 182 bis possa trovare applicazione ai crediti, non solo tributari, di spettanza degli enti locali, qualora non possano essere oggetto di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182 ter”.
Le medesime considerazioni sono state condivise anche dalla Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con la deliberazione n. 64/2022/PAR del 13 luglio 2022, la quale, in risposta a uno specifico quesito sulla possibilità di rinunciare a una quota di I.M.U. in forza di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato ai sensi dell’art. 182 bis L. fall., ha del pari affermato che, se non si ammettesse la riduzione percentuale dei crediti per tributi locali (in quanto non rientranti fra quelli previsti nell’art. 182 ter L. fall.), “l’obiettivo sarebbe facilmente disatteso perché il carico tributario da pagare integralmente potrebbe comunque risultare, in molti casi, non sostenibile”; pertanto, “è possibile per un Comune dare il proprio assenso ad un accordo, avente ad oggetto crediti tributari, con un imprenditore in crisi per la ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182 bis del RD 16 marzo 1942, n. 267, fermo restando il rispetto di tutti i requisiti di legge”.
Le ragioni sopra esposte mantengono la propria validità anche a seguito dell’entrata in vigore del Codice, vista - relativamente a questo profilo – l’assenza di soluzione di continuità sul punto rispetto alla Legge fallimentare, rimarcata in generale anche dalle Sezioni Unite nella citata ordinanza n. 8504/2021.
Una tale interpretazione, inoltre, risulta perfettamente in linea con il principio di buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione stabilito dall’art. 97 Cost., consentendo agli enti locali di esercitare la propria discrezionalità in maniera “controllata” o comunque “vincolata” secondo il canone della convenienza economica, attraverso l’accettazione del miglior trattamento offerto rispetto a quello che deriverebbe, in alternativa, dalla liquidazione[44].
Ciononostante, alcuni enti locali (nel silenzio della legge) continuano a non condividerla nel timore di violare il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, alla luce di quanto rappresentato dall’Agenzia delle entrate con la circolare n. 40/E/2008, rifiutando così di aderire ad accordi di ristrutturazione dei debiti che pur riservano ai tributi locali un trattamento migliore di quello che spetterebbe in caso di liquidazione giudiziale. Sarebbe dunque opportuno che il legislatore finalmente allargasse l’ambito oggettivo della transazione fiscale anche ai tributi locali non amministrati dalle agenzie fiscali, magari prevedendo disposizioni ad hoc sotto il profilo procedurale o adeguando la formulazione di quelle in vigore.
Ove si volesse considerare solo l’aspetto pratico della vicenda, vero è che, ove ai sensi dell’art. 61 del Codice con riguardo agli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa nei confronti dei creditori non aderenti alla transazione fiscale, ma appartenenti alla medesima categoria individuata sulla base dell’omogeneità di posizione giuridica e interessi economici, il trattamento accordato ai crediti erariali e contributivi può considerarsi esteso anche ai tributi locali (Regioni, Comuni e Province), vertendosi in entrambi i casi di creditori pubblici ed essendo la posizione degli enti pubblici destinatari degli stessi equiparabile a quella dell’Erario per posizione giuridica e interessi economici; con la conseguenza che, se la proposta di transazione fiscale viene approvata e i crediti erariali sono rappresentativi di almeno il 75% dei debiti tributari complessivi, il medesimo trattamento previsto dalla proposta di transazione può essere esteso ai tributi locali esclusi dalla transazione. Tuttavia, è altrettanto vero che l’art. 61 del Codice rappresenta una disposizione speciale, che può appunto essere applicata soltanto quando i crediti erariali rappresentano almeno il 75% dell’importo complessivo dei debiti relativi a tributi.
5 . La sorte dei coobbligati
Con l’art. 59 del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (di seguito il “Codice”) e con l’introduzione dell’art. 182 decies nella legge fallimentare a opera del D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (che ne ha anticipato l’entrata in vigore)[1], il legislatore ha previsto il principio in forza del quale, nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, “Ai creditori che hanno concluso gli accordi di ristrutturazione si applica l’articolo 1239 del codice civile”, fatta eccezione per quelli a cui l’efficacia degli stessi è estesa pur non avendovi aderito. 
Partendo dalla discussione sviluppatasi sull’argomento sotto la disciplina previgente, appare opportuno indagare, da un lato, sulle ragioni e sulla portata dell’espresso richiamo al solo art. 1239 c.c. e, dall’altro, sui riflessi prodotti da detta norma in caso di “cram down fiscale”, ovverosia nell’ipotesi di approvazione “coattiva” della transazione fiscale ai sensi dell’art. 63, comma 2 bis, del Codice.
5.1 . Le questioni interpretative sorte anteriormente alla modifica normativa
Com’è noto, analogamente a quanto ora sancito dall’art. 117 del Codice, l’art. 184 della legge fallimentare stabiliva che il concordato preventivo omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso alla procedura; tuttavia, in deroga a tale regola, questi “conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”; ciò al fine di salvaguardare la regola della conservazione piena dei diritti dei creditori concorsuali.
Posto che, fatto salvo il caso dell’efficacia estesa, l’accordo di ristrutturazione dei debiti vincola solo chi vi aderisce, un’analoga deroga non era contenuta (né richiamata) nell’art. 182 bis L. fall., per il che, prima dell’introduzione del citato art. 182 decies, la dottrina si era divisa tra (i) coloro che ritenevano applicabile anche agli accordi di ristrutturazione dei debiti la deroga sancita nell’art. 184 L. fall. per il concordato preventivo, in considerazione dello scopo comune che caratterizza entrambe le procedure[46], e (ii) coloro che invece la ritenevano non applicabile, in ragione del mancato richiamo da parte dell’art. 182 bis e delle “diversità” strutturali rinvenibili tra i due istituti[47], considerandola un’eccezione rispetto alla disciplina generale. 
