Saggio
L’analisi delle condizioni di squilibrio in sede di verifica dei requisiti di accesso alla composizione negoziata della crisi*
Francesco Capalbo, Ordinario di economia aziendale nell'Università del Molise
25 Marzo 2022
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Sommario:
Si delinea così un’interessante opportunità di dimostrare l’utilità di analisi più evolute che coinvolgano tutte le dimensioni gestionali e quindi non solo quella patrimoniale, ma anche, e forse soprattutto, quella economica e finanziaria. Si apre la strada ad una lettura più ampia e completa del bilancio; ma il bilancio è un documento tecnico, frutto della applicazione di regole e convenzioni, e tanto, a dispetto della sua forma che essendo apparentemente leggibile anche ai non addetti ai lavori, ne favorisce letture del tutto errate. Mentre, infatti, dinanzi ad una formula chimica o ad un disegno tecnico chi non sia armato delle necessarie conoscenze tende a cedere il passo, dinanzi ad un bilancio, anche i meno esperti, forse illusi dalla presenza di una terminologia tutto sommato di uso comune, si avventurano in analisi e speculazioni spesso fantasiose. E così chi, senza conoscere le regole alla base della sua formazione, osserva lo stato patrimoniale e la lista dei valori assegnati alle attività disposti in colonna e sommati tra loro per giungere alla quantificazione del totale attivo è naturalmente portato a ritenere che quei valori siano tra loro pienamente addizionabili e interscambiabili[2]. Del resto, sotto il profilo meramente matematico, titoli in portafoglio, crediti, spese di impianto e ampliamento, migliorie su beni di terzi, disponibilità liquide sono tutti elementi che concorrono ugualmente alla determinazione del patrimonio aziendale. Tuttavia, quando quella lista si voglia osservare ai fini della valutazione dello stato finanziario dell’entità ci si dovrà rendere conto che solo il valore assegnato alle disponibilità liquide esprime la misura del denaro a disposizione dell’azienda, mentre negli altri casi si tratta di beni prontamente liquidabili (i titoli), di denaro atteso (crediti) e, nel terzo (spese di impianto e ampliamento) e nel quarto (migliore su beni di terzi), addirittura, di denaro “speso”. Né minori sono i pericoli nella lettura della sezione del passivo dello stato patrimoniale, nella quale si offre, ad esempio, la sommatoria tra i debiti verso banche o fornitori con i risconti passivi. Sotto il profilo finanziario, mentre i primi segnalano la presenza di obbligazioni finanziarie, i secondi indicano che l’anno a venire l’entità potrà beneficiare di ricavi per prestazioni che saranno rese, ma che sono state già commissionate e pagate. Il risconto passivo indica, infatti, l’esistenza di un obbligo di fare (performance obligation) rispetto al quale però l’entità ha già incassato, ma non ancora maturato, il corrispondente ricavo. Analoghe insidie possono essere nascoste nella lettura del conto economico dove la lettera A del conto economico, intestata al “Valore della produzione”, induce alla sommatoria dei “Ricavi delle vendite e delle prestazioni” tanto con la “variazione incrementativa dei lavori in economia”, quanto con un’eventuale “imputazione di contributi in conto impianti”; eppure solo nel primo caso si tratta della misura di proventi derivanti dalla cessione di beni e servizi che hanno dato o daranno luogo ad analoghi incassi, mentre nel secondo caso si tratta della misura di investimenti interni che, il più delle volte, hanno generato un’uscita di cassa nell’anno e solo nel futuro concorreranno alla generazione di nuovi ricavi e, nel terzo caso, si tratta di una quota di incassi percepiti negli anni addietro a parziale contribuzione della spesa sostenuta per investimenti.
Altre difficoltà possono essere generate dall’impiego di termini di uso comune, cui però, in sede di bilancio, è assegnato un significato del tutto differente. Ad esempio, per indicare una “passività potenziale” si utilizza il termine “fondo rischi”, il che, nei lettori meno equipaggiati crea spesso l’illusione della presenza di disponibilità finanziarie che non necessariamente esistono eche, comunque, se esistono tanto non è certamente dovuto alla iscrizione di quel fondo; un’illusione certamente rafforzata dalla scelta di usare il termine “accantonamento” per riferirsi al costo misurato da quella passività. Analoga suggestione crea il termine “riserva”, con cui si indicano alcune poste del netto, eppure, come descritto da chiara letteratura, non si tratta di somme messe da parte per i momenti di difficoltà, ma di altro non si tratta che di quote o parti “ideali” del patrimonio netto[3].
