L’art. 10, comma 1, lett. c), d.l. accorda la prededucibilità, se autorizzati dal giudice, anche ai crediti da finanziamenti a favore di società appartenenti a un gruppo come definito dall’art. 13 d.l.
Stando al suo tenore letterale, la norma non disciplina i finanziamenti infragruppo – ossia quelli intercorrenti fra un finanziatore e un sovvenzionato entrambi appartenenti al gruppo –, ma quelli contratti da una o più società appartenenti a un gruppo, senza che venga specificato se il finanziatore debba o meno far parte dello stesso. Ciò nonostante, pare plausibile sostenere che il legislatore minus dixit quam voluit, in quanto le ipotesi in cui il finanziatore di una società del gruppo sia un qualunque soggetto terzo o un socio ricadono già nell’ambito di applicazione dell’art. 10, comma 1, lett. a) e b), per cui l’esigenza di una previsione ad hoc ulteriore si pone soltanto presupponendo che quest’ultima debba regolare i finanziamenti infragruppo non sussumibili entro le fattispecie delle due prescrizioni menzionate.
Se si accoglie tale ricostruzione, si deve riconoscere allora che la novella esplicita a livello normativo il trattamento degli stessi a differenza di quanto avviene nella vigente legge fallimentare[51]: in quest’ultima la mancanza di una regola espressa dedicata ai finanziamenti infragruppo strumentali a una soluzione extrafallimentare della crisi ha costretto la dottrina a elaborare complesse costruzioni interpretative per determinarne il regime[52].
La ratio della prededuzione quale incentivo dell’erogazione di prestiti infragruppo in caso di crisi è analoga a quella sottesa alla prededuzione accordata dal medesimo art. 10 d.l. a favore dei prestiti da parte dei soci: incentivare il sostegno finanziario fra società appartenenti al medesimo gruppo, che altrimenti – in mancanza della previsione incentivante – sarebbero verosimilmente soggette alla postergazione di cui all’art. 2497 quinquies c.c., qualora eroghino nuova finanza a un’impresa che presenti i presupposti di cui all’art. 2, comma 1, d.l.
Si tratta di una regola suscettibile di acquisire una portata applicativa particolarmente ampia, perché il sostegno finanziario infragruppo costituisce in generale uno dei fenomeni caratterizzanti le aggregazioni di imprese e perché esso tende a divenire ancora più rilevante in caso di crisi quando insorge l’esigenza di strutturare una soluzione per quanto possibile unitaria del gruppo – nel senso di capace di preservare, nonostante il sopravvenire di una situazione patologica, quelle sinergie e quelle interazioni fra le sue diverse componenti che connotano il gruppo in funzionamento fisiologico –, rendendo così altamente probabile che le imprese eventualmente sane intervengano a sostengo di quelle in crisi così da rendere fattibili soluzioni non attingibili da queste ultime con le loro sole risorse. Evenienza oggetto – come detto – di una specifica previsione normativa nell’ambito della nuova composizione negoziata all’art. 13, comma 7, d.l.
Il legislatore ha utilizzato una tecnica normativa per la quale i parametri per la concessione dell’autorizzazione del tribunale sono premessi nell’incipit dell’art. 10, comma 1, d.l., valendo allora per tutte e tre le seguenti ipotesi di finanziamenti alla composizione negoziata previsti dalle successive lett. a), b), e c).
Si deve tuttavia sottolineare la difficoltà di una trasposizione dei due presupposti della funzionalità alla continuità aziendale e al miglior soddisfacimento dei creditori nel contesto di un gruppo di imprese, con conseguenti delicati problemi interpretativi ai fini di un loro puntuale accertamento.