Questa seconda tesi ha progressivamente preso il sopravvento, venendo rilevato che, a causa del mancato richiamo della regola sancita dall’art. 184 L. fall. in tema di concordato preventivo, avrebbero dovuto trovare automaticamente spazio le regole generali stabilite in materia di solidarietà passiva dal codice civile (artt. 1300 e ss.). In proposito è stato evidenziato che, in base al “principio accessorium sequitur principale, il creditore aderente, accettando la falcidia, acconsente anche alla liberazione dei condebitori dell’imprenditore (artt. 1301 e 1941 c.c.). I creditori estranei, viceversa, potranno immediatamente agire anche nei confronti dei debitori in solido, ai quali non potranno tuttavia chiedere la quota dell’imprenditore beneficiario della posticipazione della scadenza di cui all’art. 182 bis, comma 1 (arg. desunto dall’art. 1293 c.c.)”[48]. In un contesto normativo siffatto, quindi, non vi sarebbe stato nemmeno motivo di disapplicare le regole generali dell’effetto remissorio con riguardo agli accordi di ristrutturazione dei debiti disciplinati dall’art. 182 bis L. fall. giacché il creditore, aderendo alla falcidia propostagli, ne accetta le naturali conseguenze anche rispetto ai propri rapporti con i condebitori dell’imprenditore[49]; diverse considerazioni avrebbero invece dovuto essere espresse relativamente agli accordi ad efficacia estesa regolati dall’art. 182 septies L. fall. con riguardo ai creditori che, pur non avendovi aderito, ne avrebbero subito forzosamente gli effetti[50]. 
Ciò nonostante, al fine di evitare incertezze interpretative e conflitti, si è diffusa la prassi di inserire negli accordi specifiche clausole dirette ad estenderne gli effetti remissori anche ai soci illimitatamente responsabili, convenendo espressamente tra le parti l’estensione degli effetti dell’accordo ai coobbligati. 
Questa prassi ha riguardato anche le proposte di transazione fiscale, tant’è che sul punto ha preso posizione l’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 34/E del 29 dicembre 2020. In tale occasione l’Agenzia ha affermato che la futura previsione presente nell’art. 59 del Codice (che in quel momento non era ancora entrata in vigore) era da considerare espressione della volontà del legislatore di “colmare una lacuna normativa, affermando un principio già immanente nell’ambito dell’istituto dell’accordo di ristrutturazione per la realizzazione delle sue finalità”. Con riferimento alla disciplina previgente, l’Agenzia ha perciò dato indicazione agli uffici di non considerare di per sé automaticamente ostative all’accettazione della proposta eventuali clausole volte ad estendere gli effetti remissori della transazione fiscale a favore dei coobbligati, ma di vagliare gli effetti che sarebbero derivati (sugli interessi erariali) “da eventuali proposte contenenti clausole volte ad estendere ai soci illimitatamente responsabili gli effetti dell’accordo di ristrutturazione, anche prima dell’entrata in vigore del comma 3 dell’articolo 59” del Codice. 
Dal tenore letterale della precisazione fornita, tuttavia, sembra desumersi anche che secondo l’Agenzia, in vigenza della legge fallimentare (nella formulazione anteriore all’inserimento in tale legge dell’art. 182 decies), la mancata previsione di questo tipo di clausole - comunque soggette all’approvazione del Fisco - avrebbe comportato l’esclusione della liberazione dei coobbligati, non estendendosi automaticamente a questi ultimi l’effetto remissorio dell’accordo stipulato. 
Se così fosse stato da intendere l’orientamento dell’Amministrazione finanziaria, esso non avrebbe potuto essere condiviso, perché, ai sensi dell’art. 1301 c.c., la remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche agli altri debitori (a meno che il creditore non abbia riservato il suo diritto verso gli altri). 
Poiché quello della accessorietà costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico[51], esso trova applicazione anche laddove non espressamente richiamato e, per la medesima ragione, può essere disatteso soltanto in presenza di una norma che disponga diversamente (come quella contenuta nell’art. 184 e nell’art. 135 L. fall.) o in caso di patto contrario. Né si può ricostruire il regime previgente, desumendone una differente regolamentazione, in considerazione del fatto che l’art. 59 del Codice abbia poi previsto espressamente l’applicazione dell’art. 1239 c.c. agli accordi di ristrutturazione dei debiti, poiché - come detto - si tratta di una precisazione che il legislatore ha opportunamente inserito al solo scopo di fugare i dubbi interpretativi sorti in merito.
Infine, non varrebbe neppure invocare in senso contrario la disposizione contenuta nell’art. 1304 c.c., secondo cui “la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare”; ciò perché tale norma, nel prevedere in linea generale l’irrilevanza o l’inopponibilità per i coobbligati degli effetti della transazione stipulata tra il creditore e uno degli obbligati in solido, in realtà rimette poi alla volontà di questi ultimi la decisione di avvalersi o meno dell’atto transattivo al fine di salvaguardare gli interessi dei condebitori, poiché da tale atto potrebbero derivare effetti vantaggiosi ma anche effetti dannosi per i debitori. Nella relazione del Guardasigilli al progetto di codice civile del 1941, infatti, si afferma testualmente al riguardo che la testé citata disposizione “è giustificata dalla esigenza di evitare collusioni tra condebitore e creditore, e dalla necessità di ap­plicare anche qui il principio secondo cui gli effetti degli atti compiuti da un condebitore si estendono agli altri in quanto questi possano trarne vantaggio. L’esistenza o meno di tale vantaggio viene fatta derivare dal solo giudizio del condebitore, per la difficoltà di poterla affermare in base a dati obiettivi: il condebitore profitterà della transazione quando riterrà di poterne avere godimento”. Anche sotto questo profilo, quindi, gli effetti della transazione (se per essi favorevoli) si estendono ai coobbligati in mancanza di diversa e contraria manifestazione di volontà del creditore contenuta nell’atto transattivo[52].
5.2 . La disciplina vigente
Venendo ora alla disciplina vigente, il citato art. 59, in perfetta continuità con quanto sancito a decorrere dal 25 agosto 2021 dall’art. 182 decies L. fall., stabilisce al comma 1 che “Ai creditori che hanno concluso gli accordi di ristrutturazione si applica l’articolo 1239 del codice civile”, il quale a propria volta dispone quanto segue: “1. La remissione accordata al debitore principale libera i fideiussori. 2. La remissione accordata a uno dei fideiussori non libera gli altri che per la parte del fideiussore liberato. Tuttavia se gli altri fideiussori hanno consentito la liberazione, essi rimangono obbligati per l'intero”.