A tutto quanto sopra, si aggiunga che l’articolazione del bilancio in tre distinti prospetti contabili cui viene affidata la rappresentazione apparentemente “autonoma” dei diversi equilibri patrimoniale, economico e finanziario, è solo il frutto di un compromesso necessario a rappresentare in forma statica una entità dinamica. In realtà, gli equilibri rappresentati in quei prospetti sono solo differenti dimensioni di una medesima realtà e non possono essere apprezzati, né invero propriamente compresi, in modo separato. Senza prospettive economiche i valori patrimoniali sono privi di significato[4] e senza il necessario equilibrio finanziario nessuna prospettiva economica, per quanto positiva, potrà mai realizzarsi.[5] Un’analisi degli equilibri aziendali condotta senza le necessarie competenze potrà quindi facilmente condurre a conclusioni del tutto errate con il rischio che, paradossalmente, potrà essere proprio il maggior rilievo che il legislatore le ha finalmente riconosciuto a favorirne un uso distorto.
Scopo di questo lavoro è proprio quello di soffermarsi sul significato da riconoscersi alle condizioni di squilibrio patrimoniale “o” economico-finanziario cui fa riferimento il Decreto-legge 118 del 2021 e sul modo in cui queste possano essere analizzate nella prospettiva della verifica di una loro compatibilità con la presenza di una prospettiva di risanamento. In particolare, in ragione dell’uso della disgiuntiva “o”, nei paragrafi successivi si analizzeranno separatamente due ipotesi che possono incontrarsi in sede di richiesta di accesso alla procedura: a) entità in squilibrio patrimoniale e con prospettive di risanamento; b) entità in squilibrio economico-finanziario e con prospettive di risanamento. Le considerazioni proposte per le due ipotesi potranno poi essere facilmente estese a quella in cui entrambi gli squilibri siano presenti.
Tanto premesso, nel successivo paragrafo 2 ci si sofferma sul significato da riconoscere, in chiave economica, alla presenza di patrimonio netto contabile negativo. Nel paragrafo 3 si illustrano le condizioni in cui uno squilibrio patrimoniale attuale possa essere compatibile con una prospettiva di risanamento. Nel paragrafo 4, invece, si affronta il tema dello squilibrio economico-finanziario, soffermandosi in particolare sulle ipotesi in cui esista solo uno dei due aspetti di quello squilibrio, ovvero solo quello finanziario o solo quello economico. Il contributo termina, nel paragrafo 5, con le considerazioni conclusive dell’autore.
Il patrimonio netto, nella sua accezione contabile, altro non è che un valore residuale, frutto della esecuzione della equazione fondamentale della contabilità dove il netto è espresso come differenza tra attività e passività (A – P = N). Il redattore del bilancio “assegna” i valori alle attività ed i valori alle passività e, dalla loro differenza, “deriva” la misura ed il segno che viene attribuito al netto. I valori così complessivamente ottenuti sono poi riportati nello stato patrimoniale che, in definitiva, è la riproposizione, in forma contabile, di quella medesima equazione, con la sola particolarità di aver spostato le passività a destra del segno “uguale”, e quindi di aver cambiato loro il segno in modo da ottenere la seguente formula “A = P + N”. E così, accolte le passività ed il netto nella sezione destra dello stato patrimoniale, la loro somma sarà sempre, per definizione, uguale al totale delle Attività accolte nella sezione di sinistra, garantendo il bilanciamento continuo, da cui, appunto, il termine bilancio. Non è certo un caso che tanto il codice di commercio (1982) quanto il successivo codice del 1942, usavano il termine bilancio proprio per riferirsi allo Stato patrimoniale[6] e che, a tutt’oggi, nel mondo anglosassone, lo stato patrimoniale è ancora definito “foglio del bilancio” (balance sheet)[7].