In merito alla continuità aziendale viene da chiedersi se il finanziamento debba essere valutato dal giudice funzionale a preservare la stessa rispetto alla sola società sovvenzionata o all’intero sodalizio. Come già ricordato, e come conferma la prassi delle ristrutturazioni aziendali di questi ultimi anni, nelle realtà di gruppo il mancato risanamento di una delle componenti può pregiudicare anche quello delle altre in ragione dei legami sinergici esistenti al suo interno. D’altro canto il raggiungimento di una soluzione unitaria per l’intero gruppo (o almeno per quelle unità affette dalla crisi) costituisce l’obiettivo di tutte le più moderne discipline concorsuali in materia[53], compresa quella contenuta nel d.l. in esame che, sul punto, mantiene ferma rispetto alla composizione negoziata l’impostazione già propria del codice della crisi per il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati.
Queste ultime considerazioni inducono allora quantomeno a ipotizzare che i finanziamenti funzionali al successo della composizione negoziata unitaria di gruppo debbano essere valutati, al fine della loro autorizzazione, nella prospettiva della loro funzionalità a preservare la continuità aziendale (ovvero il risanamento) di tutte le componenti coinvolte nel tentativo stragiudiziale di ristrutturazione. Del resto, anche chi seguisse una opzione ermeneutica di tipo “atomistico”, secondo la quale la funzionalità alla continuità aziendale andrebbe accertata facendo riferimento alla sola società del gruppo sovvenzionata, non potrebbe non considerare che la valutazione alla quale è chiamato il tribunale assumerebbe comunque connotati peculiari rispetto a quella che esso deve compiere in caso di società monade, essendo – come detto – il risanamento della singola componente inevitabilmente condizionato dall’esito della soluzione della crisi delle altre unità facenti parte del gruppo.
Ancora più complicato in caso di gruppo risulta stabilire quando posa dirsi sussistere la funzionalità del finanziamento da autorizzare al miglior soddisfacimento dei creditori.
Si tratta, come noto, di un presupposto che già ricorre in varie prescrizioni normative relative al gruppo in crisi del codice della crisi (v. gli artt. 284, comma 4 e 285, comma 2, c.c.i.) e rispetto alla cui interpretazioni si confrontano tesi divergenti.
Al riguardo la dottrina si interroga su quale fra le possibili ricostruzioni di tale clausola generale riferita al gruppo sia suscettibile di essere trasposta all’accertamento del presupposto di cui all’art. 10 d.l. In particolare, si tratta di decidere se il miglior soddisfacimento dei creditori: i) vada inteso in senso “paretiano”, richiedendosi semplicemente che il finanziamento avvantaggia i creditori di una società, senza pregiudicare quelli delle altre entità del gruppo oppure ii) vada accertato rispetto ai creditori di ogni società del gruppo coinvolta nella composizione negoziale, o ancora, all’opposto, iii) vada verificato con esclusivo riguardo alle prospettive di soddisfacimento della sola società che riceve il finanziamento oggetto di autorizzazione.
Nonostante vi siano argomenti a favore di ciascuna di tali soluzioni, parrebbe comunque preferibile l’ultima tra le opzioni interpretative sopra prospettata. Ciò in quanto il presupposto della funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori viene prescritto dalla legge per tutelare l’interesse dei creditori anteriori al finanziamento, che potrebbe essere pregiudicato dall’incremento dell’esposizione debitoria determinata, per di più, dall’insorgere di nuovi crediti antergati nell’ordine di pagamento. Ne consegue allora che la valutazione rimessa al tribunale al riguardo debba essere riferita soltanto ai creditori della singola società sovvenzionata, perché per il principio di separazione delle masse attive e passive che rimane fermo nel gruppo (sia in funzionamento fisiologico, sia in crisi) stante la diversa personalità giuridica delle sue singole componenti il finanziamento da autorizzare può arrecare danno soltanto a costoro, non a quelli delle altre società eterodirette. In altri termini, la valutazione di convenienza del finanziamento esplica la propria funzione di garanzia solo se riferita ai creditori della società finanziata. In tal senso sembrerebbe deporre anche la già menzionata indicazione fornita dal decreto dirigenziale, il quale prescrive che l’esperto nella conduzione delle trattative deve tener conto dell’interesse dei creditori delle singole imprese (sezione III, 3.2). Lo stesso dovrebbe allora valere anche rispetto alla valutazione di competenza del tribunale.