I successivi commi 2 e 3 dell’art. 59 del Codice, tuttavia, prevedono specifiche deroghe all’applicazione dell’art. 1239 nell’ambito degli accordi di ristrutturazione. Nel comma 2 è infatti stabilito che “Nel caso in cui l’efficacia degli accordi sia estesa ai creditori non aderenti, costoro conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”, mentre il successivo comma 3 stabilisce che, “Salvo patto contrario, gli accordi di ristrutturazione della società hanno efficacia nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, i quali, se hanno prestato garanzia, continuano a rispondere per tale diverso titolo, salvo che non sia diversamente previsto”.
Con il sopra citato comma 3 viene perciò statuito (invero in base a una formulazione letterale non propriamente lineare[53]) che i soci della società continuano a rispondere delle garanzie prestate nell’interesse di questa, a meno che nell’accordo di ristrutturazione dei debiti (ovvero nella proposta di transazione fiscale) non sia stata espressamente negoziata e inserita una clausola di segno contrario; ciò sebbene la regola generale preveda, invece, espressamente che il contenuto degli accordi mantiene efficacia anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili (statuizione che, in base a quanto previsto nel resto del periodo, finisce però per perdere di significato quasi del tutto). 
La nuova previsione normativa, benché opportunamente inserita nell’ordinamento per fugare i dubbi interpretativi che erano stati sollevati in sua assenza, continua tuttavia a necessitare di alcuni approfondimenti. 
5.2.1 . L’efficacia degli accordi nei confronti di fideiussori e coobbligati
Una prima perplessità concerne l’ambito applicativo della stessa, poiché l’operatività del principio di accessorietà viene testualmente riferita alla sola ipotesi della fideiussione, stante il richiamo all’art. 1239 del codice civile (la cui formulazione è stata dapprima riportata). Non sono invece espressamente richiamati gli artt. 1300, 1301 e 1304, rispettivamente in tema di novazione, remissione e transazione di obbligazioni in solido.
Nonostante la formulazione normativa, è però da escludere che l’applicazione del suddetto principio generale sia limitata ai soli fideiussori. 
Occorre al riguardo rammentare che la fideiussione, pur configurando una garanzia prestata per le obbligazioni altrui ai sensi dell’art. 1936 c.c., assume comunque i connotati di una obbligazione solidale con il debitore principale (fatto salvo il beneficio della preventiva escussione). Inoltre, come detto, l’art. 1239 costituisce concreta espressione del principio generale per cui “la remissione del debito comporta il venir meno delle garanzie prestate da terzi o dal debitore sia reali che personali”[54], sicché, da un lato, analogamente a quanto accade in generale per l’obbligazione solidale, è necessario, affinché nasca la fideiussione, che sussista un’obbligazione altrui, che costituisca oggetto della garanzia; dall’altro lato, come precisato dall’art. 1941, la fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore.
Può darsi dunque che, in considerazione del profilo di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione, il legislatore abbia inteso fare riferimento all’art. 1239 c.c. e a tale contratto per richiamare il principio generale affermato in detta disposizione: il debito su cui insiste la coobbligazione, infatti, è il medesimo del debitore che ha sottoscritto gli accordi di ristrutturazione con i propri creditori, sicché all’estinzione dell’obbligazione di quest’ultimo consegue anche quella delle obbligazioni assunte dai debitori in solido, indipendentemente dall’origine dell’obbligazione solidale[55].
Questa interpretazione trova diretta conferma nella formulazione del comma 2, in forza del quale i creditori non aderenti, a cui sia estesa forzosamente l’efficacia degli accordi, “conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”, in deroga a quanto previsto in linea generale dal comma 1. Posto che l’ambito applicativo della disposizione recata dal comma 2 costituisce un sottoinsieme di quello oggetto del comma 1, è da ritenersi che il testuale richiamo dell’art. 1239 c.c. operato da quest’ultima norma debba in realtà intendersi riferito anche ai “coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”. L’elenco presente nel comma 2, poi, riflette esattamente quello contenuto nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 117 del Codice (in cui è stata trasposta la previsione del dapprima citato art. 184 L. fall.), a ulteriore conferma del fatto che il legislatore abbia inteso proprio chiarire che la medesima deroga non opera in seno agli accordi di ristrutturazione dei debiti. 
Questa conclusione appare peraltro avvalorata sia dalla rubrica dell’art. 59 del Codice, intitolato appunto “Coobbligati e soci illimitatamente responsabili” (e non “Fideiussori e soci illimitatamente responsabili”), sia dalle spiegazioni fornite nella relazione illustrativa al Codice, ove, a commento dell’art. 59, si riferisce che tale disposizione “disciplina gli effetti dell’accordo sui coobbligati ed i soci illimitatamente responsabili (…); disciplina che non si applica, in forza del comma 2, ai creditori non aderenti cui siano estesi gli effetti dell’accordo, i quali conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati”, con evidente riferimento a tutte le forme di coobbligazione[56]. 
Né, infine, si riscontra una ragionevole motivazione a sostegno di un’eventuale limitazione della previsione del comma 1 dell’art. 59 del Codice ai soli soggetti terzi che si siano obbligati in solido con il debitore tramite un contratto di fideiussione.
Di tale effetto, dunque, gli uffici dell’Agenzia delle Entrate dovranno tenere conto ai fini della valutazione della convenienza della proposta di transazione fiscale rispetto alla liquidazione dell’impresa debitrice. Si intende affermare che, proprio perché l’approvazione della proposta di transazione fiscale comporta la liberazione non solo del debitore principale, ma anche quella dei soggetti coobbligati, per poter esprimere la propria adesione, l’Amministrazione finanziaria dovrà valutare la convenienza della proposta ricevuta considerando il soddisfacimento che alternativamente trarrebbe attraverso la liquidazione dell’impresa debitrice e al tempo stesso dalla liquidazione (o dalla semplice escussione) dei relativi coobbligati. Infatti, solo ove il soddisfacimento derivante dalla liquidazione del patrimonio di tutti i soggetti testé menzionati, e non soltanto di quello del debitore principale, sia inferiore a quello offerto mediante la proposta, quest’ultima potrà essere considerata conveniente.