Il patrimonio netto è un dunque una “finzione numerica” cui non corrisponde direttamente alcun elemento reale. Gli elementi che esistono nel mondo reale sono le attività e le passività (real world phenomena)[8]e, del resto, sono queste ad essere oggetto di autonoma valutazione in sede di redazione del bilancio. Non esiste, in contabilità, alcun criterio di valutazione del patrimonio, mentre esistono diversi criteri di valutazione delle attività e delle passività. La natura astratta del patrimonio è quantomai evidente proprio quando finisce con l’assumere valore negativo. Chi abbia conferito risorse a titolo di capitale in una entità che azzera il proprio patrimonio perde tutto quanto ha investito ma, da quel momento, ulteriori peggioramenti che dovessero rendere negativo il patrimonio non mutano comunque la misura della perdita già subita. La ricchezza investita si annulla ma non si “negativizza”. Se di negatività proprio si vuole parlare, essa va piuttosto riferita all’effetto che lo squilibrio patrimoniale ha sul fair value delle passività. In un contesto nel quale i soci non sono obbligati ad apportare risorse ulteriori rispetto a quella già conferite (c.d. “autonomia patrimoniale perfetta”), eventuali passività che non trovino capienza nelle attività aziendali sono semplicemente destinate a rimanere insoddisfatte, per cui, quanto maggiore la superiorità del valore delle passività rispetto alle attività di bilancio, tanto minore la misura in cui le passività potranno essere soddisfatte[9]. Tanto è puntualmente riconosciuto anche dallo IASB (International Accounting Standards Board), massima autorità internazionale in tema di prassi contabile, che nel capitolo della sua Conceptual Framework dedicato alla misurazione (measurement) include tra gli elementi da valutare per stimare il fair value delle passività (fulfillment value) anche il “rischio di credito” della entità che redige il bilancio, ovvero il rischio che questa non sia in grado di pagare per intero le proprie passività (own credit risk)[10]. Ne consegue che, per quanto paradossale possa apparire, una entità in stato di crisi che decida di misurare le proprie passività al fair value avrebbe la possibilità di indicare un valore inferiore al nominale, in quanto il suo stato di crisi rende probabile un’estinzione a valori inferiori. Ora, per quanto sia innegabile che, in molte circostanze, sia un dato di fatto che il peggiorare delle condizioni economiche pone le entità nelle condizioni di estinguere le proprie passività pagando meno del nominale, autorizzare una riduzione del valore da iscriversi in bilancio è certamente un fenomeno, quantomeno, controintuitivo e che potrebbe addirittura condurre al paradosso di non poter mai riscontrare una condizione contabile di squilibrio patrimoniale. Ed infatti, è la stessa Framework che, in un successivo paragrafo, evidenzia l’opportunità che laddove il fair value sia determinato sulla base delle previsioni dei flussi di cassa, si deroghi alla corretta impostazione teorica escludendo gli effetti del rischio che l’entità non sia in grado di pagare per intero le proprie passività [11]. Ma queste considerazioni sono utili per introdurre, pur nella consapevolezza del suo carattere estremo, un’ulteriore posizione teorica in forza della quale si può giungere ad affermare che ad esistere nel mondo reale non siano le attività e le passività, ma, invero, solo ed esclusivamente le attività. Nella sua accezione tradizionale, l’equazione fondamentale della contabilità riflette una visione in cui “il proprietario” è il centro di interessi e il bilancio, quindi, tende a misurarne la ricchezza esprimendola quindi come differenza tra le attività che questi possiede e le obbligazioni alla cui soddisfazione è tenuto (A – P = N)[12]. Ma questa impostazione, nota in letteratura come Teoria della Proprietà (Proprietary Theory), sta lentamente lasciando più spazio, almeno nella fase di analisi,ad una diversa impostazione in cui il centro di interessi diventa l’entità (Teoria dell’entità - Entity Theory) che vive in modo separato dagli interessi dei suoi proprietari i quali, in definitiva, sono dei portatori di fonti finanziarie che, al pari di quelle apportate dai creditori, finanziano il totale delle impieghi dell’entità (i.e. le attività). In questa diversa visione, pertanto, il netto ed il passivo rappresentati nello stato patrimoniale altro non sono che “pretese” (claims) che, sulle attività aziendali, hanno i diversi soggetti che hanno concorso a finanziarle[13]. Tali pretese, pertanto, hanno sostanza economica e valore solo se, e nella misura in cui, possono trovare soddisfazione su quelle attività. Una pretesa su qualcosa che non esiste non ha, evidentemente, alcun valore economico. Di certo, tra esse esiste una gerarchia che vede in coda quelle dei proprietari ma, per quante tutele o privilegi possano essere riconosciute alle pretese dei creditori, in caso di incapienza dell’attivo, e salvo gli effetti dell’eventuale riconoscimento della responsabilità degli amministratori o delle società controllanti, neanche queste potranno trovare soddisfazione e saranno quindi del tutto prive di valore economico.