Il regime dei finanziamenti infragruppo è completato dalla previsione di cui all’art. 13, comma 9, d.l., la quale deroga la disciplina della postergazione legale dettata dall’art. 2497 quinquies (che rinvia all’art. 2467 c.c.) per i prestiti eseguiti dopo l’istanza di cui all’art. 2, comma 1, d.l., purché essi siano stati segnalati all’esperto ai sensi dell’art. 9, comma 2 e in relazione a essi l’esperto non abbia iscritto il proprio dissenso ai sensi dell’art. 9, comma 4, d.l.
La ragione della previsione di tale ulteriore previsione sui prestiti infragruppo può forse essere individuata nell’intento di superare un disincentivo al compimento di tali operazioni di sostegno finanziario. Si delineerebbe dunque una tripartizione di finanziamenti infragruppo, i quali possono essere suddivisi fra i finanziamenti postergati in base alle regole generali dettate dal codice civile, i quelli “incentivati” dalla prededuzione, configurabili in presenza dei presupposti più stringenti prescritti dall’art. 10 d.l. (la valutazione di convenienza e di funzionalità alla continuità d’impresa da parte del tribunale e conseguente autorizzazione) e, in una posizione intermedia, quelli “non disincentivati” di cui alla previsione in esame, svincolati da qualsiasi vaglio giudiziale e ricollegati ad un semplice requisito temporale – l’essere stati eseguiti dopo l’istanza per la nomina dell’esperto – e alla mancata iscrizione del dissenso da parte dell’esperto.
Tuttavia, il senso del regime delineato dal legislatore per i finanziamenti infragruppo risulta poco perspicuo se si pensa che la disattivazione della postergazione legale presuppone la comunicazione del finanziamento infragruppo all’esperto, il quale deve valutare – anche al fine dell’iscrizione del proprio dissenso ai sensi dell’art. 9, comma 4, d.l. – se l’operazione è o meno pregiudizievole per i creditori e per le prospettive di risanamento. Si vuol dire cioè che appare poco probabile che una società del gruppo segua questo iter per ottenere nuova finanza da un’altra componente del gruppo che acquisterebbe il rango di creditore chirografario, quando invece chiedendo l’autorizzazione – fondata su precondizioni non molto dissimili da quelle che deve valutare l’esperto ai sensi dell’art. 9 d.l. – a contrarre il medesimo finanziamento ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.l. potrebbe incentivare il potenziale finanziatore con il beneficio (assai più allettante della disapplicazione dell’art. 2497 quinquies c.c.) della prededuzione. Gli unici motivi che si possono ipotizzare per ricorrere a un finanziamento infragruppo concesso nelle forme dell’art. 13, comma 9 piuttosto che in quelle dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.l. è quello per cui la società in crisi non riesca a provare che l’operazione è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori, ma solo la diversa precondizione per cui esso non è pregiudizievole per i medesimi; oltre che la volontà delle società del gruppo di non richiedere l’intervento del tribunale, mantenendo la composizione negoziata in quella dimensione squisitamente stragiudiziale che la connota in via di principio[54].
Sempre in tema di interferenza fra l’art. 13, comma 9 e l’art. 10, comma 1, lett. c), d.l. va rilevato che la prima disposizione si applica soltanto ai finanziamenti down stream dalla holding alle eterodirette o cross stream fra società sorelle. I finanziamenti ascendenti non sono invece menzionati, probabilmente in base all’assunto – per la verità non pacifico[55] – che essi non sono compresi nell’ambito di applicazione dell’art. 2497 quinquies c.c., essendo perciò inutile disporne l’esenzione dalla postergazione. Al contrario la lettera dell’art. 10 d.l. parrebbe ammettere al beneficio della prededuzione qualunque tipo di finanziamento infragruppo, purché ovviamente autorizzato.