5.2.2 . Quid iuris in caso di omologazione forzosa della transazione fiscale?
Un’altra questione che merita di essere affrontata concerne il coordinamento tra la statuizione recata dal comma 2 dell’art. 59 (in forza della quale i creditori non aderenti, cui sia estesa l’efficacia degli accordi, “conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”) e il meccanismo del cram down fiscale disciplinato dall’art. 63, comma 2 bis, del Codice[57], a norma del quale “Il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui agli articoli 57, comma 1, e 60, comma 1, e, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”. 
Poiché in base al sopra citato comma 2 bis dell’art. 63 l’Amministrazione finanziaria “subisce” gli effetti della proposta di accordo approvata in via sostitutiva, con la omologazione, dal Tribunale pur non avendovi aderito, v’è da chiedersi se la proposta di transazione fiscale produca effetto anche nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso, visto che ai sensi del più volte citato comma 2 dell’art. 59 i creditori non aderenti, cui sia estesa l’efficacia degli accordi, “conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”.
Al riguardo è stato rilevato che quest’ultima disposizione non potrebbe far venire meno l’efficacia della transazione fiscale nei confronti dei coobbligati in quanto, per effetto dell’omologazione forzosa della relativa proposta, il Fisco o gli enti previdenziali (nel caso di transazione contributiva) si “trasformerebbero” in creditori aderenti e come tali andrebbero qualificati anche ai fini dell’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 59[58].
A giudizio di chi scrive tale conclusione è da considerarsi corretta; sulla base, tuttavia, di una motivazione differente. 
Infatti, alla luce della terminologia utilizzata, la locuzione di cui al comma 2 del citato articolo appare univocamente riferibile agli accordi ad efficacia estesa disciplinati dall’art. 61 del Codice, i quali costituiscono una particolare forma di accordi ristrutturazione dei debiti in cui, al ricorrere di una pluralità di condizioni e in presenza di una maggioranza qualificata (75%), il contenuto degli accordi acquista efficacia anche nei confronti dei creditori non aderenti che appartengono alla medesima categoria di creditori (omogenei fra loro per interessi economici e posizione giuridica) di cui fanno parte i creditori aderenti; tutto ciò in deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c., secondo cui un contratto vincola solo le parti che lo hanno sottoscritto.
Occorre inoltre considerare che il comma 2 bis dell’art. 63 accorda al tribunale il potere di omologare comunque la proposta di transazione fiscale, nonostante la mancata adesione del Fisco, una volta appurata la sussistenza dei seguenti presupposti: (i) la natura decisiva dell’adesione ai fini del raggiungimento del quorum richiesto e (ii) la convenienza della proposta rispetto alla liquidazione del debitore. Pertanto “la proposta per cui manca il voto favorevole e determinante dell’Amministrazione finanziaria accede (nonostante tale mancanza) definitivamente (e non precariamente) al giudizio di omologazione”[59]. Attraverso il cram down fiscale il legislatore ha inteso attribuire al contribuente una effettiva tutela giurisdizionale rispetto a decisioni dell’Amministrazione finanziaria che non siano conformi alla legge (ad esempio, perché costituite dal rigetto di proposte convenienti per l’Erario), in virtù della quale, mediante l’istanza di omologazione forzosa, l’impresa debitrice chiede nella sostanza al tribunale di emettere un provvedimento di riforma della pronuncia dell’Amministrazione finanziaria, in quanto errata, ovvero un provvedimento sostitutivo, nel caso in cui quest’ultima non si esprima tempestivamente sulla proposta ricevuta. Così stando le cose, per effetto del cram down il Fisco non diventa un creditore aderente, tant’è che “sotto il profilo dell’opposizione all’omologazione, la qualificazione dell’amministrazione quale creditore dissenziente conduce a riconoscere alla stessa la possibilità di proporre opposizione all’omologazione”[60], ma la sua pronuncia è rettificata (cioè resa conforme alla legge) o espressa in via surrogatoria dal tribunale, il cui provvedimento produce quindi un adesione forzosa, che non è dunque adesione, ma neppure costituisce un’estensione degli effetti dell’adesione altrui. In conclusione, il cram down non genera nei confronti dell’Agenzia delle Entrate un’estensione degli accordi conclusi da altri creditori e, ai fini dell’applicabilità della disposizione del comma 2 del citato art. 59, è proprio questo ciò che rileva: che via sia, o meno, estensione di tali effetti. In assenza di questi, tale norma non può trovare applicazione.
Sarebbe del resto del tutto illogica una disciplina che consentisse l’applicazione della norma recata dal comma 1 dell’art. 59 del Codice in presenza dell’approvazione della transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate in conformità alla legge e la impedisse qualora l’approvazione della proposta derivasse, invece, dalla omologazione forzosa disposta dal tribunale, per porre rimedio – in base alla legge - a una pronuncia illegittima dell’Amministrazione finanziaria; equivarrebbe, infatti, ad attribuire rilevanza a un provvedimento illegittimo, nonostante la censura e la riforma di tale provvedimento da parte dell’Autorità giudiziaria.
Per le stesse ragioni si ritiene non condivisibile la (diversa posizione) che considera applicabile il comma 2 dell’art. 59 in caso di omologazione forzosa della transazione fiscale “stante la somiglianza di ratio (difetto di volontarietà)” tra la situazione dei creditori non aderenti, nei cui confronti è ugualmente estesa l’efficacia degli accordi di ristrutturazione dei debiti, e la situazione dell’amministrazione finanziaria, costretta del pari a “subire” gli effetti della proposta di transazione fiscale pur non avendovi aderito[61]. Infatti, come detto, ad avviso di chi scrive nel caso dell’omologazione forzosa all’assenza di una fonte negoziale volontaria (da parte dell’amministrazione finanziaria) sopperisce l’intervento del tribunale nell’approvare ugualmente la proposta “in sostituzione” dell’amministrazione finanziaria, e segnatamente facendo buon governo dei principi e dei criteri stabiliti dall’art. 63 che ab origine avrebbero dovuto essere applicati dall’Agenzia delle entrate. In altri termini, a differenza di quanto accade con riguardo agli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, in caso di cram down fiscale una qualche forma di adesione al contenuto della proposta transattiva è comunque rinvenibile, ancorché proveniente da una fonte diversa da quella tradizionale; e il presupposto di tale intervento sostitutivo (è bene ricordarlo ancora una volta) è comunque rappresentato da una condotta dell’amministrazione finanziaria non conforme al dettato dell’art. 63. 