a) Ai flussi riconducibili ad attività patrimoniali non presenti in bilancio o iscritte per un valore inferiore alla loro effettiva capacità di generare flussi;
Muovendo dal primo gruppo, è bene evidenziare come l’esistenza di una attività, ovvero di una risorsa economica di cui si detengano il controllo e che sia in grado di generare benefici futuri, non è condizione sufficiente a permetterne l’iscrizione in bilancio; l’iscrizione in bilancio (c.d. recognition) potrà avvenire solo quando quella attività possa essere misurata in modo ragionevolmente certo[15]. È pertanto frequente che attività esistenti, e quindi in grado di concorrere alla generazione dei flussi di cassa futuri, non siano iscritte in bilancio in quanto non misurabili in modo ragionevolmente certo. È questo, ad esempio, il caso di moltissimi beni intangibili autoprodotti, quali marchi o brevetti o anche lo stesso avviamento internamente generato. Queste attività concorrono alla definizione delle condizioni di equilibrio prospettico, ma non concorrono alla composizione dell’equilibrio patrimoniale. Esempio tipico di simili fattispecie è offerto dalle start up innovative che sostengono costi per lo sviluppo che, spesati in conto economico, concorrono a causare squilibri patrimoniali, ma che in realtà favoriscono la creazione di importanti attività intangibili che, tuttavia, non trovano spazio in bilancio. In questi casi, si delinea una classica ipotesi di piena compatibilità tra squilibrio patrimoniale e prospettive di risanamento.
Situazione analoga, anche se non del tutto sovrapponibile, si ha quando una entità sia impegnata in “contenziosi attivi” ed abbia una ragionevole aspettativa di successo. In questi casi, per quanto attendibili e positive possano essere le previsioni, il credito potenziale legato al contenzioso non potrà mai soddisfare i requisiti richiesti per la recognition e non sarà quindi iscritto in bilancio, non potendo così concorrere alla definizione né dell’equilibrio patrimoniale né, evidentemente, del temporaneo equilibrio finanziario[16]; d’altra parte, nella costruzione dei flussi attesi a regime sulla cui base si dimostra la sussistenza della probabilità del risanamento sarà legittimo tenere in considerazione quei flussi, pur segnalandone la assoluta occasionalità e la correlazione con eventi già conclusisi e ragionevolmente non ripetibili[17].Ma in linea generale anche le attività che superano i requisiti per la recognition e sono iscritte in bilancio vengono riportate iscritte ad una misura inferiore al valore dei flussi che il management attende dal loro impiego. Il valore di tali flussi, noto come valore recuperabile, è il limite massimo (e non minimo) al quale possono essere iscritte le attività le quali, però, entrano nel bilancio sulla base del costo sostenuto per il loro acquisto o la loro produzione. Anche questa prassi deriva dal divieto di iscrizione di utili non realizzati. E’ evidente che, di norma, il valore che una attività ha per l’entità che la acquista (value to the entity) sarà tipicamente superiore al costo che questa ha deciso di sostenere per acquisirne la disponibilità, ma tale differenza, efficacemente definita da chiara letteratura come “avviamento economico soggettivo”[18], rappresenta l’utile che ci si attende di generare per il tramite del suo uso e la sua iscrizione risulterebbe nella rilevazione di un utile non ancora realizzato sul mercato. Il reddito, nel modello contabile tradizionale, si realizza nello scambio e per lo scambio[19] e quindi l’aspettativa del management di recuperare dall’impiego di un bene flussi superiori al costo sostenuto per acquisirle non può trovare rappresentazione in bilancio, e quindi non può concorrere all’equilibrio patrimoniale, fin tanto che quei maggiori flussi non siano stati effettivamente realizzati per il tramite di uno scambio, diretto (i.e. con cessione dell’asset sul mercato) o indiretto (i.e. con cessione sul mercato dei prodotti ottenuti per il tramite del loro uso). Tali maggiori flussi, invece, possono e devono essere considerati nella redazione di un piano economico finanziario che illustri la possibilità del risanamento, il che concorre a spiegare la compatibilità di prospettive economiche positive anche in costanza di un patrimonio netto negativo.