L’ambito applicativo del comma 2 dell’art. 59 del Codice va dunque circoscritto ai creditori non aderenti agli accordi di ristrutturazione dei debiti che, appartenendo alla medesima categoria dei creditori che vi hanno aderito con una maggioranza qualificata, ai sensi dell’art. 61 del Codice restano soggetti al medesimo trattamento ivi previsto, anche senza averne espresso volontariamente il consenso. In tal modo il legislatore ha quindi ritenuto di applicare la stessa deroga ai principi generali sancita dall’art. 117 del Codice con riguardo ai creditori nell’ambito del concordato preventivo, riconoscendo che in tal caso detti creditori, nel subire la decisione della maggioranza ultra qualificata dei creditori, conservano intatti i loro diritti nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso[62].
Così definito l’ambito applicativo della deroga contenuta nel comma 2 dell’art. 59 del Codice, questa eccezione non può essere analogicamente estesa al cram down fiscale: in questa ipotesi, infatti, non è possibile rinvenire un creditore pubblico aderente che rappresenta la maggioranza qualificata di una categoria di creditori e un creditore pubblico non aderente nei cui confronti si estendono le pattuizioni stipulate dal primo, ma si è in presenza unicamente di un creditore pubblico non aderente che per decisione del tribunale deve attenersi al contenuto della proposta[63]. Ne discende in definitiva che non solo l’approvazione “spontanea” della proposta di transazione, ma anche quella “forzosa” produce la liberazione dei soggetti coobbligati al pagamento dei debiti fiscali oggetto di transazione, sempre che tale proposta sia comunque conveniente per l’erario.

Note:

[1] 
Tra i sostenitori di tale tesi si vedano ex multis: M. Fabiani, “Fallimento e concordato preventivo”, II, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano, 2014, pag. 243; G. Bozza, “Il trattamento dei creditori privilegiati nel concordato preventivo”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 4/2012, pag. 381; A. Guiotto, “Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d’interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale”, ivi, n. 8-9/2019, pag. 1099; P.F. Censoni, “Il concordato preventivo”, in A. Jorio - B. Sassani (diretto da), Trattato delle procedure concorsuali2016, pag. 152; A. Rossi, “Le proposte ‘indecenti’ nel concordato preventivo”, in Giurisprudenza commerciale, n. 2/2015, I, pag. 334; L. Stanghellini, “Il concordato con continuità aziendale”, in Società, banche e crisi d’impresa, 2014, pag. 1240; S. Bonfatti, “La disciplina dei creditori privilegiati nel concordato preventivo con continuità aziendale”, in Società, banche e crisi d’impresa, 2014, pag. 1240.
[2] 
Cfr. ex multis G. Terranova, “I concordati in un’economia finanziaria”, in Diritto fallimentare, 2020, I, pag. 20; G. D’Attorre, “Concordato con continuità ed ordine delle cause di prelazione”, in Giurisprudenza commerciale, n. 1/2016, I, pag. 43; F. Guerrera, “Struttura finanziaria, classi dei creditori e ordine delle prelazioni nei concordati delle società”, in Diritto fallimentare, 2010, I, pag. 720; G. Racugno, “Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e transazione fiscale. Profili di diritto sostanziale”, in V. Buonocore - A. Bassi (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, I, 2010, pag. 497; P. Catalozzi, “La falcidia concordataria dei crediti assistiti da prelazione”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 9/2008, pag. 1014.
[3] 
Sulla base della definizione enunciata dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 9373 del 28 giugno 2012, rientrano tipicamente nella definizione di “finanza esterna” gli apporti finanziari di soggetti terzi che non comportano né un incremento dell’attivo patrimoniale tramite il quale soddisfare i crediti privilegiati, né un aggravio del passivo patrimoniale stante l’assenza del vincolo di restituzione (si tratta, in sostanza, di attribuzioni a fondo perduto o “liberalità”). Per i giudici di legittimità, infatti, “l’intangibilità dell’ordine delle cause di prelazione trova il suo limite nel patrimonio del debitore, e non vieta al terzo di condizionare il suo apporto finanziario alla soddisfazione preferenziale di crediti posposti”.
[4] 
Così testualmente Trib. Milano, Decreto 15 dicembre 2016. In senso analogo si vedano anche App. Venezia, 12 maggio 2016, e App. Torino, 16 aprile 2019 (in quest’ultima pronuncia è stato osservato che addossare al creditore privilegiato il rischio conseguente alla continuazione dell’attività senza attribuzione delle potenzialità da essa derivanti comporterebbe l’imposizione di un patto leonino). In dottrina si vedano ex multis F. Platania, “L’ordine di pagamento dei creditori ipotecari e privilegiati nel concordato in continuità diretta”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 12/2020, pag. 1502; G. D’Attorre, “La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule”, ivi, n. 8-9/2020, pag. 1078; D. Galletti, “I proventi della continuità, come qualsiasi surplus, non sono liberamente distribuibili”, in Ilfallimentarista.it del 16 marzo 2020.
[5] 
Il concetto di “nuova finanza” risulta infatti più ampio di quello di “finanza esterna”, comprendendo le nuove risorse finanziarie previste nel piano per sostenere la prosecuzione dell’attività e che non rientrano in questa seconda nozione, quali per esempio i prestiti erogati da terzi. Per scongiurare il rischio di considerare tutto ciò che deriva dalla continuità aziendale come risorsa esterna e di scardinare così la regola della par condicio creditorum, era stato rilevato che si sarebbe dovuto “considerare come risorse esterne solo quelle che non derivano geneticamente dal patrimonio dell’impresa che accede al concordato preventivo, ma sono il frutto di interventi di terzi”, non potendo perciò rientrare in detta nozione “l’incasso di crediti né gli ‘utili’ della gestione conseguiti nel periodo di esecuzione del piano di concordato” (così M. Arato, “Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 7/2019, pag. 862).
[6] 
Cfr. Corte App. Venezia, 19 luglio 2019; Trib. Milano, 5 dicembre 2018; Trib. Massa, 27 novembre 2018; Trib. Milano, 8 novembre 2016; Trib. Prato, 7 ottobre 2015; Trib. Treviso, 16 novembre 2015 e 23 marzo 2015; Trib. Rovereto, 13 ottobre 2014; Trib. Torino, 7 novembre 2013; Trib. Saluzzo, 13 maggio 2013. Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili - Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Documento di ricerca “Il trattamento dei crediti tributari nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione” (di P. Rossi), 20 febbraio 2019, pagg. 10 e 11; E. Stasi, “Transazione fiscale nelle procedure concorsuali”, in Ilfallimentarista.itdel 9 maggio 2019, pag. 18; M. Terenghi, “Finanza esterna, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 3/2019, pag. 387; S. Guarino, “Concordato con continuità, surplus e cause legittime di prelazione”, in Corr. Trib., n. 38/2018, pag. 2902.
[7] 
Nella citata circolare n. 16/E/2018 è richiamato un passaggio della citata sentenza n. 9373/2012, con cui la Cassazione si è occupata della necessità di rispettare o meno la regola di cui all’art. 160, comma 2, L. fall. con riferimento all’apporto finanziario del terzo (che costituisce la fattispecie tipica di “finanza esterna”). I giudici di legittimità hanno al riguardo ritenuto che “l’apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo Stato patrimoniale della società”, ovvero a condizione che l’intervento finanziario sia utilizzato per pagare direttamente i debiti della società senza comportare una variazione nell’attivo e nel passivo del debitore.
[8] 
In proposito si vedano S. Pacchi, “La liquidazione dell’attivo con particolare riferimento all’azienda”, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 1/2016, pag. 1 ss.; F. Fimmanò, “La vendita fallimentare dell’azienda”, in Contratto e impresa, n. 2/2007, pag. 530.
[9] 
Al riguardo, come rilevato nelle “Linee guida per la valutazione di aziende in crisi”, elaborato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e dalla Società Italiana dei Docenti di Ragioneria ed Economia Aziendale, “Il professionista deve tenere conto della reale situazione in cui versa l’azienda o il ramo di azienda che si intende cedere o affittare o conferire” e nel caso di affitto d’azienda “deve considerare l’effettiva capacità di creazione dei flussi finanziari attesi nell’orizzonte interessato, senza considerare i benefici apportati dalla possibile gestione del terzo cessionario o affittuario. L’affitto di azienda deve essere valutato considerando le finalità conservative e di mantenimento dell’efficienza dei complessi aziendali, nonché dei costi di manutenzione ordinari e straordinari che il terzo potrebbe essere tenuto a sopportare o assumere a proprio”. 
[10] 
Poiché l’unica soluzione alternativa è quella della liquidazione fallimentare, il valore dell’attivo da liquidare corrisponde sostanzialmente al prezzo ottenibile dalla cessione dell’azienda in base all’esito della procedura competitiva. Cfr. S. Ambrosini, “Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori”, in blog.ilcaso.it del 25 aprile 2018.
[11] 
Cfr. A. Guiotto, cit., pag. 1100.
[12] 
Cfr. in tal senso G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio ..., cit., pag. 1075, nota n. 9.
[13] 
Così G. P. Macagno, “La distribuzione di valore tra regole di priorità assoluta e relativa. Il plusvalore da continuità”, in Dirittodellacrisi.it, 6 aprile 2022.
[14] 
L’art. 84, comma 7, del Codice contiene un’eccezione, prescrivendo che i “crediti assistiti dal privilegio di cui all’articolo 2751 bis, n. 1, del codice civile sono soddisfatti, nel concordato in continuità aziendale, nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione sul valore di liquidazione e sul valore eccedente il valore di liquidazione. La proposta e il piano assicurano altresì il rispetto di quanto previsto dall’articolo 2116, primo comma, del codice civile”. 
[15] 
Secondo D. Galletti, “Regole di priorità e distribuzione del plusvalore concordatario: due passi indietro ed un’occasione importante perduta”, in Ilfallimentarista.it, 6 aprile 2022, la scelta di applicare la regola della priorità relativa rischia di abbassare “in modo irrimediabile il coefficiente di prevedibilità del trattamento che sarà offerto ai creditori in caso di futuro default del debitore, e soprattutto del recovery ratio; ciò non potrà non influire ex ante sul momento in cui d’ora in poi sarà valutato se erogare o meno il credito, ed a quali condizioni”, con pesanti conseguenze in ordine alle procedure di valutazione del merito creditizio. 
[16] 
Così si è espressa la Banca Centrale Europea - Eurosistema, Parere relativo al risanamento e alla risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento (CON/2015/35), 16 ottobre 2015, par. 3.7.1. 
[17] 
Utilizza questa espressione F. Rolfi, “Notarelle sugli accordi i ristrutturazione agevolati e ad efficacia estesa nel codice della crisi d’impresa”, in blog.ilcaso.it.
[18] 
In senso contrario si esprime invece F. Lamanna, Il codice della crisi e dell’insolvenza dopo il secondo correttivo, 2022, pagg. 379 e 380, secondo cui il mancato riferimento, nel comma 2 bis dell’art. 63, agli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa “depone, al contrario, per la consapevole intenzione di tener fuori dalla portata del cram down tali accordi, tanto più se si considera la già evidenziata possibilità di combinarli con quelli agevolati, ‘arma letale’ che sarebbe ancor più devastante se si potessero omologare forzosamente accordi con percentuali di adesione addirittura azzerate quando fosse determinante (e quindi anche rilevante) la quota percentuale dei crediti fiscal-contributivi e il Fisco e/o gli Enti previdenziali rifiutassero la proposta”.
[19] 
Cfr. A. Zorzi, “Piani di risanamento e accordi di ristrutturazione nel codice della crisi”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 8-9/2019, pagg. 1003 e 1004; G. D’Attorre, “La ristrutturazione ‘coattiva’ dei debiti fiscali e contributivi negli adr e nel concordato preventivo”, in Il fallimento le e altre procedure concorsuali, n. 2/2021, pag. 155.