Il secondo gruppo di flussi futuri che rischia di non essere rappresentato nel patrimonio contabile (punto sub b), è quello atteso dallo sviluppo dei contratti in esecuzione o da eseguirsi (i c.d. “executory contract”). Mentre la esecuzione di questi contratti è spesso foriera di significative marginalità economiche e finanziarie, la loro sottoscrizione non ha alcuna immediata conseguenza patrimoniale, sebbene sia innegabile l’impatto che ha sul valore economico di una azienda. Il sistema di contabilizzazione attualmente adottato è infatti basato sulla c.d. “exchange basis”, in omaggio alla quale le attività e le passività che indubbiamente si originano con la sottoscrizione di un executory contract, rispettivamente collegate alle controprestazioni da ricevere ed alle prestazioni da rendere, si presuppongono di uguale valore e si compensano automaticamente senza che nessuna di esse possa trovare spazio in bilancio[20]; l’evento critico[21] che determina la riconoscibilità del valore generato da un contratto è solo l’avvenuta esecuzione della prestazione da parte di “almeno una delle due parti del contratto”[22]. I flussi che gli executory contract saranno in grado di generare rientrano in quella che già chiarissima letteratura aveva definito “secondo tronco della dinamica lucrativa”. Il prof. Amodeo evidenziava l’esistenza di due tronchi di dinamica lucrativa: un primo legato alla “risoluzione” o “trasformazione” dei valori già accolti nello stato patrimoniale, e quindi riflessi dell’equilibrio statico patrimoniale; un secondo legato ai costi ed ai ricavi futuri destinati a generarsi[23] e quindi “scollegato” dalla situazione patrimoniale, ma certamente da accogliersi tanto nella costruzione del piano quanto, ancor prima, nella definizione del test pratico[24]. D’altra parte, al crescere del peso che il secondo tronco della dinamica lucrativa assume rispetto alle prospettive di risanamento aumenta l’urgenza di supportare quelle previsioni con ogni possibile evidenza. Mentre, infatti, una prospettiva di flussi economico finanziari che sia frutto della “trasformazione” del costo storico di un determinato fattore può comunque poggiare le proprie ragioni sulla convergenza di opinioni che hanno condotto, in passato, due soggetti indipendenti a condividere un prezzo di cessione, i flussi che pertengono al secondo tronco della dinamica lucrativa devono essere interamente giustificate in sede di piano.
Situazione analoga, ed invero più delicata, si avrà quando, in costanza di squilibrio economico, il temporaneo equilibrio finanziario sia frutto, non già della natura non monetaria di alcuni costi (i.e. gli ammortamenti), ma consegua ad una consapevole scelta di ricorrere all’indebitamento sia finanziario, per il tramite della raccolta di capitale di credito, sia operativo, per il tramite delle dilazioni concesse dai fornitori. Nel primo caso, si creano fonti aggiuntive che vanno a supplire la carenza delle fonti operative correnti, nel secondo caso, più semplicemente, si riducono gli impieghi operativi correnti. In ambedue i casi, tuttavia, le conseguenze finanziarie dello squilibrio economico sono semplicemente spostate in avanti. Toccherà, infatti, ai margini che saranno generati dalle gestioni future creare le fonti necessarie a coprire gli impieghi rappresentati dalle rate di rimborso dei finanziamenti ed dal pagamento dei debiti pregressi. I ricavi futuri dovranno quindi essere di entità tale che, una volta coperti i costi ad essi correlati (i costi correnti), residuino risorse sufficienti a finanziare il rimborso dei finanziamenti e dei debiti operativi pregressi. Una aspettativa, di certo, quantomeno ottimistica per un’entità che muove da una situazione di squilibrio economico, ma non per questo impossibile[26]. D’altra parte, laddove i risultati a venire non dovessero confermare tale ottimismo, esisterà un punto in cui i finanziatori smetteranno di erogare risorse finanziarie e chiederanno il rientro immediato di quanto già erogato e, del pari, i fornitori smetteranno di cedere beni e servizi fin tanto che non otterranno il pagamento dei debiti pregressi[27].