[20] 
Cfr. V. Ficari, “Mancata transazione fiscale, ‘interesse’ pretensivo del contribuente e poteri giudiziali”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 5/2022, pagg. 601 e 602.
[21] 
Così A. Zorzi, cit., pagg. 1003-1005; G. D’Attorre, “La ristrutturazione ‘coattiva’ …”, cit., pag. 155. 
[22] 
In ordine a questa tematica, ci si limita a riferire in questa sede che, secondo l’insegnamento della Corte di Giustizia (si veda per tutti la sentenza 25 maggio 1993, causa 193/91), si definiscono self-executing le direttive UE talmente dettagliate nei propri contenuti da escludere qualsiasi discrezionalità da parte degli Stati membri e da poter essere così eseguite anche in assenza di un apposito provvedimento di attuazione. Se una direttiva UE soddisfa questa condizione, essa può incidere direttamente nella sfera giuridica del singolo cittadino nei rapporti tra il singolo e lo Stato inadempiente, sicché il giudice è tenuto ad applicarla direttamente ovvero a disapplicare la normativa nazionale laddove ritenuta contrastante con il suo contenuto. 
[23] 
Cfr. in tal senso L. Stanghellini, “Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi”, in Rivista di diritto societario, n. 2/2020, pag. 311 e segg.; G. D’Attorre, “La ristrutturazione ‘coattiva’ …”, cit., pagg. 162 e 163. 
[24] 
Se previsto dal diritto nazionale, il piano può essere stato approvato anche soltanto dalle parti che subiscono un pregiudizio, diverse da una classe di detentori di strumenti di capitale o altra classe che, in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, non riceverebbe alcun pagamento né manterrebbe alcun interesse o, se previsto dal diritto nazionale, si possa ragionevolmente presumere che non riceva alcun pagamento né mantenga alcun interesse se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale.
[25] 
Così sempre G. D’Attorre, “La ristrutturazione ‘coattiva’ …”, cit., pag. 162. In tal senso si era espresso anche A. Zorzi, cit., pag. 1004, nota n. 50.
[26] 
Cfr. F. Cossu, “La comparabilità del cram down fiscale negli adr con la Direttiva (UE) n. 1023/2019 e il percorso intrapreso dal legislatore italiano”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 5/2022, pag. 691 e segg.
[27] 
Nella citata relazione n. 87 del 15 settembre 2022, si afferma al riguardo che la possibilità di svolgere il cram down fiscale richiede “la mancata adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie, dovendosi intendere per mancanza di adesione non soltanto il silenzio o mancata manifestazione di voto da parte di tali creditori, ma anche il voto contrario motivato (naturalmente in questo secondo caso il tribunale dovrà farsi carico di motivare espressamente e precisare perché ritiene che i motivi che l’agenzia o gli enti contributivi hanno addotto non siano condivisibili)”.
[28] 
Il riferimento corre all’IRAP.
[29] 
In senso favorevole all’applicabilità della transazione fiscale ai tributi locali la cui gestione è demandata - in base ad apposita convenzione - alle agenzie fiscali, si erano in particolare espressi il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, nel documento di ricerca “Il trattamento dei crediti tributari nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione” (di P. Rossi), 20 febbraio 2019, pag. 25. In senso analogo si veda C. Gioè, “I limiti della transazione fiscale in materia di tributi locali”, in Rass. trib., n. 1/2011, pagg. 101 e 102.
[30] 
“Amministrare un tributo” non significa semplicemente riscuoterlo, ma anche controllarne l’adempimento e accertarne la debenza, sicché il relativo presupposto non può ritenersi soddisfatto solo a seguito dell’affidamento della riscossione dell’imposta (non erariale) a un’agenzia fiscale, sostanziandosi tale attività nelle fasi di controllo e accertamento del tributo. Cfr. E.M. Bagarotto, “L’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale”, in Rass. trib., n. 6/2011, pagg. 1474 e 1475.
[31] 
Per un’articolata disamina delle diverse posizioni assunte sul punto in dottrina e, in particolare, sul dibattito relativo alla copertura costituzionale o meno del principio de quo, si veda C. Buccico - L. Letizia, “Il trattamento dei crediti tributari tra crisi d’impresa ed emergenza pandemica”, in Rass. trib., n. 2/2022, pag. 333.
[32] 
Cfr. App. Torino, 6 maggio 2010; App. Genova, 19 dicembre 2009; Trib. Monza, 15 aprile 2010; Trib. La Spezia, 1 luglio 2009.
[33] 
Sulla natura “speciale” delle norme sancite dall’art. 182 ter L. fall., si veda l’ordinanza 26 maggio 2022, n. 17155, con cui la Corte di cassazione ha espressamente riconosciuto l’applicazione della regola della priorità relativa per la transazione fiscale nell’ambito del concordato preventivo, in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 160, comma 2, L. fall., invece informata alla regola della priorità assoluta nella distribuzione dell’attivo patrimoniale. 
[34] 
L’art. 75, comma 2, del Codice, infatti si limita a stabilire in linea generale che nel piano presentato dall’imprenditore minore è “possibile prevedere che i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca possano essere soddisfatti non integralmente, allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi”. 
[35] 
Attualmente le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento sono disciplinate dagli artt. da 65 a 73 del Codice, ma - probabilmente per un mancato coordinamento normativo - in nessuno di detti articoli è stata inserita la medesima disposizione dapprima contenuta nel comma 3 quater dell’art. 12 della Legge n. 3/2012. 
[36] 
Cfr. S. Bonfatti, “Il Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, in Dirittodellacrisi.it, 15 agosto 2022, nota 23.
[37] 
Così F. Platania, “Piano di ristrutturazione soggetto ad omologa”, in Ilfallimentarista.it, focus del 12 aprile 2022, pag. 6.
[38] 
Così G. Bozza, “Il Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, in Dirittodellacrisi.it, 7 giugno 2022, pagg. 37 e 38.