Se è vero che uno squilibrio economico non necessariamente implica uno squilibrio finanziario, è altrettanto vero che neanche un equilibrio economico necessariamente implica un equilibrio finanziario. In linea generale, la superiorità dei ricavi sui costi dovrebbe, nel lungo periodo, generare una analoga superiorità delle entrate sulle uscite e quindi garantire anche il pieno equilibrio finanziario, ma questo non è necessariamente vero nel breve periodo, in quanto sono svariati i motivi che possono portare la dimensione economica e quella finanziaria a divergere. È possibile, ad esempio, che i ricavi, pur se complessivamente superiori ai costi, non siano incassati e restino in larga parte “bloccati” sotto forma di crediti nel patrimonio aziendale e quindi, pur contribuendo all’equilibrio economico, non alimentano l’equilibrio finanziario. In tal caso, l’entità, pur se apparentemente gratificata dal vedere crescere un elemento del proprio attivo (i.e. i crediti), vede in realtà crescere i propri impieghi e ridursi le risorse da destinare al pagamento dei costi. In questi casi, la differenza positiva tra ricavi e costi non genera una analoga differenza positiva tra entrate ed uscite, ma se c’è comunque equilibrio economico, la eventuale tensione finanziaria può essere risolta richiedendo dilazioni ai fornitori in modo da dare allo sfasamento tra la dimensione economica e quella finanziaria il tempo di ricomporsi. Se si riesce in questa operazione, le dilazioni ottenute dai fornitori consentono all’entità di ridurre la quota di costi che si trasformano in uscite di denaro e che, invece, restano temporaneamente “bloccati” nel patrimonio dell’entità sotto forma di passività. Si assiste così ad un incremento nei debiti verso fornitori che, di fatto, finiscono per finanziarie l’“investimento” nei crediti verso clienti. Il totale attivo di un’entità rappresenta la somma degli impieghi di quella entità ed il totale passivo la somma delle fonti. In altri termini, quando un’entità non riesce ad incassare i ricavi che genera aumenta i propri crediti, e quindi i propri impieghi, ed ha bisogno di una analoga misura di fonti; la dilazione ottenuta dai fornitori risolve questo problema, generando la fonte necessaria. Questo modo di risolvere le conseguenze delle difficoltà di incasso dei ricavi presume però una forza contrattuale di cui non sempre l’entità dispone. Quando i fornitori non saranno disposti a concedere dilazioni, o lo farebbero a condizioni estremamente svantaggiose, lo sfasamento deve essere sanato con il ricorso all’indebitamento finanziario, per cui l’entità raccoglie da terzi le risorse per pagare i costi ed attende l’incasso dei ricavi per rimborsare quanto raccolto. Tale decisione, evidentemente, comporta una contrazione dei margini economici in quanto ai costi operativi si aggiungono gli oneri finanziari.
Il ricorso all’indebitamento è, generalmente, la regola quando la tensione finanziaria deriva dalle uscite generate dall’acquisto di beni a vita utile pluriennale. In questi casi, la tensione non è da imputarsi a ritardi nell’incasso dei ricavi dai quali si attende la rigenerazione dell’investimento in quanto è proprio il fisiologico processo di formazione economica di quei ricavi che, definendosi lungo un arco di vita pluriennale, non è strutturalmente adeguato a generare, nei tempi necessari, la provvista per il pagamento dei fornitori. È quindi necessario ricorrere a fonti diverse dai ricavi attesi da quell’investimento per finanziare l’acquisto ed è assolutamente razionale ricorrere all’indebitamento. Di certo, le risorse così acquisite da terzi dovranno essere restituite, ma se ci sarà equilibrio economico, i ricavi attesi dall’investimento genereranno, salvo una eccessiva onerosità del finanziamento, risorse sufficienti anche a coprire il servizio del debito contratto per sostenerlo.
Del tutto differente è il caso in cui lo squilibrio finanziario sofferto da una entità in equilibrio economico sia dovuto al peso di debiti che derivino da perdite accumulate in precedenti gestioni. In questi casi, infatti, la semplice dilazione dei debiti operativi e/o il ricorso all’indebitamento potrebbero non essere sufficienti. Mentre negli esempi precedenti si trattava di sanare uno sfasamento tra la fase di manifestazione economica e la fase di manifestazione finanziaria creato in una complessiva situazione di equilibrio, in questa ipotesi si tratta di trovare il modo di coprire debiti contratti per acquisire fattori della produzione che, una volta impiegati, non hanno generato risorse sufficienti a permettere il recupero dell’investimento. Non è quindi un problema di “sfasamento”, ma si tratta degli effetti di un ciclo economico che, complessivamente, si è chiuso in perdita e, quindi, ha lasciato sul campo una serie di costi non pagati. La copertura di quei costi deve quindi necessariamente essere affidata a fonti differenti dai ricavi ad essi correlati. Se l’entità dispone di altre risorse, quali ad esempio disponibilità create da utili precedenti o da apporti di capitale, potrà utilizzare quelle risorse per coprire i debiti insoluti generati dalle operazioni in perdita. Se, invece, la entità non dispone di risorse adeguate ad assorbire le conseguenze finanziarie di quelle perdite, esistono due alternative: a) quando possibile, l’entità si limiterà a non pagare i fornitori trasferendo al futuro debiti operativi; b) quando questo non è possibile, come spesso accade con i fornitori essenziali che interrompendo le forniture potrebbero interrompere l’attività produttiva, l’entità ricorre all’indebitamento per raccogliere fonti necessarie al pagamento dei debiti operativi pregressi e trasferisce così al futuro debiti finanziari. Nel primo caso, il peso del finanziamento temporaneo dello squilibrio generato dalla perdita è addossato ai fornitori, nel secondo caso è trasferito, dietro corrispettivo, alle banche. In ambedue i casi, però, il peso finanziario delle perdite pregresse è stato addossato alle gestioni successive le quali, oltre a generare ricavi per coprire i propri costi, dovranno essere capaci di generare margini sufficienti a pagare quei debiti. In un simile contesto, il riscadenzamento dei debiti non è necessariamente sufficiente a risolvere il problema, a meno che non si possa dimostrare che le gestioni future siano capaci di generare margini che, per tempistica e importo, possano garantire la copertura di quei debiti. In questi casi, è molto più probabile che si renda necessario ricorrere ad operazioni di stralcio del debito o di apporto di risorse aggiuntive da parte dell’imprenditore.
In ultimo, deve richiamarsi l’attenzione sulla possibilità che una entità che manifesti uno squilibrio finanziario pur in presenza di equilibrio economico abbia, invero, conseguito il secondo solo grazie ad artifici contabili. La differenza tra dinamica finanziaria e dinamica economica, in particolare la presenza di risultati operativi positivi in costante presenza di flussi di cassa operativi negativi (operating cash flows) è il più classico degli indicatori delle manipolazioni di bilancio[28]. Mentre moltissimi sono i modi per alterare il risultato operativo e rinviare l’emersione contabile di uno squilibrio economico, nessuno di questi permette di “creare” cassa. La iscrizione di un credito falso permette la iscrizione di un ricavo che può contribuire ad evitare la emersione di un risultato operativo negativo, ma un credito falso non sarà mai incassato e quindi l’artificio non avrà alcun effetto sul flusso di cassa operativo. La capitalizzazione di costi ormai del tutto privi di utilità economica permette di evitare che essi partecipino alla formazione del risultato operativo di quell’anno e riesce a garantire tanto l’equilibrio contabile (di fatto si riducono i costi) quanto quello patrimoniale (inserendo attività immateriali), ma non può cambiare la realtà delle uscite che questi hanno generato né la realtà della loro incapacità di generare future entrate monetarie. Ma è bene evidenziare che la capitalizzazione dei costi è una scelta rischiosa anche quando sia stata compiuta nel rispetto dei principi contabili e quindi sulla base di una ragionevole aspettativa sulla loro capacità di generare ricavi nel futuro; infatti, nella malaugurata ipotesi di una interruzione dell’attività aziendale il valore di quelle poste si azzererebbe integralmente in quanto, appunto, connesso all’ipotesi di continuità[29]. Tutti questi artifici lasciano però tracce ben evidenti a chi sia esperto della materia, soprattutto perché chi conosce le regole di redazione del bilancio sa bene dove andarle a cercare.