[39] 
Secondo G. Fransoni, “Trattamento dei debiti tributari e concordato preventivo: dal procedimento al processo”, in Rass. trib., n. 2/2021, pag. 322, in base all’istituto della transazione fiscale l’Amministrazione finanziaria sarebbe destinataria “di regole speciali per quanto riguarda le modalità di conoscenza della proposta al fine di determinare - e comunicare - l’esatto ammontare del credito”.
[40] 
Cfr. M. Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, 2017, pagg. 142-147.
[41] 
Cfr. C. Gioè, op. cit., pag. 107.
[42] 
Cfr. C. Gioè, op. cit., pag. 107. In proposito F. Lamanna, cit., pag. 380, rileva che, “trattandosi di accordi di natura negoziale, non vi sono ostacoli all’interpretazione estensiva della possibilità di transazione anche ai tributi riguardanti gli enti locali, in mancanza di contrarie evidenze”. 
[43] 
Analogo quesito è stato posto dal Comune di Reggio Emilia alla Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, la quale tuttavia, con la deliberazione n. 263/2021/PAR del 16 dicembre 2021, lo ha ritenuto inammissibile, in quanto la relativa questione richiede valutazioni di spettanza del giudice competente a omologare l’accordo di ristrutturazione.
[44] 
Sulla “compressione” del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria conseguente al bilanciamento di tutti gli interessi in gioco e, in particolare, all’obbligo della Pubblica amministrazione di adottare la condotta più conveniente evitando spese inutili derivanti da tentativo di recupero di somme presso soggetti incapienti, si veda C. Buccico - L. Letizia, op. cit., pag. 336. 
[45] 
Infatti la previsione contenuta nell’art. 182 decies aggiunto alla legge fallimentare dal D.L. n. 118/2021 era sin dall’origine contenuta nell’art. 59 del Codice, entrato in vigore nel suo complesso soltanto il 15 luglio scorso.
[46] 
Si veda in tal senso E. Frascaroli Santi, “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis legge fallim.) e gli effetti per coobbligati e fideiussori del debitore”, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2005, I, pagg. 863 e 864; M. Ferro, “Art. 182 bis”, in La Legge Fallimentare. Commentario teorico-pratico (a cura di M. Ferro), 2011, pag. 2148.
[47] 
Cfr. C. Proto, “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 1/2006, pagg. 133 e 134; G. Racugno, “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Giurisprudenza commerciale, 2009, I, pagg. 663 e 664; S. Ambrosini, “Art. 182 bis”, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare (diretto da A. Jorio, M. Fabiani), 2010, pag. 1159; C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Ipsoa, 2012, pag. 331; S. Delle Monache, “Profili dei ‘nuovi’ accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Rivista di diritto civile n. 3/2013, pag. 557; M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, 2017, pag. 460; M. Spiotta, “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Trattato delle procedure concorsuali (diretto da A. Jorio – B. Sassani), 2017, pagg. 289 e 290. In giurisprudenza si vedano Tribunale di Milano, 21 dicembre 2005, e Tribunale di Brescia, 22 febbraio 2006.
[48] 
Così M. Spiotta, cit., pag. 290.
[49] 
Così S. Delle Monache, cit., pag. 557.
[50] 
Così sempre M. Spiotta, cit., pag. 290.
[51] 
Sul tema si veda in particolare M. Ceolin, Sul concetto di accessorietà nel diritto privato, 2017, pag. 72.
[52] 
Cfr. F. Pesiri, “Art. 1304”, in Commentario al codice civile (diretto da P. Cendon), II, 2002, pag. 252.
[53] 
Cfr. F. Grieco, “Art. 57 – Accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Commentario al Codice della crisi d’impresa, www.onefiscale.wolterskluwer.it, 31 dicembre 2020.
[54] 
Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, 2007, pag. 599, il quale altresì rammenta (a pag. 612) che “L’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno possa essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento di uno libera gli altri (solidarietà passiva)”.
[55] 
Cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, IV, 1990, pag. 474; U. Breccia, Le obbligazioni, 1991, pag. 715.
[56] 
Esattamente negli stessi termini si esprimeva la relazione che ha accompagnato l’iter di conversione in legge del D.L. n. 118/2021.
[57] 
Sulla questione si veda diffusamente. B. Riccio, “Se la falcidia del cram down libera i fideiussori ed i coobbligati solidali nel seno della ristrutturazione del debito, ex art. 182 bis”, in Dirittodellacrisi.it, 12 luglio 2022.
[58] 
Così B. Riccio, cit., pag. 14. Sulla possibilità di rinvenire nel cram down fiscale un’e­stensione dell’efficacia ope iudicis (non limitata alla sola procedura di omologazione) degli accordi di ristrutturazione nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria anche in mancanza di formale adesione da parte della stessa, si veda M. Golisano, “La nuova ‘transazione fiscale’ dell’art. 63 del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza”, in Rivista trimestrale di diritto tributario, n. 3/2019, pagg. 499 e segg.
[59] 
Così G. Fransoni, “Trattamento dei debiti tributari e concordato preventivo: dal procedimento al processo”, in Rassegna Tributaria n. 2/2021, pag. 312.
[60] 
Così G. D’Attorre, “La ristrutturazione ‘coattiva’ dei debiti fiscali e contributivi negli adr e nel concordato preventivo”, in Il fallimento le e altre procedure concorsuali, n. 2/2021, pag. 161.
[61] 
Sul difetto di volontarietà in entrambi i casi si veda da F. Lamanna, cit., pag. 382.
[62] 
Cfr. A. Zorzi, “Piano di risanamento e accordi di ristrutturazione nel codice della crisi”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 8-9/2019, pag. 1001; F. Grieco, cit.
[63] 
In senso contrario si è invece espresso G. D’Attorre, cit., pag. 160, il quale, inquadrando il cram down fiscale come un meccanismo per effetto del quale in deroga agli artt. 1342 e 1411 c.c. “l’accordo raggiunto tra il debitore ed alcuni creditori vincola anche creditori dissenzienti, nella specie l’amministrazione”, finisce per affermare che per l’amministrazione finanziaria, quale creditore dissenziente, troverebbe applicazione il comma 2 dell’art. 59 e dunque “l’eventuale remissione del debito previsto nella proposta non libererà i coobbligati e fideiussori” verso l’erario.

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