Il lavoro dimostra l’importanza di disporre di specifiche conoscenze tecniche per compiere correttamente quelle analisi. A tal fine ci si è soffermati su due casi principali: a) le entità che presentano uno squilibrio patrimoniale; b) le entità che presentano uno squilibrio economico-finanziario.
Come tradizionalmente chiarito dalla scuola italiana di economia aziendale, il capitale ha valore nella misura in cui produce reddito ed a questo principio fondamentale sono ispirati i criteri di valutazione che vengono impiegati per misurare le componenti di quel capitale. Pertanto, in linea generale, una entità rispetto alla quale la applicazione di quei criteri abbia condotto ad un patrimonio netto negativo, dovrebbe segnalare la incapacità della entità di generare reddito, di tal ché una entitàcon patrimonio netto negativo non dovrebbe avere possibilità alcuna di perseguire il risanamento. Il lavoro dimostra invece come le regole contabili rendano la relazione tra reddito atteso e capitale perfetta, in quanto il patrimonio contabile non riflette, per ragioni legate alle declinazioni pratiche del principio della realizzazione (recognition), la misura di tutte le attività effettivamente a disposizione dell’entità né, rispetto a quelle che invece rappresenta, riesce ad offrire una rappresentazione completa dei flussi attesi dal loro impiego. In bilancio possono infatti iscriversi solo ed esclusivamente le attività che possono essere misurate in modo ragionevole il che lascia fuori dall’ambito contabile numerose attività che, pur se non passibili di affidabile misurazione, sono comunque in grado di contribuire alla creazione di redditi futuri (e.g. avviamento internamente generato, marchi, altri intangibili, executory contract). Tipico è il caso delle start up o delle aziende che abbiano fatto massicci investimenti in attività intangibili. Stesso effetto hanno i criteri di valutazione che, nel rispetto di un principio di realizzazione che vede nello scambio l’”evento critico” che determina il momento della formazione del reddito, non permettono la iscrizione della porzione di valore delle attività che superi il costo per esse pagato. Chi compie la verifica della sussistenza delle condizioni di risanamento dovrà quindi attentamente valutare le ragioni dello squilibrio patrimoniale comprendono i limiti entro cui quel risultato contabile possa essere stato influenzato dalle regole, prudenziali, che disciplinano la redazione del bilancio.
Più articolata l’analisi del caso di entità in squilibrio economico-finanziario, dal momento che, come noto, la dimensione economica e quella finanziaria, sebbene destinate a sovrapporsi nel lungo periodo spesso divergono nel breve, per cui non necessariamente una entità che abbia squilibrio economico avrà anche squilibrio finanziario e viceversa. L’analisi ha coperto proprio le ipotesi in cui ci si trova di fronte a tale divergenza e i casi analizzati sono stati due: entità in equilibrio finanziario ma in squilibrio economico ed entità in squilibrio finanziario ma con equilibrio economico. Nel primo caso si è dimostrata l’importanza di monitorare, con estrema attenzione, le cause che hanno permesso ad aziende in squilibrio economico di conservare l’equilibrio finanziario evidenziando il rischio che temporanee condizioni di equilibrio finanziario, magari conseguite con il ricorso all’indebitamento, determinino un ritardo nell’emersione dell’insolvenza e quindi, al contempo, il suo aggravamento. Nel secondo caso si è evidenziata l’urgenza di investigare con attenzione i motivi per cui una azienda in equilibrio economico non riesca ad avere equilibrio finanziario. Sebbene questa condizione possa spesso essere ricondotta a cause del tutto fisiologiche quali, ad esempio, ritardi nell’incasso dei crediti o il peso degli investimenti in beni a vita utile pluriennale, le difficoltà finanziarie in presenza di utili possono anche essere indice di manipolazioni di bilancio. Le manipolazioni sono infatti uno strumento con cui si possono creare ricavi ed attività fittizie e si possono quindi, in modo relativamente semplice, alterare equilibri economici e patrimoniali, ma nessuna alterazione contabile può creare cassa e quindi occultare uno squilibrio finanziario.
Il messaggio che, conclusivamente, questo lavoro intende mandare è che l’analisi dei dati derivati dal bilancio non può utilmente essere condotta se non si ha una pinea padronanza delle regole che disciplinano la redazione di quel documento.
Note: